Una Ragazza che Conoscevo                                

(Good Housekeeping 126, Febbraio, 1948)

 

 

 

 

Alla fine del mio anno da matricola al college nel 1936, fui bocciato in cinque materie su cinque. Fallire in tre materie su cinque sarebbe stato sufficiente per essere invitato a frequentare un diverso college l’autunno successivo. Ma gli uomini in questa categoria tre-su-cinque a volte dovevano aspettare fuori dall’ufficio del preside per due ore. Gli uomini del mio calibro – alcuni dei quali avevano grossi appuntamenti a New York per quella sera stessa – non venivano fatti attendere un minuto. Uno, due, tre. Proprio nel modo che piaceva a quelli del mio calibro.

Quel particolare college che avevo frequentato evidentemente non si limita a spedire le valutazioni finale per posta, ma deve preferire spararle con un qualche tipo di cannone. Quando arrivai a casa a New York, perfino il maggiordomo aveva un’aria distaccata ed ostile. Fu davvero una brutta serata. Mio padre mi informò tranquillamente che la mia educazione formale era formalmente terminata. In un certo senso, avevo voglia di chiedere di poter riparare con la scuola estiva o qualcosa del genere. Ma non lo feci. Per una qualche ragione mia madre era nella stessa stanza e continuava a dire che avrei dovuto vedere il mio consulente di facoltà più spesso, che era per quello che lui era lì. Era il genere di discorso che mi faceva venir voglia di andare di filato alla Rainbow Room con un amico. Ad ogni modo, una cosa tira l’altra, e quando per me venne il familiare momento di avanzare le mie fragili promesse di impegnarmi davvero questa volta, io lo lasciai semplicemente scorrere inutilizzato.

Nonostante mio padre avesse annunciato quella stessa sera che mi avrebbe piazzato direttamente nel suo ufficio, mi sentivo fiducioso che niente di pienamente inattrattivo sarebbe successo, almeno per tipo una settimana.

Sapevo che ci sarebbe voluto un certo ammontare di profondo costruttivo arrovellamento da parte di mio padre per figurarsi un modo di farmi entrare nella società alla piena luce del sole. Si da il caso che facessi venire I capelli dritti ad entrambi I suoi soci.

Fui preso un poco alle spalle quando ad un tratto, quattro o cinque sere più tardi, mio padre mi chiese a cena se non mi sarebbe piaciuto andare in Europa per imparare un paio di lingue straniere che la società avrebbe potuto usare. Prima Vienna, quindi forse Parigi, disse con naturalezza.

Replicai che in effetti l’idea non mi sembrava male. Comunque stavo rompendo con una certa ragazza della settantaquattresima strada. Inoltre associavo molto chiaramente Vienna alle gondole. Le gondole non sembravano male come sfondo.

 

Poche settimane più tardi, nel luglio 1936, salpai per l’Europa. La foto del mio passaporto, potrebbe valer la pena di farne cenno, mi somigliava in modo perfetto. A diciotto anni ero alto un metro e novanta, pesavo 54 kilogrammi con i pantaloni indosso, ed ero un fumatore accanito. Credo che se il giovane Werther di Goethe con tutti i suoi dolori fosse stato piazzato sul ponte Promenade accanto a me ed i miei dolori, a confronto sarebbe apparso come un pagliaccio piuttosto squallido.

La nave fece scalo a Napoli, e da lì presi il treno per Vienna. Stavo quasi per scendere dal treno a Venezia quando scoprii che lì c’erano i soli ad avere le gondole, ma invece scesero due persone ed io avevo aspettato troppo tempo un’occasione per allungare i piedi, gondole o non gondole.

 

Naturalmente alcune regole del tipo quando-vai-a-Vienna erano state fissate da prima che la mia nave partisse da New York. Regole sul prendere almeno tre ore di lezione di lingue al giorno,  regole circa il non essere troppo amichevole verso le persone che si approfittano degli altri, particolarmente dei più giovani; regole a proposito del non spendere danaro come un marinaio ubriaco, regole sull’indossare indumenti nei quali una persona non avrebbe preso una polmonite; e così via. Ma dopo circa un mese a Vienna, le avevo osservate quasi tutte: prendevo tre ore di lezione di tedesco al giorno da una signora abbastanza incredibile che avevo incontrato nella hall del Grand Hotel. Avevo trovato in uno dei distretti periferici un posto meno caro del Grand Hotel. I filobus non arrivavano nel mio appartamento dopo le dieci di sera ma i taxi sì. Vestivo caldo, mi ero comprato tre cappelli tirolesi di pura lana. Incontravo gente simpatica. Avevo prestato trecento scellini ad un tipo distinto al bar dell’Hotel Bristol. In breve, ero in una posizione tale da poter ridurre le mie lettere a casa all’essenziale.

 

Passai poco più di cinque mesi a Vienna. Ballai. Andai a pattinare sul ghiaccio e a sciare. Come ginnastica estrema, litigai con un inglese. Assistetti ad operazioni in due ospedali e mi feci psicoanalizzare da una giovane donna ungherese che fumava il sigaro. Le mie lezioni di tedesco non mancavano di mantenere moscio il mio interesse. Sembravo muovermi con la fortuna degli immeritevoli di congiuntivo in congiuntivo ma ne faccio menzione unicamente per tener in piedi la mia credibilità.

C’è probabilmente per ogni uomo almeno una città che prima o poi si trasforma in una donna. Quanto bene o male l’uomo conosca effettivamente la ragazza non influisce necessariamente sulla trasformazione. Lei era lì, ed era l’intera città.  Leah era la figlia di una famiglia ebrea viennese che abitava nell’appartamento sotto al mio, cioè sotto la famiglia con cui confinavo. Aveva sedici anni ed era bella in una maniera immediata eppure perfettamente lenta. Aveva capelli molto scuri che cadevano dal più squisito paio di orecchie che io abbia mai visto. Aveva occhi immensi che sembravano in costante pericolo di rovesciarsi nella loro stessa innocenza. Le sue mani bronzo pallido avevano snelle dita immote. Quando si sedeva, faceva con le sue mani l’unica cosa sensata che ci fosse da fare. Le metteva in grembo e le lasciava lì. In breve, lei fu probabilmente la prima cosa di considerevole bellezza vista da me, che mi colpì come pienamente ragionevole.

 

Per circa quattro mesi la vidi due o tre sere a settimana, per tipo un’ora alla volta. Però mai fuori dall’edificio dove abitavamo. Non andammo mai a ballare, non andammo mai ad un concerto; non uscimmo mai neppure per una passeggiata. Scoprii presto dopo averla conosciuta, che il padre di Leah l’aveva promessa in sposa ad un qualche giovane polacco. Forse questo fatto aveva qualcosa a che fare con la mia non troppo palpabile ma curiosamente costante riluttanza a fare la conoscenza della città. O forse mi preoccupavo troppo delle cose. Forse esitavo considerevolmente nel timore che ciò che avevamo insieme si deteriorasse in romanticheria. Non lo so più. Una volta lo sapevo, ma ho perso quelle nozioni col passare del tempo. Un uomo non può andarsene in giro indefinitamente portandosi in tasca una chiave che non apre nulla.

Conobbi Leah in un bel modo.

Avevo un giradischi e due dischi americani nella mia stanza. I due dischi americani erano un regalo della mia padrona di casa. Uno di quei rari regali molla-e-scappa che lasciano il ricevente confuso di gratitudine. Su uno dei dischi Dorothy Lamour cantava Moonlight and Shadows, e nell’altro Connie Boswell cantava Where Are You.

Una sera me ne stavo seduto in sala  a scrivere una lunga lettera ad una ragazza in Pennsylvania, suggerendole di lasciare la scuola e venire in Europa a sposarmi, un suggerimento tuttaltro che infrequente da parte mia in quei giorni. Il mio giradischi non stava suonando. Ma ad un tratto risuonarono le parole della canzone di Mrs. Boswell, appena leggermente corrottea ttraverso la finestra aperta.

 

      "Where are you?

      Where have you gone wissout me?

      I sought you cared about me.

      Where are you?"

 

Del tutto eccitato, balzai in piedi e mi precipitai al davanzale sporgendomi fuori. L’appartamento sotto al mio aveva l’unico balcone dell’edificio. Vidi una ragazza in piedi, completamente immersa nella penombra autunnale. Non stava facendo nulla che io potessi vedere eccetto starsene lì appoggiata alla ringhiera e dare un senso all’universo. Il modo in cui il profilo del suo viso e del suo corpo si riflettevano nella semioscurità vagamente odorosa di brodo mi faceva sentire un po’ ubriaco.

Quando pochi secondi furono trascorsi, le dissi ciao. Lei quindi guardò verso di me e, nonostante sembrasse decorosamente stupita, qualcosa mi diceva che non doveva essere troppo stupita che io l’avessi sentita fare il numero della Boswell. Questo naturalmente non importava. Le chiesi nel mio tedesco omicida, se non avrei potuto raggiungerla sul balcone. La richiesta ovviamente la agitò. Replicò in inglese che non pensava che suo “Pattre” avrebbe voluto. A quel punto, la mia opinione sui padri delle ragazze, la quale era stata bassa per anni, colpì il fondo. Ma ciononostante diedi un grigio cenno di assenso.

Non andò male comunque. Leah sembrava pensare che sarebbe stato tutto perfettamente a posto se fosse stata lei a venire su da me. Interamente stupefatto di gratitudine, annuii, poi chiusi la finestra e cominciai ad affrettarmi in giro per la stanza spingendo rapidamente cose sotto altre cose, con i piedi.

 

Non ricordo realmente la nostra prima sera nella mia stanza. Tutte le nostre serate erano abbastanza uguali. Non posso onestamente separarne una dall’altra; non più ad ogni modo.

Il bussare di Leah alla mia porta era sempre poesia. Di tono alto, deliziosamente esitante.  Poesia assolutamente perpendicolare. Il suo bussare cominciava col parlare della sua innocenza e bellezza, e finiva casualmente col parlare dell’innocenza e la bellezza di tutte le ragazze molto giovani. Ero sempre mezzo ebbro di rispetto e felicità quando aprivo la porta a Leah. .

Ci stringevamo la mano con solennità all’ingresso. Poi Leah camminava consapevole e bella verso la sedia alla finestra, si sedeva ed attendeva che la nostra conversazione cominciasse.

Il suo inglese, come il mio tedesco, era quasi tutto buchi. Eppure invariabilmente io parlavo la sua lingua e lei la mia, nonostante qualunque altra soluzione ci avrebbe fornito un a comunicazione meno perforata. "Uh. Wie geht es Ihnen?" Cominciavo io. (Come stai?) Non usavo mai la forma familiare nel rivolgermi a Leah.

      "Sto molto bene, crazie tante" Leah rispondeva, senza mai mancare di arrossire. Non era di alcun aiuto guardarla indirettamente; arrossiva comunque. "Schon hinaus, nicht wahr?" Chiedevo io che piovesse o ci fosse il sole. (Bello fuori, vero?)

      "Sì," rispondeva lei, pioggia o sole.

      "Uh. Waren Sie heute in der Kino?" Era la mia domanda preferita. (Sei andata al cinema oggi?) “No, ero statto all lavoro con mio patre.” Cinque giorni a settimana Leah lavorava nella fabbrica di cosmetici di suo padre.

      "Oh, dass ist recht! Uh. Ist es schon dort?" (Oh, già. E’ bello lì?)

      "No. E’ una faprica molto crossa con molta gente che gira intorno ingiro."

      "Oh. Dass ist schlecht." (Che peccato.)

      "Uh. Wollen Sie haben ein Tasse von Kaffee mit mir haben?" (Prenderesti una tazza di caffè con me?)

      "Ho già stata mangiando."

      "Ja, aber Haben Sie ein Tasse anyway." (Sì, ma prendine un po’ lo stesso).

      "Crazie"

 

A questo punto, spostavo i miei appunti, calzascarpe, biancheria ed ogni altro inclassificabile articolo dal piccolo tavolo che usavo come scrivania e ‘pigliatutto’. Poi accendevo il mio fornello elettrico, spesso commentando sagacemente "Kaffee ist gut."

 Di solito ne bevevamo due tazze a testa, passandoci la crema e lo zucchero con tutta la drollery   di compagni pallbearers  che si stiano distribuendo guanti bianchi. Spesso Leah portava dei kuchen o della torte, avvolta piuttosto inefficacemente, magari in modo del tutto surrettizio in carta cerata. Questa offerta veniva depositata velocemente e con insicurezza nella mia mano sinistra nel momento in cui entrava nella stanza. Tutto quello che potevo fare era ingoiare il dolce di Leah. Primo, non avevo mai per niente fame quando lei era in giro; secondo, sembrava esserci qualcosa di superfluamente, seppur vagamente, distruttivo nel mangiare qualcosa che provenisse da dove lei viveva.  Di solito non parlavamo mentre bevevamo il nostro caffè. Quando avevamo finito, riprendevamo la conversazione laddove l’avevamo lasciata. Stesa sulla schiena per lo più. 

      "Uh. Ist die Fenster - uh - Sind Sie sehr kalt dort?" Chiedevo con apprensione. (E’ la finestra? Eh -  Hai freddo lì?)

      "No! Sono con caldo. Crazie"

      "Dass ist gut. Uh. Wie geht's Ihre Eltern?" (Bene. Come stanno ituoi genitori?) Mi informavo regolarmente sulla salute dei genitori di Leah.

      "Loro sono molto bene, crazie molte." I suoi genitori godevano sempre di ottima salute, perfino quando sua madre ebbe una pleurite per due settimane. A volte Leah introduceva un nuovo argomento di conversazione. Era sempre lo stesso argomento ma probabilmente lei sentiva di padroneggiarlo così bene in inglese da rendere la ripetizione non troppo noiosa. Spesso si informava, “Come ha stato la tua ora, oggi mattina?”

"Le mie lezioni di tedesco? Oh. Uh. Sehr gut. Ja. Sehr gut." (Molto bene, molto bene)

      "Cosa stavi imparando?"

      "Cos’ho imparato? Ah. Die, eh il comesichiama. Die starke verbs. Sehr interessant." (I verbi forti. Molto interessante.) 

 

Potrei riempire parecchie pagine con le nostre terribili conversazioni. Ma non vedo che senso avrebbe. Non ci dicevamo mai niente. In un periodo di quattro mesi, dovevamo aver parlato per qualcosa come trenta, trentacinque sere senza mai dire una parola. Alla lunga ombra di quest’oscuro record, ho acquisito il dogma che se dovessi finire all’inferno, verrei piazzato in una stanza né calda né fredda ma estremamente spoglia, dove le mie conversazioni con Leah  mi verrebbero riprodotte attraverso un sistema di amplificazione confiscato dallo Yankee Stadium .

 

Una sera, senza la minima provocazione, nominai per Leah tutti I presidenti degli USA nel più preciso ordine possibile: Lincoln, Grant, Taft, e così via.

      Un’altra sera le spiegai il football americano. Per almeno un’ora e mezza. In tedesco.

      Un’altra sera ancora, mi seniti in dovere di disegnare per lei una mappa di New York.  Certamente non fu lei a chiedermelo. E Dio sa quanta poca voglia io abbia mai avuto di disegnare mappe per chiunque. Né possiedo alcuna attitudine per la cosa. Ma la disegnai – nemmeno i Marines mi avrebbero potuto fermare. Ricordo distintamente di aver messo Lexington Avenue dove avrebbe dovuto stare la Madison, e ricordo di averla lasciata lì.

 

In una differente occasione le lessi un dramma che stavo scrivendo intitolato Non Era Uno Scemo.  A proposito di un tipo drittissimo, bello, atletico e informale – molto simile al sottoscritto – che era stato chiamato ad Oxford per tirare fuori Scotland Yard da una situazione imbarazzante. 

Una certa Lady Farnsworth, che era una brillante dipsomaniaca, riceveva per posta ogni martedì, un dito del suo consorte sequestrato.  Lessi il lavoro a Leah tutto in una volta, omettendo con fatica tutte la parti scabrose, il che naturalmente rovinò la lettura. Quando ebbi finito, spiegai raucamente che il testo era "Nicht fertig yet." (Non ancora finito.) Leah sembrò comprendere perfettamente. Inoltre sembrava comunicarmi la sicurezza che, in qualche modo, la perfezione sarebbe giunta con la stesura finale. Qualunque cosa fosse ciò che le avevo appena letto…  Sedeva così bene sulla sedia alla finestra.

 

Scoprii per puro caso che Leah aveva un fidanzato. Non era il genere di informazione che avesse alcuna chance di saltar fuori in una nostra conversazione.

Una domenica pomeriggio, circa un mese dopo che ci eravamo conosciuti, la vidi in piedi nell’atrio affolllato del Schwedenkino, una famosa sala cinematografica di Vienna. Era la prima volta che la vedevo fuori dall’edificio in cui abitavamo. C’era qualcosa di fantastico ed estremamente elettrizzante nel vederla nella hall del Schwedenkino, così prontamente lasciai il mio posto nella coda al botteghino per andarle a parlare.  Attraversando il locale sopra un certo numero di piedi incolpevoli, vidi che non era sola, né con un’amica o con qualcuno vecchio abbastanza da essere suo padre.

 

Lei era visibilmente  imbarazzata nel vedermi, ma si occupò di fare le presentazioni. Il suo accompagnatore, che portava il cappello calcato su un orecchio, battè i tacchi e mi stritolò una mano. Gli sorrisi con compassione. Non sembrava granchè una minaccia, con o senza stretta d’acciaio; aveva troppo l’aria di uno straniero.

     

Per pochi minuti chiaccherammo incomprensibilmente. Poi mi scusai e tornai alla fine della fila. Durante il film, passai diverse volte lungo il corridoio con il portamento più eretto e pericoloso possibile; ma non li vidi. Anche il film era uno dei peggiori che avessi mai visto.

 

La sera successiva, mentre prendevamo il caffè nella mia stanza, cominciò ad arrossire e mi disse che il ragazzo con cui l’avevo vista al  Schwedenkino era il suo fidanzato.  “Mio patre vuole non sposi quando io sono diciassettenne” Disse Leah guardando la maniglia della porta.

 

Annuii semplicemente. Esistono, in amore e nel calcio, certi terribili falli fischiati che tuttavia non sono immediatamente  seguiti da alcuna protesta udibile. Mi schiarii la gola. "Uh. Wie heisst er, again?" (Come si chiama, di nuovo?)

Leah ripetè il suo nome – non abbastanza foneticamente per me – un nome violentemente lungo che mi sembrava predestinato ad appartenere a qualcuno che portava un cappello calcato su un orecchio. Versai dell’altro caffè per entrambi.  Mi alzai di scatto dirigendomi verso il dizionario Inglese-Tedesco. Quando l’ebbi consultato, mi sedetti di nuovo e chiesi a Leah,  "Lieben Sie Ehe?" (ti piace il matrimonio?).

Rispose lentamente senza guardarmi, “Non lo so”

Annuii. La sua risposta mi sembrava la quintessenza della logica. Sedemmo per un lungo momento senza guardarci. Quando mi voltai di nuovo verso di lei, la sua bellezza sembrava troppo grande per la capienza della mia camera.

"Sie sind sehr schon. Weissen Sie dass?" Quasi glielo gridai.

Ma le I arrossì con una tale intensità che abbandonai subito l’argomento. Non che avessi altro da aggiungere, ad ogni modo.

     Quella sera, per la prima ed ultima volta, qualcosa di più fisico di una stretta di mano avvenne al nostro rapporto. Più o meno alle nove e trenta, Leah saltò su dalla sedia alla finestra, dicendo che stava facendosi molto tardi e corse giù per le scale. Nello stesso tempo io mi affrettai per accompagnarla sul pianerottolo e successe che ci ritrovammo premuti l’uno all’altra, faccia a faccia, nello stretto passaggioo della porta. La cosa ci uccise quasi.  Quando per me arrivò il momento di andare a Parigi, per la seconda ligua europea, Leah era a Varsavia a visitare la famiglia del suo fidanzato. Non potei dirle addio , ma lasciai un biglietto per lei, del quale conservo ancora la penultima bozza:     

 

"Wien

"December 6, 1936

"Liebe Leah,

      "Ich muss fahren nach Paris nun, und

so ich sage auf wiedersehen. Es war sehr

nett zu kennen Sie. Ich werde schreiben

zu Sie wenn ich bin in Paris. Hoffentlich

Sie sind haben eine gute Ziet in Warsaw

mit die familie von ihre fiancé. Hoffent-

lich wird die Ehe gehen gut. Ich werde

Sie schicken das Buch ich habe ges-

prochen iiber, Gegangen mit der Wind.

Mit beste Grussen.

"Ihre Freund

"John"

 

Che tradotto dal mio tedesco da Jack lo Squartatore, significa:

 

Vienna

6 Dicembre 1936

Cara Leah

Devo andare a Prigi adesso, così ti dico addio.

E’ stato molto bello conoscerti. Spero che tu ti 

diverta a Varsavia con la famiglia del tuo fidanzato.

Spero che il matrimonio vada bene. Ti spedirò 

quel libro di cui ti ho parlato, Via col Vento

Con i miei migliori saluti

Il tuo amico

John

 

Ma non scrissi mai a Leah da Parigi. Non le scrissi mai più. Non le spedii una copia di Via col Vento. Ero molto occupato in quei giorni.

Verso la fine del 1937, quando fui tornato al college in America, un piccolo pacchetto tondo e piatto mi fu inoltrato da New York.  Al pacchetto era allegata una lettera:

  

Vienna

14 Ottobre 1937

Caro John,

   "Ho molte volte pensato a te e

mi sono chiesta cos’è diventato di te.

Io mi sono sposata e sto vivendo a Vienna

col mio marito. Ti manda i suoi saluti

Se ricordi, tu e lui avete fatto conoscenza nella

Hall dello Schweden Cinema.

   I miei genitori vivono ancora  al 18 di Stiefel

Street, e io li visito spesso perché abito lì vicino.

La tua padrona di casa, Mrs. Schlosser, è morta

in estate col cancro.

Lei mi ha chiesto di spedirti questi dischi per il grammofono

che hai dimenticato di prendere quando sei partito,

ma non sapevo il tuo indirizzo per lungo tempo.

Ho fatto ora conoscenza di una ragazza inglese

di nome Ursula Hummer che mi ha dato il tuo indirizzo

Mio marito ed io saremmo estremamente felici

di avere frequentemente tue notizie.

Con i molto migliori saluti,

La tua amica

"Leah"

 

Non erano specificati il suo nome da sposata nè il nuovo indirizzo.

Portai la lettera con me per mesi, aprendola e leggendola nei bar, negli intervalli delle partite di basket durante le lezioni e nella mia stanza, finchè cominciò a macchiarsi per il contatto col mio prtafoglio color cordovan, e dovetti metterla via da qualche parte.

 

Più o meno alla stessa ora in cui le truppe di Hitler stavano marciando dentro Vienna, Io ero In ricognizione per il corso di geologia 1-b, alla distratta ricerca di minerali nel New Jersey. Ma durante le settimane ed i mesi successivi all’entrata dei tedeschi in Vienna, pensai spesso a Leah. A volte pensare a lei non era abbastanza. Quando per esempio  esaminavo recenti foto di giornale che ritraevano un’ebrea viennese a carponi mentre puliva il marciapiede. Allora attraversavo velocemente il dormitorio, aprivo un cassetto della scrivania, facevo scivolare un’automatica nella tasca e mi calavo senza alcun rumore dalla finestra alla strada dove un monoplano a lungo raggio, equipaggiato con un motore silenzioso, attendeva il mio impulsivo ed eroico slancio di falco. Non sono certo il tipo che se ne sta seduto a far niente.

 

Verso il finire dell’estate del 1940, ad un party a New York, conobbi una ragazza che non solo aveva conosciuto Leah a Vienna, Ma era stata a lungo sua compagna di scuola. Presi una sedia, ma la ragazza era determinata a raccontarmi di un tale a Philadelphia che era preciso identico a Gary Cooper. Mi disse che avevo un mento debole. Disse che odiava il visone. Disse infine che Leah, o se ne era andata da Vienna oppure c’era restata.

 

  Durante la guerra in Europa ebbi un lavoro di intelligence con un reggimento di fanteria. Il mio lavoro prevedeva molta conversazione con civili e prigionieri della Wehrmacht.  Tra questi ultimi, molti erano austriaci. Un feldwebel, un viennese, che io segretamente sospettavo indossare calze di nylon sotto la sua divisa grigia da campo, mi diede una piccola speranza: ma venne fuori che quella che aveva conosciuto non era Leah, ma qualche ragazza con lo stesso cognome. Un altro viennese, un sottoufficiale mi  raccontò , in piedi ed esigendo severamente attenzione, le cose terribili che erano state fatte agli ebrei di Vienna. Siccome fino ad allora avevo visto di rado, se non mai, un uomo con un viso così nobile e talmente pieno di vicaria sofferenza, fu proprio per il demone del momento che gli feci arrotolare la manica sinistra. Vicino all’ascella aveva il tatuaggio con il gruppo sanguigno e i marchi di un anziano delle SS. Smisi all’istante di fare domande personali.  

Pochi mesi dopo che la guerra fu finita, portai alcuni documenti militari a Vienna. Su una jeep con un altro uomo, lasciai Nurnburg In una calda mattina di ottobre ed entrai a Vienna la successiva altrettanto calda mattina.

Nel settore russo fummo trattenuti cinque ore mentre due guardie facevano appassionatamente l’amore ai nostri orologi da polso. Era mezzogiorno e mezza quando entrammo nel settore americano, dove si trovava Stiefelstrasse, la mia vecchia strada.

Parlai con il tabaccaio all’angolo di Stiefelstrasse, al farmacista della vicina Apotheke, ad una donna nel vicinato che fece un balzo di almeno un pollice quando mi rivolsi a lei, e ad un uomo che insisteva nel dire che mi vedeva spesso sul filobus nel 1936. Due di queste persone mi dissero che Leah era morta. Il farmacista mi suggerì di andare a trovare il Dr. Weinstein, che era appena tornato a Vienna da Buchenwald, e mi diede il suo indirizzo.  Tornai quindi Sulla jeep, e viaggiammo per le strade che portavano al quartier generale G-2. Il mio compagno di Jeep suonava il clacson alle ragazze in strada e mi spiegava in dettaglio la suoa opinione circa I dentisti dell’esercito.

Una volta consegnati gli incartamenti ufficiali, tornai sulla jeep da solo e andai dal Dr. Weinstein.

 

Era l’imbrunire quando guidai indietro fino a tornare a Stiefelstrasse. Parcheggiai la jeep ed entrai nel mio vecchio palazzo. Era stato trasformato in un accampamento per ufficiali di campo. Un sergente rosso di capelli stava seduto al tavolo d’accoglienza, pulendosi le unghie. Guardò in su e, come se il mio grado non fosse superiore al suo, mi diede quella lunga occhiata da esercito, del tutto priva di ogni interesse o curiosità. Normalmente l’avrei restituita.

“C’è la possibilità di salire al secondo piano per un minuto?” Chiesi. “Vivevo qui prima della guerra”. “Questa qui è la residenza degli ufficiali, amico” Disse lui.

“Lo so, starò solo un minuto.”

“Non si può fare. Mi spiace.” Continuava a raschiare l’interno delle unghie con la lama grossa del suo coltello da tasca. “Starò solo un minuto” Dissi di nuovo.

Mise giù il coltello pazientemente. “Guarda amico. Non voglio sembrarti un imbecille, ma non farò salire nessuno che non risieda qui. Non mi frega niente neppure se ci fosse Eisenhower in persona. Io ho il mio - ” Fu interrotto dall’improvviso suonare del telefono sulla sua scrivania. Prese il ricevitore tenendo un occhio su di me e disse “ Sissignore signor Colonnello,  Sono io sissignore… sissignore… Le ho fatte mettere sotto ghiaccio dal caporale Santini proprio ora, un minuto fa. Saranno fredde al punto giusto …Bè pensavo di far mettere l’orchestra, tipo fuori dalla terrazza. Considerando che sono solo tre… Sissignore, Ho parlato col maggiore Foltz e mi ha detto che le signore potranno mettere gli indumenti pesanti nella sua stanza …Sissignore. Certo. Sì, a presto Signore. Il sergentre riappese il ricevitore con un’aria rinvigorita. 

“Guarda - dissi distraendolo - starò su soltanto un minuto”

Mi guardò. “Ma poi che c’è di così interessante lassù?”

 


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