Pino Blasone

 

Il cane andaluso

 

 

Nei sogni può accadere di vivere situazioni apparentemente già vissute, senza poi ricordare quando e dove, quasi si tratti di frammenti di vite precedenti. O – perché no? – di vite future. Al limite, è come se esse scorrano parallele alla nostra, in una dimensione fuori del tempo e dello spazio a noi abituali.

In preda a sensazioni del genere, Felìpe il farmacista si svegliò e si alzò dal letto prima del solito. Come usava, abitualmente, quando andava a caccia. Il che era capitato di rado, da quando il suo cane affezionato era morto di onesta vecchiaia. Aprì la finestra, spalancò le imposte esterne e la richiuse.

Tanto bastò, perché una folata di aria fresca e umida penetrasse nel calore umano intatto della camera. Contemporaneamente, il chiarore incerto dell’alba respinse pigramente le ombre notturne verso gli angoli più riposti e polverosi. L’uomo respirò a pieni polmoni. Nello stesso tempo, la sua schiena fu percorsa da un leggero brivido. Oltre i vetri lievemente appannati, la giornata si presentava piovigginosa e densa di foschia, non priva di una sua suggestione.

Davanti agli occhi assonnati del farmacista, la mole massiccia e scura del castello di fronte emerse a stento dalla nebbia e dalla tenebra, con le tozze torri merlate. Da esse, familiari cornacchie nere spiccavano il volo gracchiando, per qualche loro piccola rapina quotidiana. Sullo sfondo, all’orizzonte, Felìpe poteva indovinare il profilo elevato e tormentato dei Pirenei.

Nonostante tutto, ciò gli infondeva un’intima sicurezza. Oltre a rinnovargli, comprensibilmente, la sofferenza dell’esilio e la nostalgia dei suoi posti: così vicini, in linea d’aria, eppure ormai inaccessibili. Tanto più, da quando quella maledetta implacabile guerra aveva raggiunto i luoghi, in cui egli aveva trovato una precaria accoglienza e ospitalità. Non c’era più un palmo su questa terra, dove una persona normale – diciamo ordinaria, quale Felìpe si figurava e desiderava in fondo essere – potesse vivere, lavorare e progredire in pace.

Ancora una volta, il vecchio anarchico si sentì invadere da un misto incontenibile di indignazione e di desolazione. In effetti, aveva riflettuto a lungo e già deciso. Lui non era il tipo da starsene lì ad aspettare con le mani in mano che lo braccassero e stanassero. O, piuttosto, ammise che non aveva altra scelta o via di scampo. Per quanto potesse tornare a fuggire e seguitare a nascondersi, prima o poi si sarebbe verificato l’inevitabile. Inutile farsi infondate illusioni. Direttamente o indirettamente, Felìpe conosceva i nazisti e i fascisti di ogni sfumatura a sufficienza, da capire che non lo avevano dimenticato né avrebbero fatto finta di ignorarlo. A maggior ragione, non gli avrebbero lasciato respiro né tregua.

Allora, tanto valeva vendere cara la pelle e rendersi utile in qualche modo. Al limite, nell’unico che il farmacista ed esperto artificiere sapeva bene, per esservi stato indotto dalle circostanze. Benché non sollecitato – la Resistenza locale insisteva a non fidarsi abbastanza degli elementi di estrazione anarchica, specie se di oltre confine –, aveva stabilito gli opportuni contatti.

Presto, ne era più che certo, avrebbero avuto bisogno di lui. Anzi, quel momento era giunto. Da ora in poi, – sospirò Felìpe, con un senso rassegnato di liberazione – non avrebbe dovuto pensare che ad agire di conseguenza. Si sarebbe concentrato su questo unico scopo e determinazione. Come ai vecchi tempi. E senza mezzi termini. Anche se senza le utopiche speranze e l’insidiosa euforia, di appena qualche anno prima.

 

* * *

 

Ripensandoci, c’erano altri motivi che avevano trattenuto il farmacista dall’allontanarsi da quel villaggio arroccato, o dal persistere in una latitanza senza prospettive. Non gli sarebbe stato impossibile varcare la frontiera a nord della Francia e tentare di raggiungere il porto di Anversa. Lì operava, nella clandestinità, un nucleo superstite di anarchici, sparuto ma attivo e ben organizzato: quel tanto che poteva esserlo, alla prova di una situazione di emergenza, un gruppo che si fregiasse di tale etichetta e si richiamasse alla relativa ideologia. E non era poco, a dispetto delle accuse abusate dai più accaniti avversari o, non ultimi, dai sedicenti “compagni di strada”.

Quanto ai suoi compagni, quelli a pieno titolo, essi non avrebbero esitato a farsi in quattro per imbarcarlo sotto falso nome su una nave in partenza per l’America Latina: ad esempio verso il Messico, così come era accaduto per altri ricercati in grave pericolo, non necessariamente di fede anarchica.

Ma a Felìpe pesava separarsi dai suoi monti, da una gente che parlava un dialetto simile e condivideva le stesse usanze, al di qua e al di là del confine. Notoriamente, gli anarchici non riconoscono grande valore all’artificio degli stati e delle frontiere. Fosse pure per stanchezza o per tardivo sentimentalismo, egli si era scoperto restìo a staccarsi dalle sue stagionate abitudini, perfino dai pochi oggetti che lo circondavano praticamente da una vita.

Forse, non erano immotivate le critiche che gli avevano mosso i “compagni di strada”, come lui pure si ostinava a chiamarli: di essere in fondo un conservatore e un romantico. E che la stessa anarchia fosse una teoria superata, residuo del secolo trascorso da un pezzo, miscuglio di nostalgie rurali e di individualismo piccolo-borghese. C’erano inoltre l’orgoglio e la rabbia di non arrendersi completamente, di continuare la lotta a oltranza, di reagire a tanta barbarie in attesa di tempi migliori. Di non oltrepassare il limite, oltre il quale l’istinto di sopravvivenza diventi passività e connivenza, o controproducente inerzia.

Tuttavia nessuna di queste motivazioni, presa a sé stante e per quanto ragionevole, convinceva Felìpe del tutto. Il farmacista interruppe il corso irruente dei suoi pensieri e si scosse, distogliendosi dalla finestra. Decise di concedersi un modesto lusso, che era costretto a permettersi sempre più eccezionalmente, a causa delle restrizioni belliche. Andò in cucina e aprì uno sportello della credenza. Ne estrasse un barattolo di latta e una vecchia caffettiera. La riempì per metà di acqua e accese il fuoco di un fornello. Poggiò la caffettiera sulla fiamma e aspettò che l’acqua bollisse. Poi, vi versò dal barattolo un cucchiaio raso di polvere scura.

Terminato il rito distensivo, sedette ad attendere che il caffè fosse pronto, annusando il profumo gradevole che si spandeva lentamente per la stanza. Nel frattempo, tirò fuori una sigaretta dal taschino della giacca. La accese con un fiammifero, aspirando una boccata di fumo. Era la prima di una razione giornaliera, che lui stesso aveva fissato nella misura rigorosa di tre: nemmeno una di più. Anche per non nuocere alla salute delle vie respiratorie, in una stagione così umida e piovosa.

 

* * *

 

Dopo che Felìpe ebbe fumato la sua sigaretta e sorseggiato il caffè, assaporando entrambi, si levò dalla sedia. Sbrigò poche altre faccende. Tornò nella stanza, che fungeva da camera da letto e da studiolo insieme. Qui si fermò davanti a un ritratto attaccato al muro. Vi sostò abbastanza a lungo, di nuovo sovrappensiero. Il dipinto a olio era palesemente ripreso dal modello di una foto, con l’aggiunta dei colori e di qualche ritocco da parte del pittore. La luce recente del sole aveva messo in evidenza la figura di una donna relativamente giovane, decisamente bella.

La donna guardava ridendo verso l’osservatore del quadro, come affacciata a mezzo busto, in abbigliamento elegante e con atteggiamento festoso. I capelli mossi e bruni erano raccolti sulla nuca in una cuffia di fitta rete argentata. Il vestito con spalline sottili, in tessuto leggero e in parte trasparente, sfoggiava una generosa scollatura. La mano sinistra tratteneva una rosa rossa nell’incavo fra i seni, mentre l’altra sollevava un calice di cristallo pieno, nel gesto di brindare. Una targhetta in ottone era fissata in basso sulla cornice, con sopra incisa questa scritta in spagnolo: “Nadia, nel suo trentesimo compleanno”.

Il farmacista coprì il dipinto con un telo, per schermarlo dalla polvere e dalla luce intensa del pieno giorno, se e quando essa fosse filtrata attraverso gli interstizi delle persiane. Lanciò uno sguardo alla pendola da parete e si affrettò a prendere uno zaino, cominciando a infilarvi qualche indumento personale alla rinfusa. Si accostò a uno scaffale pieno di libri accatastati in più file. Ne scelse tre volumi, che gli facessero un po’ di buona compagnia.

Sul dorso delle rilegature, spiccavano a lettere dorate altrettanti nomi di poeti contemporanei, nonché sfortunati compatrioti: Lorca, Jiménez, Machado. Di Antonio Machado, l’anarchico aveva assistito dolorosamente alla scomparsa in un villaggio francese a poca distanza dal confine, causata dagli stenti affrontati durante la fuga dalla Spagna, ormai soggiogata dalla dittatura franchista.

Da ultimo, sfilò da sotto il letto un cofanetto di medie dimensioni, che presentava il vago aspetto di un carillon, per una chiavetta innestata su un lato, indipendentemente dalla serratura. Sul coperchio smaltato, era disegnato un grande sole sorgente, il quale con i suoi raggi illuminava vari attrezzi da lavoro disseminati su un campo coltivato. Fra gli altri, significativamente si distinguevano una falce e un martello incrociati tra loro.

Il vecchio “dinamitero” aprì la cassetta metallica e ne controllò accuratamente il contenuto. In uno spazio superficiale sufficientemente ampio e profondo, all’interno di un involucro protettivo, erano disposti in bell’ordine una decina di candelotti di esplosivo, un rotolo di cerotto e uno di miccetta. Felìpe richiuse delicatamente il tutto e lo inserì in mezzo agli indumenti. Avrebbe portato in viaggio anche quella “roba”. Come arma estrema di difesa a ogni possibile evenienza – disse tra sé e sé – o, auspicabilmente, per una sorta di scaramanzia e perfino di affezione morbosa.

 

* * *

 

Con lo zaino sulle spalle, il farmacista montò su una grossa moto dal largo manubrio. Con la stessa, aveva valicato i Pirenei al termine della guerra civile, insieme ai pochi oggetti personali che era riuscito a portarsi dietro. Era stato uno degli ultimi ad abbandonare il campo, dopo la disfatta della repubblica spagnola. E a malincuore: un po’ come tutti gli anarchici e altri miliziani superstiti, di vario colore politico.

Ora, uscì dal pian terreno della sua abitazione e attraversò il paese ancora semideserto, con il motore funzionante al minimo: in modo da non attirare troppo l’attenzione. Giunto all’estremità dell’abitato, imboccò la via che scendeva in stretti tornanti verso la ferrovia. In mezzo alla boscaglia, la foschia e l’umidità della notte ristagnavano a tratti, anche se aveva appena smesso di piovigginare fastidiosamente. A ogni curva, il motociclista era costretto a rallentare fin quasi ad arrestarsi, per non slittare sul fango che aveva invaso la carreggiata.

Una volta a valle, raggiunse in breve lo scalo. Affidò il veicolo al capostazione, che era un buon conoscente e “compagno”. Era stato proprio lui a metterlo in collegamento con quelli della Resistenza, e a garantire sul suo conto, quasi ce ne fosse stato bisogno. Che dunque custodisse la moto fino al suo ritorno, o la tenesse in suo ricordo, se poi non fosse tornato. Il treno locale arrivò in ritardo. Felìpe scorse la locomotiva da lontano, arrancare con i fari accesi e intorbidare l’aria con una nuvola di fumo scuro. Ne sentì l’odore acre penetrargli nelle narici.

Quando i freni cessarono di stridere a lungo sui binari, egli salì e si recò nell’ultimo scompartimento dell’ultimo vagone. Seduto su una panca di legno, il solo passeggero tirò fuori da una tasca del soprabito una bottiglietta a forma di borraccia. Gliela porse in segno di saluto e di riconoscimento, perché bevesse un sorso di cognac. Come per gradire la gentilezza, il farmacista accettò. Sedette di fronte all’interlocutore, chiudendo la portiera dietro le sue spalle.

Chi si fosse spinto fin lì lungo lo stretto corridoio e avesse gettato un’occhiata distratta dentro lo scompartimento, anziché ammirare il panorama dal lato opposto attraverso il vetro bagnato di gocce di pioggia, difficilmente avrebbe sospettato che i due discutessero questioni importanti e delicate. Piuttosto avrebbe immaginato che chiacchierassero delle solite banalità o delle angustie del tempo di guerra. A un certo punto, il secondo uomo si alzò e venne a tirare le tendine, che occultarono i finestrini i quali comunicavano con il passaggio comune.

Tornato al suo posto, il cittadino estrasse dalla sua valigia una lunga scatola piatta. La aprì piano davanti agli occhi di Felìpe, come un commesso che mostrasse un prezioso gioiello per un costoso regalo. Ben diverso dalle doppiette da caccia cui l’anarchico era ormai abituato, il congegno di morte si presentò ai suoi occhi in tutta la sua lucentezza e perfezione.

Un fucile di precisione con mirino telescopico, smontato nelle sue componenti e incastonato negli appositi incastri della custodia, completo di istruzioni in inglese per un rapido montaggio e per un sicuro funzionamento e manutenzione. Dono degli Alleati, commentò il responsabile militare di zona. Va da sé, occorreva farne il miglior uso possibile, e che fosse consegnato in mani accorte e consapevoli.

 

* * *

 

Se non schermirsi Felìpe avrebbe voluto protestare che lui era stato, giocoforza e nonostante la sua fama, sì un bravo “artigiano” occasionale. Non per questo, un tecnico specialista per scelta o per vocazione. Tuttavia non fiatò, edotto sulla disciplina militare quel tanto che era indispensabile, consapevole degli obblighi che si era assunto e che le circostanze imponevano.

Alcune fermate dopo, scese dal treno carico del suo rischioso bagaglio, mentre il dirigente partigiano proseguiva il suo viaggio per chissà quale altra missione. Si incamminò verso il centro della cittadina, diretto all’indirizzo che pure gli era stato fornito. All’ora stabilita e secondo le direttive ricevute, quella sera stessa andò ad appostarsi nella soffitta dell’edificio designato, con il fucile di precisione montato a puntino fra le mani, benché non avesse avuto agio e opportunità di collaudarlo di persona.

Il farmacista posò l’arma per terra accanto a sé. Accese la seconda sigaretta della giornata, schermando la fiammella con una mano. Con qualche sorpresa, si accorse non tanto di non aver trovato prima un momento per tale operazione, quanto di non averne avvertito il desiderio o l’esigenza, così assorbito dalle contingenze e immerso nella pienezza spasmodica del presente.

Adesso che la scadenza si avvicinava, la tensione nervosa si era allentata, cedendo il posto a una calma artificiosa e malsana. Rammentò che altre volte il fenomeno si era verificato, e che ciò ogni volta era associato a un ricordo nient’affatto gradevole, bensì a qualche evento tremendo o episodio violento nella propria esistenza. Quasi che egli avesse acquisito, a caro prezzo, la dote provvidenziale ma perversa di reagire con estrema lucidità e non senza un innaturale compiacimento a esperienze altrimenti traumatiche.

Assorto al buio nelle sue amare considerazioni, l’attentatore improvvisato aveva fatto appena in tempo a tirare le prime boccate. Una determinata finestra si illuminò poco più in basso, nella facciata della casa dirimpetto: con un certo anticipo su quanto era stato da altri previsto, in base chiaramente all’osservazione di una consuetudine. Felìpe spense la sigaretta. Afferrò il fucile. Con un colpo secco del calcio avvolto in uno straccio, ruppe un riquadro di vetro dell’abbaino davanti a sé.

I frantumi tintinnarono leggermente, cadendo sulle tegole del tetto sottostanti. Il farmacista si sdraiò a pancia in giù, accomodandosi sul pavimento. Introdotta la canna nel foro, accostò un occhio al mirino telescopico e lo regolò, centrando e mettendo a fuoco l’immagine inquadrata.

L’uomo entrato nella stanza era un alto ufficiale tedesco delle truppe di occupazione. Come primo atto ovvio, si mise in libertà. Si tolse il cappello, i guanti, la giacca della divisa, la cravatta, rimanendo in maniche di camicia. Sganciò la fibbia del cinturone con la fondina e la pistola, lo sfilò e appese a un attaccapanni. Poi fece qualcosa di altrettanto banale, che avrebbe dovuto favorire il giustiziere invisibile, ma imprevedibilmente lo lasciò interdetto e a disagio. Cioè, accese a sua volta una sigaretta. Per fumarla, si portò proprio davanti a quella finestra, a sua insaputa esponendosi pericolosamente al tiro.

 

* * *

 

Felìpe provò la non nuova sensazione di aver assistito a quella scena altre volte, come in sogno ma in ogni particolare. Perfino il volto dello sconosciuto, che apparve in primo piano nel riquadro del mirino, gli riuscì alquanto familiare. Il nemico disarmato guardava dritto verso l’alto, certo casualmente nella direzione del suo attentatore, con aria visibilmente preoccupata e stanca. Era lievemente stempiato. Poteva avere suppergiù l’età del farmacista.

Soprattutto, il suo atteggiamento dava l’impressione di una irrimediabile solitudine, condizione e stato d’animo che Felìpe conosceva bene. Per un attimo, quest’ultimo fu colto dalla suggestione di osservarsi in un remoto specchio deformante. Pure, egli non aveva assolutamente niente da spartire con l’altra persona: nulla in cui potesse realmente identificarsi. Salvo, non si sa mai, l’assuefazione e insieme un incipiente o crescente disgusto per l’impiego della violenza.

Tale dubbio inconsistente bastò, perché il dito dell’anarchico tremasse nel premere lentamente il grilletto. Le mani gli divennero improvvisamente sudate, l’arma che reggeva pesante, la bocca insopportabilmente arida. Egli temette, o inconsciamente sperò, di mancare un bersaglio così facile e difficilmente riproponibile: lusso che non poteva permettersi. Sta di fatto che, prudentemente, il colpo non partì.

Ora, una cosa del genere non gli era mai successa prima; almeno, non in quei termini. Forse, aveva sopravvalutato la sua presunta freddezza. O, semplicemente, lui stesso era – per così dire – giù di esercizio. Oppure, attendibilmente, maneggiare i detonatori e la dinamite non era esattamente la medesima cosa, che trovarsi faccia a faccia con un avversario inerme e come bendato, sebbene il primo caso potesse produrre effetti assai più micidiali.

Intanto, il militare laggiù si era voltato ritraendosi all’interno e andando a sedersi in una poltrona. Da un grammofono nascosto alla vista, attraverso la finestra rimasta socchiusa una lontana eco di musica classica si sparse per l’aria, giungendo fino all’orecchio di Felìpe. Questi riconobbe una sinfonia di Brahms. Preso un libro fra le mani, l’altro lo aveva aperto iniziando tranquillamente a sfogliarlo e leggerlo, quando fu bruscamente interrotto.

La porta si spalancò ed entrò un soldato in divisa. I due parlarono tra loro concitatamente. L’ufficiale si rivestì in fretta, intuibilmente contrariato. Richiuse il volume, che aveva lasciato spalancato su un tavolino, inserendo un segnalibro fra le pagine. Seguì il suo sottoposto fuori dalla stanza, non senza prima aver spento la lampadina elettrica. La finestra tornò a oscurarsi.

Felìpe stette per imprecare contro se stesso, causa l’irritazione per la sua imperdonabile debolezza, e per le gravi conseguenze che il tentativo fallito avrebbe potuto avere. Non da ultimo, di mettere inutilmente a repentaglio la propria esistenza. Provò a consolarsi pensando che nulla avrebbe dovuto impedirgli di riprovare più tardi o la sera successiva, e di sfruttare – questa volta, senza inopportuni scrupoli o senili esitazioni – la nuova occasione che si fosse presentata. In una simile ottica, non gli spiacque neanche troppo aver preso tempo.

Del resto, nel bene e nel male, non era una caratteristica sbandierata degli anarchici il seguire l’imperativo critico delle loro coscienze, prima ancora che obbedire alle imposizioni di una logica astratta? Era vero: il pericolo, e il rimprovero ricorrente, erano di finire spesso per cedere al criterio del proprio estro. No, a differenza magari del suo attuale antagonista, Felìpe non avrebbe mai potuto né voluto essere un buon militare. Tutt’al più, un discreto militante libertario. In compenso, rischiando pur sempre di persona.

 

* * *

 

Il farmacista trascorse il resto della notte nella soffitta, vegliando e tenendo d’occhio la finestra dirimpetto, se mai fosse tornata a illuminarsi. Ma ciò non si verificò. Presumibilmente, doveva essere accaduto qualcosa di grave, perché l’ufficiale tedesco non venisse più a riposare nella sua camera.

Verso l’alba, il vecchio anarchico si assopì su un pagliericcio in un angolo della stanzetta, dove lo spiovente del tetto faceva sì che il soffitto fosse meno basso. Non era previsto né raccomandabile che l’operazione avvenisse alla luce del giorno, quando quest’ultima avesse privato l’attentatore del favore dell’oscurità, copertura peraltro utile a una preordinata via di fuga.

Fu un miagolìo insistente a svegliare Felìpe. Imprevedibilmente, il cielo era azzurro, terso e sereno. Il sole già abbastanza alto affiorava all’orizzonte sopra i tetti. Nel foro attraverso il vetro della finestrella, che avrebbe dovuto servire a ben altro scopo, si era affacciato il muso di un gatto. Chissà da quanto tempo era lì che spiava incuriosito l’insolita presenza, certo di ritorno da qualche caccia notturna o avventura galante.

Felìpe stava per accendere l’ultima sigaretta della sua esigua scorta, quando ricevette una visita inaspettata. Dei passi leggeri, appena udibili, avevano salito la rampa di scale che portava al pianerottolo. Qualcuno bussò timidamente alla porta dall’esterno. Il farmacista introdusse una mano sotto il pagliericcio, fino ad avvertire il contatto metallico del fucile. Attese immobile e in silenzio.

I colpi si ripeterono più decisi, accompagnati subito dopo da una voce femminile e rassicurante, che scandiva una frase convenuta. Felìpe si alzò e si portò verso l’ingresso. Nascose per precauzione l’arma in un luogo a portata di mano e facilmente accessibile. Poi, fece scorrere il paletto della serratura e aprì. La porta di legno tarlato cigolò sui cardini, spalancandosi docilmente.

La giovane sconosciuta comparsa sulla soglia portava i capelli raccolti in un foulard annodato sulla nuca. Appeso a un braccio, reggeva un cesto di vimini intrecciati, coperto da un tovagliolo: quasi si trattasse di una comune contadina. Scrutò l’inquilino precario, guardando nello stesso tempo con circospezione alle sue spalle, all’interno del locale, come se attendesse un segnale di riconoscimento.

Felìpe si ricordò della parola d’ordine che avrebbe dovuto pronunciare in risposta, e si affrettò a farlo. Solo allora lei si decise a entrare, sorridendo in segno di saluto. Depose il paniere sull’unica seggiola impagliata. Senza più imbarazzo, snodò il fazzoletto e lo tolse dal capo, scotendo i lunghi capelli castani.

– Ti chiami Pierre, o piuttosto Pedro? – domandò, con aria confidenziale e accattivante.

– Fa lo stesso. Tanto, non è il mio vero nome – rispose lo spagnolo, sforzandosi di sorridere a sua volta.

Il gatto randagio, che era rimasto a sbirciare sospettoso dalla finestrella dell’abbaino, si risolse anche lui a fare il suo ingresso. A passi felpati, si avvicinò alla nuova arrivata e si strofinò contro le sue gambe, ora più interessato al contenuto del cesto che alle complicazioni degli esseri umani. Del resto, da tempo aveva rinunciato a comprenderle. La donna estrasse da un involto un pezzetto di lardo, per porgerlo alla bestiola. Questa non si fece pregare. Approfittò della rara offerta, afferrandola con la bocca e allontanandosi verso un angolo per degustarla in pace.

– Questo micio deve essere anche lui un compagno anarchico – esclamò la ragazza, ridendo.

In una situazione del genere, da un’altra persona, Felìpe non avrebbe apprezzato certe facili battute. Ma, adesso, guardò la piccola “staliniana” con divertita accondiscendenza. D’altronde, in effetti i felini gli erano sempre riusciti simpatici.

– Mi risulta che perfino il vostro Lenin amasse i gatti – replicò, comunque, a tono.

– Forse, solo quelli – non seppe trattenersi dall’aggiungere.

 

* * *

 

– Purtroppo, c’è poco da stare allegri – dichiarò l’addetta alle mansioni di vivandiera, tornata improvvisamente seria, mentre tirava fuori dal paniere una bottiglietta di autentico caffè e lo versava ancora caldo in due tazze di coccio. Il farmacista suppose che ella volesse alludere all’insuccesso dell’azione di quella notte. Bevendo, abbozzò una mezza giustificazione, senza scendere però in particolari, o dilungarsi su circostanze di cui la sua interlocutrice poteva non essere al corrente.

– Qualcosa non ha funzionato – tagliò corto – O, peggio, deve esserci stato un evento che ha interferito e che a me sfugge. Né vedo come quassù potrei esserne a conoscenza. Forse, potete chiarirmelo voi. Comunque, il tempo a disposizione è stato breve...

– Sappiamo ogni cosa – lo interruppe l’altra – In fin dei conti, è meglio che sia andata così. In pratica, ciò che doveva accadere è successo prima del previsto. Un contrattempo, o un errore di calcolo...

– Se così fosse stato, meno male. Solo le Chiese pretendono di sapere o di prevedere tutto – interferì l’anarchico, ancora una volta caustico, mentre intuiva di non essere stato il solo a sorvegliare quella finestra la notte scorsa.

– A ogni modo, è opportuno che tu non ti muova da qui per nessun motivo, fino a nuovo avviso. Nel frattempo provvederò io, o chi per me, alle tue necessità.

– Tuttavia, non mi hai spiegato cos’è avvenuto realmente.

Intenta a svuotare il suo cesto degli altri cibi e bevande, la ragazza parve essersi distratta e non aver udito, o voler eludere per ora l’argomento. Quando tornò a rivolgersi a Felìpe e a prestargli attenzione, sembrò aver recuperato la sua aria svagata di poc’anzi, sebbene l’espressione si fosse fatta malinconica.

– Finirà mai questa guerra, Pierre? – chiese evasiva, come se parlasse con un vecchio amico, o a se stessa.

– Non solo, ma gli Alleati finiranno per prevalere – rispose, senza troppe esitazioni, l’uomo che si faceva chiamare Pierre.

– Vuoi dire che credi che ci saranno finalmente libertà, e giustizia sociale?

– Non ho asserito che vinceremo noi, voi, o loro. Vinceranno un po’ tutti. Intendo ovviamente la gente, che non ha voluto né scatenato la guerra. Arrivati al punto in cui siamo, la pace non ti sembra una rivoluzione sufficiente?

La donna parve soddisfatta delle risposte ai suoi quesiti. Non si aspettava che un anarchico la pensasse in quel modo: in fondo, un po’ come lei. Glieli avevano descritti decisamente diversi. O, magari, questo era uno speciale, differente dagli altri. Quando glielo confessò, Felìpe rise fra sé per l’ingenuità, che contrastava con l’avvedutezza un po’ meccanica mostrata in precedenza dalla giovane militante. Anche ciò doveva essere un effetto della guerra, pensò. Fuori di dubbio, nemmeno uno dei peggiori.

Ma le riflessioni della ragazza non si arrestarono lì. Dal canto suo, pensò che era un vero peccato che lo spagnolo potesse non uscire vivo da quella situazione. Questo, però, si guardò bene dal rivelarlo. Si limitò a domandargli quale fosse il maggior rimpianto, o desiderio inappagato, nella sua esistenza. Il farmacista la osservò perplesso, preso di nuovo in contropiede dalla serietà, con cui un interrogativo così personale ed estemporaneo era posto.

Dopo averci meditato sopra abbastanza, per non venir meno all’insolita curiosità della sua “compagna di strada”, concluse che sì: in particolare, qualcosa c’era che gli rincresceva di aver perso. Molto probabilmente e sinceramente, si trattava di un figlio. Ancora prima che l’occasione, gli erano sempre mancate la calma e la sicurezza necessarie, per “metterlo al mondo”.

 

* * *

 

– Dare alla luce un bambino, in un mondo come questo? – esclamò dubbiosa la giovane donna, sentendosi evidentemente toccata da vicino e coinvolta dall’argomento emerso nella conversazione.

– Me lo sono chiesto anch’io più volte. – rispose l’anarchico – Ma, oggi, mi viene da ammettere: in un mondo purché sia. Visto che questo, alla fin fine, è opera nostra, sarebbe assurdo che non ci fosse più nessuno a riprodurlo, nel bene e nel male.

A differenza della ragazza, il gatto di passaggio, che si era intanto scelto un angolo adatto per accovacciarsi, non parve troppo impressionato dalla sortita filosofica di Felìpe. Per ciò che lo riguardava, essa suonò piuttosto scontata, dal momento che lui ne teneva costantemente conto nella pratica quotidiana. Né l’idea di una terra spopolata di uomini dovette sconvolgerlo particolarmente. Semmai, sarebbe inorridito di fronte a un mondo privo di topi. Il punto di vista poi, che il tutto potesse non più sussistere per un simile accidente, lo trovò unilaterale e pretenzioso. Fatto sta che manifestò il suo scettico dissenso sollevandosi, inarcandosi e stirandosi con un lungo sbadiglio.

Quanto alla falsa contadina, aveva ultimato di disporre le vivande su una mensola da parete, al riparo dalle mire del felino, le cui simpatie nei confronti di lei subirono un calo improvviso. Dal fondo del paniere, prese allora un foglio appena gualcito. Lo porse in silenzio al farmacista in incognito. Questi lo espose alla luce proveniente dall’abbaino e lo esaminò. Il volantino era fresco di stampa. Conteneva un bando diretto alla popolazione locale, da parte del comando tedesco. Qualche tipografia doveva aver fatto un lavoro straordinario obbligato, la notte precedente. Felìpe trasalì, leggendo attentamente e ripetutamente.

Francesi, cittadini leali,” esordiva ipocritamente il dettato, “nel momento in cui truppe ostili alla comune patria europea progettano di invaderne il territorio, un proditorio assassinio è stato commesso nella vostra città, ai danni del popolo amico germanico e del suo esercito, nella persona di uno dei suoi più fedeli rappresentanti e migliori collaboratori. Ignoti banditi e agenti prezzolati dal nemico hanno ucciso questa notte il comandante del distaccamento locale delle SS, nel corso di un vile attentato che non può esemplarmente restare impunito. Qualora i mandanti immediati e gli esecutori dell’atto esecrando non si consegnino prontamente e senza condizioni nelle mani di un tribunale militare, dieci sospetti di tradimento, individui già incriminati e detenuti per reati affini, verranno pubblicamente condannati e giustiziati, in base alle convenzioni ed esigenze eccezionali imposte dall’emergenza bellica...”.

Seguiva la firma del capitano, al quale l’anarchico aveva fatto grazia della vita a insaputa dello stesso, sottoscritta da un alto funzionario della polizia francese collaborazionista. Al di là delle formule retoriche e deliranti, la cognizione del significato e delle implicazioni del discorso fu per Felìpe una doccia fredda, che gli illuminò a un tratto la realtà e lo ricondusse a una percezione tragica di essa. Di riflesso, non poté non prendere atto della propria eccentricità e di un cronico isolamento. Al punto da sospettare che questi affondassero radici in una incapacità congenita di adattarsi al mondo, ben prima che nell’adozione di una specifica ideologia o militanza.

Dunque, la dirigenza della Resistenza aveva preparato un secondo contemporaneo attentato, andato peraltro a segno. Il tutto in base a un calcolo approssimativo delle probabilità di riuscita, del danno inferto e delle ritorsioni del nemico, senza metterlo al corrente se non a cose fatte. Il farmacista non ignorava le superiori ragioni di opportunità, che senza dubbio avevano ispirato un comportamento del genere nei suoi confronti, nella spietata logica della lotta armata clandestina. Ciò non toglie che avrebbero potuto metterlo in guardia in qualche modo, sia dagli ulteriori pericoli che correva, sia dalle accresciute ripercussioni del suo operato.

Egli avrebbe potuto regolarsi di conseguenza: se non per le precauzioni supplementari da assumere, in merito ai tempi effettivi di esecuzione della parte a lui assegnata. In una certa misura, si sarebbe sentito padrone della situazione o illuso di partecipare a scelte decisive che lo riguardavano. Si sentì invece un mero strumento, per giunta inefficiente. Temette addirittura di essere stato un possibile diversivo. L’ingranaggio di una macchina sacrificale, la cui suprema follia ordinatrice per un verso o per l’altro era ancora una volta la guerra.

 

* * *

 

Felìpe si accorse di essersi cacciato in un tunnel senza visibile sbocco o via di uscita. Mentalmente, finì per prendersela con l’unico presunto corresponsabile a portata di mano. Con quella ragazzina troppo cresciuta e smaliziata, un misto di audacia e di candore, che sicuramente ne sapeva più di lui sulle circostanze presenti e sui loro risvolti. In effetti, sembrava che fosse stata mandata fin lassù apposta, a giocare con lui come fa una gatta con il topo, o – più attendibilmente – ad assisterlo e controllarlo nello stesso tempo. Piegato il foglio e ficcatolo in una tasca, tornò a voltarsi verso di lei, pieno di confuso risentimento. Una volta di più, rimase sconcertato, se mai c’era qualcuno o qualcosa che potesse ancora ottenere quel risultato.

La giovane si era sfilato il maglione che indossava. Si era tolto il reggiseno, restando con una gonna a fiorami. I due indumenti pendevano ordinatamente dalla spalliera della sedia. A torso nudo, sedeva su un bordo della branda. La luce che penetrava dalla finestrella polverosa le illuminava, sfumandolo, il busto degno di una scultura o di un dipinto classico, senza beninteso possederne la rigidità o la patina di antico. Una medaglietta appesa al collo con una catenella d’oro, presumibilmente una immaginetta sacra, risplendeva con intensità contrastante con l’ambiente spoglio e squallido. L’espressione del viso dagli occhi chiusi era pressoché impenetrabile.

L’anarchico non poté dominare il suo stupore, misto a disappunto.

– Che cos’è: fa parte di una farsa, o è un altro omaggio della Resistenza? – esclamò con stizza, forse anche per mascherare un’ombra di disagio. Subito dopo, si pentì di essersi lasciato sfuggire una frase così cattiva e sciocca. Avrebbe preferito scusarsi, chiedere con gentilezza ed energia una spiegazione. Infine, la donna poteva aver frainteso, o interpretato a suo modo i propri discorsi. In tal caso, si sarebbe trattato di un gioco importuno, ma paradossalmente serio. Non fece tuttavia in tempo ad aggiungere altro, perché fu colpito da un sonoro schiaffo in pieno viso.

Lei aveva spalancato gli occhi verdi. Si era alzata di scatto. Ora gli stava esattamente di fronte. Ma non accennava a rivestirsi. Il suo atteggiamento, la sua gioventù e bellezza, erano più provocanti e imperiosi che mai. Felìpe non ritenne di dover reagire al meritato affronto. Per un effetto istintivo, furono i suoi sensi intorpiditi a ridestarsi. I nervi si tesero, il sangue pulsò con forza nelle vene. Stese un braccio in avanti. Allungò la mano verso i seni della “vivandiera” e prese a carezzarli lentamente, finché non divennero turgidi. I capezzoli si eressero eccitati.

Nello stesso tempo, l’espressione di lei si addolcì. Le labbra si inumidirono. Felìpe arrivò a specchiarsi nelle sue pupille, dilatate come quelle di un felino in un ambiente poco illuminato. Passò l’altro braccio intorno alla sua vita. La attirò a sé, senza che la ragazza opponesse resistenza.

– Per essere quelle di un “dinamitero”, le tue mani sono delicate – commentò lei, afferrandole e stringendole fra le sue, rigirandole ed esaminandole con tenerezza e con altrettanta curiosità.

– Non so che cosa ti abbiano messo in mente, o raccontato in proposito – rispose il maturo anarchico sommessamente, senza nascondere un residuo fastidio – Gradirei però che almeno tu mi considerassi una persona come le altre, se ci tieni davvero alla nostra amicizia.

 

* * *

 

Felìpe era stato un buon nuotatore. Uno sport solitario e moderatamente arrischiato, congeniale col suo temperamento. Un po’ come le sue escursioni venatorie in montagna, più per il gusto di immergersi nella natura che per arrecare offese. Così come si usa in acqua sui lunghi percorsi, gli venne spontaneo adottare una respirazione bassa e regolare, perché il reciproco piacere durasse il più possibile. Quando avvertì giunto il momento, fece per staccarsi e per tirarsi indietro. Per quanti sforzi facesse, non ci riuscì.

Le gambe e i piedi della giovane erano tenacemente intrecciati dietro la sua schiena. Da amante consumata, gli abbracciò la testa. La premette fra i suoi seni, fin quasi a soffocarlo. Egli finì col cedere e con il lasciarsi andare. Solo allora la stretta si allentò. Lui poté tornare ad annusare il profumo dolce e insieme aspro dell’amante, con voluttà animalesca. Gettando indietro il capo e agitando i capelli sciolti, con un gesto apparente di trionfo, la donna assorbì dentro di sé ogni goccia di linfa vitale.

Disturbato dal piccolo trambusto, il gatto che sonnecchiava aveva aperto un occhio e assistito alla scena con ostentata sufficienza. “Finalmente, una cosa sensata” sembrò che pensasse, approvando l’esito ma deprecando le chiacchiere e i preamboli inutili. In fondo, doveva trattarsi di brave persone. Quasi gli dispiacque dover abbandonare quell’atmosfera idilliaca e la parentesi familiare. Ma c’erano tante cose da sbrigare che lo richiamavano all’esterno. Aveva già perso troppo tempo a oziare. Prima, c’era una cosa importante che gli restava da fare.

Approfittando del temporaneo rilassamento dei due, il felino aprì l’altro occhio. Calcolò rapidamente la distanza fra sé, la sedia e la mensola. Decise la propria traiettoria. Poi, spiccò un balzo sulla spalliera e da lì con un altro raggiunse il suo obiettivo. Addentato un pezzo consistente di lardo, con un ultimo salto guadagnò l’uscita, attraverso l’apertura praticata da Felìpe nel vetro dell’abbaino. La stessa, dalla quale era penetrato nella stanza.

Invece di dileguarsi fra le tegole, tra grondaie e comignoli, una volta fuori il gatto si arrestò. Girò il muso indietro. Gettò uno sguardo guardingo all’interno della soffitta. Constatato che gli umani reagivano ridendo e non accennavano a un tentativo di inseguimento, per giunta così spogliati e con scarse possibilità di successo, recuperò il suo tono dignitoso. Si sdraiò a mordicchiare con calma la sudata preda.

Dal suo posto di spettatore privilegiato, il felino poté intravedere la ragazza rivestirsi in fretta e baciare l’uomo sulle labbra, prima di uscire dalla porta. Con il suo udito sensibile, riuscì anche a percepire le ultime parole che i due si scambiarono. Senza recepirne il preciso significato, non gli sfuggì in qualche modo il prevedibile senso.

– Non conosco neppure il tuo nome – obiettò il farmacista nel salutarla, senza troppa convinzione, ma tradendo una certa emozione e impaccio.

– Dimentichi che nemmeno io il tuo, compagno anarchico. Date le circostanze, mi sembra un particolare trascurabile – sussurrò la donna, con un mezzo sorriso – Comunque, se mai mi nascerà un figlio, puoi contarci: lo chiamerò Pedro!

 

* * *

 

Rimasto nuovamente solo, Felìpe smise di fantasticare sugli eventi futuri, in una bizzarra inversione della memoria che lo aveva rapito a lungo. Non senza un senso di sollievo, pensò che era giunto il tempo di uscire allo scoperto e di giocare il tutto per tutto. Si dedicò ad alcune banali operazioni, lasciandosi assorbire da quelle. Tirò fuori dal suo bagaglio un necessaire da viaggio. Si sbarbò alla meglio, utilizzando l’acqua di una bottiglia che gli aveva portato la vivandiera della Resistenza, e un frammento opaco di specchio fissato con chiodi arrugginiti a una parete. Chissà chi aveva abitato o si era rifugiato in quella soffitta, prima di lui, e quale era stata la sua sorte.

Guardandosi ora a fatica, il farmacista scoprì che non era poi tanto anziano, come si era sentito negli ultimi tempi. Sciacquò una tazza del caffè e vi versò del vino. Tagliò delle fette da una pagnotta, e fece una frugale colazione. Alla fin fine, in quanto ospite non pagante, non l’avevano trattato male. Né gli sarebbe rincresciuto troppo trattenersi, se solo avesse potuto andarsene a spasso per la cittadina a prendere una boccata d’aria, come quel gatto che si era appena allontanato sui tetti.

Quasi ubbidendo all’ispirazione del momento, o piuttosto rassegnato a recitare fino in fondo la parte prevista nel copione dell’esistenza, l’anarchico si rassettò. Caricò lo zaino sulle spalle. Scese le scale dell’edificio. Uscito dal portone, si trovò in una piazza assolata, che doveva essere la principale della cittadina. Essa somigliava da vicino a quella del suo paese di origine, al di là dei Pirenei. Era come se, costretto a fuggire e a forza di nascondersi, fosse tornato al punto di partenza.

Lì indugiò, guardandosi intorno e respirando a pieni polmoni. Poi si incamminò, attraverso lo spazio aperto. Forse – Felìpe cercò di consolarsi, dentro di sé  –, l’estrema libertà risiede nell’accettare il ruolo contemplato nel proprio destino. Tutto sta a decidersi ad affrontarlo, o a cogliere l’opportunità di farlo, quando e dove si rappresenti il male del mondo ovvero il suo ultimo atto.

In altri termini, l’infelicità affonda spesso radici nell’incapacità di uniformarsi a ciò che è iscritto nel profondo del nostro essere. Nonostante che sapesse bene a cosa andava incontro, in effetti Felìpe si sentiva ora disperatamente libero, come non lo era mai stato. Dal bar-tabacchi, dalla rivendita di giornali, dalla bottega del barbiere, occhi curiosi o vigili scrutavano il forestiero, interrogandosi sulle sue intenzioni e sulla sua destinazione. Questa fu inequivocabile, quando egli varcò la soglia del palazzo, dov’era alloggiato il comando tedesco di zona.

Dopo un primo breve interrogatorio e una perquisizione più o meno sommaria, Felìpe fu scortato d’urgenza dal capitano, che già conosceva di vista. Non lo trovò molto diverso da come lo ricordava o se lo era immaginato, salvo che adesso era in divisa e sedeva dietro un’ampia scrivania. Alle sue spalle, una finestra dava proprio sulla piazza centrale. Le sue mani, con un grosso anello d’oro all’anulare sinistro, stavano appoggiate su un dossier abbastanza voluminoso. Quanto a lui, fu fatto sedere di fronte, dalla parte opposta del tavolo. Le due guardie andarono a disporsi ai lati della porta d’ingresso dell’ufficio, impugnando i loro mitra.

– Signor Felìpe Alvárez, detto Pedro, altrimenti Pierre, dottore in farmacia di nazionalità iberica – lesse l’ufficiale, aprendo il fascicolo e fissando il suo interlocutore dritto negli occhi – Come vede, l’aspettavamo. Di lei sappiamo praticamente tutto. Al punto, che mi sembra di conoscerla da tempo. Ne ha combinate di belle laggiù in Spagna, all’epoca della guerra civile, ai danni dei nostri amici falangisti. Ma non è su questo né su lei che intendo intrattenerla, annoiandola con cose risapute. Bensì su una sua vecchia conoscente e compagna, di origine italiana e di fede politica comunista trotzkista. Alludo a colei che rispondeva al nome di battaglia di Nadia, prematuramente e sfortunatamente scomparsa, in circostanze a dir poco oscure...

 

* * *

 

Il farmacista non riuscì a dissimulare un lieve trasalimento, come se qualcuno avesse posto un dito su una piaga mai rimarginata del tutto. Era che una mossa del genere non l’aveva davvero prevista. Non si cessa mai di meravigliarsi della natura umana, osservò mentalmente e pessimisticamente. Né gli era ancora chiaro il perché di un tale esordio e dove il suo antagonista volesse andare a parare, rivangando quella vecchia storia.

– Francamente, mi sembra che questo non c’entri, con il motivo per cui sono qui attualmente – protestò visibilmente spazientito, appena si fu ripreso. Intanto, il nazista aveva tirato fuori dal suo dossier un ritaglio di giornale, mostrandolo a Felìpe. Questi riconobbe un articolo apparso su uno degli ultimi numeri della gazzetta della repubblica, prima della definitiva sconfitta. Vi compariva una foto sbiadita di Nadia. Si annunciava la sua morte in uno scontro isolato con il nemico, durante la battaglia urbana che aveva preceduto il controverso abbandono della capitale spagnola. L’anarchico sapeva benissimo che ciò era in gran parte falso.

Un attendente entrò nella stanza, recando lo zaino del farmacista. Lo consegnò nelle mani del capitano e confabulò brevemente con lui. Quest’ultimo ne estrasse il cofanetto del carillon e la custodia del fucile di precisione, poggiando entrambi sul ripiano della scrivania. Aprì la custodia e ne mostrò il contenuto a Felìpe.

– Nella sua ingenuità, lei ci considera a torto degli ingenui – proseguì l’ufficiale, dopo l’interruzione, con una sfumatura ironica nella voce – I nostri esperti confermano ciò che lì per lì anch’io avevo intuito. Quest’arma non ha mai sparato un colpo. Lei sarà un inguaribile idealista, caro dottore. Ma non è l’assassino del nostro comandante delle SS. È invece probabile che fosse stata incaricata di un altro attentato, e che non abbia avuto l’occasione o il coraggio di portarlo a termine. Nella migliore delle ipotesi, può essersi trattato di una forma tardiva di avvedutezza, se non di ravvedimento. Ma spetta a lei dimostrarcelo, con un po’ di buona volontà. Non ultima, non dimentichi la prospettiva che le sta giustamente a cuore: quella di risparmiare vite pressoché innocenti; non esclusa la sua, anche se a questa pare tenere meno. Basterebbe che lei ci mettesse sulla strada per rintracciare i mandanti, alcuno dei quali non può non conoscere. Da lì, non ci sarebbe difficile risalire al vero esecutore: particolare, a questo punto, perfino secondario...

Lo spagnolo aveva avuto modo di recuperare la sua calma. Cominciava a capire quale fosse la tattica adottata dall’avversario, a mano a mano che egli scopriva le sue carte, e come quella non smentisse la fama di una psicologia perversa. Decise di fingere di stare moderatamente al gioco. Guardò il suo interlocutore con aria disorientata e perplessa.

– Torniamo un attimo alla sua Nadia – incalzò il tedesco, sfoggiando il suo miglior francese – Lei non può aver dimenticato come si svolsero i fatti, al di là delle pietose bugie della stampa di parte. Anche su questo, abbiamo avuto la ventura di essere ben informati. Non tutti allora erano d’accordo sulla resa di Madrid. C’era chi avrebbe voluto resistere a oltranza, contro gli ordini governativi e – mi consenta – ogni logica della tattica militare. Fra questi, appunto, gli anarchici: mi corregga, se sbaglio. Secondo una inopportuna consuetudine “democratica”, ci furono pubblici dissensi. Data la gravità della questione in ballo, almeno in una occasione si trascese e qualcuno pose mano alle armi. Del resto, non era la prima volta che capitava un episodio così increscioso fra i “rossi”, specialmente se a dissentire erano i comunisti staliniani. Questa volta, i trotzkisti si trovarono in mezzo, nel tentativo forse di mediare e di riportare le cose alla ragione. Come purtroppo in differenti occasioni, il loro intervento non fece che peggiorare la situazione. Ci furono delle vittime, nelle loro file, tra cui la stessa Nadia...

 

* * *

 

In cuor suo, Felìpe rivide la scena di cui lui stesso era stato a suo tempo spettatore impotente. Effettivamente, le cose erano andate grossomodo quali il comandante o chi per lui le aveva ricostruite. Ogni volta che l’accaduto gli si era ripresentato alla mente, specie di recente, egli non aveva potuto fare a meno di associarlo a un fotogramma di un film, alla cui proiezione aveva assistito in passato a Madrid.

Opera dell’allora promettente regista surrealista Luis Buñuel, il cortometraggio aveva un titolo volutamente privo di senso comune, ovvero di un nesso preciso con il contenuto della pellicola: Un cane andaluso. L’immagine che aveva comprensibilmente impressionato il pubblico, e Felìpe in particolare, era assurda e onirica. Vi si mostrava un occhio tenuto spalancato in primo piano, all’improvviso, e senza apparente motivo, ferito da un colpo netto di rasoio. Per giunta, il gesto traumatico era presentato come perfettamente naturale, ambientato in un contesto tendenzialmente normale.

A ben vedere, proprio quest’ultimo era il connotato maggiormente sconcertante. Più in generale, come non collegare quella finzione premonitrice con lo strazio della guerra civile, e con gli orrori di quella ancora in corso? Era davvero possibile abituarsi all’assurdo della violenza, al punto da rimuoverne lo scandalo e perfino il ricordo? “Tipico esempio di arte degenerata”, non aveva esitato a classificare il film la critica, a suo tempo sulla stampa fascista. Allo stato presente delle cose, la degenerazione così tendenziosamente messa in risalto era invece diventata un dato indissolubile dalla realtà.

Quasi indovinando gli interrogativi tumultuosi dell’anarchico, il capitano riprese il suo discorso, per rispondere ad essi a suo modo e per giustificare il suo punto di vista.

– Signor Alvárez, – disse, con intonazione fatta ora suadente e insinuante – dalla sua espressione e dal suo silenzio, deduco che il mio atteggiamento nei suoi confronti può apparirle cinico, oltre che indelicato. So di trovarmi di fronte a una persona colta e sensibile. In primo luogo, non dimentichi però che io sono un militare di professione costretto a occuparsi di mansioni di polizia, le quali di norma non mi competono né mi entusiasmano. Inoltre, ho ragioni di ritenere che fossi io stesso la vittima designata del suo mancato attentato. Apprezzando quest’ultima circostanza come una presunta attenuante, lei deve convenire che sto cercando di tenderle una mano, nei limiti del possibile e dei miei compiti d’ufficio. Ciò premesso, non può negarmi il diritto di impiegare ogni argomento incruento a mia disposizione, pur di convincerla a collaborare nel reciproco interesse.

Studiatamente calcata sull’aggettivo “incruento”, la voce dell’ufficiale era suonata all’orecchio di Felìpe una larvata minaccia. Determinato per il momento a non irritarlo a vuoto, egli lo assecondò con la richiesta di una ulteriore spiegazione.

– Ammesso e non concesso che il vecchio episodio, che tanto le interessa, si sia svolto come lei lo ha descritto, – si limitò a replicare l’anarchico – continuo a non cogliere un nesso esplicito con la mia attuale condizione.

 

* * *

 

Il tedesco allungò una mano. Prese delicatamente un ritratto inserito in una cornice da tavolo, poggiata di lato sulla scrivania davanti a sé. Lo osservò per un attimo e lo ripose, posizionandolo in direzione della luce che entrava dalla finestra alle sue spalle. Il farmacista poté scorgervi di sfuggita la foto in bianco e nero di un piccolo gruppo famigliare: una donna matura, sorridente, e due ragazzi dei due sessi, di età poco differente tra loro.

– Vengo subito al dunque – rispose a sua volta il padre di famiglia – Lei non dovrebbe ignorare che l’organizzazione per cui opera attualmente, o che si è servita di lei, è capillarmente infiltrata se non interamente controllata da elementi comunisti. Durante il conflitto in corso, essi si sono rivoltati contro di noi, eseguendo direttive che provengono dall’Unione Sovietica. Ora io mi chiedo come possa ostinarsi, lei anarchico e libertario, a servire e a coprire gente che non solo ha sempre usato e tradito, denunciato e perseguitato i suoi compagni di fede politica, ma ha perfino assassinato la donna da lei amata. Perché questa è la verità: la sedicente Nadia non fu uccisa in uno scontro armato con i falangisti, come sbandierò la stampa di regime, bensì da agenti della tirannia stalinista che si tentava di imporre anche in Spagna.

– Per la stima istintiva che ho in lei, – aggiunse il graduato, dopo essersi soffermato a studiare l’effetto delle sue parole – riesco a formulare una sola ipotesi. Che abbia potuto e voluto ingannarsi a tal punto, per un motivo: la morte assurda della sua compagna ha privato di senso la sua esistenza. Soltanto ciò può dare una ragione dell’apparente gratuità di una scelta suicida, come la sua. Per l’ultima volta, da uomo a uomo: apra gli occhi, caro dottore. Rinunci a sostenerli, ritorca verso i suoi reali nemici la sua giusta rabbia e vendetta. Chissà che allora non ritrovi la voglia di rifarsi una vita o – perché no? – di mettere su famiglia, una volta terminata questa maledetta guerra...

Felìpe capì che il capitano era sul punto di finire di recitare la sua parte. Vi si era talmente infervorato, da immedesimarsi nelle sue motivazioni forse meglio di quanto non avrebbe fatto lui stesso davanti a uno specchio. Beninteso uno specchio deformante, quale può riflettere e accomunare la vittima e il suo carnefice. Una volta di più, la sequenza ossessiva del film Un cane andaluso tornò a proiettarsi nella sua mente, ma al rallentatore. La lama affilata del rasoio si avvicinò, inesorabile, all’occhio innaturalmente sbarrato. Anche questa volta, egli accusò il colpo. Eppure, lasciò che la ferita sanguinasse senza battere ciglio.

– Franchezza per franchezza, voglio esporle il mio punto di vista sulla faccenda – concluse lo spagnolo, guardando negli occhi il suo avversario – Si trattò di un malaugurato incidente, di un episodio drammatico fra i tanti di questa interminabile guerra. Sicuramente non più grave di quando gli stuka nazisti sorvolarono la cittadina spagnola di Guernìca, bombardando e massacrando la popolazione civile dall’alto, o di questa odiosa rappresaglia che lei si dichiara costretto a inscenare. Invano, perché anche questa guerra presto o tardi finirà. Non meno di me, lei ormai intuisce che la perderete. È nella logica delle cose: da parte vostra, si può tentare di ritardarla o finire per accelerarla, con decisioni come quella che si accinge a prendere. Proviamo almeno ad arginare il danno, per quanto ci è consentito. Da parte mia, le chiedo di risparmiare vittime superflue o controproducenti. A voi può essere utile un colpevole purché sia, per salvare la faccia in circostanze difficili. E io non posso che fare al caso vostro. Il resto dipende da lei e sta a lei valutarlo, fosse pure con un rischio personale.

 

* * *

 

L’ufficiale aveva ascoltato con un atteggiamento di paziente attenzione. Quando Felìpe ebbe terminato il suo discorso, egli restò sovrappensiero per un attimo. Aprì poi un tiretto della scrivania. Ne estrasse un volume, mostrandoglielo. Sul dorso della rilegatura scura, era iscritto un titolo esotico a caratteri dorati, che il farmacista poté leggere in silenzio: Bhagavad Gita. Il prigioniero credette di riconoscere il libro che aveva scorto da lontano fra le mani del capitano, durante la notte della sua veglia d’armi.

– Per caso, lei conosce questo classico dell’antica saggezza indiana?

Il farmacista fece un cenno di assenso col capo, a significare che conosceva bene il “Canto del Beato”: tale, la traduzione nelle nostre lingue. Anzi, era stato uno dei suoi testi di lettura preferiti, spunto di meditazione e di qualche consolazione nei momenti difficili della propria esistenza. E sì che le occasioni non erano mancate. Incuriosito quel tanto da non essere allarmato né da cadere in un eventuale tranello, l’anarchico non ritenne comunque per principio di dover rispondere.

– Non si preoccupi. Non ho voglia di approfondire l’argomento. Anche questo è un particolare secondario, per giunta quasi scontato – seguitò ancora il tedesco, spalancando il volume là dove era inserito un segnalibro – Ciò che desidero è semplicemente leggerle un brano significativo, che può rispondere meglio di me ai suoi interrogativi o illazioni e buoni propositi. Si tratta del passo conclusivo, in cui il Beato si rivolge al suo discepolo, incitando il nobile protagonista ad attaccare battaglia in una giusta guerra, dissipando i suoi ultimi dubbi sull’impiego della violenza in stato di necessità.

Il tono della voce era tornato ad assumere un sottofondo ironico, in particolare nel pronunciare le ultime frasi. Il nazista cominciò a leggere lentamente o, meglio, a tradurre all’impronta ad alta voce, dal momento che il testo doveva essere già tradotto e stampato in tedesco:

Valore, ardore, determinazione, destrezza, accettazione del combattimento, generosità, predisposizione al comando: sono tutte qualità proprie dei guerrieri, generate dal loro karma... Anche se, basandoti su una falsa coscienza del tuo io, tu presumi Non combatterò!, questa decisione sarà vana. La tua stessa natura ti ordinerà di combattere. O Arjuna, tu sei vincolato alle azioni derivanti dal tuo karma. Ciò che, per fraintendimento, non desideri compiere, tu lo compirai lo stesso, anche contro la tua volontà...

Io sono il Tempo, il Distruttore di mondi, l’Antico... – continuò dal canto suo Felìpe, che ricordava a memoria quasi perfettamente il brano famoso della Bhagavad Gita in questione – Anche senza di te, tutti questi guerrieri schierati in campo in breve non esisteranno più. Levati, allora, prendi la tua gloria e vinci i tuoi nemici... Da lungo tempo essi in verità sono stati già uccisi da me. Il tuo compito non è che fungere da strumento, o Arjuna.

Entrambi i contendenti fecero una pausa di riflessione, come giocatori ai lati opposti di una scacchiera che valutino la situazione e si sorveglino dopo una mossa importante, subito prima di quella decisiva. Messo apparentemente alle strette, fu di nuovo il giocatore in posizione di svantaggio a prendere la parola.

– Ammetto di essere stato a lungo tendenzialmente d’accordo – riprese il farmacista – Fatto sta che, nel nostro caso, non vedo una guerra giusta. Tanto meno, qualcosa di valoroso o generoso nella vostra condotta. Inoltre, significherebbe fare un torto al religioso e anonimo autore della Bhagavad Gita credere o fingere che questo sia l’unico esito del discorso. Desolante, oltre che pessimistico. Altra è la vera conclusione, forse attingibile a pochi. Sempre a patto, s’intende, che essa sia plausibile e praticabile.

Per la prima volta, un sorriso appena percettibile increspò le labbra sottili dell’ufficiale. Dal suo sguardo, trasparì un senso di intima soddisfazione e insieme di sincera malinconia: come se le parole del suo antagonista avessero in qualche modo confortato un suo punto di vista; ma inutilmente o troppo tardi. A conferma di ciò, tornò a sfogliare il libro e ne recitò un altro breve passo:

Ciononostante, le difficoltà maggiori sono riservate a quelli la cui mente è rivolta all’Immanifesto. La via verso di esso è infatti ardua ai mortali. Eppure, alcuni rinunciano a tutte le azioni, sacrificandole a me, attratti da me. Essi mi venerano, meditando con uno yoga che non lascia adito ad altro. Questi in verità io trarrò presto fuori dall’oceano delle ricorrenti morti, o Arjuna. A tal punto, la loro mente è immedesimata in me... Abbandona il frutto di ogni karma, e tieni a freno il tuo sé... Solo a tale rinuncia, subentrerà la pace.

 

* * *

 

– Purtroppo per noi, voglio presumere che lei convenga con me: né io né lei rientriamo nella categoria dei pochi eletti, di cui parla il “Canto del Beato” – sentenziò il capitano, con una punta di amarezza e allo stesso tempo di contenuto sarcasmo.

– È vero – replicò l’anarchico – Con il tempo e l’esperienza, mi sono andato però convincendo che è possibile aspirare a una pace su scala ridotta, magari non meno preziosa di quella esclusiva cui allude la Bhagavad Gita.

– Infatti, probabilmente è tutta qui la differenza tra me e lei. Lei comprende, anche, che non è una questione da poco.

Per la verità, lo spagnolo non ne aveva mai dubitato, sebbene si fosse illuso di far leva su dei punti in comune, più per uno scrupolo che con una fondata speranza. Tuttavia, non senza un pungente rammarico si rese ora conto di aver definitivamente fallito. Più nulla avrebbe potuto arrestare o ritardare il realizzarsi dei rispettivi karma, per dirla con un’illustre tradizione del pensiero indiano.

D’altra parte, dovette capirlo pure il suo avversario. Pronunciate le ultime parole, si alzò dalla poltroncina e voltò le spalle, accostandosi alla finestra. Aprì gli infissi e si affacciò, respirando a pieni polmoni, sporgendosi leggermente e guardando fuori. Sul quadrante di un grosso orologio, centrato sulla facciata del palazzo del municipio dirimpetto, le lunghe lancette segnavano le ore undici e venti minuti.

La piazza rettangolare sottostante era più assolata che mai, insolitamente semideserta. Dallo sbocco di una via in uno degli angoli, vi si immise una bicicletta guidata da una giovane donna. Arrivato al centro, il veicolo instabile tentennò, sbilanciandosi. La ragazza, con un fazzoletto in testa, indossava una gonna a fiorami e aveva l’aspetto di una contadina. Poggiò un piede in terra. Si fermò per un attimo, come per recuperare l’equilibrio prima di ripartire. Simultaneamente, levò il bel viso verso l’edificio del comando tedesco.

Il militare credette di scorgervi un’espressione di curiosità e di apprensione. Forse, un’oscura minaccia. Fatto sta che gli sembrò che il volto si trasfigurasse in quello di un’orribile vecchia; che l’intera scena perdesse colore all’improvviso, per trasformarsi nel negativo di una istantanea, in cui il bianco e il nero fossero scheletricamente invertiti. Istintivamente, egli appoggiò le mani sul davanzale per sostenersi, finché il malessere non fu cessato. Certo – pensò subito dopo –, si era trattato di un effetto della stanchezza per il troppo lavoro, della tensione nervosa accumulata e repressa.

Intanto, la bicicletta aveva proseguito, fino a scomparire in una via pressoché opposta a quella di provenienza. Il nazista non poté fare a meno di rilevare con un certo disagio un’altra curiosa coincidenza: la traiettoria disegnata dal veicolo aveva riprodotto fedelmente la posizione divaricata delle lancette dell’orologio di fronte. Quasi che il tempo a disposizione fosse scaduto e il suo karma stesse per compiersi. Almeno, così un “veggente” orientale avrebbe potuto interpretare quel segno.

L’ufficiale si sforzò di distrarsi e di reagire a quelli che giudicò insignificanti superstizioni, o inquietanti spunti ossessivi. “Siamo noi stessi gli autori del nostro karma”, decretò fra sé e sé, come per esorcizzare tali suggestioni. Si ritirò all’interno della stanza, cercando di evitare che trapelasse ogni possibile manifestazione di debolezza. Con i lineamenti del viso tirati, tornò a girarsi verso Felìpe, che era rimasto seduto sulla sua sedia.

– Signor Alvárez, – si rivolse a lui, con rinnovata freddezza – credo che lei sopravvaluti la mia facoltà di incidere sulla situazione. Mi spiace dover interrompere bruscamente una conversazione tanto interessante. Mi auguro, soprattutto le auguro, di poterla rinviare a una occasione migliore. Io sono tenuto a eseguire compiti e a prendere decisioni anche esecrabili, ma che rivestono particolare importanza e urgenza. Ho tentato finora di spiegarle la cosa in diversi modi, né ritengo che le fosse estranea fin dall’inizio. Adesso, non ho più tempo da dedicarle, per attendere una sua scelta. Per motivi che non mi è consentito rivelarle, mi vedo obbligato a esigere una sua precisa risposta qui e ora. Le concedo un’estrema e unica chance, per riflettere ulteriormente...

 

* * *

 

Il capitano fece un gesto inatteso e difficilmente prevedibile. Prese il carillon che Felìpe aveva portato con sé nel suo zaino e lo rigirò tra le mani, osservandolo e considerandolo. Girò la chiavetta laterale per caricarlo e poggiò di nuovo la scatola metallica davanti a sé, sul ripiano del tavolo. Ne uscirono lentamente ma inconfondibili le note dell’inno dell’Internazionale, spandendosi intorno. Questa volta fu l’anarchico a sorridere impercettibilmente, quasi che fosse realmente divertito da un gioco così intempestivo.

– Attenzione, – egli intervenne – può essere pericoloso. Quel giocattolo potrebbe anche esplodere da un momento all’altro.

– Signor Felìpe, – sorrise di rimando il militare – non penserà davvero che io creda a tutte le vecchie storie che si raccontano in giro di voi anarchici. Per maggiore sicurezza, i miei artificieri hanno ispezionato attentamente la cassetta, dopo la perquisizione del suo bagaglio.

Il farmacista obiettò mentalmente che gli incaricati non erano stati altrettanto accurati nel perquisire la sua persona. Ma si guardò bene dal palesarlo. L’ufficiale si accese una sigaretta e gliene offerse una dal suo pacchetto.

– Grazie – rispose l’altro, con ostentata gentilezza – Preferisco una delle mie. Sono più leggere. Sto cercando da tempo di smettere di fumare. Ne va della salute...

Felìpe estrasse l’ultima sigaretta della sua razione dal taschino della giacca e la inserì tra le labbra. Quanto all’ufficiale, non raccolse la battuta di spirito, giudicandola una provocazione sotto tono. Ma si premurò di accendere, con il suo accendino. Si voltò poi di nuovo e si portò discretamente verso la finestra, come per fumare con tranquillità e per lasciare allo spagnolo l’agio di concentrarsi sulla sua decisione. Beninteso, finché durasse quella detestabile musichetta del carillon.

Lo sguardo del militare tornò a dirigersi verso la piazza. Benché completamente deserta, avvicinandosi l’ora del pranzo, essa gli apparve adesso in tutta la sua quotidiana normalità. Gli sfaccendati del paese dovevano starsene rintanati nel caffè dirimpetto. Solo un vecchio cane era accucciato e sonnecchiava sotto il sole. A un tratto, esso si alzò zoppicando e mostrando una sconcertante magrezza. Si affrettò allora verso una uscita della piazza circondata da edifici, come se fosse stato destato da un brutto sogno o allarmato dal suo sesto senso.

 

* * *

 

Un colpo d’aria spostò leggermente le imposte socchiuse, facendole ruotare sui cardini verso l’interno della stanza. Sulla superficie del vetro, l’attenzione del graduato fu attratta dal riflesso di una minuscola scintilla, quasi un gioco di luce o una illusione ottica. Soltanto allora la sua mente associò quel particolare a un altro, cui non aveva fatto abbastanza caso: uno sfrigolìo alle sue spalle, appena udibile e distinguibile fra i suoni delle ultime note dell’Internazionale. Il tedesco si girò di scatto gettando via rabbiosamente la cicca della sigaretta, mentre l’altra mano correva meccanicamente alla fondina della pistola.

Quel maledetto testardo di un anarchico era sempre al suo posto e guardava fisso nel vuoto davanti a sé, con aria assente. La camicia sbottonata sul petto mostrava un involucro strettamente aderente, fissato intorno al torace con uno strato di cerotto. Ne fuoriusciva una corta miccia sfavillante. Il “dinamitero” l’aveva evidentemente accesa con il mozzicone della sua sigaretta, approfittando della momentanea distrazione del suo avversario e del fatto che le guardie ai lati della porta, distanti alle proprie spalle, non potevano scorgere ogni sua mossa.

Il nazista estrasse velocemente la sua arma, puntandola contro di lui e premendo ripetutamente il grilletto. Ma il congegno automatico si era inceppato: quasi che tutto si svolgesse, ormai, secondo un piano prestabilito a sua insaputa e danno. Sfuggito a ogni controllo o arbitrio, il karma a lungo accumulato aveva rotto gli argini e travolgeva ogni ostacolo, con una forza proporzionale all’entità del male. Quel piccolo uomo votato al sacrificio non ne era che l’inesorabile esecutore.

Al graduato non restò che gridare un ordine concitato ai soldati. Colti di sorpresa e disorientati dall’accaduto, essi avevano già spianato le mitragliette. Si erano tuttavia spostati verso gli angoli a loro più vicini del locale, per non trovarsi accidentalmente sulla traiettoria dei proiettili del loro superiore.

Ora, uno dei due esitò a far fuoco, temendo che potesse verificarsi l’inverso. Più ligio o impulsivo, l’altro eseguì l’ordine impartito. La raffica centrò Felìpe alla schiena. Questi cadde in avanti rannicchiandosi sull’esplosivo, come per ripararlo con tutte le forze da chi avesse provato a impedire la deflagrazione. Effettivamente uno dei proiettili aveva colpito, in piedi di fronte a lui, anche il capitano. Egli barcollò e si puntellò con le braccia tese sul ripiano della scrivania, continuando a urlare col fiato residuo che spegnessero quella dannata miccia. Il militare che aveva indugiato a sparare si precipitò sul farmacista, tentando invano di strapparla. Quanto al secondo, in preda al panico, preferì guadagnare l’uscita e cercare di mettersi in salvo.

Richiamati dalla confusione e dal rumore dei colpi, gli attendenti erano accorsi su dal piano inferiore, lungo la scalinata d’accesso. Videro il soldato fare pochi passi fuori della porta, quando egli fu sollevato e scaraventato da uno scoppio abbagliante. La sua sagoma volò sopra le loro teste, mentre loro stessi venivano gettati violentemente indietro sugli scalini.

Attraverso gli ingressi aperti, i radi avventori attardatisi al bar della piazza, o i clienti nella bottega del barbiere, scorsero un’intera porzione di parete staccarsi all’altezza del piano dell’edificio dov’era ubicato l’ufficio del comandante. Essa rovinò di sotto. Una pioggia di calcinacci e di oggetti deformi fu proiettata per un ampio raggio sul selciato. Nello stesso istante, i vetri dei negozi e delle finestre circostanti andavano in frantumi per lo spostamento d’aria.

Chiunque, cui fosse toccato in seguito l’ingrato compito di rovistare fra le macerie, per ricomporre pietosamente i corpi, avrebbe stentato non poco a distinguerli uno dall’altro e a identificarli. Ciò sarebbe stato quasi impossibile, se non fosse stato per pochi brandelli di divise o di abiti civili, che ne facilitavano il riconoscimento. Levando lo sguardo verso lo squarcio nella facciata della sede del comando tedesco, volgendolo poi verso l’orologio del municipio di fronte, quel qualcuno avrebbe potuto inoltre accorgersi che le lancette, bloccate dall’onda d’urto, segnavano ancora l’orario dell’esplosione: le undici e venticinque.

 

Copyright [email protected], revisionato nel 2008

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