Pino Blasone

 

 

Alcesti,

la donna che visse due volte

 

 

Amore e amicizia

 

Fra i miti greci, la leggenda di Alcesti e Admeto è una di quelle che contiene più elementi fiabeschi. Essa rappresenta una fase di transizione dalla fiaba popolare al mito letterario, che si presti a una rielaborazione colta. Sebbene il mito sia molto antico (ne troviamo cenno nell’Iliade di Omero), come per altri miti una tale rielaborazione arriva puntuale con la tragedia attica. Ben poco ci è rimasto di un’Alcesti di Frinico. Nelle Eumenidi, Eschilo accenna a un antefatto importante, quando una delle Furie o Erinni – in procinto di convertirsi in benigne Eumenidi – rimprovera in questi termini il dio Apollo: “Altrettanto facesti nella casa di Ferete, forzando le Moire a rendere immortali i mortali. […] Sovvertisti gli antichi ordinamenti, col vino raggirando le vecchie dee”.[1]

Le “vecchie dee” sono le Moire ovvero le Parche, preposte a far rispettare i destini umani. Apollo le aveva ingannate facendole ubriacare, in modo da far loro mutare la sorte dell’amico Admeto figlio di Ferete, predestinato a una morte prematura per aver dimenticato di sacrificare alla dea Artemide in occasione delle sue nozze con Alcesti. Le Fate per antonomasia avevano concesso che Admeto potesse sottrarsi a tale morte, se altri si fosse offerto in vece sua. Di tanto ci informa Apollo in persona, nel prologo dell’Alcesti di Euripide, tragicommedia rappresentata per la prima volta ad Atene nel 438 a. C., pare allora con scarso successo. Ciò è comprensibile, se si pensa che il rispetto dell’autore per il mito originale doveva risultare più che altro formale. Nel caso, anche l’alternanza di toni aulici e grotteschi poteva provocare sconcerto nel pubblico più tradizionalista.

Qual era la leggenda tradizionale? Con qualche variante fra loro, ce ne danno ragguagli mitografi quali il greco Apollodoro e l’ellenizzante Eliano, i latini Igino e Fulgenzio (e perfino lo storico greco Diodoro Siculo, nel sesto libro della sua Biblioteca). Cominciamo con quanto riguarda Admeto, giovane re della Tessaglia. In principio c’era Asclepio, figlio di Apollo. Semidio della medicina, egli aveva osato resuscitare degli umani. Perciò era stato letteralmente fulminato da Zeus, re degli dei. A sua volta, Apollo si vendica uccidendo certi Ciclopi che avevano forgiato le folgori di Zeus. Per punizione, questi condanna il figlio Apollo a servire un mortale, per un anno o più. Si dà il caso che il mortale in questione fosse Admeto. La sua generosa ospitalità gli guadagna l’amicizia del dio caduto in disgrazia, che se ne ricorderà una volta reintegrato nelle sue funzioni.

Tale gratitudine si concretizza in un primo favore, da parte di Apollo verso Admeto. Questi aveva deciso di affrontare la prova imposta da Pelia re di Iolco, ai pretendenti di sua figlia Alcesti, consistente nel presentarsi a lui su un carro trainato da bestie feroci. Apollo aiutò Admeto ad aggiogare al suo carro un leone e un cinghiale. In tal modo, l’abile e fortunato auriga poté ottenere la consenziente principessa in sposa. Questo episodio sarà l’argomento della prima parte di un cosiddetto “centone virgiliano” (poemetto latino composto con espressioni riprese dalla poesia di Virgilio), intitolato Alcesta e dedicato all’intera vicenda di Alcesti e Admeto. Per inciso, è da notare che l’Alcesta si discosta non poco dalla versione del mito adottata da Euripide. La principale variante è che la storia si conclude tristemente, col sacrificio altruistico e la morte di Alcesti.[2]

Al greco Plutarco nel suo dialogo Sull’amore, e al latino Tibullo nelle sue Elegie, secondo un gusto ellenistico piacque immaginare che tra Apollo e Admeto vi fosse stato qualcosa di più che una semplice amicizia: Pavit et Admeti tauros formosus Apollo,/ nec cithara intonsae profueruntve comae,/ nec potuit curas sanare salubribus herbis:/ quicquid erat medicae vicerat artis amor./ … (“Perfino il bell’Apollo pascolò i tori di Admeto,/ non potendo giovargli la cetra e i riccioli intonsi;/ né egli poté sanare le sue pene con erbe salutari,/ avendo l’amore vinto ogni ritrovato dell’arte medica./ …”).[3] Apollo, come Asclepio, è qui proposto quale esperto di medicina. Ma nessuna terapia dell’animo si rivela più efficace dell’amore. Plutarco vi aggiungerà Eracle, pure lui legato ad Admeto da un sentimento più affine all’amore che all’amicizia, anche lui pratico dell’arte medica.

I due eroi avevano partecipato alla spedizione degli Argonauti, insieme a Orfeo. Quest’ultimo era stato in seguito protagonista di un altro mito famoso. Sceso da vivo nell’oltretomba, grazie alla musica e al canto egli aveva persuaso le divinità dei morti Persefone e Ade a rendergli l’amata Euridice, appena deceduta. Tuttavia, un errore fatale o una beffa del destino aveva vanificato l’esito dell’impresa, sulla via del ritorno al mondo dei vivi. Nell’opera di Euripide, proprio a Orfeo si riferirà Admeto, rivolto ad Alcesti ormai morente: “Se avessi la voce e il canto di Orfeo, da ammaliare la figlia di Demetra e il suo regale marito, allora scenderei giù agli inferi, deciso a riportarti indietro”.[4] Che si tratti di commuovere gli dei inferi o di vincere la Morte stessa, secondo questa interpretazione l’amore riuscirà là dove medicina e arte avevano fallito.

 

Un male oscuro

 

Nel dialogo Il convito, Platone così commenta il sacrificio di Alcesti: “Soltanto gli amanti giungono a morire per l’altro. Non solamente uomini, anche donne. Figlia di Pelia, Alcesti ne ha dato ai greci un esempio luminoso. Lei sola acconsentì a morire al posto dello sposo, che pure aveva padre e madre. Grazie alla forza dell’amore la sua figura si elevò talmente, da far apparire quelli estranei a loro figlio, senza legami con lui se non di nome. Così avendo agito, il suo gesto è risultato stupendo agli occhi degli uomini, ma anche degli dèi. A ben pochi essi concedono che le loro anime vengano richiamate in vita dal profondo Ade, dopo la morte. Fra tanti eroi distintisi per le loro imprese, tale privilegio fu accordato ad Alcesti, in virtù dell’ammirazione destata dal suo atto. Fino a tal segno, sono in onore tra gli dei dedizione e coraggio al servizio dell’amore”.[5]

Per bocca del personaggio Fedro, l’entusiasmo del filosofo si spinge ad anteporre Alcesti al mitico Orfeo. La prima avrebbe offerto la propria vita in cambio di quella dell’amato, col duplice risultato di salvare Admeto e se stessa. Disceso nell’Ade per sottrarre la sua Euridice alla morte con l’incanto della propria musica, Orfeo non solo avrebbe infine fallito, ma sarebbe andato incontro a una maggiore disperazione e alla personale rovina. Non mancherà chi esprime un parere alquanto diverso. Questo qualcuno è Plutarco, nell’opera su citata: “Si narra che Eracle, esperto in medicina, intervenne a salvare Alcesti quando la donna era in condizioni disperate, per far cosa gradita ad Admeto. Questi infatti, se da un lato amava la moglie, dall’altro era l’amato di Eracle. Stando al mito, pure Apollo divenne l’amante di Admeto e si pose al suo servizio, per un anno intero”.[6]

Qui l’autore razionalizza e un po’ banalizza la leggenda di Alcesti, inserendola in un quadro di relazioni affettive particolari, che non doveva punto scandalizzare i greci dell’epoca. Ancor più interessa la menzione delle “condizioni disperate”, da cui le cognizioni mediche di Eracle avrebbero salvato Alcesti (nella versione del mito adottata da Euripide, Eracle racconta di aver affrontato la Morte/Thanatos, lottando col demone e riuscendo a strappargli l’anima dell’eroina). Di che male avrebbe sofferto Alcesti, tale da indurre l’eroe a esercitare su lei presumibili capacità taumaturgiche? Probabilmente Plutarco allude a un disagio di natura psichica, per esempio una forma di isteria che simuli una morte apparente. Ovviamente per assurdo, il mito stesso ci consente di indagare i trascorsi personali, in cerca di indizi che possano corroborare un’ipotesi del genere.

Stando ai mitografi, e alle Metamorfosi del latino Ovidio, certi trascorsi dell’eroina sono in effetti inquietanti.[7] Benché inizialmente o del tutto dissenziente, Alcesti risulta essere stata coinvolta con le sorelle nell’uccisione del padre Pelia, ordita con l’inganno da Medea. Per vendicare il marito Giasone di alcuni torti subìti, la celebre maga aveva convinto le ingenue figlie dell’anziano re di poterlo ringiovanire e sanare, immergendolo smembrato in un calderone pieno di un filtro bollente da lei stessa preparato. Va da sé, ciò aveva causato la morte del malcapitato. Se si tiene conto del truculento antefatto, che quanto meno Alcesti non aveva saputo impedire, in partenza abbiamo un personaggio il quale doveva essere gravato da forti sensi di colpa in ambito familiare.

Tali sensi di colpa da espiare riguarderebbero la figura paterna. Ma è possibile che essi fossero slittati su quella del marito, in quanto sostituto a livello inconscio. Immolarsi per salvare la vita di Admeto potrebbe ben essere una fantasia espiatoria e compensatoria. Senza l’intervento di Eracle/Ercole, Alcesti avrebbe potuto lasciarsi morire o scivolare in uno stato irreversibile di catatonia. In tal caso, ella verrebbe a essere un corrispondente femminile della più famosa figura mitica e psicologica di Edipo. In qualche misura, al tanto discusso “complesso di Edipo” potrebbe affiancarsi una sindrome di Alcesti. Dopo la scoperta della sua uccisione del padre e dell’incesto con la madre, una delle reazioni di Edipo è quella dell’auto-accecamento. Di fronte al riemergere e al drammatizzarsi di colpe certo minori, una reazione di Alcesti è quella della perdita della parola.

In base ai sintomi dei disturbi psichici più noti, sembra invece potersi escludere la dissociazione della personalità. Se davvero personalità differenti emergono in Alcesti, esse non interferiscono in contemporanea; intervengono prima e dopo l’episodio morboso. Lo stesso Euripide in due o tre occasioni parla di più “anime”, anzi “vite”. Ma il riferimento è generico e in negativo. Nel primo caso, Apollo rinfaccia a Thanatos che non gli spetta più di un’anima, presto o tardi che la morte venga a carpirla. In un altro caso, Ferete protesta al figlio Admeto che tutti hanno una vita da vivere, non due (ψυχῇ μιᾷ ζῆν, οὐ δυοῖν). Solo per antitesi il gioco di parole intraducibile può anticipare l’eccezione rappresentata da Alcesti, anima con due vite da spendere.[8]

 

Il velo e il silenzio

 

Nell’Alcesti di Euripide, da parte di Admeto si ha uno scarno e larvato riferimento alla tremenda fine di Pelia, circostanza che doveva essere nota al pubblico: πατρòς θανόντος ’ενθάδ’ ’ωρφανεύετο (“[Questa donna] viveva qui orfana, dalla morte del padre”).[9] Ma il silenzio di Alcesti è attendibile invenzione del genio del tragediografo. Con esso si conclude la tragedia a lieto fine. Ripresentando ad Admeto la sua sposa velata e dissimulando dapprima l’identità di lei, Eracle lo assicura che quel mutismo è transitorio e di natura rituale. La pretesa rediviva riacquisterà l’uso della parola dopo tre giorni, una volta che ella divenga sconsacrata alle potenze infere cui era stata votata. Nell’antichità la scena suscitò emozioni così intense, da ispirare dipinti e rilievi funerari.

Di una tale afasia, la francese Marguerite Yourcenar ha dato una lettura estensiva nel saggio Esame di Alcesti. Esso è premesso al Mistero di Alcesti, moderna “commedia in un atto” della stessa autrice: “Il mistero della morte a poco a poco invade tutta l’opera: nell’ultima scena, mentre si prolungano oltre misura discussioni quasi casistiche tra l’eroe e il giovane vedovo riguardo alla velata Sconosciuta, lei stessa, immobile e muta, con la sola presenza ci comunica orrore e sacra speranza. […] Euripide sarà stato certo consapevole dell’effetto di questo mutismo, che tradisce l’ineffabile”.[10] Per un approfondimento improntato alla pratica clinica oltre che all’analisi dei miti, conviene però consultare Il femminile nella fiaba di Marie-Louise von Franz.

Senza nominare apertamente Alcesti, l’illustre psicoanalista svizzera ribalta il punto di vista, quasi sdoppiandosi nel suo ruolo empatico di terapeuta. Si possono leggere qui adombrati sia il velo di Alcesti sia il suo silenzio, che assume valenza di una forma di censura: “Esperienze penose mi hanno insegnato che è meglio adottare in tali casi l’atteggiamento degli antichi, cioè coprirsi il volto in silenzio e lasciare che le cose riprendano il loro corso perché, anche se tutto ciò che devi dire è vero, non fai che scavare ancor più l’abisso, senza apportare alcun miglioramento. Non affronti soltanto, in questo caso, il male umano, ma il male della natura presente nella psiche dell’individuo”.[11] Vedremo, più avanti, come al male della Natura si sommi quello della Storia. Entrambi concorrono all’assurdo dell’esistenza, tanto da anticipare il moderno teatro dell’assurdo.

Viene da chiedersi chi sia il vero terapeuta, se Eracle oppure Alcesti. E chi il paziente, Alcesti o piuttosto Admeto. Benché Ferete, nell’Alcesti di Euripide, maligni su una follia di Alcesti e malgrado le funebri allucinazioni di quest’ultima, era stato proprio Admeto a innescare l’intero processo morboso, con le sue manie di fatale predestinazione. Una risposta intermedia è che entrambi, Eracle e Alcesti, sembrano aver condiviso un’esperienza misterica e catartica. È come se letteralmente avessero visto la morte in faccia. Comunque, Alcesti resta la più direttamente coinvolta. Riconosciuta infine da Admeto ma ancora sconosciuta a se stessa, difficilmente ella potrà essere la stessa di prima. Ben poco sappiamo di una nuova Alcesti. Con un silenzio simmetrico a quello dell’eroina, mito e tragedia stendono un velo, con giusto un paio di vaghe eccezioni.

Una di tali eccezioni accenna a un nuovo figlio, avuto dalla coppia di sposi. L’altra è quella autorevole di Omero. Egli ci informa che Eumelo, figlio di Admeto e Alcesti signori della città di Fere, sbarca davanti a Troia al comando di undici navi per partecipare alla guerra dei greci contro i troiani. In particolare di lei si aggiunge che si tratta di una “divina fra le donne, la più avvenente tra le figlie di Pelia” (δὶα γυναικῶν Ἄλκηστις, Πελίαο θυγατρῶν εἶδος ἀρίστη), a sua volta figlio di Posidone. È plausibile che la ridotta divinità attribuita ad Alcesti sia da porre in relazione col suo mito personale, già noto quindi all’epoca, ancor più che con una discendenza dal dio del mare. Ebbene, né Euripide né il suo pubblico potevano ignorare i versi dell’Iliade in questione.[12]

L’omerico Eumelo è il bambino che piangeva la madre morente, nel dramma euripideo. Rispetto ai suoi figli, Alcesti così pregava rivolta alla dea Estia: “Che non periscano anzitempo come la madre, ma vivano in patria una vita piena e felice”. Se accostata ai versi omerici, in questa preghiera traspare l’amara ironia di Euripide. Essa getta una luce sulla crisi di Alcesti. Vano è dedicarsi alla casa, alla famiglia, alla patria, in un mondo sospinto verso una cieca deriva. Anche ogni velleità di riscatto è destinata a essere frustrata. Tutto ciò è rimarcato dall’ambiguità dei versi finali del dramma, recitati da un coro di anziani: “Gli dei compiono molte cose nonostante le nostre speranze: quanto ci si aspetta non si avvera; la divinità realizza ciò che non ci aspettavamo”.[13]

 

C’era e non c’era

 

Notoriamente in più lingue sussistono formule, che di frequente introducono la narrazione delle fiabe: “C’era una volta…”, in italiano; “Once upon a time there was…”, in inglese; “Kāna mā kāna…”, in arabo. Le prime due formule qui evocate sono praticamente identiche. L’una è la traduzione dell’altra. Esse alludono a un passato indeterminato; anzi, tendono a proiettare la storia fuori dal tempo. Si tratta di un tempo immaginario, una sorta di compendio di tutti i tempi possibili, che conferisca maggior potere di suggestione o più ampia portata simbolica alle vicende narrate. La terza formula di cui sopra, traducibile come “C’era e non c’era”, allude piuttosto alla realtà incerta e alla natura favolosa delle vicende stesse. In tal senso, benché di solito più articolato e a volte meglio storicizzato, il mito non si comporta poi in maniera molto dissimile dalla fiaba.

Tuttavia, quando il mito assurge al livello di poesia, può essere pertinente rammentare una definizione di Platone, di nuovo nel Convito: “è poesia qualsiasi causa in grado di convertire qualcosa dal non essere all’essere”.[14] Secondo l’etimologia della parola greca ποίησις, si allude per eccellenza alla poesia e all’arte: a quanto di creativo sia capace di tradurre dalla potenza all’atto, dall’essenza all’esistenza, dall’assenza alla presenza della rappresentazione, dall’occultamento allo svelamento di un’intima verità delle cose e degli eventi. Nello stesso Convito è citato Euripide, sebbene a proposito di un’altra sua tragedia. Ma conviene pure ricordare il pregnante giudizio del filosofo Aristotele nella sua Poetica, su Euripide in quanto “il più tragico fra i poeti”.[15]

Ciò, che in certe fiabe è solo un incipit, diventa centrale nella tragicommedia euripidea, questa volta riferito alla realtà ancor più che alla favola. Sebbene indulga qua e là alla parodia, come quando Apollo dà del “sofista” a Thanatos nella seconda scena dell’Alcesti, senza dubbio il drammaturgo è influenzato dal pensiero della Sofistica a lui contemporanea. Ma in quest’opera emerge piuttosto la questione dell’essere, quale concepita dal filosofo Parmenide e dagli Eleati, filtrata e criticata dai Sofisti Gorgia e Protagora. L’ambiguità fra essere e apparire si addice all’invenzione allora recente del teatro, là dove l’essere viene messo in scena tramite l’apparire. Nell’Alcesti, una tale ambiguità lascia abilmente spazio a più interpretazioni. Essa stessa diventa un contrasto di fondo, nella scena del primo incontro fra Admeto e l’ospite inatteso Eracle.

Riferendosi ad Alcesti tra la vita e la morte, infatti Admeto afferma: ἔστιν τε κοὐκέτ’ ἔστιν (“è e tuttavia non è più”). Lì per lì, l’interlocutore si fa difensore dell’opinione convenzionale: χωρὶς τό τ’ εἶναι καὶ τὸ μὴ νομίζεται (“l’essere e il non essere sono ritenuti cose diverse”). Admeto ribatte che sussistono pareri differenti in merito. I termini della polemica riecheggiano quelli usati dagli Eleati e dai Sofisti. Ma il contesto fa sì che il “duplice discorso” assuma toni amletici, camuffati da commedia degli equivoci. Del resto, Alcesti aveva poco prima esorcizzato ripetutamente il nulla (οὐδέν), verso cui teme di scivolare da defunta: un non esserci, equivalente all’oblio nella memoria dei propri cari. Euripide rasenta la metafisica, senza cadervi.[16]

In un certo senso, per così dire, Alcesti vuol morire per esserci di più. Il paradosso è simile a quello di altre protagoniste delle tragedie di Euripide, quali Fedra e Medea, disposte rispettivamente al suicidio e al delitto nel tentativo di fuggire l’abiezione. Rivolta a Socrate nel Convito platonico, il personaggio femminile di Diotima ce ne rende conto in maniera sia pure iperbolica: “Pensi forse che Alcesti sarebbe morta per Admeto, […] senza credere di lasciare un immortale ricordo del proprio valore, giunto fino a noi?”.[17] Qui la sacerdotessa di Eros figlio di Afrodite si sforza di comprendere la devota di Estia, dea del focolare domestico. Una suggestiva para-etimologia del nome Ἑστία, evocante l’essenza, rimanda di nuovo al problema dell’esserci. Omologa con la latina Vesta, la dea velata lo è anche della stabilità, contro ogni forza centrifuga e dissolutrice.

 

I pro e i contro della critica

 

Se nell’antichità Platone si adoperò a idealizzare la vicenda di Alcesti e Plutarco a razionalizzarla, Charles Perrault sarà consapevole e orgoglioso di essere approdato alla modernità. Egli si affaccerà dall’alto di essa sul capolavoro di Euripide, sottoponendolo a severa critica e prendendolo anzi come pietra di paragone per saggiare la differenza tra antichità e modernità, a tutto vantaggio di quest’ultima. Siamo nel Seicento, in piena polemica culturale fra “antichi” e “moderni”. Purtroppo ciò che il letterato e favolista francese ha a portata di mano da opporre a Euripide, proprio perché nel caso a lui ispirati, sono solo certi inizi del moderno melodramma. Nel 1674, viene rappresentata a Parigi e poi a Versailles un’Alceste con musica dell’oriundo italiano Jean-Baptiste Lully e libretto di Philippe Quinault, riscotendo ampio successo e vivaci critiche.

Subito dopo esce un’anonima Critique de l’Opéra ou examen de la tragédie intitulée Alceste ou le Triomphe d’Alcide, scritta in realtà da Perrault.[18] L’autore si applica a dimostrare la superiorità della versione moderna sul modello euripideo. La replica risentita dei classicisti arriverà l’anno dopo, presso lo stesso editore e nella persona del tragediografo Jean Racine, nella sua Préface d’Iphigénie. Sappiamo che Racine pensava a una sua versione dell’Alcesti, mai portata a termine. Ma che cosa Perrault rimprovera a Euripide? Soprattutto l’inconsistenza del personaggio di Alcesti, una mancanza di carattere, al di là dello spirito di sacrificio. Peggio, per quanto riguarda Admeto, dal momento che la povertà di spirito di Alcesti risalta nel sacrificare la propria vita per un uomo di così scarsi meriti. In parte, il modernismo di Perrault è una sorta di nuovo moralismo.

In un capitolo su Alcesti nel saggio L’Arcipelago, secondo Massimo Cacciari vero movente di Alcesti è l’amore per la propria casa e famiglia, la cui sicurezza la sopravvivenza di Admeto poteva garantire nel migliore dei modi. Lo stesso filosofo prende le difese di Admeto: “Nessuna ombra di viltà in Admeto”.[19] A lui in effetti è affidata la cura familiare dopo la morte di Alcesti; il suo amore per lei è un sentimento sincero; l’impegno a non risposarsi, pieno di buone intenzioni. Un interesse superiore accomuna Admeto e Alcesti. Cacciari paragona Alcesti all’Antigone di Sofocle: questa, giocoforza proiettata verso la πόλις, la città; quella, interamente dedita all’οἶκος, la casa. Entrambe a loro modo figure inquietanti, ma in maniera differente e forse complementare.

Tanto vale mettere a fuoco brevemente la figura di Admeto, spesso trascurata o biasimata per aver lasciato morire la moglie al suo posto: per la verità, ancor più da Ferete nella finzione di Euripide, che nella realtà da Perrault (ovviamente ciò perde alquanto di senso, se si accetta la tesi che l’intera vicenda sia frutto di un’allucinazione condivisa, o sofferta da uno dei coniugi). Tra i numerosi rifacimenti letterari moderni, ce n’è uno in cui si escogita una giustificazione dell’atteggiamento di Admeto improbabile ma interessante. L’accento si sposta dall’οἶκος alla πόλις, i due poli della società greca. La storia si connota con risvolti politici e sociali, che fanno del personaggio quasi una versione positiva del tiranno Creonte, nella tragedia Antigone di Sofocle.

Nel poema Balaustion’s Adventure dell’inglese Robert Browning (1871), il dramma è liberamente interpretato dall’attrice Balaustione. Admeto è tentato di realizzare un governo illuminato. Il suo senso dell’ospitalità si affaccia oltre una cerchia aristocratica. La sua fine incombente pregiudica ogni relativo sviluppo. Il sacrificio di Alcesti avviene in un quadro ideale più ampio della conservazione del focolare domestico, e della coesione del nucleo familiare. Non più limitato all’essere, l’orizzonte si apre sul divenire. Benché “puerile, a somiglianza della puerilità del mondo”[20], l’egocentrismo di Admeto è nobilitato dal vagheggiamento di una missione da compiere. Il gesto di Alcesti e il suo salvataggio da parte di Eracle fanno maturare la vocazione altruistica nel sovrano. Peccato che ci sia stato un Omero, a disincantarci sulla bontà dell’avvenire.

Sia esso attribuito ad Alcesti o a Ercole e perfino ad Admeto, il motivo dell’altruismo è ricorrente nelle interpretazioni almeno dall’avvento del cristianesimo in poi. Ancor prima che quello dell’altruismo, il testo euripideo propone comunque il tema dell’alterità. L’alterità del divino, come per Apollo, o l’alienità del demoniaco, come nel caso di Thanatos, lasciano gradualmente il posto all’alterità o all’estraneità dell’umano. Accogliere un dio decaduto o un eroe amico è quasi un atto dovuto. Ma il riscatto del protagonista si ha nell’ultima scena, quando un Admeto riluttante finisce per accogliere la schiava estranea che Eracle gli finge. È l’accettare di toccare e di prendere la sua mano che “resuscita” Alcesti, ovvero sconfigge la “Gorgone” della sua morte interiore.[21]

Se il mito nasce dalla favola, va inoltre notato, l’epica si stacca dal mito. Ben prima dell’avvento riflessivo della tragedia, con l’Iliade essa segna il trauma dell’irruzione della Storia. Con l’Odissea si contrappone la dimensione straniante di un mondo esterno a quella, ancora indistinta e rassicurante, della casa-polis. “Tecnicamente”, la nave di Ulisse e il telaio di Penelope simboleggiano tale divaricazione. Ancor più che ad Antigone, gli antichi usavano associare Alcesti a Penelope, esempi di mogli virtuose. Sia il velo di Alcesti sia la tela di Penelope, sempre disfatta e rinnovata, accennano a una dimensione essenziale e inconscia, da cui le altre procedono e in cui rifluiscono, una volta svolto il loro problematico ruolo nella costruzione del senso dell’esistenza.

 

Una catabasi al femminile

 

Le scene cosiddette di “agnizione” erano tipiche della commedia. Pure, insieme a quella di Alcesti morente che si accomiata dai figli, la scena euripidea del riconoscimento di Alcesti da parte di Admeto fu tra le preferite dall’arte funeraria, raffigurata in dipinti e mosaici o scolpita sul fronte di sarcofagi. In merito, si hanno studi di vari specialisti. In particolare, l’israeliana Sonia Mucznik ha confrontato le raffigurazioni di Alcesti con quelle di Fedra, altra celebre protagonista di una tragedia di Euripide. Il titolo del saggio, “Devozione e infedeltà: Alcesti e Fedra nell’arte romana”, ben rende il tenore dell’antitesi.[22] Se tuttavia si valuta l’aspetto di “rediviva” che caratterizza il personaggio di Alcesti, né Antigone né Penelope e nemmeno Fedra risultano referenti valide.

Il confronto va piuttosto orientato verso altre mitiche eroine protagoniste di una discesa agli inferi ovvero di un tentativo, riuscito o meno, di ritorno al mondo dei vivi. Esse sono l’Euridice di Virgilio nelle Georgiche e di Ovidio nelle Metamorfosi; la Psiche di Apuleio, nella favola di Amore e Psiche, inserto nel romanzo L’asino d’oro. Per quanto riguarda Alcesti ed Euridice, abbiamo visto che è lo stesso Euripide, prima di Platone, ad accostare i rispettivi miti. Ai primi del Novecento l’accostamento si ripropone nelle Nuove poesie di Rainer Maria Rilke. Ivi, i poemetti Alkestis e Orpheus Eurydike Hermes si discostano dalla tradizione antica, presentandoci un’Alcesti e un’Euridice verginali. Anziché da Eros all’età matura, entrambe sono iniziate da Thanatos a una “nuova adolescenza” che coincide con la morte, avvertita come irreversibile regressione. A tal fine, il poeta tedesco anticipa l’episodio del sacrificio di Alcesti al giorno delle nozze con Admeto.

Nell’Alkestis di Rilke, l’improbabile ritorno alla vita o alla coscienza si riduce a una fantasia nella mente di Admeto: “Ma una volta/ ancora egli le vide il viso, indietro/ rivolto, in un sorriso chiaro come/ una speranza, una promessa: a lui/ tornare adulta dalla cupa morte,/ a lui vivente…”.[23] Del resto, quale tramandata dai versi di Virgilio e di Ovidio, anche la leggenda di Euridice si concludeva con un insuccesso. L’unica vera “catabasi” femminile a lieto fine, da potersi paragonare a quella dell’Alcesti di Euripide, resta quella di Psiche. La favola platonizzante del latino Apuleio è ad alta densità allegorica, a partire dal nome dell’eroina, che rappresenta l’“anima” umana. Il viaggio di Psiche nell’aldilà è l’affabulazione di un itinerario interiore di redenzione, non privo di sottintesi mistici o misterici, in cerca dell’autentica realizzazione personale. Ai fini della riuscita dell’impresa, e del compimento della metafora, l’assistenza del divino Eros è determinante.

Si obietterà che Psiche compiva la sua catabasi da viva, diversamente da Alcesti e a maggior ragione da Euridice. Ma, nel caso di Alcesti, c’è poi stata una “vera” catabasi? E, se c’è stata, in che cosa essa consiste? Nel dramma di Euripide l’eroina rediviva tace; quindi, nulla dice in proposito. Né si hanno le fantastiche descrizioni dell’aldilà che troviamo in Virgilio, in Ovidio e in Apuleio. Abbiamo solo un paio di suggestivi cenni verbali, nel delirio di Alcesti che precede il presunto evento luttuoso. Essi sono improntati alla tradizionale rappresentazione dell’Ade nell’antichità greca, rispetto alle note figure infernali di Caronte e di Thanatos. I loro tratti terribili presentano qualche connotazione puerile, tale da accreditare un carattere regressivo della “sindrome” di Alcesti. La pittura vascolare etrusca recepirà questi particolari, adattandoli alla propria cultura.

È Admeto a definire le visioni di Alcesti un’amara ναυκληρία, alla lettera “navigazione”, alludendo alla barca del demone traghettatore. L’eroina parla più semplicemente di ὁδός, “via” infelicissima lungo la quale il demone della morte la trascina.[24] Fatto sta che si tratta di un intimo, imperscrutabile percorso. Né il mito né Euripide forniscono elementi, che autorizzino a sostenere uno sdoppiamento della personalità. Ma gli indizi sono sufficienti, per percepire una cesura coincidente con l’incidente in questione. A una brusca regressione fa seguito una redenzione da opinabili sensi di colpa, e l’auspicabile presa di coscienza di un’autonomia personale. In tal senso, la storia di Alcesti può essere considerata la prima eco di una crisi dell’identità femminile, che ci proviene dall’antichità. Nel caso specifico, nonostante tutto, da una condizione privilegiata.

Contro facili apparenze, questa crisi lo è anche della centralità dell’οἶκος, casa-famiglia cuore dell’etica antica, omerica dimensione di un “eterno ritorno” ormai troppo angusta e ripetitiva per i nuovi tempi. L’Alcesti di Euripide anticipa altresì una crisi della tragedia classica, che in quella dimensione era profondamente radicata. Personaggi quali Eracle, con le sue iniziali anti-eroiche intemperanze, e Ferete, con le sue poco paterne meschinità, competono più alla commedia che alla tragedia. Essi attraversano il dramma e, nel caso di Eracle, lo portano a felice compimento. Nello stesso tempo, riducono la dismisura tragica a un’ironica misura quotidiana. Perfino l’esordio dialettico fra Apollo e Thanatos non è privo di una pensosa comicità, che ne fa un “umano, troppo umano” apologo sulla contrastante tensione fra libertà dello spirito e necessità dell’esistenza.[25]

 

La soglia e la via

 

In certe raffigurazioni antiche del mito, compaiono insieme Admeto, Eracle e Alcesti velata. Alle loro spalle, una porta incombente viene di solito interpretata dagli studiosi come quella dell’Ade. In particolare il mosaico pavimentale di una modesta tomba nella Necropoli di Porto, vicina a Ostia Antica, riduce la scena all’essenziale. Sulla sinistra di chi guarda, dallo sfondo bianco emergono le sagome scure di uno scudiero e di Admeto, entrambi armati di lancia. Sulla destra, Eracle munito dell’inseparabile clava affianca l’inerme Alcesti. Dietro di loro, specialmente di lei, un arco a tutto sesto poggia su esili stipiti o colonne, sormontate da uno schematico capitello.[26]

Nulla ci è dato scorgere oltre quella soglia, se non uno spazio vuoto (in raffigurazioni analoghe, si ha un portone chiuso o socchiuso, coronato da un timpano). Fatto sta che il particolare è l’unico disegnato indipendentemente dai personaggi, a conferma della sua importanza e di un valore archetipico nel contesto narrativo, da cui la scena è tratta. In effetti, più che l’ingresso della casa-reggia di Admeto, esso sembra adombrare il limite fra la vita e la morte, simbolicamente rappresentato. È la soglia che Eracle e Alcesti avrebbero appena varcato, per tornare dall’aldilà al mondo dei vivi. Admeto e il testimone ristanno ancora increduli, forse anche timorosi. Ma il gesto eloquente della mano di Eracle, protesa verso il mancato vedovo, mostra un’intenzione persuasoria.

Egli somiglia a un Sofista, intento a convincere dell’inconsistenza dell’antitesi fra essere e non-essere. O ancor più a un filosofo eleate, il quale predichi che quanto è stato è e sempre sarà, malgrado le apparenze. Se si tiene presente l’ambiente cimiteriale in cui il mosaico qui preso ad esempio è collocato, meglio si comprende come l’intenzione persuasoria dell’eroe raffigurato si fonda con una consolatoria da parte dell’anonimo artista. Alla sapiente rappresentazione euripidea subentra una raffigurazione compendiaria più ingenua e popolare, non per questo meno commovente ed efficace. Tutto ciò spiega pure l’ampia fortuna che l’iconografia relativa ad Alcesti incontrò soprattutto nell’arte funeraria della tarda latinità, fino ad epoca ormai cristiana.

Si tratta di un’Alcesti stilizzata, emendata di ogni euripidea arguzia di contorno, affine a quella di coevi poemetti quali Alcesta dell’Anthologia Latina e il Carmen de Alcestide o “Alcesti di Barcellona”. Se c’è un autore del Novecento congeniale con tale impostazione, questi tuttavia è Rilke. È lui che scriveva, nei Sonetti a Orfeo: “Mai a lungo assenti dal mio cuore/ io vi saluto, antichi sarcofagi./ L’acqua spensierata dei giorni romani/ come un canto sinuoso vi attraversa. […] Superstiti a ogni dubbio/ io vi saluto, o bocche daccapo dischiuse,/ già edotte sul senso del silenzio” (Euch, die ihr nie mein Gefühl verließt,/ grüß ich, antikische Sarkophage,/ die das fröhliche Wasser römischer Tage/ als ein wandelndes Lied durchfließt. […] alle, die man dem Zweifel entreißt,/ grüß ich, die wiedergeöffneten Munde,/ die schon wußten, was schweigen heißt).[27]

Fra le rivisitazioni moderne, nell’Alkestis di Rilke la soglia tra la vita e la morte viene a coincidere con quella dell’οἶκος, della casa-famiglia-reggia: “Admeto, vacillante, li rincorse/ per aggrapparsi, come in sogno. E loro/ erano già dove le donne in pianto/ gremivano l’uscita”. Quelli che lo sposo delira di voler trattenere sono Thanatos e Alcesti. Ma è chiaro che qui il decesso si è già verificato, attestato dalle donne in lutto. Né ci fu contrasto fra Apollo e Thanatos, perché entrambi sono uno stesso dio, sordo alle istanze umane. Pure, fin dall’inizio un nume così insensibile ha mirato all’indifesa Alcesti. In qualche modo, egli l’ha prescelta: “Gli altri non sono che la strada a lei/ che viene, viene… (e subito sarà/ tra le braccia che s’aprono al dolore)”.[28]

Nell’intuizione del poeta, l’altruismo dell’eroina è sì una debolezza, che l’espone all’alienità assoluta. Ma anche una forza capace di convertire tale alienità in alterità, addirittura di comunicare con essa e di farsi sofferto tramite — cioè Gasse, ὁδός, “via” — di una comunicazione altrimenti impensabile. Sia gli artisti funerari romani, sia la loro committenza, dovettero avvertire qualcosa del genere. Parafrasando Sigmund Freud o Martin Heidegger, il personaggio è insieme heimlich e  unheimlich, “familiare” e “spaesante” a un tempo. È tutt’altro che univoca espressione dell’οἰκειότης, soggezione al culto in fondo subordinato del focolare domestico: “Admeto attende, ed ella non a lui/ si volge. Parla al dio che la comprende,/ e tutti la comprendono nel dio”.[29]

 

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[1] Eschilo, ’Eumenídes, vv. 723-728.

[2] Anonimo, Alcesta. Cento vergilianus, a cura di Giovanni Salanitro, Bonanno Editore, Roma e Acireale 2007 (il testo originale ci è giunto incluso nell’Anthologia Latina). Analoga conclusione ha il Carmen de Alcestide, tardo poemetto latino di autore ignoto riscoperto a Barcellona nel 1982: si veda L' Alcesti di Barcellona, a cura di Lorenzo Nosarti, Pàtron editore, Bologna 1992. I precedenti pure latini sullo stesso tema, del tragediografo Accio e del poeta Levio, non ci sono pervenuti.

[3] Albii Tibulli aliorumque carminum libri tres, libro II, elegia 3, vv. 11-14 e segg.; cfr. anche III (Lygdami elegiarum liber), elegia 4, vv. 67-72.

[4] Euripide, Álkēstis, vv. 357-360 e segg.

[5] Platone, Sympósion, 179b-d.

[6] Plutarco, ’Erōtikós, 761e.

[7] Ovidio, Metamorphōseȏn, libro VII, vv. 297–349. Sullo stesso argomento, non ci è rimasta la più antica tragedia di Euripide Le Peliadi, rappresentata per la prima volta nel 455 a. C.

[8] Euripide, op. cit., vv. 54 e 712.

[9] Ivi, v. 535.

[10] Marguerite Yourcenar, Esame di Alcesti, in Tutto il teatro, trad. di Luca Coppola e Giancarlo Prati, Bompiani, Milano 1997 (da Théâtre I et Théâtre II, Gallimard, Parigi 1971); pag. 247. A fianco della traduzione dell’originale di Euripide, per alcune rivisitazioni letterarie moderne compresa quella della Yourcenar, si legga l’antologia: Alcesti. Variazioni sul mito, a cura di Maria Pia Pattoni, Marsilio, Venezia 2006. Cfr. anche John Richard Wilson, Twentieth Century Interpretations of Euripides’ Alcestis, Prentice Hall, Englewood Cliffs, N.J.-U.S.A. 1968.

[11] Marie-Louise von Franz, Il femminile nella fiaba, trad. di Bianca Sagittario e Nadia Neri, Bollati Boringhieri, Torino1983; pag. 184. Sul velo di Alcesti, interpretato in chiave filosofica o antropologica, cfr. anche Andrea Tagliapietra, Il velo di Alcesti. La filosofia e il teatro della morte, Feltrinelli, Milano 1997, e Jan Kott, Alcesti velata, in Divorare gli dei. Un’interpretazione della tragedia greca, Bruno Mondadori, Milano 2005.

[12] Omero, ’Iliás, canto II, vv. 711-715.

[13] Euripide, op. cit., vv. 167-169 e 1160-1162.

[14] Platone, Sympósion, 205b-c.

[15] Aristotele, Perì poiētikȇs, 1453a. Sembra potersi ben applicare all’Alcesti di Euripide quanto più avanti ivi sostenuto: “Nel campo dell’invenzione [letteraria], qualcosa di impossibile e credibile è da preferirsi a qualcos’altro incredibile eppure possibile” (1461b).

[16] Euripide, op. cit., vv. 521-529 e 381-390.

[17] Platone, Sympósion, 208d.

[18] Charles Perrault, Critique de l’Opéra ou examen de la tragédie intitulée Alceste ou le Triomphe d’Alcide, in Textes sur Lully et l’Opéra français, Éditions Minkoff, Ginevra 1987.

[19] Massimo Cacciari, L’Arcipelago, Adelphi, Milano 1997; pag. 55.

[20] Robert Browning, The Complete Works of Robert Browning, vol. X, Ohio University Press, 1999 (nell’originale, il testo citato suona: childlike, […] like the childishness the world over).

[21] Euripide, op. cit., v. 1118: “Tendo [la mia mano], come per tagliare la testa alla Gorgone”, cioè senza guardare in faccia, almeno per ora, la persona cui si tende la mano. Il paragone è con un altro celebre mito, quello di Perseo e Medusa. Basterebbe questo gioco allusivo posto in bocca ad Admeto a confermare il giudizio aristotelico, di Euripide τραγικώτατός τῶν ποιητῶν, “il più tragico dei poeti”.

[22] Sonia Mucznik, Devotion and Unfaithfulness: Alcestis and Phaedra in Roman Art, Giorgio Bretschneider Editore, Roma 1999. Cfr. anche Susan Wood, Alcestis on Roman Sarcophagi, in AA.VV., Roman Art in Context: An Anthology, a cura di Eve D’Ambra, Prentice Hall, Englewood Cliffs, N.J.-U.S.A. 1993, pp. 84-103.

[23] Rainer Maria Rilke, Alcesti, in Poesie, trad. di Giaime Pintor, Einaudi, Torino 1963; pag. 41 (riedito nel 1970, con diversa impaginazione).

[24] Euripide, op. cit., vv. 252-263.

[25] Rivisitazioni teatrali contemporanee italiane del mito sono Alcesti o La recita dell’esilio di Giovanni Raboni (2002), Alcesti di Samuele di Alberto Savinio (1949), l’Alcesti incompiuta di Corrado Alvaro. In particolare quest’ultima attualizza il tema della dissoluzione della dimensione domestica e familiare. I tempi con cui ci si confronta sono quelli successivi alla seconda guerra mondiale, tra difficoltà dell’esistenza dei singoli e rischi di catastrofe atomica che minacciano la sussistenza dell’umanità. Cfr. C. Alvaro, Alcesti, a cura di Aldo Maria Morace, in Nuovi Annali della Facoltà di Magistero dell'Università di Messina n. 1, Herder, Roma 1983; pp. 729-758. È tuttavia nel dramma “Alcestiade”, dello statunitense Thornton Wilder, che si cerca di conservare la tragica comicità di Euripide, rapportata alla irrisolta assurdità della condizione umana: The Alcestiad, or A Life in the Sun (1955).

[26] Tomba della mietitura, Necropoli di Porto: cfr. Ida Baldassarre, Irene Bragantini, Chiara Morselli, Franca Taglietti, Necropoli di Porto. Isola Sacra, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 1996; pp. 157-158 e fig. 63.

[27] Rainer Maria Rilke, Die Sonette an Orpheus, I 10.

[28] Rainer Maria Rilke, Alcesti, in Poesie, op. cit.; pp. 41 e 39.

[29] Ivi, pag. 39.

 

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