Pino Blasone

 

 

Antigone e la Sfinge

Fra letteratura e psicoanalisi

 

 

Un mostro dal volto umano

 

All’incirca come in filosofia la metafisica, così lungo il percorso intrapreso dalla psicoanalisi fin dai suoi inizi si sviluppa una «metapsicologia». Al di là del senso dato al termine da Sigmund Freud, o dell’auto-ironico appellativo di «strega» di cui egli la gratifica, essa è fatta di tesi che trascendono il dato empirico, pur mantenendolo quale riferimento più o meno costante. E’ difficile che una nuova pratica rinunci a essere sostenuta o giustificata dalla teoria, anche da quella da cui intende prendere le distanze. Capita qua e là di leggere Freud, che cita Schelling e Von Hartmann, Schopenhauer e Nietzsche o Immanuel Kant. Interessante in merito è il parallelo, che il primo stabilisce tra inconscio e coscienza da una parte, fenomeno e «noumeno» dall’altra:

 

L’ipotesi psicoanalitica di un’attività psichica inconscia ci appare, da un lato, come un ulteriore sviluppo dell’animismo primitivo che ci induceva a ravvisare per ogni dove immagini speculari della nostra stessa coscienza, e d’altro lato come la prosecuzione della rettifica operata da Kant a proposito delle nostre vedute sulla percezione esterna. Come Kant ci ha messo in guardia contro il duplice errore di trascurare il condizionamento soggettivo della nostra percezione e di identificare quest’ultima con il suo oggetto inconoscibile, così la psicoanalisi ci avverte che non è lecito porre la percezione della coscienza al posto del processo psichico inconscio che ne è l’oggetto.[1]

 

Il passo rammenta una particolare lettura che di Kant dà Arthur Schopenhauer, nel Saggio sulla visione degli spiriti, incluso nei Parerga e paralipomena. Da un punto di vista freudiano, Jung era comunque incorso in un eccesso del genere. In Sulle due forme del pensare, capitolo di La libido, simboli e trasformazioni, pensiero simbolico o mitopoietico e «pensiero verbale» sono considerati tappe del processo evolutivo dell’umanità. Esse si riflettono e coesistono nell’individuo, quale vissuto onirico o tendenza a fantasticare, e come condotta razionale o presunta tale. La teoria si avvale di esempi discutibili, attestanti un grado di inferiorità di chi adotti il primo di questi comportamenti in maniera anacronistica. Ciò non toglie che il mito sia equiparato a un sogno collettivo. E a esso si riconosce la dignità di una forma aurorale di pensiero.

Non è qui il luogo per approfondire una questione, che riguarda la natura stessa del pensare, e che coinvolge la critica di una sua tradizione «logo-centrica». Basti rimarcare che l’autore si rifà sia a Freud sia a Nietzsche, e il sottotitolo dell’opera: Contributi alla storia dell’evoluzione del pensiero. L’arbitrato della razionalità è pur sempre riservato al terapeuta, che si fa mediatore della apparente illogicità del linguaggio simbolico. Il paragone implicito con le figure di Edipo e della Sfinge riaffiora in particolare, quando si ha a che fare con un contenuto onirico: «il demone parla a coloro che dormono in un linguaggio simbolico, e l’interprete dei sogni deve sciogliere l’enigma».

Resta il paradosso che la razionalità affonda radici nell’«intima affinità della psicologia del sogno con quella del mito».[2] Questo porterà Jung a una posizione, che sarà fra i motivi di rottura con Freud. Cioè, a riguardare i simboli in questione quali epifanie di archetipi dell’inconscio collettivo. Essi sarebbero modi di rappresentarsi di qualcosa di inesprimibile in termini razionali. E formerebbero un sistema atemporale di modelli imaginali, in cui rispecchiarsi e con cui confrontarsi. Per la verità, esso risulta simmetrico con l’ordine significante, poi teorizzato dal freudiano critico Lacan. Fatto sta che il secondo non può mai tradurre interamente il primo, adattandolo a tempi, luoghi e circostanze. Anzi, rischia sovente di deformarlo o di fraintenderlo.

La sequenza mitica Sfinge, Edipo e Antigone, ben illustra tale tensione e transizione. In termini junghiani, la prima e l’ultima rappresentano rispettivamente l’Ombra e l’Anima di Edipo. Ma l’eccezionalità della Sfinge sta nell’essere un simbolo dal sembiante umano. «Inter-faccia» tra significati e significanti, quel volto è pur figurazione di un’eccedenza di senso. Essa è propedeutica, rispetto al personaggio di Edipo e alla «persona virtuale» che Antigone interpreta. Assistiamo a un processo di antropizzazione dell’inconscio, se non di autocoscienza di una civiltà. Quanto meno, si può ben supporre che l’inconscio si articoli attraverso immagini simboliche e personaggi, con la meta dell’individuazione personale. Ciò non esclude che esso cresca tramite la repressione di pulsioni inconsce o la rimozione di dati della coscienza individuale, come vuole Freud.

Il Freud più maturo – quello della  «seconda topica» dell’inconscio – è indotto ad ammettere l’esistenza di un Es o Id, struttura profonda dell’Io con spiccati caratteri inter-personali. Se volessimo inquadrare Antigone tra Jung e Freud, saremmo tentati di giudicarla un personaggio conteso fra istanze dell’inconscio collettivo e quelle del Super-io, espressione normativa delle convenzioni sociali o – piuttosto, nel caso esemplare – di una falsa coscienza impositiva delle stesse (l’«inconscio sociale» di Fromm è tentativo di conciliare le due concezioni). Benché vezzeggiasse la figlia Anna come «Antigone», Freud reputava questo Super-io un male necessario del progresso civile, da introiettare e integrare nella personalità. Con intenti simili a quelli di Hegel, egli era quasi un Creonte «al di là del principio del piacere», diviso e conteso fra cura e indulgenza.

Conviene dunque rivedere il paragone kantiano di Freud, da un’angolatura logico-filosofica. Se l’inconscio è una struttura, la quale condiziona la coscienza della realtà in maniera che essa risulti anche in minima parte fenomenica, è pur necessario che quest’inconscio contenga categorie – nello specifico, dire «mentali» è un’estensione – comuni ai singoli soggetti. Altrimenti, avremmo da un lato una coscienza del tutto soggettiva. D’altro canto, l’assurdo di un doppio «noumeno»: il primo, costituito da una realtà esterna inconoscibile nella sua oggettività; il secondo, dall’inconscio stesso, inconoscibile fino in fondo per antonomasia e per carenza di termini di confronto.

Tale impossibile ubiquità dell’inconscio trasformerebbe la metapsicologia di nuovo in una metafisica, a dispetto della critica al concetto di inconscio naturale in Schelling, da cui Freud era partito nell’Interpretazione dei sogni. La rimozione della figura della Sfinge, la stessa soluzione del suo enigma, rischiano di essere una sorta di regressus ad infinitum. Questa sconcertante consapevolezza, Antigone ha ereditato da Edipo. «E nessuno sa d’onde mai venga alla luce», riconosce l’eroina di Sofocle della sua legge etica «che sempre è stata e sempre sarà»[3], incalzata da un Creonte sorprendentemente simile ai veri giudici i quali presto processeranno Socrate. Del resto, il dibattito sulle leggi «non scritte» e «conformi alla natura» era di attualità. In questi termini, esse compaiono in un trattato Sulla legge e sulla giustizia attribuito al pitagorico Archita.

La contingenza di leggi civili, suscettibili di difendere interessi di parte, è un argomento sostenuto in ambito sofistico. Memore di Antigone, Aristotele nell’Etica Nicomachea distinguerà fra diritto naturale, di portata universale, e diritto delle leggi particolari nei singoli Stati. All’epoca, è da rammentare che la nozione di Stato coincideva con quella di polis, la città greca. La distinzione aristotelica rientra nella complessa contraddizione tra polis e physis, in senso lato fra politica e natura. La moderna interpretazione hegeliana fa dell’Antigone di Sofocle un episodio riflesso di tale transizione. Essa suona alquanto riduttiva dell’intera questione, in termini razionalistici. Inoltre, l’eroina non si scontra con un diritto positivo bensì con un perdurante diritto di guerra. Né Aristotele indirettamente, né Hegel direttamente, sembrano poi tenere in gran conto un risultato importante: l’«auto-nomia» personale di Antigone, che scaturisce proprio da quella dialettica.

 

Prima e dopo Edipo

 

Non senza approssimazione, possiamo mettere le suddette «due forme del pensare» in relazione rispettivamente con un linguaggio semiotico e con uno semantico. In quanto sintesi figurale e vocale, la polisemica Sfinge cova in sé almeno un semantema, quello dell’enigma. Il mistero di chi dice, la comprensione di quel che dice, è il primo ostacolo da superare nella nostra «in-fanzia». Nella storia della psicoanalisi, in particolare Julia Kristeva è attenta alla distinzione fra comunicazione semiotica e semantica. La sua «semanalisi» si presenta arricchita della significanza di un’esperienza semiotica del mondo, di cui la psiche femminile sarebbe depositaria privilegiata. Essa viene filtrata all’interno dell’orizzonte semantico, in forme sequenziali soprattutto simbolico-letterarie, là dove rappresentazione e descrizione si integrano. In termini freudiani, lo stadio pre-edipico recupera un’incidenza post-edipica, nello sviluppo della personalità e della cultura.

Merita di essere ripresa un’osservazione pertinente, di ascendente marxiano. Al di là della crisi edipica, Luisa Muraro rivaluta il legame che si rafforza con la madre, mediatrice del linguaggio. D’altronde, nel saggio L’ordine simbolico della madre, si mette in guardia da un risvolto regressivo.[4] Nelle società consumistiche, forma secondaria di comunicazione semiotica si può considerare l’astrazione simbolica della circolazione del denaro. Non di rado essa esercita un’azione riduttiva sul potenziale semantico del linguaggio, relegandolo a un livello subordinato, anziché favorirne l’autonomia creativa come nei voti dell’ottimismo liberista. Esempio di impostura materna, la Sfinge della pubblicità non si esprime più in maniera enigmatica, bensì subliminale ed equivoca. Trappola tesa a intercettare il desiderio, per convogliarlo verso i feticci del mercato.

Se ci si emancipa dal condizionamento edipico, nondimeno il desiderio espone a nuovi rischi. Già fra gli anni Settanta e Ottanta, in Francia un polemico Jean Baudrillard prendeva di mira quest’inconscio, adescato dalla produzione industriale e dai suoi miti strumentali. Fosse pure tra grande madre e padreterno, ecco che la differenza si fa relativa, prossima alla confusione dell’indifferenza. Significanti disancorati dai propri significati, i simboli degenerano in simulacri, con effetti collaterali imprevedibili. In un mondo in procinto di essere globalizzato, eppure socialmente e culturalmente differenziato, c’è un’eventualità che si rivoltino contro chi ne faccia incauto uso o abuso. Nel 1980, in Poteri dell'orrore. Saggio sull'abiezione, la Kristeva rivisitava e rettificava l’interpretazione lacaniana dei personaggi di Edipo e di Antigone.

Per certi versi, le due analisi collimano. Se la psicologa insiste sull’orrore e sull’abiezione retaggio del passato, il sociologo denuncia l’«oscenità» della seduzione simbolica nel presente e l’ingannevole «estasi» – della comunicazione – che essa induce. Gli elementi enucleati dalla prima e dal secondo autore entrano a far parte di uno scenario poco rassicurante. Essi possono formare una miscela esplosiva, per il futuro imminente. Nella scia della Kristeva, in Madri, mostri e macchine a sua volta Rosi Braidotti ha illuminato quel filo sottile, che – rapportato al nostro discorso – collega sia Edipo sia Antigone all’immagine teratomorfa della Sfinge. Qualche suggestione del pensiero di Giorgio Agamben, in particolare nel saggio Homo sacer, è pure rinvenibile nel seguente passo:

 

…l’abietto emerge dalla zona grigia che si trova negli interstizi dell’ibrido, dell’ambiguo. Il mostruoso, o il deviante, è figura dell’abiezione in quanto oltrepassa e trasgredisce i confini con le norme riconoscibili o le definizioni date. Non a caso l’abietto si colloca nelle vicinanze del sacro, perché esso contiene un’ambivalenza costitutiva in cui vita e morte appaiono riconciliate. […] La nozione del sacro si produce proprio da questo miscuglio di fascinazione e orrore che muove un intenso gioco dell’immaginario, fantasie e spesso incubi sui confini sempre mobili tra vita e morte, giorno e notte, maschile e femminile...[5]

 

Si tratta però di chiarire quale sia l’origine psicologica di un atteggiamento mentale incline a rappresentarsi l’ibrido o l’ambiguo, ragione per cui rientra nella categoria dell’abietto quanto non conforme con un ideale precostituito. In proposito, possono essere di aiuto le osservazioni di Freud sul meccanismo inconscio della «rimozione». Esso viene messo a confronto con l’«idealizzazione», che da quella si genera per contrasto e che le si contrappone. In altre parole, l’abiezione che si attribuisce ad altri deriva non di rado da un’intima ambiguità, che si vuol celare innanzitutto a se stessi. Il criterio ideale che si accetta di professare – ad esempio, di una razza pura o di una vera fede – è allora facile dissimulazione del sentimento di una propria anomalia o insufficienza.

Talora, la seduzione e abiezione della Sfinge si fa esplicitamente erotica. Essa incontra in genere una resistenza e una repulsa, da parte di un Edipo accorto o virtuoso. Così accade nel dramma La macchina infernale di Jean Cocteau. Fantasie simili traspaiono nella smaliziata iconografia classicistica sul tema. Un alone perverso avvolge la sacerdotessa-sfinge, in La morte della Pizia di Dürrenmatt. Quanto a Freud, egli collega il noto enigma alle nostre prime curiosità sessuali sulla riproduzione. Si può reputare ciò il portato di una mentalità moderna. Ma l’opinione è errata. In bilico fra oscenità e moralismo, una smentita si rinviene in una divagazione misogina del greco Eubulo, frammento di commedia del quarto secolo a. C.. E’ appena da notare che qui la sorte di Edipo è giudicata migliore di quella di quanti, non avendo saputo decifrarne le trappole verbali, nel mito originale erano rimasti vittime della Sfinge:

 

Le prostitute meritano l’epiteto di Sfinge tebana. Esse infatti non balbettano in un linguaggio ordinario, bensì per indovinelli, circa come fare l’amore e scambiare baci nei loro convegni. Ecco una che dice: «Fammi avere un letto o una poltrona a quattro zampe». E un’altra: «Facciamo un bel treppiede». E un’altra ancora: «Meglio, una ragazza su due gambe». Chi intende tali equivoci si affretta a districarsi e si salva. Sia pure a malincuore, così fece il solo Edipo. Altri uomini invece, soggiogati dall’aspettativa di chissà quali piaceri o amori, ben presto vengono mandati in rovina.[6]

 

Per la verità e nonostante il suo vanto, nell’attualizzazione ironica di Cocteau uno sprovveduto Edipo non riesce a risolvere nemmeno il noto indovinello. La sua incapacità di lasciarsi sedurre, una certa noia di uccidere da parte di lei, fanno sì che l’assassina indulga al fascino efebico di lui. Per la prima volta, il simbolo cede il posto al personaggio e comincia a provare sentimenti. Anzi, si scinde in personaggi: l’umana Signorina, l’animalesco Anubi, la divina Nemesi. In pratica, l’espediente facilita la messa in scena della Sfinge. Ma la sua identità multipla resta ancorata alle oscure potenze che la governano. Al determinismo del fato succede il condizionamento dell’inconscio. Dal punto di vista psicologico, agli aspetti paranoici si sommano tendenze schizoidi. La vittoria strappata da Edipo è inficiata da una cronica difficoltà di amare.

Nel corpo della Sfinge, l’idealizzazione etico-estetica si concentra nelle fattezze umane. L’abiezione investe le «parti basse». Di leonessa o di cagna che siano, a seconda degli autori, esse prefigurano la repulsione per l’incesto. E’ altresì chiaro che si è verificata una scissione fra attrazione e repulsione circa l’immagine femminile, sia quella materna sia quella che per traslazione viene a proiettarsi sul soggetto del partner. Ne derivano suggerimenti per la psicoterapia, nei casi in cui la repulsione prevalga sull’attrazione, o nell’anamnesi dell’omofilia. Di recente, il romanzo Sphinx della francese Anne F. Garréta riconduce la simbologia della Sfinge alla problematica dell’identità sessuale. Ma gli effetti della latente dicotomia si ripercuotono sulla storia della società e della cultura. L’idealizzazione di una figura femminile comporta la proiezione simmetrica di un opposto negativo, o viceversa (si pensi alla discutibile tipologia junghiana della «donna-sfinge»).

Non difettano esempi. Nell’autobiografia latina, l’esaltazione della madre Monica da parte di Aurelio Agostino stride con la rimozione dell’immagine della donna amata. Nella letteratura italiana Silvia e Aspasia di Giacomo Leopardi, Lucia e Gertrude nel romanzo I promessi sposi di Alessandro Manzoni, sono personaggi scissi o contrapposti. La Beatrice di Dante e la Laura di Petrarca erano talmente idealizzate, da non potersi sottrarre a una morte precoce, così come per Silvia di Leopardi, per Sophie di Novalis o per l’Antigone di Hölderlin. Più di rado, un processo di sdoppiamento e di sostituzione si ha per la figura maschile. Antigone era stata indotta a rivalutare Edipo, non senza validi motivi svalutando Creonte: padre autorevole, l’uno; zio autoritario, l’altro.

Allora, ci si può chiedere perché mai personalità come quella di Antigone sarebbero più di altre predisposte a recepire il richiamo empatico dell’alterità, sia pure entro certi limiti imposti dalle convenzioni o dalle convenienze. In Marx e Freud, la risposta che formula Erich Fromm è poco più di una constatazione. Ma ha il pregio di fondarsi su un’analisi dell’inconscio, che si propone quale mediatrice fra le concezioni in apparenza inconciliabili di Freud e di Jung, in particolare del Super-io e dell’inconscio collettivo. Purtroppo, sappiamo come di solito la consapevolezza di cui parla Fromm sia propensa a rimuovere se stessa, tanto più quanto più si allontanano le condizioni che l’hanno favorita. Se non altro, intanto essa ha svolto un suo compito e ha lasciato un messaggio:

 

Antigone sacrifica la vita per difendere la legge umana (naturale) universale contro la legge dello Stato. […] Il figlio di un padre autoritario, ribellatosi all’autorità paterna senza esserne annientato, sarà meglio preparato a penetrare le razionalizzazioni sociali e a divenire consapevole di quella realtà sociale che, per i più, è inconscia. Allo stesso modo, i componenti di minoranze sociali, religiose o razziali, che abbiano subito una discriminazione da parte della maggioranza, con tutta probabilità avranno spesso un atteggiamento scettico nei confronti di certi luoghi comuni della società.[7]

 

Alienità e alterità, abiezione e sublimazione, semiotico e semantico, impersonale e personale: sono tutte polarità, compatibili con la relazione tra la Sfinge e Antigone. Esse esprimono una tensione già sottesa all’intera trilogia tebana, che attraversa il personaggio centrale di Edipo. Ma un paradosso comprende ogni possibile antitesi e sussiste al di là dell’opera sofoclea. Quanto più il simbolo della Sfinge si configura quale significante svuotato di significati, tanto più ne deriva un surplus di senso, che si riflette sulla persona virtuale di Antigone. Nulla può incutere maggiore disagio, che un significante privo di significato. L’aspetto «perturbante» della Sfinge è speculare, benché attendibilmente inverso, rispetto all’«inquietante» rappresentato da Antigone. Le «leggi non scritte» invocate dall’eroina non rivestono più molto significato, per i suoi concittadini. Proprio per ciò, avanzano una richiesta di rifondazione del senso esistenziale, individuale e collettivo.

D’altronde, è pur vero che la Sfinge cerca di riversare su chi la affronta un dissimulato sentore della propria incipiente insignificanza. Lungi dall’essere un dettaglio, vedremo qui appresso come il fulcro dell’enigma da lei erogato a Edipo sia proprio quel «solo nome» o quella «sola voce», attribuita all’uomo quale fattore di precaria coesione. E’ il tentativo di ridurre l’essere umano a una maschera parlante senza volto, il che è invece un «terribile» carattere impersonale della Sfinge, portavoce di un senso originario a corto di significati. Il simulacro che si suicida gettandosi nel vuoto dalla sua rupe, senza ricorrere ad ali ormai superflue, è già dissanguato di ogni significato dalla dissacrazione operata da un Edipo, fattosi ancor «più terribile» nella sua innocua empietà. La «caduta della Sfinge» presagisce altre crescenti derive di significanti.

Una deriva di queste sommerge e travolge la protagonista del racconto La morte della Pizia, di Friedrich Dürrenmatt. L’anziana sibilla di Delfi è responsabile degli oracoli che hanno segnato la vita di Edipo. Ma la Pizia già da molto non crede più nei suoi responsi. Seguita a emetterli in formule involute per forza d’inerzia e per tornaconto, speculando sull’ingenuità o sulle aspettative dei postulanti, approfittando dell’alone di mistero e di reverenza che la circonda. Ciò, fino a quando la vista del risultato cui ella ha concorso insinua un dubbio nel suo animo, di essere a sua volta ignaro strumento di un cinico destino. Tale momento di debolezza è un lusso che la Pizia non può permettersi. E’ l’inizio di un pirandelliano delirio, che presto farà di lei stessa una matura vittima:

 

…scoppiò a ridere, e la sua risata diventò immensa, incommensurabile. Dopo che il cieco se n’era andato zoppicando con la figlia Antigone già da un bel po’, lei stava ancora ridendo. Eppure, come di colpo era scoppiata a ridere, così di colpo la Pizia ammutolì, quando le venne in mente che non tutto ciò che era accaduto poteva essere considerato frutto del caso.[8]

 

Differenza o indifferenza

 

Altro postulato risalente a Freud e al primo Jung è che «il segreto dello sviluppo culturale è la mobilità della libido e la sua capacità di spostarsi», con tutti gli inconvenienti che questa sublimazione comporta.[9] Ma il tabù dell’incesto e il complesso di Edipo, ormai, vedono ridimensionato il loro ruolo. La figura paterna è un padre immaginario, foucaultiana casella vuota schiusa sullo sfondo: tanto più insidiosa, in quanto vi si può affacciare un qualsiasi surrogato autoritario. In compenso, il movente del desiderio si esplica più liberamente. Né esso è inteso a senso unico. Valga, in merito, quanto altrimenti sottolineato da Francesca Brezzi: «Antigone esce dai limiti dell’essenzialismo ontologico della differenza sessuale».[10] Ciò richiede un’Antigone, per cui il philos non si applichi al solo genos, coerente col nesso da lei invocato tra legge e diritto.

Tale esigenza non si pone da oggi, rammenta nel suo lavoro su Antigone la Brezzi, citando un apologo da La città di Dio di Agostino. Al posto della guerra fra Tebe e Argo, abbiamo quella tra Roma e Albalonga, una delle tante di cui si serba notizia. Malgrado i legami affettivi tra i rispettivi cittadini, in breve le due città latine divennero nemiche: «Si tratta di una guerra più che civile, quando la città figlia si rivolta contro la città madre. […] Quando costei vede le spoglie del fidanzato portate dal fratello vincitore, piange e viene perciò uccisa dal fratello. Questa donna da sola, secondo me, ha più umanità che il popolo romano intero».[11] Per il suo piangere il promesso sposo anziché un fratello, più che ad Antigone questa romana Camilla della leggenda somiglia al solidale personaggio di Argia, nel poema epico Tebaide del latino Papinio Stazio.

La morale di Agostino è però chiara: nel momento della verità, ci si può mettere contro la propria stirpe, ristretta o allargata che sia. Nello spazio concesso al libero arbitrio, una scelta singolare può avere più valore di una collettiva. Tornando al mito tebano, è da aggiunge quel che il teologo qui non esplicita, ma che è conquista di una nuova etica. Edipo non è colpevole, in quanto assassino accidentale del padre. Lo è, per aver ucciso lo straniero che gli contendeva il passo. Perfino la Sfinge perde il suo alone enigmatico, per farsi eco di un rimorso. Già nel diritto romano, a volte il termine parricidium indicava l’uccisione di ogni cittadino libero. Non si sa mai fino in fondo chi si uccide. Non c’è «arma intelligente» che possa segnalarlo. Un «danno collaterale» è sempre quello di finire per colpire se stessi. E questo volto non può essere ignorato né accecato.

Dopo aver incrociato lo sguardo della Sfinge, l’Edipo neo-ellenico del poeta Konstantinos Kavafis comprende che la sua non sarà solo la prima vittoria non-violenta della ragione umana. Né ciò che gli si spalanca davanti è tanto l’incognita di una Natura profanata, quanto i biblici abissi della «coscienza del bene e del male» e della vanitas vanitatum. La carenza di essere che questa comporta è conseguente alla percezione della coscienza, quale causa o effetto dell’esclusione da uno stato di grazia edenico. In tal senso non avrà torto il filosofo francese Deleuze, nei Dialogues con Claire Parnet, a definire quella di Edipo «l’unica tragedia semitica dei greci». Nel novero delle culture semitiche contemporanee, neppure è un caso che emergono opere di teatro arabo quali Al-malik Udib («Il re Edipo») dell’egiziano Tawfiq al-Hakim e Qadmus del libanese Sa‛id ‛Aql. Ma traduciamo qui di seguito gli ultimi versi della lirica Edipo di Kavafis, composta nel 1896:

 

Non c’è gioia in questa vittoria./ Il suo sguardo malinconico/ già si distoglie dalla Sfinge./ Esso si dirige lontano,/ sulla strada che porta a Tebe/ e si restringe fino a Colono./ Nella sua mente, è ormai chiaro,/ la Sfinge gli parlerà di nuovo./ Saranno enigmi più profondi,/ insondabili e senza risposta.[12]

 

Certo, la via che Agostino aveva in mente non va da Corinto a Tebe, né finisce a Colono. Essa scende da Gerico a Gerusalemme e risale fino a Emmaus, là dove l’altro e l’altrove si incontrano. Qui non ci sono mostri. Tutt’al più, qualche miracolo da interpretare. Per quel che ci compete, vi compaiono le figure dell’alterità e dell’alienità, che concorrono a una ristrutturazione del sé. Nel te ipsum agostiniano, l’orientamento verso l’altro corregge l’auto-referenzialità del seauton socratico. Parafrasando Michel Foucault, mutano le Tecnologie del sé. Tanto non significa che orrore e abiezione scompaiono dalla scena. Si camuffano nel linguaggio, pronti a riproporsi nel reale, anche in una società laicizzata. In particolare nelle lingue neo-latine, matura la differenza intensiva fra «personaggio» e «persona». Ma allo schiavo, al nemico e al barbaro, subentrano o si sovrappongono quanti non condividono la propria fede, cultura, etnia, ideologia o genere.

A suo tempo e luogo, a ciascuno di essi viene assegnata una specifica definizione e una collocazione subalterna. Qualora non vi si adegui, di nuovo la tolleranza cede alle tentazioni dell’ostilità da combattere o di una minaccia da prevenire. L’invidia dell’immanente o la gelosia del trascendente possono ben fornire ulteriori motivazioni. Le differenze ne escono compresse tra discriminazione e indifferenza. Rispetto a Edipo, occorre un interprete in grado di mettersi in discussione e di ricomporre i significanti con i significati attuali, magari tenendo d’occhio quell’estremo oltre cui la differenza collassa nell’indifferenza. In tal caso, l’altro da sé torna a essere non un soggetto ma un oggetto fra tanti, nella deriva delle informazioni e delle merci.

Nel suo rapporto simbiotico con le scienze umane, in particolare quella francese della seconda metà del Novecento è stata una filosofia più coerente di quanto possa sembrare. Le diverse posizioni di vari autori ruotavano intorno ad alcuni temi, che si sono poi rivelati le ossessioni del nostro tempo. In L’altro visto da sé, Baudrillard fornisce argomenti persuasivi di un recente paradosso. In altri termini, si invita l’interprete a rendere a una Sfinge – la quale, intanto, si è riciclata da suggestione medianica in condizionamento mediatico – ciò che fin dal suo primo apparire le appartiene. Lo scrupolo è di preservare proprio quella tensione, che la Braidotti definisce «intreccio di curiosità e di tabù», e che per lei circonda ogni proiezione materna originaria:

 

…si perde il sogno di una trasgressione, di una sovversione possibile dei codici, si perde la nostalgia di un ordine simbolico quale che sia, giunto dal fondo delle società primitive o dalla nostra alienazione storica. […] E’ un’altra concatenazione che è determinante, non più quella dell’ordine simbolico (che è quella di un soggetto e di un discorso), ma quella, puramente arbitraria, di una regola del gioco. […] Sempre più cose sono cadute nell’abisso del senso e sempre meno hanno mantenuto il fascino dell’apparenza. C’è qualcosa di segreto nelle apparenze, proprio perché non si prestano all’interpretazione. Restano insolubili e indecifrabili.[13]

 

Solo un nome, anzi una voce

 

Grazie non solo a Freud, tra Ottocento e Novecento la Sfinge torna di moda. E’ il caso dei drammi La Esfinge, di Miguel de Unamuno, e Oidipus und die Sphinx, di Hugo von Hoffmansthal. Pur condividendo con Freud l’interpretazione di una figura materna virata al negativo, supplente di un padre punitore o vendicativo, Jung non esiterà a identificare la Sfinge con l’Ombra, la quale «appare all’inizio della via che conduce all’individuazione, e pone il facile ma ambiguo enigma della Sfinge».[14] S’intende, individuazione del proprio autonomo, per quanto possibile autentico sé. Per Jung, si tratta di una proiezione conflittuale dell’inconscio, ma incentivante della coscienza personale. In Simboli della trasformazione, egli non cela una sua ammirazione per la complessità di un’immagine archetipica, la quale si mostra ironica verso il soggetto interpretante: «[Edipo] ignorava che l’intelligenza dell’uomo non è mai all’altezza dell’enigma della Sfinge».[15]

Più semplicemente, per Freud la Sfinge evoca angoscia ed effetti del complesso edipico. Ai piedi del sofà sulla parete di fronte, nel suo studio c’era un dipinto di Edipo con la Sfinge. Uno analogo fu donato a un paziente da Freud. Un ex libris a lui dedicato riporta lo stesso tema, disegnato in stile Liberty da Luigi Kasimir. Per i cinquant’anni del maestro, il suo gruppo gli regalò una medaglia con la medesima effigie. Sappiamo come egli si compiacesse di identificarsi nel mitico interprete. Ma a stimolare risposte sarà il terapeuta, seduto alle spalle del paziente steso sul lettino. Si suppone che quest’ultimo, investito dalla sua ombra e dalla sua voce, identificasse la Sfinge piuttosto nello psicoanalista. Scene come questa rammentano l’importanza, che quel simbolo ha rivestito nella psicoanalisi. D’altro canto, confermano l’ambiguo potenziale di cui esso è latore.[16]

Nell’intento di chiarire la natura di tale ambiguità, si può azzardare qualche osservazione, che non sarebbe spiaciuta a Ludwig Binswanger. Discreto amico sia di Jung sia di Freud fu presentato dal primo al secondo , meglio di altri lo psichiatra svizzero impersona un’apertura della psicoanalisi alla filosofia del Novecento. In particolare egli fa capo alla fenomenologia e all’esistenzialismo tedeschi, tanto da denominare la sua ricezione della psicoanalisi Daseinsanalyse: alla lettera, «analisi dell’esserci» (si confronti con la definizione «psicoanalisi esistenzialista», in Essere e nulla di Jean-Paul Sartre). Il titolo di un’opera del 1930, Sogno ed esistenza, di per sé denota il duplice interesse e segue di poco la pubblicazione di Essere e tempo di Martin Heidegger.

In un’ottica heideggeriana, il pensiero non è tanto la massima sublimazione della libido, quanto piuttosto è il senso riflesso dell’essere nel mondo. Ma è anche affacciarsi e ritrarsi dall’idea dell’esito, coscienza rimossa di un «essere per la morte» (lo stesso ordine simbolico, sosterrà Foucault in Le parole e le cose, è orientato da tale evento). Non c’è poi molta distanza, fra questa teoria e quella freudiana di Eros e Thanatos. E’ quanto basterebbe, per gettare un ponte fra psicologia e ontologia. La contaminazione verrà tuttavia rigettata da Freud, che si definirà un rivoluzionario rispetto al conservatore Binswanger. Diversamente che in casi analoghi, l’amicizia epistolare con lui durerà però a lungo. Ciò è indicativo dei ripensamenti dell’ultimo Freud.[17]

Non sembri fuori luogo qui un quesito. Che cosa distingue la Sfinge da Edipo, al punto da provocarle irrisione e insieme gelosia nei confronti di lui? Potrebbe essere l’umana presunzione della prerogativa di un logos, rispetto alla mera phonê attribuita alla Sfinge (secondo un’aggiunta al mito, lo stesso enigma sarebbe suggerito dalle divine Muse). Potrebbero essere le sue ali, che un frammento residuo dell’Edipo di Euripide descrive come splendidamente screziate; esse connotano un’origine animistica e lasciano supporre un senso di superiorità, nei riguardi dell’anima «pedestre» di chi le sta davanti. Può essere il volto, che mima una componente umanoide, a fronte della piena umanità dell’interlocutore. Può essere la femminilità della vergine sacra, in cui l’incontro rivelatore – scherzando sulla nota teoria di Freud – dovrebbe insinuare un’ambigua «invidia del pene». O si tratta di qualcosa di più elementare, in relazione all’immaginario corporeo?

In base all’indovinello sottoposto a Edipo, è da notare che questa forma del corpo calata nello spazio e nel tempo è un’idea fissa se non l’unica della Sfinge. Essa è consustanziale con l’enigma: «Qual è l’essere vivente con un solo nome, che al mattino cammina con quattro piedi, a mezzogiorno con due, alla sera con tre?». In più drastiche tradizioni, la coesione dell’io umano è resa da «una sola voce».[18] Un nome, in fondo, non è che un’emissione di voce reiterata e uniforme. Fallica o meno che sia, di per sé una tale unità appare ben fragile, per scatenare la furia castrante della Sfinge. Ma ribaltiamo la prospettiva. Il mostro antropomorfo è lui stesso senza scampo quadrupede (in greco, tetrapous), relegato nel mattino dell’infanzia del mondo e in una vacua immortalità, salvo il por fine al suo giorno ripetitivo con un gesto dettato dalla disdetta.

L’angoscia della «strangolatrice» è contagiosa e soffocante (Angst, anguish, angustiae, angina, sono parole in lingue europee, che condividono la stessa radice verbale). La favola riflette il momento del distacco, in cui la Natura con i suoi ritmi è venuta a noia. L’uomo è ansioso di cimentarsi con una sua Storia, a rischio dell’infelicità della coscienza. La Sfinge lo intuisce e cerca di sminuire il bipede (dipous) di fronte a se stesso, per scoraggiarlo dal compiere il passo. A lui viene così ricordato il limite estremo (comunque si interpreti quel tripous: si pensi, in particolare, a un «malizioso» Lacan), che non gli è consentito trascendere se non riproducendosi. La punizione di Edipo sarà che il congegno della riproduzione si avvita su se stesso, bloccandolo all’interno di un circolo vizioso. Un supplizio morale, quasi peggiore della ieratica sterilità della Sfinge.

Disgustata degli uomini, ma infatuata di Edipo: grossomodo, tale è l’interpretazione novecentesca in La morte della Pizia di Dürrenmatt e in La machine infernale di Cocteau, che non faceva peraltro mistero di aver subito l’affetto di una madre possessiva. Antropomorfa oppure antropofaga, ciò che in effetti la «cantatrice» teme e insidia è proprio l’incerto equilibrio di Edipo. Questo gli permette a oltranza di separarsi dal seno di lei e di ergersi fra terra e cielo, avventurandosi nel mondo, anzi strutturando un mondo lungo il suo cammino. Di qualsiasi sesso fossero, i mostri di una volta non possedevano un senso creativo dell’equilibrio e dell’orientamento. Essi erano vincolati a un tempo ricorrente, a uno spazio che muta di conseguenza. Fatti per aderire alla terra o per volare alto, fiutando il vento al di sopra del «migliore dei mondi possibili».

Per lo più, raffigurazioni o descrizioni che abbiamo della Sfinge non la rappresentano in volo, bensì in posizione statica o accosciata, oppure nell’atto ferino di avventarsi o rabbioso di precipitarsi. Se si confronta con la pur faticosa conquista del dinamismo di Edipo, «piedi gonfi» o «piedi sapienti» o perfino «piedi terribili» che egli sia, tanto corrisponde a una meticolosa ermeneutica che Binswanger dedica a posizioni, posture e portamenti antropici. Qui una terminologia ripresa da Heidegger assume valenze inedite e, in particolare per il termine «risoluzione», meno equivoche che presso il riluttante maestro dell’esistenzialismo europeo. Spazialità e temporalità vengono altresì ricongiunte in un unico colpo d’occhio:

 

…l'immagine corporea del nostro Esserci è decisiva, nel senso più proprio della parola, cioè è fissatrice di norma, per il nostro Esserci complessivo, anche per quanto di «mobile e mosso» esiste nel nostro Esserci psichico e spirituale. […] Ciò che sta alla base delle due forme della verticalità antropologica è il «concetto antropologico originario» della gravità: nello sforzo o nel volere (nell'accezione più vasta di questa parola) si tratta di un superamento della gravità attraverso il «portamento eretto» e la «deambulazione eretta» quali espressioni della «risoluzione», una forma indirizzata propriamente verso l'autentico futuro della temporizzazione; nell'essere sollevati in alto e nel cadere si tratta della posizione distesa, accosciata, penzolante, precipitante ovvero del corrispettivo movimento, intesi entrambi nel senso dell'essere dato in balia della gravità.[19]

 

Fatto sta che quest’io acrobatico non può sfuggire all’inconscio. Quando il secondo reclama le sue ragioni, è difficile eludere l’impegno di «risolvere» la propria essenza per un verso o per l’altro, senza i compromessi pur necessari con l’esistente ma intollerabili con se stessi. In Freud, all’ottimismo cognitivo fa da riscontro un razionalismo pessimistico, il quale non gli consente di accettare che l’inconscio collimi con una coscienza etica. Questa forza riaffiorante che sfida il Super-io non concorda con la nozione aprioristica di libido, se non si configura come nevrosi di transfert o sindrome narcisistica o altra patologia. Prevale sempre il sospetto di un processo di rimozione o di repressione e di sostituzione. La soggettività è soggetta a una forzosa sospensione.

Del resto, essa soggiace all’oggettività del sintomo, anche quando dalla casistica della patologia si risalga a una norma valida in psicologia. Meglio di altri, dei medici filosofi sembrano abilitati a entrare nel merito della questione. Critiche quali quelle di cui sopra saranno rivolte a Freud in particolare dallo psichiatra e pensatore esistenzialista Karl Jaspers, insieme a quella di confondere scienze umane e scienze della natura (o di una gestione settaria della disciplina da lui fondata). Nel dissidio di concezioni tra psicoanalisi e filosofia, un deluso Binswanger giungerà ad avvertire quasi lo spalancarsi di un baratro, su cui si protende l’ombra di una nuova Sfinge:

 

Ma così abbiamo fatto della lacerazione di cui parlavamo sopra un vero e proprio abisso. Come lo psicologo atteggiato nel senso della scienza naturale […] non considera scientificamente il fatto antropologico originario, il fatto cioè che la presenza è sempre la mia, la tua, la nostra presenza, il fatto che noi assumiamo sempre un certo comportamento, tanto nei riguardi dell’astrazione corpo quanto nei confronti dell’astrazione anima, così egli non considera tutto l’ambito di problemi ontologici che si connettono al vero e proprio chi, al soggetto di questo comportamento, all’ipseità. Se questa ipseità viene in qualche modo obiettivata, isolata e teorizzata in un Io o un Es, un Io e un Super-io, viene anche esiliata dall’ambito proprio della presenza o dall’esistenza, e, da un punto di vista ontologico-antropologico, strangolata.[20]

 

Creazione ibrida e composita a sua volta, la psicoanalisi si presta a figurare da Sfinge «strangolatrice», a fronte di un’Antigone che ancora adombra la vergine Filosofia di Severino Boezio. In termini aggiornati, la posta in gioco è fondamentale: determinismo o libertà di coscienza. Che sia la mente di Dio, la razionalità della Storia o l’inconscio dell’uomo a fissarne il destino, in pratica il prodotto non cambia. Da religiosa o politica che era, la connotazione diventa ora epistemologica. Il dialogo con Binswanger si arena sulla convinzione di Freud, di parlare linguaggi diversi in base a premesse dissimili. D’altronde, la critica di Binswanger da parte di Heidegger non sarà più tenera. Tale fuoco incrociato attesta l’audacia della mediazione dello psicologo svizzero.

 

Epoca ed epochê

 

«Noi e il nostro oracolo,» sospirò amareggiata la Pizia «solo grazie alla Sfinge siamo venuti a conoscenza della verità».

«Non saprei,» fece Tiresia pensieroso «la Sfinge è una sacerdotessa di Hermes, il dio dei ladri e degli impostori».[21]

 

Le battute qui riportate sono tratte da La morte della Pizia di Dürrenmatt. Divenuta personaggio a tutto tondo, la Sfinge vi è identificata con una sacerdotessa di Hermes. In quanto tale, ella assurge di nuovo a simbolo filosofico, di un’ingannevole ermeneutica della realtà del mondo. E’ davvero così difficile intendersi, tra psicoanalisi e filosofia? Ha ragione dal canto suo Paul Ricoeur, in La question du sujet: le défi de la sémiologie, quando afferma: la psicoanalisi è in partenza un’«anti-fenomenologia, che esige non la riduzione alla coscienza ma la riduzione della coscienza»?[22] Circa la concezione dell’«intima essenza della coscienza», in L’interpretazione dei sogni Freud aveva sostenuto di attendersi quei risultati «che abbiamo cercato invano nella filosofia».[23] In retrospettiva, vediamo allora di farci indicare da un arbitro stimato da ambo le parti – l’antico e lungimirante Sofocle – una via d’uscita da questa prevenzione ed esclusione reciproca.

Nella terminologia di Heidegger, si può ad esempio argomentare che Antigone sia creatura e vittima di una «nostalgia dell’essere». L’impossibilità di ricondurre l’esistenza a un senso originario ne guida il gesto di seppellire a costo di lasciarsi seppellire, ancor prima di rendersi pienamente conto di se stessa. Ciò non toglie che la fobia teratogena di Edipo si sia intanto avverata nell’altrui mostruosità di vietare di seppellire i morti, disponendo di seppellire i vivi. Il risultato stravolge le cure riservate ai corpi, in quanto icone della coerenza del sé. L’immagine che ci siamo fatti del nostro stesso corpo riceve un trauma, tale da produrre un effetto empatico. Quel preteso «pro-getto» di civiltà mette a nudo la sua illogica barbarie, decretando il proprio fallimento. Ma è frequente un tacito sottinteso, il quale fa da sfondo comune alle teorie e alle polemiche che le coinvolgono.

Negli anni Trenta, Freud non aveva tutti i torti nel diffidare non tanto di Binswanger quanto dell’influsso su lui di Heidegger, compromesso col nazismo. Specie col secondo Binswanger, si può provare a risolvere una questione correlata con le precedenti, rifacendoci piuttosto a Edmund Husserl e a Edith Stein. Così come Freud l’esilio, essi subirono l’emarginazione o la morte. A chi è rivolto il gesto di Antigone? L’eroina seppellisce il fratello, come lei afferma, o il nemico della patria, come ribatte Creonte? Ella perpetua una tradizione o perpetra un tradimento? Prese alla lettera, le antinomie definitorie finiscono per distogliere dalla comprensione dei fenomeni. Meglio, pensare in termini di «empatia» e per quanto possibile – di «sospensione» del giudizio, cercando analogie nei condizionamenti epocali cui i nostri referenti reali o immaginari sono andati soggetti.

Tanto non impedisce di indulgere al gioco linguistico heideggeriano, con appena qualche ironia. La libido di Freud non si rivela che nell’oggetto del desiderio, per oscuro o sostitutivo che sia. La «nostalgia dell’essere» è espressione priva di senso – direbbe a buon titolo Rudolf Carnap –, se non ci fosse un ente di cui prendersi cura. Desiderio e nostalgia sono manifestazioni diverse di una presunta pulsione originaria. Ma la tensione di Antigone è di spingersi al di là della finitezza dell’ente, concentrandosi su un oggetto, che serba il volto allusivo della soggettività. Né si avverte uno stretto bisogno di ricorrere alla metafisica, tanto meno a una metapsicologia, per spiegare questa «schiusura dell’essere» nella forma poetica della tragedia. Una tesi di Binswanger è che a garanzia di ogni augurabile coesistenza sussista una «co-essenza», tutta da scoprire e da realizzare.

Di fronte agli universali della sofferenza e della morte, è un dato immediato che non c’è netta distinzione fra propria sofferenza e morte altrui. I dati di identificazione di un essere umano non si rendono neppure indispensabili. Dovrebbe bastare la condizione di essere umani, a rendere partecipi di un sentimento solidale. Venuto meno ogni bersaglio o schermo, il Creonte di Sofocle si ritrova a essere lui stesso un abietto, in preda a una nevrosi di angoscia. Il suo «spaesamento» dalla polis è maggiore di quello di Antigone dal genos, entità che essi intendevano rispettivamente tutelare. Allora, ecco che i loro intenti consapevoli non coincidevano con gli effettivi impulsi, oppure le «entità» di cui si erano posti al servizio erano affette da un’«essenziale» inadeguatezza.

Almeno per uno dei due casi contemplati, la giuria popolare che condannerà a morte Socrate deporrà a favore della seconda ipotesi. Se il sogno sofocleo dell’Edipo re è regressione nel passato, l’Antigone rappresenta un presentimento del futuro, per così dire lo prefigura. Qui più ancora che Freud o Jung può aiutarci il primo dissidente Alfred Adler, aperto sul sociale più di quanto la denominazione della sua variante della psicoanalisi lasci supporre: «psicologia individuale». Nello specifico, interessa un Adler neo-kantiano. Egli intuisce che l’inconscio opera una sorta di rivolgimento delle categorie mentali, a iniziare da quella del tempo. Oltre che sospensione di esse, è rimescolamento, riordinamento di contenuti e progetto affacciato sull’«a-venire». Che ci si rapporti all’individuo o al suo contesto, si può commentare che quest’epochê fa letteralmente «epoca»:

 

E’ veramente esclusa per lo spirito umana la possibilità di vedere in certi limiti nel futuro, se esso stesso è in gioco nella formazione di questo futuro? […] Benché noi crediamo di non poter vedere il futuro, il nostro modo di vivere è tale da tradire che vogliamo sapere con sicurezza gli avvenimenti futuri. Il nostro modo di agire indica che noi – a torto o a ragione – conosciamo sempre il futuro. Anzi noi non potremmo nemmeno agire, se la forma futura delle cose, voluta o temuta da noi, non ci desse la direzione e lo sprone, l’ostacolo e lo sviamento. Noi agiamo sempre come se conoscessimo bene il futuro, benché comprendiamo che non possiamo saperne nulla. […] Questa conoscenza del futuro è del tutto estranea alla coscienza[24].

 

In tale luce, Adler interpreta i sogni cosiddetti premonitori. Antigone non ci racconta i suoi. In un’occasione, lo fa con la sorella l’Ismene di Stazio. Il suo incubo riguarda il fidanzato Ati. Ivi, l’Eros si converte repentinamente in Thanatos. La facile previsione è che Ati troverà la morte nella guerra in corso fra Argo e Tebe. Nelle parole di sgomento di Ismene, l’autore dà tuttavia prova di un grande acume psicologico. Talvolta sono i sogni a interpretare la realtà, anziché viceversa: «Quale errore è mai questo dei mortali, quale inganno/ per le nostre certezze? Che nella quiete del sonno l’ansia/ si ridesti, che tornino a illuminarsi i fantasmi dell’animo?».[25]

L’interrogativo posto da Ismene/Stazio aggiorna la visione di una dimensione onirica interattiva con la veglia, che abbiamo già visto qui sopra espressa da Pindaro in termini arcaici. Tuttavia, l’unico sogno a occhi aperti di Antigone di cui siamo al corrente è quello di una città pacificata, dove la pietà venga alfine restaurata. Né ella sa o le importa di accorgersi che la guerra ha cambiato la società. L’aristocrazia a Tebe ha dato prova di una gestione disastrosa. Antigone è una miope reazionaria? In virtù di un episodio familiare e di un puntiglio privato, vuole riportare indietro la polis, che cerca a fatica nuovi patti di convivenza? Non capisce che lo zio, sacrificando in maniera esemplare il cadavere di Polinice, tenta di salvare i loro stessi interessi di casta?

 

Inquietante, anzi perturbante

 

Da buon reazionario, Heidegger «comprende» e insinua che – s’intende, oggettivamente – Antigone e Creonte stanno dalla stessa parte e vanno entrambi incontro a un destino «spaesante» (in tedesco, unheimlich sta anche per «inquietante»). L’interpretazione è certo complessa e si articola in un periodo storico, in cui la Sfinge del «terribile» torna a delinearsi nell’orizzonte ermeneutico. Questo deinon umanizzato da Sofocle sarebbe espressione simbolica di una ricorrente istanza del senso essenziale, autonoma dalla soggettività esistenziale. In realtà c’è poco di terribile, o di impolitico, in tutto ciò. Riecheggiando Hannah Arendt, c’è semmai qualcosa di terribilmente banale. Creonte è un reggente e un epigono «meschino» (deilaios, è lui stesso a riconoscerlo nel finale dell’Antigone), non un eroe fondatore né un salvatore della patria come Cadmo o Edipo.

Il tiranno sa, è il figlio Emone a ricordarglielo, che Antigone gode delle simpatie della città. Se Antigone viola una discutibile legge dello Stato, egli esercita violenza su Antigone. L’accostamento fra «violazione» e «violenza» è tendenzioso. In Germania Heidegger poteva iscrivere la sua rilettura, mentre Adolf Hitler era al potere col suo consenso. Non una mera violazione, la violenza politica andava degenerando in violenza bellica. Nel corso universitario del 1935, Introduzione alla metafisica, non ci si riferisce direttamente ad Antigone o a Creonte. La forma del discorso è una traduzione e commento del primo stasimo della tragedia, dove si avverte appena qualche forzatura. Nella seconda parte delle lezioni del 1942 su L’inno «Der Ister» di Hölderlin (L’interpretazione greca dell’uomo nell’«Antigone» di Sofocle), diventano espliciti i riferimenti apologetici al nazismo, anche se l’autore comincia a mettere le mani avanti:

 

Non si contribuisce affatto al riconoscimento e alla valorizzazione dell’unicità storica del nazionalsocialismo quando si interpreti la grecità in modo che si possa pensare che già i Greci siano stati tutti «nazionalsocialisti». Per noi, non si tratta qui del «politico», bensì dell’essenza della polis, e, più esattamente, dell’ambito essenziale a partire dal quale essa si determina, a partire dal quale e in base alla misura del quale essa deve cioè restare per i Greci qualcosa che è degno di essere posto come domanda. Che il poeta Sofocle parli della relazione tra l’uomo e la polis, e ne parli in connessione con il dire del deinon, questo solo fatto indica quanto sia decisivo che la polis sia esperita come sede e medietà dell’ente.[26]

 

Non si tratta qui di un semplice «in-cidente» di percorso. Né l’Antigone che ne risulta ha poi molto a che vedere col modello dichiarato di Hölderlin, specialmente col profilo che abbiamo visto da lui delineato con tanto lirico splendore, citato dal filosofo stesso nel corso delle sue lezioni sul poeta tedesco. Piuttosto, quello di Heidegger è un cauto tentativo di «addomesticare» e di mobilitare il personaggio per l’emergenza bellica. Nella migliore delle accezioni è una lezione trasversale di realismo da parte di un pensiero il quale, per quanto ci provi, stenta ad astrarsi dal proprio «esserci» in una trama di circostanze, che possono essere recidive ed entro cui va restituito e considerato. Se si adatta una metafora cara a Heidegger, le alture su cui il poeta e il filosofo si collocano sono effettivamente distanti fra loro. Più che una «di-stanza», le separa un dislivello.

Dandogli atto di una dissimulante abilità, viene da ritorcere contro Heidegger un appunto da lui mosso a Binswanger, di fare un’«oggettività della soggettività» deformando così il suo pensiero.[27] Applicata al testo sofocleo, la filologia di Heidegger è suggestiva. Giustamente egli rileva la ricorrenza del deinon, a partire dai versi «Molte, le cose terribili; niente/ più terribile dell’uomo si erge». E si sofferma su quel deinoteron, che preferisce tradurre «più inquietante» anziché «più terribile», sfruttando lo spettro semantico del termine greco altrettanto ampio del tedesco Unheimliche. Premettiamo la soluzione di Hölderlin, cui il filosofo sovrappone la sua:

 

Ungeheuer ist viel. Doch nichts

ungeheuerer als der Mensch

[Molte, le cose mostruose. Niente

tuttavia è più mostruoso dell’uomo][28]

 

Vielfältig das Unheimliche, nichts doch

über den Menschen hinaus Unheimlicheres ragend sich regt

[In molte pieghe si involge l’inquietante, nulla però

di più inquietante sopravanza rispetto all’uomo].[29]

 

Heidegger si sforza poi di mettere in relazione il vocabolo prediletto con altri, che accreditino la sua tesi dello «spaesamento». Tuttavia, egli tralascia l’associazione più ovvia, inferibile dal contesto della tragedia e dal confronto con altre opere di Sofocle. L’aggettivo, che fa da contrappunto a deinoteron, è proprio quel ripetuto deilaios che Creonte nell’esodo riferisce a sé. E’ il medesimo che il coro dell’Edipo re applica a Edipo: deilaie tou nou tês te sumphoras ison («parimenti meschino, per la sventura e per la coscienza di essa»).[30] I due termini condividono una radice verbale, che è la stessa del greco deos e denota «timore» dell’ignoto. La scoperta dell’inezia del proprio io smonta la «prosopopea» dei personaggi, creando sconcerto per se stessi. L’imporsi della personalità di Antigone è scandalo per altri. La sôphrosynê o senso della misura, morale della favola di Edipo, e la philia perseguita da Antigone sono le due facce della visione politica sofoclea.

Nella riflessione del coro dell’Antigone sulla condizione umana, Heidegger individua due antitesi: pantoporos e aporos, hypsipolis e apolis. Vale a dire, in questo mondo l’uomo è abile nel tentare con successo «tutte le vie» di riuscita. Ma non sa l’unica a lui congeniale: quella di uscita dalla costrizione, in cui lo pone il suo essere ente fra gli enti. Infatti, egli trova un «alto grado» di realizzazione nella convivenza politica della polis. Eppure, questa forma normativa sta stretta a chi tende a esprimere l’essenziale della propria umanità. La storia di tale «spaesamento» fa Storia, con tutte le sue fratture diversamente inspiegabili. Le contraddizioni così messe a fuoco eccedono ogni licenza interpretativa, se non connesse con quella fra deinoteron e deilaios. In virtù di esse, l’uomo è il più sconcertante e il più meschino degli esseri. All’acme della trilogia tebana, il primo stasimo dell’Antigone è la risposta dilatata di Sofocle/Edipo, al quesito implicito nell’enigma della Sfinge.

Per Sofocle, la presa di coscienza era un passaggio obbligato, se non lo scopo della peripezia tragica. Dall’inconsapevolezza «orgogliosa» della hybris una nemesis «vendicativa» suscita i suoi mostri, a danno non solo dell’eroe ma dell’intera comunità. L’autonomia di giudizio, che consente a Antigone di trascendere certe coordinate, non è soltanto voce della physis ovvero della Natura in seno alla polis. Essa discende da una consapevolezza, personalmente sofferta ed ereditata. Resta in sospeso il dubbio che lei stessa sia vittima di un egocentrico residuo di hybris, specie se la si paragona con la sorella Ismene e se si considera il suo atteggiamento nei confronti di quest’ultima. Ne deriva altresì una scarsa flessibilità nelle proprie posizioni, controproducente ai fini pratici.

E’ una tesi accreditata dalla studiosa Martha C. Nussbaum, nel saggio La fragilità del bene. Fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia greca. Sulla stessa linea di pensiero, si colloca la politologa statunitense Patricia M. Lines, in un articolo intitolato Antigone's Flaw. «Il difetto di Antigone» sarebbe il rifiuto a priori della ricerca di una soluzione di compromesso ragionevole.[31] Contrario all’ideale sofocleo della phronêsis, di una saggezza fatta di senso di equilibrio, ciò la accomunerebbe in qualche misura a Creonte, così come sostenuto a suo tempo da Heidegger dal suo particolare punto di vista. Peraltro, la critica della Lines da un lato tiene d’occhio la situazione politica nazionale e internazionale odierna; dall’altro, ben si ricollega ad altre critiche contemporanee nei riguardi di Antigone, che vedremo qui riassunte nel capitolo successivo.

Ancora una volta, la forza del personaggio è comunque il suo farsi presente, in quanto proiezione di persona. Come già nella filosofia di Hegel, essa si impone alle resistenze dell’interprete. Heidegger  non fa eccezione. Ciò che ne esce è un’icona della differenza ontologica, cioè fra essere e ente: «Antigone è il più inquietante degli esseri umani». Il che equivale, nell’analisi linguistica di Heidegger, all’essere spaesati. In effetti, questo «spaesamento» si colloca su un piano più alto, esterno all’«ente» in cui Creonte rimane preso in trappola.[32] Altrimenti, la condotta di lei sarebbe gratuita o si presterebbe a equivoci, limitandosi a rischiare di compromette i precari equilibri sociali. E questi ultimi erano quelli dell’Atene di Sofocle. Ma potrebbero ben esserlo dell’Europa tra le due guerre mondiali, mutate le forze in campo e i punti di riferimento.

Dopo l’ultima catastrofe, il linguaggio dell’ermeneutica può tornare a confrontarsi con quello della psicoanalisi. Nel frattempo, la realtà ha rimosso da se stessa non pochi ostacoli, che favorivano l’incomprensione. Lo sguardo della Sfinge si volge indietro, invitando a estrarre un senso da un paesaggio di rovine. Essa si trasfigura nell’Angelus Novus di Paul Klee e di un Walter Benjamin, travolto e sommerso nel novero delle vittime. Amara ironia della sorte, fra i superstiti disposti a un ripensamento sono gli esuli o gli apolidi, piuttosto che gli «spaesati» in patria. In una situazione ancora mutata, Herbert Marcuse vecchio allievo di Heidegger riprenderà alcuni temi del socialdemocratico Adler. In Eros e civiltà egli li rielabora grazie a, ma anche nonostante, Freud.:

 

La regressione assume una funzione progressiva. Il passato riscoperto offre norme critiche che sono represse dal presente. Inoltre, la restaurazione della memoria è accompagnata dalla restaurazione del contenuto cognitivo della fantasia. La teoria psicoanalitica sposta queste facoltà psichiche dalla sfera poco impegnativa dei sogni ad occhi aperti e dell’immaginazione, e riconquista le loro rigorose verità. Il peso di queste scoperte dovrà alla fine infrangere la cornice entro la quale esse furono fatte e confinate. La liberazione del passato non finisce nella sua riconciliazione col presente. Contro la costrizione autoimposta di chi ha fatto queste scoperte, l’orientamento sul passato tende verso un orientamento sul futuro.[33]

 

Co-essenza e coesistenza

 

A una tappa avanzata dell’esplorazione dell’inconscio, per Freud desiderio e nostalgia – intesa nei suoi effetti inappagati e deleteri – notoriamente si chiamano Eros e Thanatos, venendo a coincidere con l’istinto di vita e con una pulsione di morte. In Analisi terminabile e interminabile, addirittura riaffiora l’antico dualismo di Empedocle. Senza smentire il suo pessimismo ma con apertura dialettica, in Al di là del principio del piacere Freud/Edipo si riconcilia con la filosofia in sé. Anzi scopre le sue carte, rivelando come un vero antagonismo non ci sia mai stato. Né poteva esserci, in chi in L’avvenire di un’illusione si proclama seguace del «dio Logos». In una lettera a Wilhelm Fliess dell’1-1-1896, egli aveva confidato un giovanile trasporto verso la conoscenza filosofica, tale da fargli compiere il salto dalla medicina alla psicologia. Né mancherà l’occasione di compierne un altro. A ben vedere, la «metapsicologia» altro non è che la filosofia di Freud.

Non diversamente da Husserl maestro di Heidegger, scopriamo poi che Freud giovane aveva seguito le lezioni di Franz Brentano, autore fra l’altro di una Psicologia dal punto di vista empirico. E, ancora, quando in Per la storia del movimento psicoanalitico rompe con Adler e con Jung, Freud imputa ai dissidenti di aver captato qualche acuto della «sinfonia dell’essere» ma non la «melodia delle pulsioni». Attraverso l’ironia delle metafore musicali, la critica suona puntualmente filosofica. La traduzione dall’inconscio al logos resta, comunque, l’opzione di metodo. Ma almeno una delle polarità colte dal padre della psicoanalisi, nel pensiero di Schopenhauer, suona simmetrica con l’ambivalenza dell’«essere per la morte» in quello di Heidegger. Che si parta dall’inconscio o dall’essere, la confluenza è di raggelare il divenire nell’«e-vento», in uno sviluppo condizionato:

 

Ma c’è dell’altro, qualcosa che assolutamente non possiamo nasconderci: è che, senza volerlo, abbiamo seguito una rotta che ci ha fatto approdare alla filosofia di Schopenhauer. Secondo Schopenhauer la morte è «il vero e proprio risultato, e, come tale, scopo della vita», mentre la pulsione sessuale è l’incarnazione della volontà di vivere.[34]

 

Altro punto di convergenza e insieme di divergenza tra Freud e Heidegger sembra essere proprio il concetto di un-heimlich. Sia che lo si traduca come «inquietante», sia che si consideri il sostantivo corrispondente Unheimlichkeit, disagio o sgomento nel non sentirsi «a casa» propria, in particolare nella cultura tedesca esso possiede una carica di ambiguità. Negativo di heimlich (ciò che, essendo «di casa», non ci risulta estraneo sia pure avendone perso memoria), il motivo si trova anticipato nella filosofia idealistica e romantica di Schelling. Nel periodo tra le due guerre mondiali, diventa quasi presagio o riflesso del disorientamento di un’epoca. All’accezione di inquietante, anzi di «perturbante», Freud nel 1919 dedicava il saggio Das Unheimliche (mentre studiava «ma senza piacere» l’opera di Schopenhauer, si legge in una lettera del 1° agosto a Lou Andreas-Salomé).

Invece che espressione di una «schiusura dell’essere nell’ente» come per Heidegger, per Freud tale sentimento scaturisce dai processi di rimozione e di repressione dell’inconscio. Esso può essere ridestato da un’esperienza estetica particolarmente empatica e intrigante. Nello specifico, è la lettura di un racconto di E. T. A. Hoffmann. Con i dovuti distinguo fra i generi del fantastico e del tragico, ciò dovrebbe accadere anche per la fruizione del teatro di Sofocle, riferimento fondante della psicoanalisi. Lo «spaesamento» così illuminato sorge pur sempre da un fondo di mentalità infantile, anzi ancestrale e animistica. Questa involuzione si oppone alla concezione progressiva del tempo, nella nostra tradizione culturale. Essa tende a restaurare una modalità ripetitiva degli eventi e può degenerare in coazione a ripetere,  perfino in uno sdoppiamento della personalità.

La ricezione di Freud si addice al simbolo della Sfinge, per lui perturbante spettro di una «madre fallica», più che al personaggio di Antigone. Al confronto, quest’ultima gode di qualche vantaggio. Come vuole Heidegger, per costituzione l’eroina è apolide o unheimlich. Nell’Edipo a Colono, è lei a definire così il suo travaglio: «Per me, non c’è via di ritorno a casa ».[35] Ma è anche quanto di più intimamente heimlich si possa concepire. Spiazzante e «familiare» a un tempo, ciò che ci prospetta è un imperativo che un po’ tutti intuiamo. Non sempre osiamo prenderne atto e calarlo nella nostra realtà. Nel campo di forze contrastanti che animano l’inconscio, la Sfinge si mantiene prossima al polo impersonale. Antigone si avvicina alla pienezza della persona. Ma questo movimento prende il via proprio dalla dissoluzione del personaggio di Edipo, nell’Edipo a Colono

 

Compatite il vano simulacro dell’uomo/ Edipo, nulla resta del suo aspetto antico./ […]/ Disfatto in tutto il mio io, andrà dissolta/ la pena che grava sulle mie vicende./ […]/ Cessate dunque, mai più suscitate il lamento./ Ogni evento di quanto è accaduto/ reca in sé una risoluzione di compimento.[36]

 

A ogni modo, un nodo dell’intera questione resta l’eventualità dell’evento. Da un lato, è abbastanza scontato, questo oscillare dall’essere al non-essere relativizza se non vanifica ogni possibile «risoluzione». Dall’altro, permane un rischio di coazione a ripetere, in un soggetto individuale o collettivo. A valutare la faccenda sotto questa luce è una pensatrice che forse non nutriva entusiasmi per la psicoanalisi, ma che ben conosceva la personalità di Heidegger, per averla esperita con reciproco vantaggio e soprattutto a proprie spese. Insistendo nel nostro processo alle intenzioni, Antigone aveva obbedito all’impulso di una puerile regressione? Il suo agire era stato controproducente, non riuscendo a evitare la distruzione del proprio genos, bensì a completarla?

Fortunosamente scampata a ben altro «geno-cidio», il chiarimento della Arendt in Che cos’è la libertà? ha valore di testimonianza. Contro l’abusata retorica del gesto esemplare e risolutivo, dapprima l’autrice paga il suo tributo a una visione disincantata della realtà: «La verità è che ogni processo, qualunque ne sia l’origine, reca in sé la tendenza all’automatismo: per ciò appunto nessun atto, nessun evento singolo può mai liberare e salvare un uomo o una nazione o l’umanità una volta per tutte». Rifacendosi in autonomia alla lezione etico-politica agostiniana del De civitate Dei (la stessa, che abbiamo visto qui sopra richiamata dalla Brezzi), nella conclusione del saggio la prospettiva si schiude a oltranza su un mondo di libertà, radicato nelle necessità di questa terra:

 

…gli eventi, per quanto possano essere anticipati da timori o speranze, quando si verificano ci sorprendono e ci scuotono. La stessa forza d’urto di un evento non può mai essere spiegata fino in fondo: in linea di principio il «fatto» supera ogni previsione. […] La differenza decisiva tra l’«infinitamente improbabile», su cui si fonda la realtà della nostra vita terrena, e il carattere miracoloso insito negli eventi che determinano la realtà storica è questa: nell’ambito delle vicende umane noi conosciamo l’autore dei «miracoli». A realizzarli sono degli uomini, che per aver ricevuto il duplice dono della libertà e dell’azione possono fondare una loro realtà.[37]

 

In Antigone, indipendenza di giudizio e libertà di azione sono tutt’uno. La realtà che Sofocle aveva in mente è indubbiamente la polis ateniese. E’ un modello ideale, che abbiamo visto posto da Heidegger in forma di domanda problematica. E si sa quanta attenzione la Arendt vi abbia dedicato, in quanto esemplare del concetto di «co-essenza». Già presente nel primo Heidegger, questo tema è variamente sviluppato da Binswanger e dalla Arendt. Nel raggio dell’esistenzialismo europeo, lo ritroviamo presso Sartre e in Simone de Beauvoir. Ma è un altro filosofo di scuola fenomenologica a puntualizzarlo precocemente. In uno scritto di Karl Löwith del 1928, l’espressione Mit-mensch – che possiamo sforzarci di tradurre dal tedesco come proprio «consimile» – integra il concetto di Mit-sein. Per l’essere umano, non può darsi un esserci che non sia «co-essere», un essere al mondo che non sia allo stesso tempo prodotto e progetto di coesistenza con altri uomini.[38]

Non si tratta di mera concomitanza, bensì del disporsi del proprio esserci entro specifiche coordinate, che per la De Beauvoir assumono una connotazione femminile. Ma il problema di Antigone è altro. E’ che, per lei, una tale rete di relazioni e di affetti è anche «celeste corrispondenza d’amorosi sensi», per dirla con Ugo Foscolo nel poemetto Dei Sepolcri. Essa abbraccia tanto i vivi quanto i morti. Si estende sia in direzione del genos, sia fra le mura della polis: una stirpe e una città le quali, nel suo caso, erano entrate in conflitto. Ne deriva una lacerante incrinatura della «co-essenza» del personaggio, radice e segreto del suo proporsi quale straniante e familiare insieme. Ne consegue altresì quel misto di determinazione e di sconforto che commuove, generando l’effetto speciale del suo apparire persona, in cui riesce difficile non immedesimarsi.

Se non sono mancate critiche odierne al personaggio, la meno generosa è quella di «necrofilia», per aver Antigone anteposto la pietà verso il corpo del fratello morto all’amore per il promesso sposo vivente (nella credenza, le anime degli insepolti erano condannate a vagare senza pace su questa terra). L’accusa riflette alcune sue asserzioni e un rimprovero a lei rivolto dalla sorella Ismene, nell’Antigone di Sofocle. In effetti, Emone sarà indotto al suicidio dalla fine violenta di Antigone. Nelle Fenicie di Euripide, l’eroina compiange se stessa come «Baccante dei morti» (l’epiteto richiama quello di «Musa dei morti», rivolto alla Sfinge nell’Argomento dell’Edipo re di Sofocle). Nella versione della vicenda che Alfieri riprende da Stazio, per compiere la sua infrazione l’eroina preferisce affidarsi all’aiuto di Argia, vedova del fratello Polinice. Più disponibile, per ovvie ragioni il personaggio è meno sospetto, dal punto di vista qui considerato.

L’etimo del nome Antigone tradisce un’antitesi, con riferimento alla generazione. Ciò può suggerire l’idea di un genos, di una «stirpe» i cui valori insorgono contro quelli pretesi della polis. Può invece indicare che già gli antichi associavano l’eroina a un destino di sterilità o, peggio, a una repulsione nei confronti di Eros e attrazione nei riguardi di Thanatos. La verginità è un equivoco tratto, che accomuna Antigone alla Sfinge. C’è però almeno una tradizione, riportata nelle Fabulae del mitografo latino Igino, che attribuisce all’eroina un figlio avuto da Emone. Nella variante di Alfieri, Argia verrà risparmiata da un tiranno calcolatamente indulgente. Ad Antigone viene concesso di scegliere tra la morte e l’amore, ma lei lo fa in nome dello stesso. «Lascia ch’io mora, se davver tu m’ami», recita il suo congedo da Emone.[39] Un’ardita interpretazione etimologica in chiave femminista ci è data poi da Judith Malina, in una sua lunga intervista autobiografica:

 

Interessante è in primo luogo il suo nome: Antigonê ossia una donna che agisce non tanto contro la sua natura, il suo spirito, quanto contro la sua gonê, i suoi caratteri genitali, il suo sesso. E’ una donna che agisce come un uomo, ovviamente nell’opinione altrui, perché il senso comune vuole che far valere l’indipendenza delle proprie opinioni sia un atteggiamento virile. Ma lei non è un uomo, ed è assolutamente da donna che agisce quando si leva contro il mondo e dice: «No! La penso diversamente da voi, e farò quello in cui credo e che penso sia giusto». E questa protervia, che già in un uomo è considerata pericolosa, in una donna sembra assolutamente innaturale».[40]

 

La tematica in questione ha ispirato il contemporaneo Ghiannis Ritsos, nel poemetto Ismene, composto quando l’autore era stato deportato sotto una dittatura militare in patria. Il poeta greco immagina che la sorella prudente di Antigone prenda la parola, per difendere a distanza di tempo il proprio atteggiamento riluttante, il quale le ha consentito di sopravvivere. Per contrasto, all’inizio il ritratto di Antigone che ne esce non è dei più lusinghieri. Attraverso la memoria selettiva e deformante di Ismene, affiorano particolari di una lugubre arroganza. Ma presto ben altri ricordi, il rimorso represso e la consapevolezza della propria debolezza, prevalgono su ogni giustificazione o pretesto. Il monologo si muta in disperato soliloquio. Proprio nella vitale Ismene, una morbosa fascinazione letale sommerge la voglia di vivere. L’aver vissuto a oltranza non è bastato a compensare la perdita, nell’animo di quella che rimane pur sempre una superstite.[41]

Nei confronti di Antigone, in particolare di quella sofoclea idealizzata da Hölderlin, una critica permane interessante. Essa è diretta a rimarcare un egocentrico orgoglio del personaggio. Ciò lo pone in una condizione di elitario distacco, rispetto al resto dell’«ordinaria» umanità. Un limite del genere può avere conseguenze negative più gravi di quelle esistenziali in ambito individuale. La linea di connessione tra co-essenza e coesistenza passa anche da qui. Già l’Antigone di Eschilo e l’Emone di Sofocle, più vicina a noi l’Ismene del tedesco Walter Hasenclever, paiono rendersi conto di un’esigenza di approfondimento eminentemente politico. Nell’introduzione all’edizione italiana della raccolta di saggi Tra Oriente e Occidente, la psicoanalista e filosofa belga Luce Irigaray coniuga tale intuizione con l’urgente apprensione per il nostro comune futuro, dopo essere tornata a considerare il celebre primo stasimo dell’Antigone di Sofocle alla luce dell’attualità:

 

Per non sacrificare la pietà di Antigone al potere di Creonte, una doppia dialettica si impone al posto di una universalizzazione che si allontana sempre più dalla realtà soggettiva in nome di valori astratti sedicenti oggettivi. […] Antigone e Hölderlin vi potrebbero rinunciare a nostalgie troppo elementari, immediate eppure egologiche, per tentare di elaborare e tessere legami spirituali fra le loro diverse singolarità. Culla di una possibile rinascita?[42]

 

Ci si deve altresì chiedere se Ismene avesse qualche buona ragione, se fosse davvero inevitabile una logica del sacrificio personale, che in un certo senso anticipa quella moderna del cosiddetto martirio per la libertà. Nello scritto Che cos’è un autore?, incidentalmente Foucault generalizza il problema, ponendolo in un’altra luce. «Il racconto o l’epopea dei greci», egli osserva, «aveva lo scopo di perpetuare l’immortalità dell’eroe, e se l’eroe accettava di morire giovane era perché la sua vita, così consacrata e magnificata dalla morte, passasse all’immortalità». Fatto sta che il pensatore francese intravede una strategia alternativa là dove, forse, meno ce la aspettiamo. Similmente ad Antigone, nella narrazione arabo-iranica delle Mille e una notte il personaggio-chiave di Shahrazad si trova a dover affrontare un tiranno. Riesce a sconfiggerlo, nello stesso tempo a far vivere e a sopravvivere, senza colpo ferire e ricorrendo alla tattica di una raffinata seduzione:

 

In maniera ben diversa il racconto arabo – qui penso alle Mille e una notte – aveva anch’esso come motivazione, come tema e pretesto, il non morire: si parlava, si narrava fino all’alba per evitare la morte, per rimandare quella scadenza che avrebbe chiuso la bocca del narratore. Il racconto di Shèhèrazade è il contrario accanito dell’assassinio, è lo sforzo ripetuto ogni notte per riuscire a mantenere la morte fuori del cerchio dell’esistenza.[43]

 

Eventualità e libertà

 

Ormai esule dalla Germania e ancora apolide in America, è probabile che la Arendt ogni tanto ripensasse all’Antigone di Sofocle (citata, poi, in La condizione umana). Con amara ironia, aveva allora paragonato i suoi ex-compatrioti agli ateniesi di un tempo. In questi, la catarsi provocata dalle rappresentazioni tragiche non aveva impedito del tutto che le passioni peggiori prendessero il sopravvento. Nei contemporanei della Arendt, neppure la forma sofisticata di catarsi che sarebbe indotta dalla psicoanalisi aveva evitato che sentimenti banali o interessi meschini soffocassero quelli migliori. Negli scritti del 1942-43, il sommarsi della cura per la propria stirpe con la nostalgia della patria di origine fa della pensatrice una sopravvissuta a se stessa e agli altri:

 

…gli ateniesi andavano a teatro perché amavano lo spettacolo, il suo contenuto mitologico e il suo linguaggio sublime, con il quale speravano di diventare padroni delle loro passioni e di poter foggiare il loro destino di cittadini.[44] […] La psicoanalisi non sembra essere più di moda. Quei tempi felici sono finiti insieme alle conversazioni che signore annoiate e gentiluomini dell’alta società facevano sulle piacevoli trasgressioni della loro prima infanzia. Essi non vogliono più storie di fantasmi; è l’esperienza concreta che fa loro accapponare la pelle. Non c’è più alcun bisogno di cercare i fantasmi nel passato; esso è abbastanza stregato nella realtà.[45]

 

La Arendt scrive, mentre l’orrore delle camere a gas eclissava quello di Antigone sepolta viva nella tomba. La sua situazione è analoga a quella descritta da un’altra scrittrice ebrea, Grete Weil, in Mia sorella Antigone. Scetticismo e pessimismo sono stati d’animo comprensibili e contingenti. Essi non intralceranno a lungo quella indipendenza di giudizio e libertà di azione, che abbiamo visto caratterizzare il personaggio di Antigone. Lungi dal costituire un blocco, alimenteranno una riflessione meno ristretta e sfiduciata; stimoleranno un’azione conseguente, quando le circostanze torneranno a consentire che essa si esplichi. Questo paragone può aiutarci a riflettere su «che cos’è la libertà», in condizioni estreme. La genialità di Sofocle sta nel cogliere che un tale libero arbitrio scaturisce in contrasto e cresce in proporzione con l’arbitrio altrui. In termini hegeliani, è un potere politico aberrante a porre i termini della contraddizione con se stesso.

Non è da escludere che Sofocle avesse in antipatia la signoria di Pericle. Né la sua Atene doveva essere immemore della tirannide dei Pisistratidi, che aveva visto i tirannicidi opporsi al liberticidio (benché Pisistrato, altra statura dei tiranni antichi, avesse indetto il primo concorso tragico!). A prescindere dall’esito immediato, la ribellione di Antigone attinge legittimazione alla dubbia legittimità di un editto del despota a Tebe. Che la si consideri violazione o rivendicazione, essa si costituisce in quanto tale entro le coordinate, offerte dal divieto di Creonte. Se c’è un terreno comune fra Antigone e Creonte, è quello – esso sì problematico – della natura dell’arbitrio. Dall’uccisione di Ipparco al gesto di Antigone, fino al rifiuto di trasgredire una sentenza ingiusta ma formalmente democratica da parte di Socrate, si ha un progresso non tanto della polis quanto dell’idea di libertà di coscienza, la quale cresce attraverso una dialettica che è tuttavia politica.

L’auspicabilità di una politica, mezzo per conseguire il fine di una presa di coscienza, è un’intuizione dello spirito greco il cui valore – per parafrasare, ancora una volta, Heidegger – «viene a giorno con estrema lentezza». Ciò non ne sminuisce l’importanza. Semmai, la rende più attuale. Significa infatti affermare, implicitamente, che non ultimo compito della coesistenza è di rivelare e realizzare un’intima «co-essenza» costitutiva dell’essere umano. Al limite, le forme storiche di convivenza civile sono strumenti dinamici per questa scommessa, contro un potenziale annichilente di cui l’inconscio è pure probabile portatore. Sotto tale angolatura, perfino l’antica contrapposizione fra hybris e nemesis si ripropone in una nuova luce. La rispettiva connotazione, quale inconsapevolezza e consapevolezza, ne diventa la denotazione a noi contemporanea.

Si è intravisto come un maître-à-penser quale Heidegger sia portatore di una carica di ambiguità, tale da poter essere argomentata in maniera diversa se non opposta. Al genos parentale di Antigone basterebbe sostituire l’accezione di una stirpe allargata a una presunta «razza», per ottenere risultati perturbanti più che inquietanti. L’«astuzia» dell’irrazionale è una qualità attribuita alla Sfinge sia da Euripide nelle Fenicie, sia da Seneca nel suo Edipo e da Stazio nella Tebaide. Ci sono motivi per un ulteriore, complesso, interrogativo. Ci si può sempre fidare delle «leggi non scritte», cui Antigone si appella? Non sono le stesse che Hegel ha chiamato «diritto delle ombre», in opposizione alla «legge del giorno»? Tranne un tardivo giudizio a posteriori, che cosa assicura che esse riflettano una «co-essenza» costruttiva, e non celino istinti distruttivi del nostro inconscio?

Prima ancora che da Freud o dalla Arendt, il dilemma è posto in un racconto di Antòn Čechov, intitolato Il duello. Centrale è il dialogo fra due personaggi, che risente del clima culturale europeo in cui nacque anche la psicoanalisi. In un primo momento e in chiave ottimistica, lo scrittore e medico russo riecheggia alcune parole di Antigone: «[La legge morale] è talmente comune a tutti i popoli e a tutte le epoche da doversi riconoscere, mi pare, organicamente legata all’uomo. Essa non è stata inventata, esiste e sempre esisterà». Eppure, nella deduzione paradossale che ne trae uno dei disputanti traspare il dolente sarcasmo dell’autore, l’implicito invito a non abbassare del tutto la guardia, nemmeno di fronte alle più insinuanti e coinvolgenti fra le apparenze:

 

Guardate il diavolo negli occhi e, se è il diavolo, allora dite che è il diavolo e non chiedete soccorso a Kant o a Hegel. […] Gridiamo che la guerra è un atto di brigantaggio, una barbarie, un fratricidio; non possiamo veder sangue senza venir meno. Ma è sufficiente che i francesi o i tedeschi ci offendano, che subito ci sentiamo presi dall’entusiasmo, gridiamo in piena fede urrà e ci gettiamo sul nemico. […] Vuol dire che esiste una forza se non più alta, più potente di noi e della nostra filosofia. […] Guardate questa forza dritto negli occhi, confessate la sua ragionevole legittimità e quando essa, per esempio, vuol sopprimere una razza vile, scrofolosa, corrotta, non cercate di impedirglielo.[46]

 

In poche righe, l’autore anticipa i disastri del secolo imminente. Tanto più sorprende l’esile contesto, che gliene fornisce il pretesto. Ciò che il protagonista cerca di giustificare, di fronte a se stesso e ad altri, è il naturale diritto a uccidere un disprezzato rivale in un duello, che la legge dello Stato ormai proibisce. Posizione speculare ma inversa, rispetto a quella dell’eroina di Sofocle. Né il diabolico, cui il personaggio čechoviano allude, è della levatura di una Sfinge. Nella tradizione della narrativa russa, è espressione di un demone meschino, che precorre l’«inettitudine» del protagonista di Italo Svevo in La coscienza di Zeno. Quest’ultimo e i contendenti di Čechov hanno in comune l’aver smarrito un senso di autentica nobiltà. Più che confidare in una propria superiorità, essi spiano le debolezze l’uno dell’altro, facendo leva sui sensi di inferiorità altrui.

In effetti, in tutto ciò c’è poco di inquietante o di perturbante. Gli eventi drammatici, che Čechov o Svevonel finale del suo romanzo – paiono in grado di prevedere, non sono fatali né inevitabili. E’ quanto la Arendt si ostina a credere e a suggerirci. Come Adler o Marcuse d’altro canto insegnano, quelli rientrano in una logica i cui esiti si possono prevenire, prestando attenzione ai segni delle premesse o vagliando le voci di chi almeno in parte si è liberato da condizionamenti. Allo stesso modo, non è un’ipotetica «co-essenza» originaria a determinare le forme di coesistenza. Al contrario, le ragioni della coesistenza convalidano ogni ragionevole «co-essenza», contribuendo a conformare un mondo a sua immagine. Forse, l’inconscio sarebbe allora avvertito come la scena su cui si provi un nuovo spettacolo, più che come quella dove si replichi una vecchia recita.

Chi non l’abbia letto vorrà magari sapere la conclusione del racconto di Čechov, o il fattore scatenante che spinge lo sfidante a battersi in un anacronistico duello. Ebbene, qui l’autore si mostra degno emulo di Sofocle. Quel motivo non discende da un divieto come nell’Antigone, bensì da una larvata minaccia di interdizione dalla comunità. Per inchiodarlo a un intimo paradosso, l’antagonista rinfaccia al personaggio principale di essere un ebreo di origine tedesca. Nella Russia dei pogrom zaristi, il particolare poteva suonare peggio di un insulto. L’offeso non riuscirà nell’intento di uccidere «regolarmente» l’avversario. Né Čechov fa capire se ciò avviene perché la mano di lui esita nel mirare a un facile bersaglio, o se è un «provvidenziale» evento esterno a sviare il colpo. La vicenda si chiude con una pensosa riconciliazione. Ma è solo una storia, non la Storia a venire.

 

Enigma e labirinto

 

Nella religiosità ellenica arcaica, si favoleggiava che gli dei stravolgessero le menti di chi volevano perdere. Secondo Eschilo nei Sette contro Tebe, una simile paranoia perseguita Edipo, nonostante il suicidio della Sfinge.[47] Una tradizione narra che essa fosse stata inviata dai divini Hera o Febo, a punire Laio o il suo intero popolo per le loro colpe. Ma perfino il simulacro della Sfinge «sembra impazzire», nella Tebaide di Stazio, di fronte alle stragi della guerra fra Tebe e Argo. Il risorgere della paranoia della Sfinge, durante le vicissitudini belliche, è d’altronde evocato dal poeta pacifista in maniera efficace e pregnante: «che di nuovo vociferasse dall’alto delle rocce, chi si sarebbe astenuto dal sostenerlo, vuoi per sentito dire vuoi per testimonianza diretta?».[48]

Altrove nel poema latino, la Sfinge è rimpiazzata dalla paradossale allegoria di una Furia raziocinante. Nel dettare la necessità e le regole della sua ratio belligerandi, essa ha buon gioco contro la falsa coscienza di una Pietas tardiva e imprevidente. Dopo l’eclissi del demone teriomorfo e il lungo «crepuscolo degli dei» che subentra, non c’è motivo di ritenere che un’interferenza del genere sia esterna alle vicende umane. Ciò non toglie che venature di paranoia insistono a inquinarle, al punto da lasciar sospettare che questo sia un prezzo imposto dalla Storia. In La morte della Pizia, un modernissimo Dürrenmatt immagina che lo spettro umanizzato della Sfinge si lasci andare a un giudizio, il quale risuona tanto più impietoso quanto più rivestito di simulato realismo:

 

Ho riflettuto sugli esseri umani e li ho interrogati prima di sottoporre ad essi il mio enigma e farli sbranare dalle mie leonesse. […] Mi interessava sapere come mai gli uomini si lascino opprimere. Per amore del quieto vivere, ho concluso, che spesso li induce a inventarsi le teorie più assurde per sentirsi in perfetta sintonia con i loro oppressori. Del resto, gli oppressori escogitano teorie non meno assurde pur di riuscire a illudersi di non opprimere gli individui su cui esercitano il loro dominio.[49]

 

Insieme all’inedita soggettività del personaggio, sorprende il discorso storico-politico. In realtà, solo in apparenza esso è disgiunto dalla sostanza del suo enigma. Questa Sfinge si colloca a un crocevia. Se i romantici erano inclini a identificarla nella Natura, ovvero in un inconscio naturale, i recenti contemporanei propendono ad associarla alla Storia, prodotto distorto e mistificato dell’inconscio collettivo. Ciò è maggiormente vero per La serata a Colono della Morante. Non meno della Sfinge di Dürrenmatt, il suo italico Edipo ha  assistito alle peggiori aberrazioni, da Buchenwald a Hiroshima. Ha combattuto nella guerra d’Etiopia e nel secondo conflitto mondiale. Fatto prigioniero, ferito ovviamente a un piede, è rimasto invalido nel corpo e nell’animo. Deluso e in fuga da se stesso, è approdato a uno ospedale psichiatrico di provincia.

Non pochi scrittori del Novecento hanno ceduto alla tentazione di rivisitare la Sfinge e specialmente Edipo. Altri hanno trovato congeniale attualizzare il personaggio di Antigone. Alla fine dell’Ottocento, l’Antigone sofoclea aveva fatto un’incursione decadente in La città morta di Gabriele D’Annunzio, dramma concepito su misura della recitazione di Eleonora Duse. Ivi la suggestione eroica della civiltà micenea intriga la moderna vicenda borghese, attraverso uno scorcio archeologico di sfondo. Ma si pensi soprattutto agli esempi teatrali che si sono prestati a una lettura talora controversa, in relazione alle vicende connesse con i due conflitti mondiali, dall’Antigone di Hasenclever nel 1917 a quelle di Jean Anouilh in Francia e di Bertolt Brecht in Germania.

Secondo Sofocle nata per amare e non per odiare, nondimeno l’eroina è assurta volentieri a simbolo della resistenza all’oppressione politica o della protesta sociale, là dove se ne sia presentato il motivo o l’occasione. Alle dislocazioni nel tempo si affiancano quelle nello spazio. Da più Antigoni impegnate nel teatro portoghese si passa a un’«Antigone berlinese» (Die Berliner Antigone), narrazione del tedesco Rolf Hochhuth. Al declino del secolo, si giunge ai drammi Antígona furiosa dell’argentina Griselda Gambaro e Antigone a New York del polacco Glowacki. Qui in particolare, la protagonista impersona i traumi dell’immigrazione e l’emarginazione causata da una difficile integrazione, quando l’antica polis si è evoluta nell’odierna metropoli.[50]

Benché calata in una realtà remota e a lei estranea, l’Antigone inurbata di Janusz Glowacki più si avvicina a quella rurale e neo-realistica della Morante. Tanto illetterata quanto sensibile alle «leggi non scritte», la seconda parla un dialetto dell’Italia meridionale. Al contrario, prima di accecarsi l’Edipo della stessa Serata a Colono ha letto di tutto, dalle Upanishad indiane a qualche testo strutturalistico. Echi di tali letture si alternano a sprazzi di lucidità, nel suo vaniloquio. In fondo, l’anziano reduce sa che incesti e parricidi sono pretesti per mascherare ben altri o altrui sensi di colpa. Eppure, la sua protesta non esprime solo disinganno circa la razionalità del progresso civile. Egli dispera della libertà di scelta di fronte agli eventi storici. Diffida di un’umanità divenuta abile al proprio annientamento. E mette in discussione la visione del mondo della civiltà occidentale, fino a sostituirvi un’amplificazione aggiornata dell’enigma della Sfinge:

 

Non c’è un inizio né una chiusa né un ordine di periodi

com’è uso nelle scritture della logica sintattica.

E MORTE E NASCITA E MORTE E NASCITA E MORTE E NASCITA

questo motto così ripetuto a caratteri uguali senza virgole né punti

è stampato lungo il cerchio di una ruota.

Ma la mente, stretta nella sua frammentaria misura lineare,

si fabbrica le sue geografie e le sue storie

come un folle coatto che, nel percorrere avanti e indietro la sua corsia,

crede di viaggiare alla scoperta di regioni inesplorate.[51]

 

Nonostante l’ambientazione periferica, in un «Terzo Mondo» interno e complementare a questa civiltà, l’orizzonte della polis della Morante è già quello della nostra cosmopoli, con la City al posto della cittadella o dell’acropoli, con le sue resilienti sfingi e non senza qualche premurosa Antigone. Per giunta ciò che era infinitamente improbabile, l’effetto totale dell’impulso distruttivo, è adesso straordinariamente probabile. Arrivato all’umile Colono, l’interprete qualcos’altro ha imparato. Che il cercare se stessi di Eraclito, il conoscere se stessi di Socrate, il tornare in se stessi di Agostino (la sequenza è di Binswanger), non sono chiusure nel vicolo cieco dell’io bensì aperture verso la presa di coscienza del sé: inconscio sociale, collettivo o naturale, che s’intenda.

Lungo il cammino, la cecità di Edipo ha assimilato lo sguardo della Sfinge. Né può fare a meno degli occhi di Antigone. In una finale epochê delle categorie kantiane, passato e futuro si compenetrano. Contrapposto alla supponenza dell’Edipo re, tale è l’Edipo che Deleuze definisce «nella sua linea di fuga divenuto impercettibile, identico al grande segreto vivente».[52] D’ora in poi, toccherà ad Antigone fare i conti con la propria epoca. Il rischio della distruzione globale è la Sfinge di questo tempo, che condiziona metro di giudizio, raggio di azione e margine di libertà di fronte agli eventi. O forse, più semplicemente, emerge il vero volto enigmatico della Sfinge.

In tale frangente, il superamento della modernità è già posto a livello di istanza oggettiva. Espressione coniata nelle Fenicie di Euripide, il «por termine al potere della Sfinge» diventa un’impresa interiore da rinnovare di continuo. Il confronto con lo straordinariamente probabile può farsi tensione verso un infinitamente improbabile, nell’accezione «miracolosa» qui sopra citata della Arendt. Ma va preso atto delle riserve espresse da Dürrenmatt, nelle parole dell’indovino Tiresia dirette alla Pizia, inconsapevole alleata della Sfinge nell’ordire la trama del travaglio di Edipo:

 

Se fossi un matematico potrei dirti con esattezza quanto fosse improbabile la probabilità che il tuo oracolo cogliesse nel segno: era straordinariamente improbabile, infinitamente improbabile. Eppure il tuo responso si è avverato, mentre sono finiti in niente i miei responsi così probabili e dati ragionevolmente con l’intento di fare politica, e cambiare il mondo, e renderlo più ragionevole.[53]

 

Il reagire agli eventi, anziché subirli passivamente, è una risorsa epica più che mitica. Ciò converte Antigone in un’eroina tragica, sottraendola a un ruolo altrimenti secondario. Tra i non rari personaggi femminili sfortunati della mitologia greca, volendo la si può paragonare ad Arianna. Nell’Edipo a Colono, Sofocle stabilisce un collegamento sia pure occasionale fra i due miti, quando fa incontrare Edipo con Teseo, vale a dire la Tebe mitica con un’Atene pseudo-storica. Nelle Supplici, Euripide insiste a intrecciare le vicende di Teseo e quelle della stirpe di Edipo. Sebbene i rispettivi rapporti familiari e affettivi sono diversi o addirittura invertiti, l’eroina del Labirinto sta al Minotauro e a Teseo, all’incirca come Antigone alla Sfinge e a Edipo. Mutatis mutandis, sul fondale della scena si staglia l’immagine archetipica di un mostro antropomorfo e antropofago a un tempo.

Anche per esperienza vissuta, un altro elemento di confluenza è centrato dalla pensatrice Maria Zambrano, nella pièce teatrale La tomba di Antigone. Tale è il contrasto fra «il mondo propriamente terrestre, in cui [Antigone] è nata in un labirinto di viscere simili a serpi (il labirinto della famiglia)» e «quello della guerra civile e della successiva tirannia (il labirinto della Storia)». La guerra civile spagnola, cui allude tra le righe la Zambrano, è stata prefigurazione di una guerra totale. I due livelli, cui ella si riferisce, sono l’uno speculare dell’altro. Anzi, è una lezione della psicoanalisi, tra essi non c’è vera soluzione di continuità. Nei recessi di questo composito labirinto seguita ad aggirarsi il fantasma di Edipo, conteso fra gli inganni della vecchia «Chimera» e la verità di Antigone. Ma è a lei che rivolge un estremo accorato appello: «Accompagnami Antigone, figlia, non mi lasciare ancora. Guidami, assistimi, anche se ora ci vedo; non posso restare solo».[54]

L’accostamento fra labirinto ed enigma ricorre nella raccolta di poesie di Jorge L. Borges, intitolata nel 1964 El otro, el mismo, il cui titolo rimanda alla inestricabile connessione tra alterità e identità. Nella lirica Un poeta del siglo XIII, il poeta argentino si interroga su tale corrispondenza: «Dédalo, laberinto, enigma, Edipo?». Sostituite le pietre con le parole, è come se Edipo interpretasse ciò che Dedalo, pur sempre un uomo, ha costruito. In Edipo y el enigma, si affaccia la Sfinge e il tema dell’enigma viene in primo piano. Esso funge da filtro fra l’emblematica fisicità del mostro e la claudicante astrazione dell’interprete, determinando una specularità deformante. In questa mostruosità riflessa, all’umanità che Edipo impersona non resta che riconoscersi: «Per sempre Edipo e l’immane triplice bestia in tutto noi siamo, fummo e saremo» (Somos Edipo y de un eterno modo/ la larga y triple bestia somos, todo/ lo que seremos y lo que hemos sido).[55]

 

La meta-politica di Antigone

 

La presente rassegna sarebbe più carente e meno aggiornata di quel che è, se non si citasse il dramma Perdição. Exercício sobre Antígona, pubblicato dalla narratrice portoghese Hélia Correia nel 1991.[56] Qui la struttura labirintica è assunta a matrice della rappresentazione scenica, articolandosi su più piani e in relative antitesi: sfera pubblica e domestica o privata, mondo dei vivi e regno dei defunti, visione maschile e femminile dell’esistenza. L’effetto perseguito è un perdersi nei meandri dell’inconscio, in un progressivo straniamento dalla falsa coscienza della realtà. Il ruolo-guida di un’Antigone baccante è un recupero scomodo dalla tradizione della tragedia classica, in particolare dalle Fenicie di Euripide e anche da Sofocle. A maggior ragione, in controluce esso sovrappone il personaggio a quello dionisiaco e, non dimentichiamo, nicciano – di Arianna. Del resto, tramite il capostipite Cadmo la stirpe di Edipo non era imparentata nientemeno con Dioniso?

Applicare al discorso le categorie nicciane è una sfida stimolante. Infatti, Tebe era centro del culto di Dioniso; Delfi, di quello di Apollo. Un’Antigone baccante, sia pure «dei morti», collima e insieme contrasta con l’epiteto «Musa dei morti», riservato alla Sfinge nell’Argomento dell’Edipo re di Sofocle. Se si dà inoltre credito al mito di una Sfinge istruita dalle Muse e inviata da Apollo, allora viene da individuare nella Sfinge una figura apollinea, in competizione con un’Antigone presenza dionisiaca.[57] Una Sfinge, rigida conservatrice dell’ordine costituito purché sia, a fronte della versatile carica destabilizzante di Antigone. Malgrado i funebri accenti con cui l’eroina euripidea si compiange, quest’Antigone/Arianna mostra un atavico intuito nel rintracciare i punti deboli nell’artificiosa razionalità del «sistema». Quasi antidoto dell’«eterno ritorno», ella sempre e ovunque mira al nocciolo delle contraddizioni. Tanto avviene, senza affidarsi a nessun Teseo.

Ancor più che per Teseo, una crescente insofferenza per l’Edipo della psicoanalisi si riflette nella produzione di Kathy Acker. Nel vario testo del suo Don Quixote, la scrittrice newyorchese fa a lui recitare un caricaturale autoritratto, nel patetico intento di indurre un refrattario despota a revocargli il bando dell’esilio: «Ho assassinato mio padre, stuprato e ucciso mia madre con efficacia. I giusti dovrebbero assassinarmi. Per favore, qualcuno mi tocchi. Tocchi fisicamente questa carne malata di mente. Sono disposto a tutto per un abbraccio. Non c’è fine, perché non c’è rimedio, al mio dolore». Per fortuna, altrove la graffiante «Regina del Punk» bilancia il risentimento contro Edipo, con un indulgente ritorno di lirico slancio nei riguardi di Antigone: «…antigone goes wild/ because oedipus was blind/ may my cunt come out again/ may my cunt be wild».[58]

«Il cuore di Antigone è il pendolo del mondo»: questa poetica iperbole di Marguerite Yourcenar – nella raccolta di versi del 1936, intitolata Feux – ben rende la vocazione del personaggio a varcare la soglia fra pietà e trasgressione, tra inconscio e coscienza, fra tempo mitico e tempo storico. Tale oscillazione stride con l’ordine arcaico della Sfinge, riconducibile alla percezione sacrale di un delfico «ombelico del mondo», di un fato oracolare ineluttabile e inspiegabile. Ma non si tratta di mera pendolarità. Se è vero che la tragedia greca nasce dallo «spirito della musica» come vuole Nietzsche, quello di Antigone somiglia a un tempo musicale, variazione su tema in cui la differenza prevale sulla ripetizione; la tendenza al decentramento, su una forzosa centralità. Né è un caso che ciò si verifichi, ogni qual volta un centro di comodo torni a radicarsi nella nostra visione del mondo. Il punto di fuga di Antigone è un prospettico altrove.

Per quanto compilatorio possa essere, a un discorso di qualche densità si addice più di una conclusione. Conviene quindi la pazienza di porsi un’ultima questione. Se si ritiene plausibile il ruolo della Sfinge quale alfiere pur conflittuale dell’«eterno ritorno», quando e dove Antigone prende definitivamente le distanze da essa? Qualcosa del genere deve essersi chiesto perfino Sofocle. Nell’esodo dell’Edipo a Colono, egli fa dire ad Antigone esule, rivolta a Teseo: «Rimandaci alla vetusta Tebe».[59] Nella scelta irrevocabile di questo ritorno, è già implicita la tragedia susseguente. Tuttavia è una scelta libera e consapevole, in cui Antigone delficamente non conosce solo se stessa. Ella mette in gioco la propria essenza, a repentaglio della sua esistenza.

La decisione dell’eroina rievoca quella del ritorno a Itaca presa da Ulisse nel poema di Omero, sulla spiaggia dell’isola di Ogigia. Probabilmente non fortuito, ôgygious è il suggestivo aggettivo che Sofocle riserva alla città di Tebe, e che qui abbiamo reso riduttivamente come «vetusta». Latinizzato nella Tebaide di Stazio, il termine Ogygius vi ricorre quale sinonimo di «tebano». Nel pubblico dell’epoca, la coincidenza linguistica doveva tradursi in una immediata associazione mentale. Riguardo a Ulisse, Antigone procede però in direzione inversa. Il primo fugge da una situazione surreale e senza tempo. La seconda fa ritorno al tempo mitico, munita di un principio di realtà forse utopico e non abbastanza realistico, ma nient’affatto rassegnato e fatalistico.

La vera missione di Antigone è di fondare – o di correggere – il tempo storico su basi ragionevoli, sottraendolo a un determinismo tanto peggiore del precedente, quanto offuscato dalla presunzione del contrario. Nel celebre vocabolo greco che sta per «ritorno», non c’è connotazione che rimandi a una vieta coazione a ripetere. Al contrario, vi sono implicate le idee di viaggio, di scoperta e di rinnovamento. A maggior titolo che all’Odissea, viene da pensare ai nostoi di Antigoni più recenti e personali, quali quelli di Judith Malina a Berlino, della Arendt a Gerusalemme, della Zambrano in Spagna. Soprattutto, al viaggio di Edith Stein deportata ad Auschwitz, per tragica coerenza e per una sua volontà di condivisione delle sorti degli internati nei campi di sterminio.

Il nostos di Antigone si destreggia fra più livelli di realtà. Lungo la catena di trasmissione degli autori che lo iscrivono o degli attori che lo interpretano, il personaggio ha appreso a sfruttare i vantaggi di essere tale, per meglio realizzare il proprio potenziale. Lo fa adattandosi ai corsi e ai ricorsi storici, per tornare identico eppure mutato nei momenti di crisi. In una parola esso ha imparato a «ri-contestualizzarsi», a tal punto da dare l’impressione di sforzarsi di decondizionare gli eventi, scontrandosi con una loro simmetrica resistenza. La risonanza dell’enigma e la traccia del labirinto continuano a sovrapporsi, senza mai giungere a un senso che li superi entrambi. L’ordine dei significati è irriducibile a quello dei significanti. Li divarica un tenace scarto deformante.

Durante l’esilio nei pressi di Atene, l’Antigone classica ha avuto modo di riflettere. Ella non intende rinunciare alla sua missione, e nemmeno farsi strumento connivente in mani altrui contro la propria patria. Né diplomatica né rivoluzionaria, né pre-politica né impolitica, nella sua «nost-algia» si presente quasi l’eco di un passo del Teseo di Gide. Al di là della mitica guerra fra Argo e Tebe, si intravede sullo sfondo il secondo conflitto mondiale appena concluso, col suo scenario di recenti devastazioni e con uno strascico di recidive lacerazioni. All’esaltazione della noluntas da parte del risolutore dell’enigma della Sfinge (l’allusione a Schopenhauer si giustifica, a fronte delle reminiscenze nicciane nel testo di Gide), l’ateniese che era penetrato ed evaso dal Labirinto oppone una sua filosofia pratica. Essa simula proprio quella phronêsis, già cara al genio di Sofocle:

 

Caro Edipo […], posso soltanto elogiare questa sorta di saggezza sovrumana, a cui ti richiami. Ma il mio pensiero non può seguirti su questo cammino. Io resto figlio di questa terra e credo che l’uomo, chiunque sia e per quanto corrotto possa apparirti, debba giocare le carte che si ritrova in mano.[60]

 

Se pare difficile focalizzare l’immagine di Antigone tralasciando l’antecedente della Sfinge, non lo è meno prescindere da un confronto fra Tebe e Atene. Lungi dal contestare il progresso, ciò che teme Sofocle e che Antigone avversa è un regresso alla barbarie sotto mentite spoglie. Nell’Edipo a Colono, tragedia composta dopo l’Antigone, trapela qualche orgoglio che una lezione in merito possa provenire dalla più evoluta Atene. Ma l’avvertimento è diretto anzitutto alla città storica dell’autore. Di attendibile composizione ancora posteriore, l’Antigone del presunto Pseudo-Eschilo nei Sette contro Tebe aggiunge qualcosa di importante: l’involuzione è tanto più insidiosa, quanto più può celarsi dietro le parvenze non di una tirannide bensì di una democrazia o di una superiore civiltà. Il «potere della Sfinge», come lo chiama Euripide, è più che mai in agguato.

Il ciclo tebano non termina con i suicidi di Antigone, di Emone e della madre Euridice, né con la follia di Creonte come nell’Antigone di Sofocle. Un supplemento si ha sia nelle Supplici di Euripide, sia nella Tebaide di Stazio. Più che una variante, il prevedibile epilogo è una ricaduta nell’«eterno ritorno». Si assiste all’ingerenza di Teseo. Egli si erge a paladino di madri o di vedove dei caduti argivi insepolti, le quali lo hanno «supplicato» di intervenire a riparare l’ingiustizia patita a Tebe. Celeste o terreno che sia, un diritto internazionale ante litteram è così salvo. Ateniese negli incerti voti di Euripide, o romana extrema ratio sottintesa da Stazio, una pace viene ristabilita. Per vie traverse, perfino la memoria di Antigone sembra vendicata. Nella Tebaide, l’esortazione alle truppe è un concentrato di temi della protesta di lei, ridotti a ideologia. Il filo del discorso di Teseo vuole ricondurci in un labirinto, da cui non sia possibile uscire se non con le armi in pugno:

 

Siano le vostre menti all’altezza del compito di difendere, con me, le leggi della terra e i patti del mondo. E’ chiaro: sono dalla nostra parte i favori degli dei e degli uomini, la Natura che tutto dirige, la turba degli spiriti del tacito Averno. Dall’altra, si schierano le Pene addestrate a Tebe, alzano vessilli le Sorelle con chiome di serpenti. Andate fieri, vi prego, fiduciosi nella nobiltà della causa .[61]

 

Non c’è dubbio che qui Stazio si rifaccia a Euripide. Sia nella Tebaide sia nelle Supplici permane un fondo di ambiguità, relativo al contesto storico rispettivo di entrambi. Se era arduo far giungere al pubblico il loro messaggio, vincendo censure dell’ufficialità e resistenze nella mentalità correnti, lo era altrettanto evitare che esso fosse frainteso o a sua volta strumentalizzato. Fino a che punto quel messaggio può essere recepito come pacifista? In particolare, risulta contraddittorio l’atteggiamento di Euripide, in quella che peraltro si è spesso ritenuta un’opera-manifesto della democrazia ad Atene. Infatti, l’autore affida il ruolo di defensor pacis a un araldo tebano, e a Teseo quello di fautore degli argomenti di una guerra «giusta». Anche alla luce delle vicende politiche ateniesi, con cui coincise la prima della tragedia nel 421 a. C., sembra comunque di poter giudicare che le simpatie del poeta prevalessero sulla retorica imparzialità del sofista:

 

Chiunque il bene dal male discerna

sa se migliore sia la pace o la guerra,

sa che la prima è tanto cara alle Muse

quanto è invisa alle Furie, sa che essa

ama la prosperità e le gioie dei bambini.

Ora, è da sciocchi anteporre a tali beni

le ragioni delle armi, sì che una città sia

asservita all’altra, l’uomo all’altro uomo.[62]

 



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[1] S. Freud, L’inconscio, nella raccolta di saggi Metapsicologia, Boringhieri, Torino 2002, pp. 74-75 (trad. it. di R. Colorni da Das Unbewusste, in Internationale Zeitschrift für ärztliche Psychoanalyse n. 3, 1915).

[2] C. G. Jung, La libido, simboli e trasformazioni, Newton Compton, Roma 1993, pp. 7-8 e 23 (trad. it. di G. Mancuso da Wandlungen und Symbole der Libido, 1912).

[3] Sofocle, Antigone [Antigonê], vv. 453-457.

[4] L. Muraro, L’ordine simbolico della madre, Editori Riuniti, Roma 1992; in particolare, si vedano le pp.  83-87.

[5] R. Braidotti, Madri, mostri e macchine, trad. it. di A. M. Crispino, manifestolibri, Roma 1996, p. 27 (il capitolo da cui è tratta la citazione è traduzione di un saggio edito in Nomadic Subjects: Embodiement and Sexual Difference in Contemporary Feminist Theory, Columbia University Press, New York-Londra 1994.; della stessa autrice, si veda la parziale riscrittura e traduzione Soggetto Nomade. Donne e crisi della modernità, Donzelli, Roma 1995).

[6] Ateneo di Naucrati, Sofisti a banchetto [Deipnosophistai], libro XIII: il passo superstite vi è citato quale desunto, appunto, da I venditori di ghirlande di Eubulo.

[7] E. Fromm, Marx e Freud, Garzanti, Milano 1978, p. 195 (trad. it. di L. Pecchio da Beyond the chains of illusion: My encounter with Marx and Freud, Simon and Schuster, New York 1962). Per l’interpretazione freudiana del simbolo della Sfinge e dell’intero mito tebano da parte di Fromm, si veda Il linguaggio dimenticato, Bompiani, Milano 1990, pp. 92 e 188-220 (trad. it. da The forgotten language: An introduction to the understanding of dreams, fairy tales, and myths, Rinehart, New York 1951).

[8] F. Dürrenmatt, La morte della Pizia, Adelphi, Milano 2003, p. 21 (trad. it. di da Das Sterben des Phythia, Diogenes, Zurigo 1985).

[9] C. G. Jung, La libido, simboli e trasformazioni, trad. cit., p. 16.

[10] F. Brezzi, Antigone e la Philía. Le passioni tra etica e politica, FrancoAngeli, Roma 2004, p. 297.

[11] F. Brezzi, ibidem, p. 261. Cfr. A. Agostino, La città di Dio [De civitate Dei], III 14.

[12] K. P. Kavafis, O Oidipous, in Poiêmata 1882-1932, Ermês, Atene 2003. Come si è qui visto per Deleuze e più sopra per la Weil, nella lunga prefazione a Ifigenia in Aulide di Euripide (Einaudi, Torino 1966) anche lo studioso italiano di teatro Gerardo Guerrieri sviluppa un confronto tra Edipo e i personaggi dell’Antico Testamento: «Edipo, come Giobbe, è stato toccato dal miracolo del dolore, che gli apre la strada della saggezza, alla comprensione cioè della legge che per l’uomo è oscura: all’iniziazione. Il destino si trasforma in una specie di oscura provvidenza».

[13] J. Baudrillard, L’altro visto da sé, Costa & Nolan, Genova 1997, pp. 52-53 e 43 (trad. it. di M. T. Carbone da L’autre par lui-même. Habilitation, Galilée, Parigi 1987).

[14] C. G. Jung, Psicologia della figura del Briccone, in Opere vol. IX,  tomo 1, Boringhieri, Torino 1980, p. 263 (trad. it. da Zur Psychologie der Tricksterfigur, 1954).

[15] C. G. Jung, Simboli della trasformazione, in Opere vol. V, Boringhieri, Torino 1970, p. 231 (trad. it. da Symbole der Wandlung, 1952: revisione, da parte dell’autore, di Wandlungen und Symbole der Libido, op. cit.).

[16] Su invito di Otto Rank, il logo di Edipo con la Sfinge fu anche adottato sulle pubblicazioni della International Psychoanalytical Press. Nel 1919 Theodor  Reik condensò le interpretazioni pertinenti in una conferenza presso l’Associazione Psicoanalitica Viennese, pubblicata nel 1920 nella rivista Imago n. 2; si veda la trad. ingl. con titolo Oedipus and the Sphinx, in Dogma and Compulsion, International Universities Press, New York 1951, pp. 289-332.

[17] Si veda L. Binswanger, Ricordi di Sigmund Freud, Astrolabio, Roma 1971 (trad. it. da Erinnerungen an Sigmund Freud, Francke Verlag, Berna 1956). Cfr. The Sigmund Freud-Ludwig Binswanger Correspondence 1908-1938, a cura di Gerhard Fichtner, trad ingl. dal tedesco di A. J. Pomerans, Other Press, New York 2003.

[18] Apollodoro, Biblioteca, 3.5.8: Ti estin ho mian echon phônên tetrapoun kai dipoun kai tripoun ginetai; («Che cos’è che, avendo una sola voce, ha quattro piedi e poi due e poi tre?»). Cfr. la terza hypothesis all’Oidipous tyrannos di Sofocle: «C’è sulla terra un animale con un’unica voce,/ ma con due, con quattro e con tre piedi; solo fra tutti/ gli esseri che si muovono in terra, in cielo e in mare, egli muta natura».

[19] Passo tratto da L. Binswanger, Considerazioni su due poco rimarcati «Pensieri» di Pascal sulla simmetria, in Psichiatria e territorio, vol. VI n. 1, 1989, pp. 7-14 (trad. it. di Max Beluffi da Ausgewählte Vorträge und Aufsätze, «Conferenze e articoli scelti», Francke Verlag, voll. I e II, Berna 1945/1947 e 1955).

[20] Passo tratto da L. Binswanger, Dall’«homo natura» all’«homo existentialis», in Per un’antropologia fenomenologia. Saggi e conferenze psichiatriche, Feltrinelli, Milano 1970, pp. 169-201 (trad. it. di E. Filippini da Ausgewählte Vorträge und Aufsätze, op. cit.).

[21] F. Dürrenmatt, La morte della Pizia, trad. cit., p. 63.

[22] P. Ricoeur, La questione del soggetto: la sconfitta della semiologia, in Il conflitto delle interpretazioni, Jaca Book, Milano 1977, p. 253  (trad. it. con prefazione di A. Rigobello da Le conflit des interprétations. Éditions du Seuil, Parigi 1969).

[23] S. Freud, L’interpretazione dei sogni. Psicopatologia della vita quotidiana. Tre saggi sulla sessualità, Newton Compton, Roma 1992, p. 93 (trad. it. di A. Ravazzolo da Die Traumdeutung, 1899).

[24] A. Adler, Prassi e teoria della Psicologia Individuale, Astrolabio, Roma 1967, pp. 188-189 (trad it. di U. Ascari da Praxis und Theorie der Individualpsychologie, 1920)

[25] P. P. Stazio, Tebaide [Thebais], libro VIII, vv. 622-624.

[26] M. Heidegger, L’inno Der Ister di Hölderlin, Mursia, Milano 2003, p. 79 (trad it. di C. Sandrin e U. Ugazio da Hölderlins Hymne «Der Ister», 1942).

[27] Si veda M. Heidegger, Seminari di Zollikon, Guida, Napoli 1991, pp. 331-332 (trad. it. di A. Giuliano da Zollikoner Seminare, a cura di Medard Boss, Klostermann, Francoforte sul Meno 1987; i seminari si svolsero dal 1959 al 1969).

[28] F. Hölderlin, Sämtliche Werke, a cura di F. Beissner, Kohlhammer, Stoccarda 1943, vol. V, p. 219.

[29] M. Heidegger, Hölderlins Hymne «Der Ister», in Gesamtausgabe vol. 53, Klostermann, Francoforte sul Meno 1984, p. 71; cfr. la trad. it. integrale in L’inno Der Ister di Hölderlin, op. cit., pp. 55-56. La traduzione da Sofocle di Heidegger varia poco rispetto a quella già data in Einführung in die Metaphysik, Max Niemeyer, Tubinga 1953, pp. 112-113; cfr. la trad. it. in Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano 2003, pp. 154-156.

[30] Sofocle, Antigone [Antigonê], vv. 1272, 1310, 1311, e Edipo re [Oidipous tyrannos], v. 1347.

[31] P. M. Lines, Antigone's Flaw, in Humanitas, vol. XII, n. 1, pp. 4-15, National Humanities Institute, Washington, U.S.A. 1999 (reperibile all’indirizzo Web http://www.nhinet.org/lines.htm).

[32] Si veda M. Heidegger, L’inno Der Ister di Hölderlin, trad. cit., pp. 93-95 e 104-110: L’essenza di Antigone – il più altamente inquietante e Il farsi-di-casa nell’esser-spaesato – l’ambiguità dell’ esser-spaesato.

[33] H. Marcuse, Eros e civiltà, Einaudi, Torino 1978, p. 67 (trad it. di L. Bassi da Eros and Civilization: A Philosophical Inquiry into Freud, Boston 1955 e 1966).

[34] S. Freud, Al di là del principio del piacere, a cura di Alfredo Civita, Bruno Mondatori, Milano 2003, p. 113 (trad. it. di A. Durante da Jenseits des Lusprinzips, 1920). La citazione interna è da Parerga e paralipomena di Arthur Schopenhauer.

[35] Sofocle, Edipo a Colono [Oidipous epi Kolônôi], vv. 1742-1743.

[36] Sofocle, ibidem, vv. 109-110, 1613-1614, 1777-1779. Cfr. M. Heidegger, la traduzione degli ultimi versi in conclusione di Nachwort zu «Was ist Metaphysik?» , 1943 (Poscritto a «Che cos’è metafisica?», trad. it. a cura di Franco Volpi in Che cos’è metafisica?, Adelphi, Milano 2001, p. 86).

[37] H. Arendt, Che cos’è la libertà?, in Tra passato e futuro, Garzanti, Milano 1999, pp. 225 e 226-227 (trad. it. di T. Gargiulo da Between Past and Future: Six Exercises in Political Thought, Viking Press, New York 1961).

[38] K. Löwith, Das Individuum in der Rolle des MitmenschenL’individuo nel ruolo dei propri consimili»], Dreimasken Verlag, Monaco 1928 (altrimenti, in Sämtliche Schriften, vol. I, a cura di K. Stichweh, Stoccarda 1981, pp. 9-127).

[39] V. Alfieri, Antigone, v. 301.

[40] Cristina Valenti, Conversazioni con Judith Malina. L’arte, l’anarchia, il Living Theatre, Elèuthera, Milano 1995, p. 170.

[41] G. Ritsos, Ismene, in Quarta dimensione, trad. it. di N. Crocetti, Crocetti Editore, Milano 2001. Cfr. anche la trad. ingl. di P. Green and B. Bardsley: Yannis Ritsos, The Fourth Dimension, Princeton University Press, 1993. L’edizione originale della raccolta, in greco moderno, è del 1972. Nel Purgatorio della Divina Commedia dantesca, canto XXII, vv. 109-111, il personaggio di Virgilio racconta che le anime di Antigone e di Ismene si trovano ricongiunte nel limbo; ma si rammenti che la tradizione nota a Dante Alighieri era quella della Tebaide di Stazio, secondo cui entrambe le sorelle erano state messe a morte da Creonte in quanto ritenute complici.

[42] L. Irigaray, Tra Oriente e Occidente. Dalla singolarità alla comunità, scelta di testi tradotti dal francese con introduzione dell’autrice, manifestolibri, Roma 1997, pp. 20 e 23.

[43] M. Foucault, Che cos’è un autore?, in Scritti letterari, Feltrinelli, Milano 1996, pp. 3-4 (trad. it. di C. Milanese da Qu’est-ce qu’un auteur?, in Bulletin de la Société française de philosophie n. 3, 1969). Cfr. Adriana Cavarero, Sheherazade intrappolata nel testo, in Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Feltrinelli, Milano 1998. Shahrazad assurta a espressione di una philosophia perennis, nella scia dell’antica dea Iside, è un dramma del 1934 dell’egiziano T. al-Hakim (si vedano le traduzioni in Théâtre du notre temps, Nouvelle éditions latines, Parigi 1960, e in Plays, Prefaces and Postscripts of Tawfiq Al-Hakim, Three Continents Press, Washington 1981).

[44] H. Arendt, Ritratto di un periodo [Portrait of a Period, ottobre 1943], in Ebraismo e modernità, Feltrinelli, Milano 2001, p. 57 (articoli scelti e tradotti da Giovanna Bettini, dalla raccolta curata da R. H. Feldman, The Jew as Pariah: Jewish Identity and Politics in the Modern Age, Grove Press, New York 1978)

[45] H. Arendt, Noi profughi [We Refugees, gennaio 1943], ibidem, p. 37.

[46] A. P. Čechov, Il duello, in I Capolavori di Antòn P. Čechov, Mursia, Milano 1966, p. 331 (trad. it. di G. De Dominicis Jorio da Duel’, in Novoe Vremja nn. 5621-5657, 1891; poi nelle Opere di Antòn P. Čechov, Casa Editrice Statale di Letteratura d’Arte, Mosca 1956).

[47] Eschilo, I sette contro Tebe [Hepta epi Thêbas], v. 756.

[48] P. P. Stazio, Tebaide [Thebais], libro X, vv. 658-660, e libro IV, vv. 375-377. Cfr. libro XI, vv. 477-496.

[49] F. Dürrenmatt, La morte della Pizia, trad. cit., pp. 53-54.

[50] J. Glowacki, Antigone in New York, Samuel French, New York 1993 (trad. ingl. dal polacco Antygona w Nowym Jorku, 1992).

[51] E. Morante, La serata a Colono. Parodia, in Il mondo salvato dai ragazzini e altri poemi, Einaudi, Torino 1995, p. 58.

[52] G. Deleuze, in G. Deleuze e C. Parnet, Conversazioni, ombre corte, Verona 1998, p. 52; cfr. pp. 46 e 112 (trad. it. di G. Comolli da Dialogues, Flammarion, Parigi 1977 e 1996).

[53] F. Dürrenmatt, La morte della Pizia, trad. cit., pp. 65-66.

[54] M. Zambrano, La tomba di Antigone, La Tartaruga, Milano 2001, pp. 47, 82 e 83 (trad. it. di C. Ferrucci da La tumba de Antígona, Siglo XXI, Città del Messico 1967).  Più esplicitamente ispirato alla guerra civile spagnola è il testo teatrale Il sangue di Antigone di José Bergamín, Alinea, Firenze 2003 (trad. it. di P. Ambrosi da La sangre de Antígona, nella rivista Primer Acto, Parigi 1955).

[55] Si veda la trad. it. integrale in L’altro, lo stesso, a cura di T. Scarano, Adelphi, Milano 2002, p. 185. Sul nesso fra enigma e labirinto, cfr. G. Colli, La signora del Labirinto e La sfida dell’enigma, in La nascita della filosofia, Adelphi, Milano 1991; e Filosofia dell’espressione, Adelphi, Milano 1996, p. 236. Si veda anche J.-P. Vernant, Ambiguità e rovesciamento. Sulla struttura enigmatica dell’«Edipo re», in Jean-Pierre Vernant e Pierre Vidal-Naquet, Mito e tragedia nell’Antica Grecia, Einaudi, Torino 1976 e 1991 (trad. it. da Mythe et tragédie en Grèce ancienne, Maspero, Parigi 1972).

[56] H. Correia, Perdição. Exercício sobre Antígona, Publicações Dom Quixote, Lisbona 1991.

[57] Spiegazione affine a quella di C. G. Jung, benché questi preferisca la variante più femminile e «materna» di una Sfinge incaricata dalla dea Hera: «nella leggenda di Edipo, la sfinge è inviata da Hera, che odiava Tebe a causa della nascita di Bacco» (in La libido, simboli e trasformazioni, trad.. cit., p. 166).

[58] K. Acker, Don Chisciotte, ShaKe, Milano 1999, p. 145 (trad. it. di C. Mennella da Don Quixote, Grove Press, New York 1986), e Antigone Speaks About Herself, in Pussy, King of the Pirates, Grove Press, New York 1996.

[59] Sofocle, Edipo a Colono [Oidipous epi Kolônôi], vv. 1769-1770.

[60] A. Gide, Thésée, Gallimard, Parigi 1981: Cher Œdipe […], je ne puis que te louer de cette sorte de sagesse surhumaine que tu professes. Mais ma pensée, sur cette route, ne saurait accompagner la tienne. Je reste enfant de cette terre et crois que l'homme, quel qu'il soit et si taré que tu le juges, doit faire jeu des cartes qu'il a. La trad. qui adottata è quella di Kerényi in Edipo: due saggi, in Karl Kerényi e James Hillman, Variazioni su Edipo, Cortina, Milano 1992, p. 64 (trad. it. da Oedipus Variations, Spring, Dallas 1991).

[61] P. P. Stazio, Tebaide [Thebais], libro XII, vv. 642-648. Le mostruose «Sorelle», cui allude l’autore, sono le Furie o Erinni.

[62] Euripide, Le supplici [Hiketides], vv. 486-493. Cfr. Ettore Romagnoli, introduzione alla trad. it. in Euripide, Le tragedie. Le supplici – Ercole – Ippolito, Zanichelli, Bologna 1928, pp. 3-13.

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