In via dei Lotofagi,
tutto quanto è stato
è accaduto invano.
Ma la piazza resta,
la piazza non muta.
Non muta il senso
rotatorio delle auto,
le aiole dell'infanzia,
i cani al guinzaglio,
la pompa di benzina,
l'edicola dei giornali,
la messa alla domenica
e il bar dietro l'angolo.
Un giorno come un altro
ammazzare il tempo,
per restare nello spazio
sospeso a mezz'asta,
immobilità assoluta
da coma profondo
in camera iperbarica.
Cristalli di memoria
in sospensione chimica
precipitano sul fondo
torbido della coscienza.
La piazza-ombelico,
la piazza è l'assoluto
giusto sotto la finestra,
una piazza che ruota
eppure se ne sta ferma.
Quasi occhio vorticoso
di qualche dio abulico,
la piazza ti risucchia
e dopo ti rigurgita
mutato ogni giorno.
La piazza è lo specchio
muto dell'esistenza.
Distorsione della voce
emessa col megafono
da un basso ventriloquo
o il vento che soffia
in una grossa conchiglia,
cavandone un suono
inquietante ed arcaico.
E un fuoco d'artificio
che esploda tardivo
dopo una lunga pausa,
mentre già volgi le spalle
a qualche festa notturna.
La piazza che grida
durante un comizio,
la piazza che assorda
con la ressa dei clacson
nell'ingorgo del traffico,
la piazza malinconica
all'alba e al tramonto.
La piazza è allegra
nei giorni di mercato.
Maledetta la piazza,
pazzia della piazza.
Metafisica della piazza,
spremuta come limone
nella gola dell'inconscio.
E osmosi della pietra,
distillata goccia a goccia
dall'alambicco del sogno.
Chi ha divelto l'obelisco
svuotando la fontana,
che vomita cavalli
impediti nel galoppo
dalle code di pesce
in giro per la piazza?
Pino Blasone