Sono Pazzo

(Colliers, Dicembre, 1945)

 

       Erano circa le otto di sera, ed era buio, pioveva e si gelava, e il vento faceva quel rumore come nei film dell’orrore nella notte in cui il ragazzo curioso viene assassinato.  Me ne stavo accanto al cannone in cima alla Thomsen Hill, ghiacciando a morte, guardando verso il finestrone a sud della palestra che scintillava grosso, luminoso e stupido come le finestre di una palestra, e nientaltro (ma forse non siete mai stati in un collegio).

Avevo indosso solo il reversibile e niente guanti.  Qualcuno si era fregato il mio pelo di cammello la settimana prima e i guanti erano nella tasca. Ragazzi, se avevo freddo. Solo un pazzo se ne sarebbe stato lì. Solo io per l’appunto. Pazzo. Senza scherzi, ho qualche rotella fuori posto. Ma dovevo starmene lì per significare l’addio alla giovinezza di quel posto, come fossi stato un vecchio. Tutta la scuola era giù alla palestra per la partita di basket con I tizi del Saxon Charter, ed io me ne stavo lassù per sentire l’addio.

Stavo là, ragazzi -si gelava a morte- ed io continuavo a diire addio a me stesso.”Addio Caulfield. Addio ragazzo,” Continuavo a vedermi mentre giocavo a football in giro con Buhler e Jackson, poco prima che facesse buio nelle sere di settembre e sapevo che non avrei mai più fatto partite con gli stessi ragazzi nello stesso momento. Era come se io , Buhler e Jackson avessimo fatto qualcosa che poi era morto ed era stato, e solo io lo sapevo, e nessuno era al funerale tranne me. Così me ne stavo là a ghiacciare

La partita era al secondo tempo, e si potevano sentire le urla: forti e magnifiche dal lato del Pentey, magre e frocesche da quello del Saxon Charter side, perchè il gruppetto del Saxon non portava mai con sé che la squadra, con poche riserve e l’allenatore. Potevi dire senz’ombra di dubbio quando Schultz o Kinsella o Tuttle avevano scartato uno dei ragazzi perché il lato del Pentey impazziva. 

 

 Ma mi importava solo a metà di chi vincesse. Stavo congelando e comunque ero lì soltanto per sentire di dare l’addio, per essere al funerale di me, Buhler e Jackson scalcianti pallonate nelle serate di settembre – e alla fine, su uno degli incitamenti Sentii l’addio come un autentico coltello. Ero davvero al funerale.

Così d’un tratto, dopo che fu successo, Cominciai a correre giù per Thomsen Hill, con la mia valigia che mi batteva come il diavolo sulle gambe. Corsi per tutta la via fino al cancello; poi mi fermai e  ripresi fiato; quindi corsi attraverso la Route 202 – era ghiacciata e caddi e mi ruppi quasi un ginocchio – quindi sparii nella Hessey Avenue.  Sparii.  Si spariva ogni volta che si attraversava una strada quella sera. Non scherzo.

  Quando arrivai alla casa del vecchio Spencer -era lì che stavo andando- appoggiai le valigie sulla veranda, suonai il campanello e velocemente mi misi le mani sulle orecchie - ragazzi se mi facevano male. Cominciai a parlare alla porta. "Avanti, avanti," dissi "Apriti, sto congelando." Alla fine arrivò la signora Spencer.

"Holden!" Disse. "Vieni dentro, caro!" Era una donna simpatica. La sua coccolata calda della domenica faceva invariabilmente schifo, ma non ci badavi.

Entrai in casa veloce.

"Sei ghiacciato a morte? Devi essere zuppo," Disse la signora Spencer. Non era il genere di donna attorno alla quale si poteva essere solo un po' bagnati: o eri completamente asciutto oppure eri zuppo. Ma non mi chiese cosa io facessi fuori della scuola, così immaginai che il vecchio Spencer le avesse raccontato cos'era successo. 

Misi giù le valigie nella sala e mi levai il cappello - ragazzi, riuscivo a malapena a dominare le mie dita quel tanto per afferare il cappello, "Come sta, signora Spencer? E come va l'influenza de l signor Spencer? La sta superando bene?"

"Superarla" Disse la signora Spencer. "Dammi il tuo cappotto, caro. Guarda Holden, si sta comportando come un perfetto non-so-cosa. Entra pure caro, è nella sua stanza."

La stanza del vecchio Spencer era adiacente alla cucina. Lui aveva circa sessant'anni, forse anche di più ma traeva piacere dalle cose in un modo dimezzato. Se ci pensavi ti veniva da chiederti cosa vivesse a fare, con il fatto che per lui era quasi tutto finito e così via. Ma se pensavi a lui in quel modo, ci pensavi nel modo sbagliato: stavi pensando troppo. Se ci pensavi il giusto, non troppo, sapevi che in fondo se la cavava decentemente. Nel suo modo sfortunato si godeva praticamente ogni cosa sempre. Io so godermi le cose stupendamente ma solo di tanto in tanto. A volte viene da pensare che le persone anziane siano avvantaggiate. Ma non fare i cambio. Non vorrei godermi quasi tutto nella vita se dovesse essere in una maniera dimezzata.

 

Il vecchio Spencer stava seduto nella grossa sedia comoda della sua stanza da letto, tutto avvolto nella coperta Navaho che lui e la signora Spencer avevano comprato a Yellowstone Park circa otto anni prima. Probabilmente erano andati in sollucchero per averla comprata dagli indiani.

"Vieni dentro Caulfield!" mi gridò il vecchio Spencer. "Entra ragazzo!"

Io entrai.

 

Aveva una copia dell'Atlantic Monthly aperta a faccia in giù in grembo e c'erano pillole dappetutto e una borsa dell'acqua calda. Odio vedere le borse dell'acqua calda, specialmente quella di un vecchio. So che non è bello ma è quello che penso.

Il vecchio Spencer sembrava davvero disfatto, non aveva certo l'aspetto di uno che si fosse comportato come un perfetto non-so-cosa. Probabilmente alla signora Spencer piaceva pensare che lui si comportasse in quel modo come se il vecchio fosse ancora un asso

 

"Ho avuto il suo biglietto, signore" Gli dissi. "Sarei venuto comunque prima di partire. Come va la sua influenza?

 "Se mi sentissi appena un po' meglio dovrei chiamare il medico," disse il vecchio Spencer e la cosa lo fece sbellicare. "Siediti ragazzo" disse ancora ridendo. "Perchè in nome di Giove non sei giù alla partita?"

Mi sedetti sull'orlo del letto. Sembrava proprio il letto di un vecchio. Dissi, "Bè, sono stato alla partita per un po', signore. Però me ne vado oggi anzichè domani. Il direttore Thurmer ha detto che posso andarmene stasera se proprio lo desidero. Così me ne vado.

 

"Bè, ti sei certamente scelto una notte perfetta," disse. Ci stava davvero rimuginando sopra.

"Sissignore," dissi io

"E che ti ha detto il direttore Thurmer, ragazzo?"

"Bè, è stato molto gentile con me nel suo modo bavoso" dissi io. "Mi ha detto delle cose sulla vita che è come una partita. Lo sa. Che bisogna giocare secondo le regole eccetera. Roba così. Mi ha augurato buona fortuna per il futuro e tutto il resto. Cose del genere. 

 

Pensavo davvero che Thurmer fosse stato gentile con me nel suo modo bavoso, così raccontai a Spencer un altro po' di cose che Thurmer mi aveva detto. Sul fatto che avrei dovuto applicarmi se davvero avessi voluto fare qualcosa nella vita, arrivai anche ad inventarmi qualcosa e il vecchio Spencer stette lì ad ascoltare con attenzione e ad annuire per tutto il tempo.  In fine mi chiese, "hai già comunicato coi tuoi genitori?"

"No signore, non ho ancora comunicato con loro perchè i vedo stanotte." Il vecchio Spencer annuì di nuovo. Mi chiese, "Come prenderanno la notizia?"

"Bè," dissi "Loro odiano questo genere di cose. Questa è la terza scuola da cui vengo cacciato, non scherzo!"

Il vecchio Spencer non annuì questa volta. Gli stavo dando fastidio pover'uomo. D'un tratto alzò la copia di Atlantic Monthly come se fosse stata troppo pesante per lui e la lanciò verso il letto. Che mancò. Mi alzai e la tirai su appoggiandola sul letto. Tutto insieme volevo andarmene via di lì.

Il vecchio Spencer disse, "Cos'è che non va con te, ragazzo? Quante materie hai presentato quest'anno?"

"Quattro" risposi.

"E in quante sei stato bocciato?"

"Quattro"

Il vewcchio Spencer cominciò a fissare il punto dove l'Atlantic Monthly era caduto quando lui aveva provato a lanciarlo sul letto. Disse "Io ti ho bocciato in storia perchè tu non sapevi assolutamente niente. Tu non sei mai stato preparato una volta, nè per gli esami nè per le interrogazioni del giorno. Non una volta. Dubito che tu abbia mai aperto i libri di testo durante l'anno, è così?"

Gli dissi che ci avevo dato un'occhiata un paio di volte, tanto per non ferire i suoi sentimenti, lui pensava che la storia fosse una roba grandiosa. Per me andava bene che lui pensasse che ero un compketo scemo ma mi dispiaceva che credesse che non avessi mai aperto il suo libro.

"L'elaborato del tuo esame è nel chiffonier lassù," disse. "Portalo qui."

Andai a prenderlo e glielo passai, poi tornai a sedermi sul bordo del letto.

Il vecchio Spencer esaminava il mio elaborato come se si trattasse di un qualcosa di catching che lui doveva manipolare per il bene della scienza, e lui fosse Pastuer o uno di quei tizi.

Disse "Abbiamo studiato gli egiziani dal 3 novembre al 4 dicembre. Tu stesso hai scelto di scrivere di questo fra una selezione di venticinque argomenti. Ecco cosa hai scritto:"

 

"Gli egiziani erano una antica razza di persone che vivevano nella regione più settentrionale del Nord Africa che è, come sappiamo, uno dei continenti più vasti dell'Emisfero Orientale. Gli Egiziani sono molto interessanti ancora oggi per numerose ragioni. Se ne legge anche spesso nella Bibbia. La Bibbia è piena di aneddoti divertenti sui faraoni che, come si sa, erano tutti egiziani."

 

Il vecchio Spencer mi guardò. "Nuovo paragrafo", disse. "Quello che è più interessanti degli egiziani sono le loro abitudini. Gli egiziani avevano molti modi interessanti di fare le cose. Anche la loro religione era molto interessante. Seppellivano i loro morti in un modo molto interessante. I faraoni morti si facevano avvolgere in panni trattati in modo speciale per evitare che il loro viso marcisse. Ancora oggi gli scienziati non sanno quale fosse la formula chimica, così tutte le nostre facce marciscono quando siamo morti da un certo periodo di tempo."

 

Il vecchio Spencer mi guardò ancora sopra al di sopra del foglio. Io avevo smesso di guardarlo. Mi guardava alla fine di ogni singolo paragrafo. Io non lo avrei più guardato. "Mi biasimi per averti bocciato, ragazzo?" Mi chiese il vecchio Spencer. "Tu che avresti fatto al mio posto?" "La stessa cosa," dissi "Abbasso gli idioti." Ma non gli stavo prestando troppa attenzione in quel momento. Mi stavo chiedendo se il laghetto di Central Park sarebbe stato gelato al mio ritorno; e se fosse effettivamente gelato, mi chiedevo se ci sarebbero stato pieno di gente a pattinare al mattino quando guardavi fuori dalla finestra, e dove sarebbero andate le anatre, cosa succedeva alle anatre quando il laghetto ghiacciava. Ma non avrei potuto dire quelle cose al vecchio Spencer.

Mi chiese, "Come ti senti riguardo a tutto questo, ragazzo?"

"Intende riguardo alla mia bocciatura e tutto il resto?" Dissi.

"Sì,"

Così cercai di pensarci un po' perchè era un brav'uomo e continuava a mancare il letto quando ci lanciava sopra qualcosa.

"Bè, mi dispiace di essere stato bocciato per un sacco di ragioni," dissi. Ma sapevo che non avrei potuto farglielo capire. Non potevo parlargli di me in piedi sulla Thomsen Hill a pensare a Buhler, Jackson e me. "Alcune delle ragioni sarebbero difficili da spiegare in due parole, signore, " gli dissi. "Ma stasera, per esempio," dissi "stasera ho dovuto fare le valigie e metterci dentro gli scarponi da sci. Gli scarponi da sci mi hanno fatto sentire triste per la partenza. Mi sembrava di vedere mia madre cacciare fra i negozi, e fare ai commessi un milione di domande sceme. Per poi comprare comunque il modello sbagliato, però è forte. Davvero. Questo è più o meno il motivo per cui mi dispiace essere stato bocciato, per via di mia madre e degli scarponi da sci." Questo fu tutto ciò che dissi. Dovevo andarmene di lì.

Il vecchio Spencer aveva annuito tutto il tempo, come se avesse capito tutto, ma non si poteva davvero dire se annuisse perchè capiva ciò che dicevo o piuttosto perchè era semplicemente un bravo vecchietto con l'influenza e una roba strana sulla sua mano.

"Ti mancherà la scuola, ragazzo" mi disse.

Era un brav'uomo. Non scherzo. Provai a dirgli qualcosa in più. Dissi, "Non esattamente, signore. Mi mancheranno alcune cose. Mi mancherà andare e tornare da Pentey in treno; andare alla carrozza ristorante e ordinare un sandwich al pollo e una coca, e leggere cinque riviste nuove con tutte le pagine lisce e nuove. E mi mancheranno gli adesivi di Pentey sulla mia valigia. Una volta una signora che incontrai sul treno mi chiese se conoscevo Andrew Warbach. Era la madre di Warbach, e lei lo conosce Warbach, signore. Davvero uno stronzo. Il tipo di ragazzo che da bambini ti torce i polsi finche le mani ti diventano di marmo. Però sua madre era a posto. Certo, avrebbe dovuto sdtare in un manicomio, come quasi tutte le madri, ma amava Warbach. Riuscivi a leggerglielo in quegli occhi da pazza, pensava veramente che suo figlio fosse un grande. Così passai circa un'ora di viaggio a parlarle di che gran personaggio fosse Warbach e di come a scuola nessuno facesse una mossa senza sentire lui prima. La sconvolse. Quasi si rotolava nel corridoio. Probabilmente nel fondo del suo cuore immaginava che razza di stronzo fosse, ma io riuscii a farle cambiare idea. Mi piacciono le madri. Mi fanno divertire da matti.

Mi fermai. Il vecchio Spencer non mi stava seguendo. Forse un poco, ma non abbastanza da farmi volere approfondire la cosa. Comunque non stavo dicendo nulla di quello che avrei voluto. Non lo faccio mai. Sono pazzo. Non scherzo.

Il vecchio Spencer chiese: "Progetti di andare al college, ragazzo?"

"Non ho progetti, signore," dissi. "Vivo giorno per giorno." Suonava fasullo, ma io stesso stavo cominciando a sentirmi fasullo. Me ne ero stato seduto sul bordo di quel letto per troppo tempo. Mi alzai di colpo.

"Penso che farei meglio ad andare, signore." Dissi. "Devo prendere il treno, lei é stato davvero grande. Non scherzo"

 

Bè il vecchio Spencer mi chiese ancora se per caso non volessi una tazza di cioccolata prima di partire, ma io dissi che no grazie. Ci stringemmo la mano. Era parecchio sudato. Gli dissi che gli avrei scritto una lettera prima o poi e di non preoccuparsi di me. Che non avrebbe dovuto lasciare che io lo deprimessi. Gli dissi che sapevo bene di essere pazzo. Lui mi chiese se ero davvero sicuro di non volere una cioccolata calda, non ci sarebbe voluto molto tempo.

"No," dissi, "Addio, signore. Abbia cura di sè, adesso.

"Sì," disse stringendomi di nuovo la mano. "Addio, ragazzo."

Gridò qualcosa alle mie spalle mentre mi stavo allontanando, ma non riuscii a sentirlo. Credo che fosse buona fortuna . Mi dispiaceva davvero per lui. Sapevo cosa stava pensando: quanto ero giovane, quanto poco sapevo del mondo e tutto il resto, quello che accadeva ai ragazzi come me e così via. Probabilmente la mia partenza l'aveva un poco depresso, ma scommetto che poco più tardi avrebbe parlato di me con la signora Spencer e si sarebbe sentito meglio, e probabilmente avrebbe chiesto alla signora Spencer di passarle l'Atlantic Monthly prima di lasciare la stanza.

 

Fu dopo l'una di quella stessa notte che arrivai a casa, perchè mi fermai a chiacchierare con Pete, il ragazzo dell'ascensore. Lui mi raccontava tutto di suo cognato. Suo cognato era un poliziotto e aveva sparato ad un tizio. Non ce n'era bisogno ma lui lo aveva fatto, e alla grande. E ora la sorella di Pete non voleva più stare con lui. Era una questione tosta. Non mi dispiaceva tanto per la sorella di Pete, però mi dispiaceva per suo cognato, poveretto.

Jeannette, la nostra inserviente di colore, mi fece entrare. Io avevo perso le chiavi da qualche parte. Aveva tra i capelli uno di quei cosi di alluminio, garantiti per sciogliere i nodi.

"Cheffai a casa, ragazzo?" Disse "Cheffai a casa, ragazzo?" Ripeteva tutto due volte.

Ero piuttosto stanco di gente che mi chiamava "ragazzo" così dissi soltanto "Dove sono tutti?"

"A giocare a bridge." Disse, "a giocare a bridge, checciffai a casa, ragazzo?"

"Sono tornato per la razza," Dissi.

"Che razza?" Disse la volpe.

"La razza umana. ah, ah, ah," Dissi. Mollai le valigie e il cappotto nell'atrio e me ne andai da lei. mi ficcai il cappello a rovescio sulla testa, sentendomi bene per il cambiamento, e camminai giù per il corridoio fino alla porta di Phoebe e Viola che aprii.  Era parecchio buio anche con la porta aperta, e quasi mi ruppi il collo per arrivare al letto di Phoebe.

Mi sedetti sul suo letto. Era mezza sveglia, benissimo."

"Phoebe," Dissi. "Ehi, Phoebe!"

Si svegliò del tutto con una certa prontezza.

"Holden!" Disse con ansia. "Che ci fai a casa? Che c'è? Che è successo?"

"Aah, la solita vecchia storia," Dissi. "Novità?"

"Holdie, Che ci fai a casa?" Disse. Ha solo dieci anni ma quando vuole una risposta, vuole una risposta.

"Che ti è successo al braccio?" Le chiesi. Avevo notato un pezzo di garza adesiva sul suo braccio.

"Ho scontrato dentro un'anta del guardaroba," disse. "La signorina Keefe mi ha fatto guardiana del guardaroba. Sono responsabile dell'attrezzatura di tutti." Ma tornò subito sulla questione. "Holdie, che ci fai a casa?"

Sembrava una santarellina, ma solo con me. E' perchè io le piaccio. Ma non è una santarellina Phoebe. Lei è letteralmente una di noi, per essere una bambina.

"Torno fra un minuto" Le dissi, e tornai in sala a prendere delle sigarette da una delle scatole. Me le infilai in tasca; poi tornai da lei. Phoebe stava seduta ritta ed era proprio carina. Mi risedetti sul suo letto...

"Mi hanno cacciato di nuovo." Le dissi.

"Holden," disse, "Papà ti ammazza."

"Non ho potuto evitarlo, Phoeb," dissi. "Continuavano a riempirmi di roba, esami e tutto, e periodi di studio, e tutto era obbligatorio contemporaneamente. Stavo impazzendo. Non mi piaceva proprio."

"Ma, Holden," disse Phoebe, "a te non piace mai niente." Sembrava veramente preoccupata.

"Sì invece, non è vero, non dire così," dissi "Ci sono un casino di cose che mi piacciono."

"Cosa?" Disse lei "Dimmene una."

"Non lo so, Gesù, non so," Le dissi "Non riesco più a pensare oggi. Mi piacciono le ragazze che non ho ancora incontrato; le ragazze delle quali puoi vedere solo la testa qualche fila di sedili davanti a te sul treno. Mi piacciono un milione di cose. Mi piace star seduto qui con te. Non scherzo. Mi piace davvero star seduto qui con te.

"Va a letto, Viola!"  Disse Phoebe. Viola era in piedi. "Si strizza e riesce a passare attraverso le sbarre," mi disse Phoebe.

Tirai su Viola e me la misi a sedere in grembo. Una bambina pazza se mai ce n'è stata una, ma una di noi.

"Holdie," disse Viola, "Puoi dire a Jeannette di ridarmi Paperino?"

"Viola ha insultato Jeannette e lei le ha tolto il suo Paperino." Mi spiego Phoebe.

"Ha sempre l'alito cattivo." Mi disse Viola.

"L'alito," ripetè Phoebe. "Lei ha detto a Jeannette che aveva l'alito cattivo. Quando Jeannette le stava mettendo le ghette."

"Jeannette mi respira sempre addosso." Disse Viola stando ormai in piedi su di me.

Chiesi a Viola se le fossi mancato, ma lei mi guardò come se non fosse stata sicura che io fossi mai andato via.

"Torna a letto, ok Viola?" Disse Phoebe. "Riesce a strizzarsi attraverso le sbarre."

"Jeannette mi respira addosso tutto il tempo e mi ha portato via Paperino,"

Mi ripetè Viola.

"Holden te lo riprenderà," le disse Phoebe. Phoebe non era come gli altri bambini. Lei non si schierava mai con la cameriera.

Mi alzai, portai Viola al suo lettino e ce la misi dentro. Mi chiese di portarle qualcosa ma non riuscii a capire quello che diceva.

"Ovive," Disse Phoebe. "Olive. Adesso va pazza per le olive. Vuole mangiare olive tutto il tempo. Questo pomeriggio quando Jeannette era fuori ha suonato il pulsante dell'ascensore ed ha convinto Pete ad aprire un barattolo di olive per lei."

"Ovive," Disse Viola "Porta delle ovive, Holdie."

"Ok," dissi io.

"Con il rosso dentro," aggiunse Viola.

Le dissi che era ok e di andare a dormire. Le rimboccai le coperte, quindi cominciai a tornare verso Phoebe ma mi fermai talmente all'improvviso da farmi quasi male. Li sentivo entrare.

"Sono loro!" sussurrò Phoebe, "Riesco a sentire papà!"

Annuii e camminai verso la porta. Mi tolsi il cappello.

"Holdie!" Digli quanto ti dispiace. E tutte quelle cose, e che farai meglio la prossima volta."

Annuii semplicemente.

"Poi torna!" Disse Phoebe. "Io starò sveglia!"

 

Uscii e richiusi la porta. Avrei voluto aver appeso il cappotto e messo via le valigie. Sapevo che mi avrebbero detto di quanto costava il cappotto e di come la gente può rompersi il collo inciampando sulle valigie.

Quando ebbero finito con me, me ne tornai nella stanza delle bambine. Phoebe dormiva, ed io rimasi a guardarla per un po'. Bella bambina. Poi andai al lettino di Viola. Le alzai la coperta ed appoggiai Paperino vicino a lei; poi presi delle olive che avevo nella mano sinistra e le disposi in fila su una delle ringhiere del lettino. Una mi cadde a terra. La raccolsi e sentii che c'era sopra della polvere, così la infilai nella tasca della mia giacca. Poi lasciai la stanza.

Andai in camera mia e accesi la radio, ma era rotta. Così andai a letto.

Rimasi sveglio per un bel po' di tempo, sentendomi uno schifo. Sapevo che tutti avevano ragione ed io avevo torto. Sapevo che non sarei mai stato uno di quei tipi di successo, che non sarei mai stato come Edward Gonzales o Theodore Fisher o Lawrence Meyer. Sapevo che questa volta, quando papà aveva detto che sarei andato a lavorare nell'ufficio di quel tale, intendeva sul serio. Sapevo che non sarei mai più tornato a scuola e che non mi sarebbe piaciuto lavorare in un ufficio. Cominciai a chiedermi di nuovo dove andassero le anatre quando il laghetto di Central Park ghiacciava in inverno, e finalmente mi addormentai.

 


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