Nelle vuote mattinate
di giornate lavorative,
quando la vecchiaia
attraversa zoppicando
le stazioni ferroviarie
delle linee suburbane,
a volte un cieco torna
a sedersi sulle panchine
di qualche sala d'aspetto,
dove l'orologio da parete
mastica un tempo antico
e ne sputa a terra i semi.
Una ragazza nomade
lo guida e accompagna,
con movenze di danza.
Lei pizzica un musicale
strumento a più corde,
di cui si è perso il nome.
Ma è il vecchio a cantare
in una lingua sconosciuta,
con una voce lamentosa.
E intanto stende la mano
verso passeggeri distratti,
attento al suono dei passi.
Che dicono le sue parole?
Me l'ha spiegato un amico
che ha viaggiato a lungo;
non c'è troppo da fidarsi,
ma ve ne riporto il senso
con beneficio d'inventario:
narrano di un'alta reggia
eretta in mezzo a una città
vegliata da un mostro alato
che vietava a ogni straniero
di accostarsi alle sue mura,
propinando strani enigmi.
“Io stesso”, recita Edipo,
“mi son mutato in enigma
per sconfiggere il mostro
ed entrare in quella reggia,
cingendo la corona di Tebe.
Non date retta agli oracoli,
evitate i tranelli della Sfinge.
Quanto sarebbe stato meglio
per me vivere la vita nomade
piuttosto che esser costretto
a prendere atto di me stesso,
all'ombra di quelle alte mura!”
Pino Blasone