tratto da "Trasgressioni",  nº 34

Il ruolo dei movimento fascisti nella crisi delle democrazie europee tra le due guerre mondiali

Marco Tarchi




1. Un ruolo centrale o periferico?

Il fascismo ha svolto un ruolo cruciale nella crisi che ha scosso molti regimi democratici europei negli anni situati fra le due guerre mondiali? Quasi tutti gli storici e gli scienziati politici si sono trovati a lungo d’accordo nel dare una risposta positiva a questa domanda. Assieme al comunismo, il fascismo è stato abitualmente considerato una delle due maggiori sfide che la democrazia ha dovuto affrontare nel corso del XX secolo, in termini sia ideologici che di prassi. Pochi hanno dubitato della profonda influenza da esso esercitata sulla società e sulla politica europea dal 1919 al 1939, come conseguenza di una diffusa reazione culturale a quella filosofia dell’Illuminismo che aveva gettato le basi delle politiche liberali e soprattutto come diretto prodotto della nuova mentalità nazionalista e comunitaria che era nata nelle trincee durante la prima guerra mondiale e si era rapidamente diffusa in ampi settori delle classi medie. Certo, non si era sempre trattato di un’influenza diretta: nessuno ignorava che, a dispetto del moltiplicarsi dei movimenti fascisti in tutto il continente e in molti altri paesi del mondo specialmente negli anni Trenta, soltanto due di essi avevano raggiunto il potere, il Pnf in Italia e la Nsdap in Germania, ed un terzo, la Falange spagnola, costretta a fondersi nel Movimiento del generale Franco, era stata formalmente elevata al rango di struttura politica ufficiale di un regime autoritario. Nondimeno, era diffusa la convinzione che molti altri partiti e movimenti fascisti, anche se non erano riusciti a passare allo stadio della partecipazione al governo, avessero svolto un ruolo significativo nella crisi delle istituzioni democratiche nei rispettivi paesi, e ciò giustificava l’atteggiamento di quegli studiosi che descrivevano quel periodo storico usando l’espressione "epoca del fascismo". Questa convinzione è verosimilmente alla base dell’impressionante e costante sforzo compiuto da molti ricercatori nell’arco di oltre mezzo secolo per determinare la natura essenziale e i caratteri del fascismo, sebbene le sue espressioni genuine siano state relegate ai margini della vita politica europea dal 1945 in poi.

Oggi, alcuni ulteriori studi tendono a infrangere questo generalizzato consenso. I loro autori sottolineano che la tradizionale interpretazione del periodo fra le due guerre mondiali si spinge troppo in là quando si trova di fronte al problema della reale forza del fascismo, non prendendo in considerazione il fatto che la stragrande maggioranza dei movimenti e dei regimi autoritari che operarono contro la democrazia dopo la prima guerra mondiale non condividevano né le ambizioni totalitarie dei teorici e dei capi politici fascisti né molte delle specifiche caratteristiche implicite nel riferimento ai loro testi dottrinali. Un’altra critica verte sull’uso fuorviante dei rari casi di successi fascisti "come base per generalizzazioni sul crollo della democrazia" e ricorda che "l’ascesa del fascismo e la caduta delle democrazie fra le due guerre mondiali non sono processi equivalenti". In otto dei tredici paesi nei quali le democrazie parlamentari formalmente vigenti nel 1920 erano state sostituite, nel 1938, da dittature (Bulgaria, Estonia, Grecia, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania, Jugoslavia), i movimenti fascisti non erano infatti inclusi nella coalizione dominante, e in un altro (Portogallo) essi vennero fin dal primo momento nettamente subordinati agli alleati/rivali autoritari – i quadri superiori dell’esercito, le classi possidenti e la burocrazia statale – e in seguito sospinti all’opposizione, per essere alla fine messi al bando.

Le argomentazioni sostenute da questi critici meritano senz’altro un’attenta considerazione. Noi cercheremo in questa sede di ponderarle sulla base dei dati empirici forniti dai diciotto studi di casi nazionali inclusi nel primo volume di una recente ricerca sulle condizioni di sviluppo della democrazia negli anni Venti e Trenta nonché dalla letteratura generale su due temi: la crisi dei regimi democratici europei negli anni fra le due guerre e la diffusione dei movimenti fascisti nell’intero continente durante lo stesso periodo, sia nell’iniziale fase imitativa degli anni Venti, che seguì l’accesso di Mussolini al potere, sia nella seconda e più originale fase che si svolse nel decennio successivo e il cui andamento fu profondamente influenzato – a volte in modo positivo, in altri casi negativamente – dal successo di Hitler. Agendo in questo modo, ci prefiggiamo un duplice scopo. Da un lato, accertare se il ruolo svolto dai partiti e movimenti fascisti nel processo di crisi della democrazia in Europa sia stato centrale o periferico; in altri termini, se la crisi abbia semplicemente favorito l’ascesa del fascismo oppure se l’azione dei movimenti fascisti debba essere considerata un fattore autonomo influente sull’intensificazione della crisi. Dall’altro lato, comprendere quale più specifico ruolo tali movimenti abbiano svolto nei paesi nei quali non solo presero parte al processo di crisi ma riuscirono anche a sfruttarlo direttamente, conquistando il potere.



2. Il sostegno popolare al fascismo e gli esiti autoritari

Gli studiosi che invitano a riconsiderare l’impatto del fascismo sulla crisi democratica del periodo fra le due guerre generalmente sottolineano due dati evidenti: 1. L’assenza di qualsiasi correlazione tra il potenziale fascista esplicito di un paese (vale a dire la quota di consenso elettorale ottenuta dai partiti fascisti durante lo svolgimento della crisi) e il collasso oppure la sopravvivenza delle sue istituzioni parlamentari; 2. Il carattere non fascista di una larga maggioranza dei regimi autoritari che scalzarono i governi democratici.

A prima vista, entrambe le argomentazioni appaiono convincenti. È vero infatti che, con l’eccezione della Germania di Weimar e delle semi-competitive elezioni italiane del 1924, in nessun paese i movimenti fascisti riuscirono a conquistare una maggioranza perlomeno relativa dei seggi in parlamento, e che alcuni dei paesi dove portarono dalla loro parte una frazione piuttosto consistente dell’opinione pubblica – il Belgio, dove Rex e i nazionalisti fiamminghi raccolsero insieme il 18,6% dei voti nel 1936; la Francia, dove il Parti social français capeggiato dal colonnello de La Rocque ebbe nel momento culminante del suo successo, alla fine del 1937, un numero di iscritti stimato in sette-ottocentomila malgrado la concorrenza di altri forti gruppi appartenenti alla stessa famiglia, come il Parti populaire français di Jacques Doriot; la Finlandia, dove il movimento di Lapua sfiorò il potere nel 1930-32 e il suo successero Ikl ottenne l’8,3% nel 1936; l’Olanda, dove la Nsb nazionalsocialista raggiunse il picco del 7,9% del voto popolare nelle elezioni provinciali del 1935 – sormontarono la crisi (si veda la tabella 1 per un profilo generale dei risultati ottenuti dai partiti fascisti e sull’esito della crisi nei vari paesi europei in quel periodo).

Tabella 1. Risultati elettorali dei partiti fascisti e sorte della democrazia nell’Europa fra le due guerre

Paese Principali partiti fascisti (denominazione e miglior risultato Crollo della democrazia

elettorale a livello nazionale o locale, anno delle elezioni)

Austria Heimwehr: 6,2% (1930, come Fronte della Madrepatria) sì

Dnsap/Nsdap: 3% (1930) 20,7% alle comunali di Salisburgo (1933)

Belgio Rex: 11,5% (1936) no

Vlaams Nationaal Verbond/Vnv: 8,3% (1939)

Verbond van Dietsche Nationaal-Solidaristen/Verdinaso: np

Bulgaria Nationala Zadruga Fascisti: np sì

Cecoslovacchia Dnsap/Dap (Sudeten): 14,7% (1935) no

Partito del Popolo Slovacco (Slovacchia): 7,5% (1935)

Národní obec fašistická (Boemia): 2% (1935), 11% alle comunali di Praga (1931)

Danimarca Dnsap: 1,8% (1939) no

Slesvigsk Parti (Tedeschi dello Schleswig): 2,4% (1939)

Estonia Wabse: 21,7% alle elezioni comunali generali (1934) sì

Finlandia Suomen Lukko/Movimento di Lapua: np no

Isänmaallinen Kansanliike/Ikl: 8,3% (1936)

Francia Faisceau: np no

Jeunesses Patriotes, Solidarité Française, altre Leghe: np

Croix-de-Feu, Parti Social Français: 47 deputati del Psf eletti in coalizioni (1936)

Francisme: np

Parti Populaire Français: 38,1% alle comunali di Saint-Denis (1937)

Germania Nationalsozialistische Deutsche Arbeiter Partei/Nsdap: 43,9% (1933) sì

Gran Bretagna British Union of Fascists: 14-23% ad alcune elezioni locali (1937) no

Grecia Partito della Libera Opinione-Metaxas: 3,9% (1936) sì

Partito Nazional-radicale-Kondylis: 4,1% (1933)

Irlanda Blueshirts/National Guard: sosteneva la coalizione United Ireland Party no

Islanda Partito Nazionalista: 0,7 (1934), 2,8% alle comunali di Reykjavik (1934) no

Italia Partito Nazionale Fascista/Pnf: 64,9% (1924) sì

Jugoslavia Ustaši (Croazia): np sì

Zbor (Serbia): 1% (1938)

Lettonia Perkonkrusts sì

Lituania Partito Nazionalista: 3 seggi su un totale di 80 (1926) sì

Lupi d’acciaio: np

Norvegia Nasjonal Samling: 2,2% (1933) no

Olanda Nationaal-Socialistische Beweging/Nsb: 7,9% alle provinciali (1935) no

Polonia Campo della Grande Polonia/Owp, Campo Nazional Radicale/Onr: np sì

Portogallo Centro do Nacionalismo Lusitano, Acção Nacional, Nazional Sindacalisti: np sì

Romania Guardia di Ferro: 15,6% (1937), totale dell’estrema destra 24,7% (1937) sì

Spagna Falange de las Jons: 0,1% (1933) sì

Svezia Partito Nazionalsocialista del popolo/SNP: 0,7% (1936) no

Sveriges Nationella Förbund: 0,9% (1936)

Svizzera Front National: 1,5% (1935); 23% alle cantonali di Sciaffusa (1936) no

Heimatwehr: 13,5% alle comunali di Berna (1934)

Fédération Fasciste Suisse: 1,2% alle cantonali del Ticino (1935)

Ungheria Croci frecciate: 25% (totale dei voti ai partiti fascisti) (1939) no

Nazional Socialisti

Fonti: Dirk Berg-Schlosser e Jeremy Mitchell (a cura di), Conditions of Democracy in Europe, 1919-39. Systematic Case-Studies, Houndmills, Macmillan 2000; Claude Cantini, Les ultras. Extrême droite et droite extrême en Suisse: les mouvements et la presse de 1921 à 1991, Lausanne, Editions d’en bas 1992; Armin Heinen, Die Legion "Erzengel Michael" in Rumänien. Soziale Bewegung und politische Organisation, München, Oldenbourg 1986; David Kelly, The Czech Fascist Movement 1922-1942, Boulder, East European Monographs 1995; Peter H. Merkl, Comparing Fascist Movements, in Stein Ugelvik Larsen, Bernt Hagtvet, Jan Petter Myklebust, Who Were the Fascists, Oslo, Universitetsforlaget 1980; Peter F. Sugar, Native Fascism in the Successor States, 1918-1945, Santa Barbara, Clio Press 1971; Richard Thurlow, Fascism in Britain, Oxford, Basil Blackwell 1987; Dieter Wolf, Die Doriot Bewegung, Stuttgart, Deutsche Verlags-Anstalt 1967.

Nota: np = non hanno partecipato ad elezioni.

Dobbiamo inoltre tenere a mente che in altri casi – Grecia, Lituania, Polonia – i regimi liberali si arresero a colpi di stato militari che non necessitarono dell’aperto sostegno dei piccoli gruppi fascisti locali e neppure lo richiesero, dal momento che il loro primo proposito era l’immediata depoliticizzazione della società civile.

Questo quadro della situazione, tuttavia, rivela solamente una faccia di una complessa realtà. Il peso politico dei movimenti fascisti negli anni fra le due guerre non può infatti essere misurato esclusivamente in termini di voti raccolti alle elezioni e/o sulla base della loro dimensione formale in termini di iscritti reclutati, per almeno tre ragioni.

Prima di tutto, a causa della loro natura di soggetti giunti in ritardo sulla scena politica (late-comers), questi gruppi si dovettero costruire ex novo uno spazio di azione e di conseguenza incontrarono una forte ostilità negli attori preesistenti, che si espresse ripetutamente in varie forme di ostruzionismo. Ciò avvenne in special modo in quei paesi nei quali la politica di massa non era pienamente sviluppata e tanto le manipolazioni elettorali quanto gli abusi burocratici erano una prassi correntemente adottata dalle classi dirigenti ai danni degli oppositori. Soprattutto l’Europa orientale ha offerto un largo ventaglio di esempi di comportamenti di questo tipo, che impedirono ai partiti fascisti di mostrare integralmente l’entità del consenso di cui godevano. In Ungheria, le Croci frecciate erano nella seconda metà degli anni Trenta un movimento di massa ben strutturato e i loro candidati, sebbene il partito non fosse riuscito a presentarsi in alcuni distretti a causa degli ostruzionismi burocratici subìti, raccolsero più del 20% del voto popolare nel 1939. In Romania, il buon risultato ottenuto dalla Guardia di Ferro con le liste denominate Totul pentru tzara (Tutto per la patria) nel 1937, nelle ultime elezioni libere svoltesi prima del colpo di stato del re Carol – il 15,8%, che ne fece il terzo partito in ordine di grandezza nel paese – fu sicuramente ridotto dagli abituali brogli messi in atto dai funzionari statali su ordine del governo. In Estonia, il netto predominio dell’Unione degli ex combattenti (Wabse) in occasione del referendum costituzionale dell’ottobre 1933, il suo successo nelle elezioni amministrative del gennaio 1934 e la seria minaccia di una nuova e decisiva vittoria nelle elezioni presidenziali previste di lì a poco (il suo candidato aveva ottenuto circa il 50% delle firme complessivamente raccolte nel paese per consentire la presentazione degli aspiranti alla carica) indussero il governo conservatore a mettere fuorilegge questo movimento fascisteggiante di estrema destra, ad arrestare un gran numero di suoi membri e a proclamare lo stato di emergenza per vanificare il sostegno popolare che si era conquistato. Più o meno lo stesso accadde in Lettonia due mesi dopo per impedire il successo del movimento Perkonkrusts (Croce del Tuono), un potente gruppo nazionalista e antisemita che poteva vantare un nocciolo duro di quindicimila militanti: il governo guidato dal leader contadino Ulmanis lo mise al bando per prevenire ogni opposizione al suo colpo di stato, che inaugurò un regime autoritario spazzato via sei anni più tardi dall’invasione sovietica. Dal momento che in tre di questi quattro paesi la democrazia crollò e nel quarto, l’Ungheria, rimase ad uno stadio incompiuto e precario, è quantomeno riduttivo asserire che in tali contesti non si può riscontrare alcuna relazione fra la penetrazione fascista nella società civile e il collasso dei regimi democratici.

In secondo luogo, va tenuto ben presente che i movimenti fascisti di solito non sceglievano l’arena elettorale, e tantomeno quella parlamentare, come terreno di azione preferito. Partoriti dalla guerra, imbevuti di spirito combattentistico e abituati a plaudire alla retorica antidemocratica che contrapponeva la nazione "reale" (il pays réel magnificato da Charles Maurras) alle istituzioni "legali", essi sfidarono l’establishment dall’esterno, a livello sia di élite che di massa. A seconda delle circostanze, la loro azione si concentrò sull’uno o sull’altro terreno. In Italia, dopo il primo sfortunato tentativo del 1919 di crearsi una base elettorale, Mussolini modificò la propria strategia in modo tale da aprirsi nuove vie verso il potere. Costruendo una sorta di esercito di partito, le squadre d’azione, e utilizzandolo per colpire i militanti socialisti in nome del patriottismo, egli contribuì fortemente ad enfatizzare il problema dell’ordine pubblico, che già era emerso a seguito del timore di una rivoluzione sul tipo di quella bolscevica in Russia diffusosi nelle classi medie, esercitando in tal modo una diretta influenza sull’agenda politica. Organizzando un partito di massa che assicurava il sostegno di alcune componenti della società che non avevano più fiducia nella classe dirigente liberale – studenti, ex combattenti e ufficiali delle Forze armate, piccoli proprietari terrieri, impiegati –, egli offrì ai potenziali alleati (perlopiù conservatori) un’arma da utilizzare contro la sinistra, ma nel contempo li ammonì che, in caso di rifiuto di quell’offerta, le sue truppe avrebbero potuto essere aizzate contro il loro potere. Questa minaccia fu sicuramente un fattore importante nella decisione di Giolitti di includere un certo numero di candidati fascisti nelle liste dei suoi Blocchi nazionali nel 1921. Usando la violenza delle squadre in camicia nera non solo per colpire e indebolire i nemici – in primo luogo i socialisti e i sindacati "rossi" – ma anche per prendere il loro posto nel controllo delle organizzazioni di massa, in particolare nel settore rurale, Mussolini mirava a conferire al suo movimento l’immagine di una forza sociale ben radicata, in grado di mobilitare un largo seguito di simpatizzanti così come di garantirsi rappresentanza in parlamento, e perciò di sottrarsi al rischio di una messa al bando legale. È ovvio che nel contesto di questa strategia, spalleggiata dai frequenti contatti fra dirigenti del Pnf e membri dell’élite politica e sociale, le campagne elettorali non svolgessero un ruolo centrale; servivano solamente allo scopo di assicurare una maggiore visibilità, sia sul territorio che nelle arene istituzionali.

Visto il successo di Mussolini, molti movimenti nazionalisti radicali, che erano nati in altri paesi per diretta imitazione del fascismo o che si erano sviluppati in modo completamente autonomo ma condividevano sostanzialmente con le camicie nere una visione del mondo, decisero di seguire l’esempio italiano e quindi assegnarono un’importanza limitata alla via elettorale verso la conquista del potere. Alcuni di essi preferirono concentrare la propria attività sull’agitazione di piazza e/o sull’organizzazione di complotti e al massimo conclusero, in specifici casi, accordi a supporto di singoli candidati, formalmente indipendenti o presentati da partiti nazionalisti conservatori, più moderati, disposti a ripagare il loro sostegno in diversi modi. Ciò accadde ad esempio in Francia per un lungo periodo: tutte le più influenti Leghe avevano rapporti privilegiati con i parlamentari la cui elezione era stata determinata dal voto dei loro simpatizzanti, e persino il movimento delle Croix-de-feu, che in seguito assunse la denominazione di Parti social français, malgrado l’impressionante numero di iscritti non scese in campo sotto le proprie insegne. Ciononostante, all’indomani delle elezioni legislative del 1936 esso disponeva di 55 deputati in parlamento: 47 si iscrissero al gruppo del Psf alla Camera e 8, pur risultando ufficialmente indipendenti, erano iscritti al partito di La Rocque. Altri partiti fascisti rifiutarono qualsiasi forma di partecipazione elettorale, considerandola un inaccettabile compromesso con il parlamentarismo. Taluni – fra i quali la British Union of Fascists di Mosley, i partiti fascisti svizzeri, il Parti populaire français di Doriot, il Partito nazionalista islandese, la Falange spagnola e, naturalmente, partiti irredentisti locali come il Partito del popolo slovacco di Hlinka, la Sudetendeutsche Partei di Henlein e gli Ustasha croati – preferirono mettersi alla prova soltanto in alcune regioni, città o province. Altri ancora non ebbero il tempo sufficiente per poter competere a livello nazionale in elezioni generali, come accadde in Portogallo prima del colpo di stato del 1926. Inoltre, in paesi come la Polonia e la Cecoslovacchia, dove le idee fasciste ispirarono una pletora di piccoli gruppi, alcuni di essi vennero coinvolti in una complicata trama di mutevoli alleanze elettorali.

In terzo luogo, il fascismo esercitò il suo impatto sulla politica europea negli anni Venti e Trenta attraverso gli effetti imitativi che provocò un po’ in tutto il continente, e questo aspetto della sua diffusione non ha molto a che vedere con i non impressionanti risultati ottenuti alla prova delle urne da una moltitudine di piccoli gruppi – erano 71 nella sola Olanda prima della formazione della Nationaal Socialistische Beweging di Mussert che ne assorbì una parte, oltre 100 in Svezia, non meno di 45 in Svizzera – che rivendicavano l’affinità dei propri programmi con i punti di vista di Mussolini o di Hitler. La presa del potere da parte dei fascisti italiani, in particolare, suscitò un’ondata di reazioni simpatetiche in quei paesi nei quali la democrazia non era profondamente consolidata ed ampi settori della pubblica opinione borghese erano stati scioccati dalla rivoluzione russa e/o dalle sue proiezioni esterne, come le rivoluzioni rapidamente abortite di Bela Kun in Ungheria e del movimento dei Consigli in Baviera e a Berlino. La paura di una affermazione socialista in contesti sociali colpiti dagli effetti negativi della guerra, della smobilitazione e delle difficoltà economiche si espandeva non solo nella vecchia aristocrazia e fra i capitani di industria, ma anche, e spesso in forme più allarmistiche, nelle classi medie. La vittoria ottenuta dalle camicie nere mitigò quel timor panico ed offrì un modello agli attori sociali e politici che non si sentivano protetti dai sistemi liberali, in cui il suffragio universale e le organizzazioni sindacali rafforzavano a loro parere l’"aggressività" di operai e contadini. Dopo il 1933, la sensazione che la democrazia non rappresentasse più la migliore protezione contro la minaccia comunista si diffuse in molte nazioni, investendo particolarmente i ceti piccolo-borghesi; non fu perciò una sorpresa il fatto che in Spagna, malgrado la Falange e/o altri gruppi di estrema destra più o meno affini non fossero riusciti a guadagnarsi una presenza in parlamento, il fascismo fosse diventato alcuni mesi prima dello scoppio della guerra civile un potente simbolo politico per vasti settori conservatori dell’opinione pubblica.

In conseguenza di questa situazione, l’atteggiamento dei partiti e dei gruppi di interesse conservatori scivolò passo dopo passo sempre più verso posizioni radicali già negli anni Trenta, e in molti casi a questo spostamento si accompagnò un’aperta considerazione positiva dei valori e delle politiche associati all’immagine del fascismo. Anche là dove, come in Gran Bretagna o nei paesi scandinavi, le modalità attivistiche dei gruppi fascisti locali erano viste come l’espressione di uno stile di azione politica "straniero" e illegittimo e le loro idee erano scartate perché ritenute un prodotto di frange marginali estranee all’ortodossia accettata, gli ambienti conservatori espressero chiari apprezzamenti per alcuni provvedimenti politici decisi dallo stato fascista italiano e persino dalla Germania nazionalsocialista e, come Martin Blinkhorn ha notato, "attinsero selettivamente agli esempi che essi offrivano". Ciò accadde più estesamente nell’Europa centrale, meridionale e orientale. In taluni casi, il fascismo offrì un’evidente ispirazione a regimi autoritari di destra nati per porre fine a periodi di intense turbolenze sociali, come la dittatura di Miguel Primo de Rivera in Spagna, l’Estado Novo di Salazar in Portogallo o il regime del generale Metaxas in Grecia, sebbene essi non usassero l’etichetta originale per definirsi e di solito ritenessero anzi conveniente rifiutarla quando veniva loro imposta dai mezzi di informazione e/o dagli avversari politici. Più in generale, lo stile e le idee che i movimenti e i partiti fascisti fecero del loro meglio per promuovere a livello di massa finirono con l’essere accettati anche dai loro concorrenti di destra o quantomeno li "contaminarono". Per usare le parole di Stanley Payne, specialmente "a seguito del trionfo di Hitler […] anche i movimenti e i regimi autoritari di destra cominciarono ad adottare vari aspetti della "fascistizzazione", assumendo alcuni aspetti esteriori dello stile e del cerimoniale fascista per presentare un’immagine più moderna e dinamica, e con la speranza di raggiungere una più forte capacità di mobilitazione e una più solida infrastruttura sociale".

Il processo fu più evidente là dove le associazioni conservatrici, monarchiche, patriottiche o tradizionaliste fecero apertamente proprie parti dei programmi fascisti, come avvenne nel caso della Heimwehr austriaca a partire dal 1930, ma si manifestò soprattutto in forme mimetiche. Benché non venisse dichiarata e fosse mescolata ad altre tonalità ideologiche, l’ispirazione fascista risaltava nell’azione politica di leaders di destra quali lo spagnolo Calvo Sotelo, l’ungherese Gömbös, l’austriaco Dollfuss. La stessa fonte influenzò la radicalizzazione di partiti quali la Ceda e la Coalizione tradizionalista carlista in Spagna, le Ligues francesi, il Partito del popolo slovacco, il Verdinaso belga, il Partito del popolo romeno e la Lega di difesa nazionale cristiana in Romania, gli Ustasha croati, nonché di organizzazioni patriottiche quali l’Unione centrale degli ex combattenti estone o le Guardie civili finlandesi. Le idee fasciste trovarono un terreno ancora più fertile nelle organizzazioni giovanili di molti partiti di destra, dal Portogallo alla Finlandia, includendo alcuni paesi allergici al fascismo come la Gran Bretagna, l’Irlanda, la Danimarca, la Norvegia e la Svezia; altamente rappresentativa di questa tendenza è la provenienza dalla gioventù dell’Azione cattolica belga di Léon Degrelle e di molti attivisti di Rex. In qualche occasione la prossimità ideologica di fascisti e conservatori rese possibili formali alleanze: ciò accadde ad esempio in Finlandia nel 1933, quando la Ikl si presentò alle elezioni in coalizione con il Kansallinen Kokoomus, che era uno dei partiti istituzionali finlandesi.

Se prendiamo in considerazione tutti questi elementi, possiamo dare per certo un primo assunto. Anche se i partiti fascisti non riuscirono a mobilitare ampi settori della cittadinanza a proprio sostegno nelle occasioni elettorali in una maggior parte dei paesi nei quali le democrazie parlamentari crollarono fra il 1919 e il 1939, la loro influenza sul processo che condusse alla fondazione di regimi non democratici non può essere negata né sottovalutata.

3. I movimenti fascisti e la dinamica della crisi della democrazia

Dato che il complesso processo di crisi che coinvolse i regimi democratici nell’Europa fra le due guerre può essere spiegato solo "all’interno di uno schema coerente sovraordinato che consenta di stabilire [il] peso rispettivo" degli aspetti correlati alla sua struttura o ai suoi attori, c’è bisogno di un’analisi empirica separata di questi aspetti in prospettiva comparata e multifattoriale per mettere in rilievo l’influenza che i movimenti fascisti esercitarono sulle condizioni complessive della sopravvivenza o del crollo della democrazia. A tale scopo possiamo adottare come schema teorico il modello descrittivo ed esplicativo a due stadi proposto da Linz, nella versione integrata e adattata suggerita da Morlino, con la sua "sintassi dinamica" della crisi della democrazia.

Attraverso questo schema, Morlino identifica i cinque processi cruciali che possono costringere i governi democratici a perdere il controllo della crisi: polarizzazione della competizione politica, radicalizzazione dei suoi attori, frammentazione e/o frazionalizzazione del sistema di partito, andamento irregolare della partecipazione, instabilità governativa . Il nostro scopo è accertare quale ruolo i movimenti fascisti svolsero rispetto a ciascuno di questi processi, e più specificamente se essi riuscirono ad accelerarli ed intensificarli, favorendo la transizione dal primo al secondo stadio della crisi. Per evitare ogni fraintendimento, può essere utile sottolineare che l’incidenza dei movimenti fascisti sullo svolgimento della crisi non è direttamente correlata alle condizioni del loro successo o della loro sconfitta. Come vedremo, in alcuni casi l’azione fascista aprì semplicemente la strada a un imprevisto e non gradito esito autoritario della crisi ed in alcuni altri sollevò un’unanime reazione degli attori democratici e una conclusiva ripresa del regime che si prefiggeva di demolire. Questi esempi di "eterogenesi dei fini" non possono tuttavia essere usati per asserire che i movimenti fascisti non ebbero una reale influenza sulla caduta (o sulla sopravvivenza) delle democrazie in questione; al contrario, essi attestano che il fascismo fu una pedina importante nella partita a scacchi che i sostenitori e i nemici della democrazia giocarono nei primi decenni del XX secolo.

Una considerazione più approfondita della complessiva sequenza dei processi sottesi alla crisi della democrazia negli anni fra le due guerre mostra che i movimenti fascisti svolsero un ruolo tutt’altro che trascurabile all’interno di ciascuno di essi, sia nella prima fase, caratterizzata dall’allargamento dell’arena politica e dal coinvolgimento di una moltitudine di attori di massa nei conflitti sociali e politici, sia nella seconda fase, quando il numero di quegli attori andò viceversa progressivamente decrescendo via via che l’arena decisionale si restringeva e l’iniziativa passò nelle mani delle élites politiche. Esaminiamo dunque, uno alla volta, i processi sopra accennati.

3.1. La prima fase

a. Polarizzazione. A causa del loro già menzionato carattere di late-comers, i movimenti fascisti si trovarono costretti ad agire in società dove "una larga parte della popolazione si era già identificata in una varietà di posizioni ideologiche ed assai spesso era stata integrata in partiti, gruppi di interesse e organizzazioni di massa impenetrabili al richiamo fascista". In altre parole, la loro nascita non era scaturita dalle linee di frattura socioculturali – i cleavages – lungo le quali i regimi democratici avevano gettato le basi della politica di massa. La prima guerra mondiale e le sue conseguenze avevano lanciato una sfida molto seria al vecchio ordine sociale: la drammatica esperienza di quattro anni di violenza, privazioni, sacrifici e lutti, unita agli effetti di un’intensa propaganda nazionalista, aveva indotto i reduci, i loro familiari e la giovane generazione imbevuta di retorica patriottica ad immaginare che stesse per nascere un "mondo nuovo" nel quale i concetti di classe, religione, nazione, stato e molti altri ancora avrebbero sostanzialmente mutato significato. Nell’ottica tanto dei capi che dei seguaci, il fascismo era destinato ad essere il principale strumento di tale cambiamento; esso mirava a raccogliere assieme (questo era d’altronde l’intento evocato simbolicamente dalla parola "fascio") la generazione del fronte, vale a dire tutte quelle persone le cui aspettative politiche, culturali e morali non coincidevano con i valori, lo stile e gli esponenti politici della democrazia. I militanti dei movimenti che si ispiravano alle sue parole d’ordine si batterono perciò per modificare e complicare la combinazione dei cleavages da cui aveva preso forma il sistema di partiti pluralistico, e per creare nel contempo uno spazio di emergenza ove puntavano a far convergere e raccogliere i disertori delle varie famiglie politiche, scioccati o delusi da alcune conseguenze negative della guerra, prima fra tutte l’aumento di intensità della lotta di classe. Creando sul versante di destra di molti sistemi questo nuovo polo di aggregazione per attori politici il cui scopo principale era una diretta sfida alla crescita della sinistra socialista e comunista, il fascismo contribuì fortemente alla polarizzazione dei regimi democratici.

Non sempre questo processo corrispose alle aspettative dei fascisti. Per allargare il proprio spazio di manovra, essi alimentarono contemporaneamente nuove domande non adeguatamente prese in considerazione a livello istituzionale e vecchie richieste che non avevano trovato maggiore soddisfazione da parte dei governi, e spesso entrarono così in contrasto con i potenziali alleati conservatori, rimproverandoli per l’indifferenza mostrata verso i nuovi problemi scaturiti dalla guerra e per la debole reazione opposta alle permissive politiche democratiche. La coabitazione fra i fascisti e gli altri gruppi autoritari di destra fu perciò instabile e generalmente limitata alla creazione di effimeri comitati di salute pubblica o alla stipula di accordi tattici in vista di elezioni locali; in alcuni paesi, tuttavia, ciò fu sufficiente a modificare i rapporti di forza sui quali poggiava il compromesso democratico fra governi e opposizioni. L’indebolimento dei partiti di centro erose le coalizioni esistenti e gli attori politici intrapresero negoziati – non sempre a livello visibile – onde formare nuove alleanze. I movimenti fascisti cercarono di condizionare il gioco politico imponendo la centralità di temi connessi alla questione nazionalista – il complesso della "vittoria mutilata" in Italia, il fardello delle condizioni vessatorie incluse nei trattati di pace in Germania, in Ungheria e negli altri paesi sconfitti, la ridefinizione dei confini nazionali e il problema causato dal mosaico delle minoranze etniche e linguistiche in tutti gli stati che avevano raccolto l’eredità degli Imperi, l’ossessione dello "spazio vitale" (Lebensraum) che era più o meno presente dappertutto.

Solo in Germania (con l’accordo fra Hitler e von Papen) e in Italia (con i governi di coalizione guidati da Mussolini, in cui erano rappresentati non soltanto i nazionalisti di tendenza autoritaria ma anche i cattolici moderati e conservatori, e soprattutto tramite l’alleanza fra la componente nazional-liberale della vecchia classe politica e il Pnf nelle elezioni legislative del 1924, che assicurarono al governo una maggioranza di due terzi dei seggi parlamentari) l’azione fascista fu coronata dal successo, ma in molti altri casi essa contribuì ad una crescita della polarizzazione elettorale. Nel complesso, il peso del voto per partiti estremisti di destra e di sinistra raggiunse le punte più elevate non solamente là dove i partiti fascisti ed affini oltrepassavano la soglia del 15% – in Belgio, Cecoslovacchia (grazie ai voti degli slovacchi e dei tedeschi dei Sudeti), Estonia, Ungheria, Germania, Romania – ma anche nei paesi in cui i partiti conservatori autoritari usavano la minaccia dell’ascesa fascista o nazionalsocialista, con i suoi prevedibili strascichi di violenza e lotte intestine, come uno spauracchio, per ottenere un massiccio sostegno nell’elettorato anticomunista (l’Austria e la Grecia ci offrono due esempi significativi di questa tendenza).

b. Radicalizzazione. La presenza di movimenti fascisti organizzati e aggressivi dette un ulteriore impulso alla radicalizzazione della competizione politica in molte democrazie del periodo tra le due guerre, facendo aumentare la distanza ideologica tra i partiti e causando di conseguenza una divaricazione dei poli laterali del sistema. La crescita di tendenze fasciste all’interno di una democrazia è già in sé un indicatore dell’inquietudine di taluni settori della società e sottolinea l’incombente sgretolamento del consenso popolare del quale il regime in precedenza godeva. La prima guerra mondiale, la rivoluzione russa e più tardi la grande depressione, con i loro effetti sociali, politici e psicologici, dettero sfogo a un periodo senza precedenti di conflittualità aperta e insicurezza diffusa. In un certo numero di paesi – Olanda, Gran Bretagna, Svizzera, Danimarca, Svezia, Norvegia – il prestigio di istituzioni consolidate, l’adozione di provvedimenti politici tempestivi e un efficiente sistema decisionale neutralizzarono le crescenti lamentele sulla asserita inettitudine dei governanti democratici, ma in molti altri la vacillante capacità dello stato di garantire l’ordine pubblico e di mediare fra quegli interessi in contrasto che rappresentavano una minaccia per la coesione sociale offrì alle forze estremiste una grande opportunità. Il fascismo, così come il comunismo, disprezzava quella che considerava l’inefficacia delle procedure democratiche, predicava la virtù dell’azione diretta invece delle mediazioni e contribuì al successo delle ideologie antisistemiche sulla vecchia tradizione del pragmatismo liberale.

Un’altra dimostrazione dell’influenza radicalizzante del fascismo sulla dinamica delle crisi democratiche proviene dal fatto che nella maggioranza dei paesi europei la sua presenza diretta o simbolica divenne il più importante motivo di divisione tra i partiti e i gruppi sociali rivali. Per la sinistra l’antifascismo fu, specialmente negli anni Trenta, la migliore piattaforma ideologica per superare le divisioni interne ed unire comunisti e socialdemocratici in "fronti popolari", rafforzando il potere di coalizione e di ricatto delle formazioni estreme. Per la destra, nei paesi nei quali la minaccia comunista non era tanto forte da obbligare i conservatori a formare alleanze con i rivali estremisti, una lettura meno ideologica del concetto di antifascismo agì come pretesto utile a sospendere o cancellare le regole democratiche in caso di crisi istituzionale. Fra il 1928 e il 1939, il passaggio da deboli e instabili democrazie parlamentari a regimi autoritari di segno conservatore in cinque paesi est-europei (Jugoslavia, Bulgaria, Estonia, Lettonia e Romania) venne presentato all’opinione pubblica internazionale come una misura precauzionale per disinnescare la minaccia rappresentata dall’agitazione sovversiva dei movimenti fascisti. Anche l’edificazione nel 1933 dello stato corporativo austriaco, spesso etichettato come "clerico-fascista" e guidato da Dollfuss senza alcun sostegno o controllo parlamentare, è stata spesso presentata come una metamorfosi difensiva che mirava prima di tutto a respingere la minaccia nazionalsocialista interna ed esterna, prevenendo la costituzione di una forma più estrema di autoritarismo di destra.

c. Frammentazione. Nella sua veste di risposta sia all’attivismo della sinistra socialista e comunista, sia alla politica attendista dei governi liberali posti a confronto con la mobilitazione delle classi subalterne, la crescita dei movimenti fascisti è collegata anche alla frammentazione e alla frazionalizzazione di molti sistemi di partito europei nel periodo qui in esame. Nei paesi in cui i partiti socialisti adottavano ideologie e strategie massimaliste e conseguentemente il timore di una rivoluzione sociale era largamente diffuso, una significativa porzione dell’elettorato borghese era attratta dall’intenso anticomunismo e nazionalismo dei movimenti fascisti e simpatizzava per loro. L’evidenza di questo fenomeno è particolarmente pronunciata in Italia fra il 1920 e il 1922 e in Germania a partire dalle elezioni legislative del 1930, dato che in entrambi i paesi l’improvvisa ascesa del Pnf e della Nsdap provocò divisioni interne negli ambienti moderati e conservatori e un generale riallineamento dei gruppi sociali e delle associazioni di interesse. In Italia questo processo toccò soprattutto i partiti liberali, debolmente strutturati, nei quali la divisione in un’ala filofascista e una antifascista acuì una già sviluppata tendenza centrifuga, ma vi restò coinvolto anche il Ppi. In Germania lo stesso accadde a Dnvp, Dvp e Ddp/Dsp, con la conseguenza di un progressivo svuotamento del centro. Da questo punto di vista gli interessi organizzati svolsero un ruolo decisivo, non solo perché ridussero o addirittura interruppero il sostegno che avevano sempre concesso ai partiti conservatori democratici, ma soprattutto perché fornirono ai partiti antisistema di destra le risorse economiche ed elettorali delle quali avevano bisogno. Ciò si verificò, ad esempio, con le influenti associazioni dei proprietari terrieri italiani, così come con il sindacato tedesco della vecchia classe media Dhv. Anche in quei casi in cui il peso ridotto non rese possibile ai movimenti fascisti guadagnarsi i favori di partners sociali importanti, essi in genere crearono serie difficoltà ai rivali conservatori, sottraendo loro elettori, quadri intermedi, attivisti, mezzi, dirigenti. Mosley, Degrelle, Quisling, José Antonio Primo de Rivera, Mussert e molte altre figure di spicco dei partiti fascisti minori avevano precedenti esperienze politiche in campo conservatore o tradizionalista; il capo dei Lupi d’acciaio lituani Voldemaras era stato nominato primo ministro dal regime autoritario instaurato nel 1926, che cercò di rovesciare otto anni dopo. I passaggi da un’associazione "patriottica" all’altra erano frequenti e spesso condussero a scissioni e alla nascita di nuovi partiti. Malgrado l’asserita volontà di assemblare sotto la bandiera della nazione tutte le "forze sane", di fatto assai spesso l’irrequieto attivismo dei gruppi fascisti contribuì a disperderle in una moltitudine di bande rissose.

d. Crescita della partecipazione. Nel nuovo clima psicologico fomentato dalla guerra e in conseguenza dei crescenti riconoscimenti riscossi a livello internazionale dal regime di Mussolini negli anni Venti, il fascismo attrasse in tutti i paesi europei una eterogenea coorte di seguaci, i cui livelli educativi, le origini di classe e le precedenti esperienze politiche, come emerge chiaramente da tutte le ricerche intese a discernere le radici sociali dei movimenti fascisti, differivano non soltanto a livello nazionale ma anche da un gruppo all’altro nello stesso paese (si veda a titolo d’esempio, nel caso francese, la composizione sociale degli iscritti al Ppf comparata con quella del Faisceau) o a seconda della collocazione regionale di ciascuna unità organizzativa locale. Fra di loro vi erano un certo numero di militanti esperti delusi dalle precedenti affiliazioni politiche, che coprivano un arco esteso dall’anarcosindacalismo all’imperialismo reazionario, ma la maggioranza era formata da persone che avevano preferito fino a quel momento rimanere fuori da ogni tipo di partito, gruppo di interesse o movimento sociale.

La propaganda fascista suonava particolarmente attraente alle orecchie di questi elementi. Ponendo una particolare enfasi su temi quali il lascito morale della guerra, il pan-nazionalismo, i diritti che la generazione che aveva combattuto in guerra si era guadagnata attraverso i sacrifici compiuti, la prevalenza dell’interesse nazionale sulle aspettative egoistiche dei singoli gruppi sociali, i movimenti fascusti facevano appello alla massa degli individui sino ad allora apatici e cercavano di mobilitarli contro la vecchia classe dirigente liberale, cui accollavano la responsabilità della decadenza della politica, della società e dell’etica pubblica. Al di là del fascino di una simile retorica, una serie di circostanze concrete spingeva taluni settori della popolazione ad avvicinarsi al campo antidemocratico: essi vedevano i loro interessi e valori minacciati dal disordine sociale, dalla crisi economica e da inattesi cambiamenti culturali. Ai loro occhi, il fascismo appariva lo strumento più adeguato a porre fine contemporaneamente alle due principali fonti delle divisioni di cui la comunità nazionale soffriva: la lotta di classe e lo spirito partigiano.

L’impatto dell’azione fascista, che accelerò nell’Europa meridionale e orientale la diffusione della politica di massa, viene spesso circoscritto dagli studiosi alle classi medie. Alcuni di essi lo descrivono come la lotta della piccola borghesia intellettuale e/o del settore emergente del ceto medio, composto in prevalenza da tecnici e impiegati, contro le richieste delle classi proletarie e l’arroganza dei capitalisti o addirittura lo interpretano nei termini di una "dittatura della generazione piccolo-borghese emergente in nome dell’omogeneità nazionale". A volte, tuttavia, i movimenti fascisti si conquistarono i consensi di altri soggetti sociali: contadini, operai, disoccupati. Queste differenze sono da imputare principalmente al livello di sviluppo socioeconomico di ciascun paese. Nelle società oligarchiche tradizionali basate sull’agricoltura, dove l’industrializzazione era ancora agli albori, la predicazione fascista, fondata sull’anticapitalismo, sulla xenofobia, sull’antisemitismo e su un culto mistico del suolo, riuscì a mobilitare alcune componenti della comunità rurale contro la borghesia industriale urbana. Le processioni della Guardia di Ferro romena, aperte da sacerdoti ortodossi che ostentavano icone sacre, raccoglievano – come testimoniano le fotografie dell’epoca – folle di contadini con indosso i costumi nazionali; uno dei tre capi della Falange, Onésimo Redondo, era soprannominato dai sostenitori sparsi nelle campagne "el caudillo de Castilla"; uno stile simile fu adottato dai movimenti fascisti locali in Portogallo, in Polonia e negli altri paesi balcanici. Nelle società "dualistiche", dove lo sviluppo industriale veniva a trovarsi alle prese con una crescente organizzazione della classe operaia e nel contempo con il conflitto urbano/rurale, i fascisti cercarono di "nazionalizzare" il processo di integrazione delle masse nel nuovo contesto sociale, prima di tutto facendo appello ai settori del ceto medio, sia industriale che agrario, scontenti dell’inefficacia delle strutture politiche democratiche. Questa fu, tipicamente, la strada intrapresa dal fascismo italiano. Nei paesi nei quali l’industrializzazione era all’apice, come la Gran Bretagna, la Germania e la Francia, i movimenti fascisti enfatizzarono invece un’ideologia che auspicava una produttività massiccia, il pieno impiego e un’assistenza sociale garantita dallo stato, sottolineando il proprio carattere anticlassista e il desiderio di costruire una società nazionale onnicomprensiva. In questi contesti (e prima di tutto in Germania) la tentazione fascista, meno efficace in quei paesi in cui la politica di massa godeva già di una tradizione consolidata, trovò un terreno di penetrazione più fertile durante la Grande Depressione. Le dimensioni dello spazio politico ancora non occupato dai partiti tradizionali determinarono il grado altamente variabile di successo di ciascun movimento; ma in tutti i casi il coinvolgimento fascista nell’arena politica, accrescendo il livello di intensità del conflitto, contribuì alla mobilitazione di nuovi attori contro i regimi democratici.

e. Instabilità governativa. Quando la polarizzazione, la radicalizzazione, la frammentazione del sistema di partito e la crescita della partecipazione politica eccedono i limiti di tollerabilità, diventa molto difficile, se non impossibile, raggiungere accordi di coalizione e assumere decisioni a livello parlamentare. La conseguenza di questa situazione è una patologica instabilità governativa. Negli anni fra le due guerre mondiali, l’atteggiamento semi-leale e spesso apertamente sleale dei movimenti fascisti verso i governi democratici fu una delle cause principali dell’impasse in paesi quali l’Italia, la Germania, la Francia, l’Estonia, la Lettonia. Essi si sforzarono di dividere i partiti centristi e di condizionare dall’esterno l’opposizione parlamentare conservatrice, minacciando di eroderne l’elettorato, con lo scopo di spingerli su posizioni più radicali. L’intensificazione della lotta politica al di fuori dell’arena parlamentare fu la strategia preferita dai fascisti per ostacolare le politiche governative anche in quei paesi in cui essi avevano deciso di presentarsi alle elezioni. Tafferugli, dimostrazioni di piazza, comizi, parate miravano a dimostrare che il popolo, espropriato della sovranità dai politici di professione, poteva promuovere i suoi interessi e i suoi valori mediante strumenti alternativi all’interno di un’arena extraparlamentare. La pressione di piazza, che a volte culminò in aperte rivolte, come la Marcia su Roma delle camicie nere nell’ottobre del 1922, il tentativo di colpo di stato di Mäntsälä in Finlandia nel febbraio del 1932 e l’assalto alla Camera dei deputati francese nel febbraio del 1934, era volta in primo luogo a delegittimare le istituzioni democratiche ma mirava altresì ad acuire le divisioni e i conflitti che scuotevano dall’interno la classe politica di governo.

Non sempre queste forme di azione non convenzionali centrarono il bersaglio. In alcuni casi, la minaccia di un drammatico esito extraparlamentare di crisi di governo che si protraevano da tempo condusse i partiti democratici a lasciare da parte le dispute ideologiche e a trovare il modo di reagire positivamente. Soltanto là dove, come in Italia, in Germania e in alcuni stati balcanici e baltici, disponevano di forti risorse elettorali, di influenza o coercitive, i movimenti fascisti poterono promuovere alleanze provvisorie con altri attori conservatori e antidemocratici allo scopo di provocare quell’aumento dell’ineffettività e dell’inefficacia decisionale del regime, quella mancanza di un margine di manovra per i necessari compromessi e quella virtuale inazione che prefigurarono il collasso della democrazia. Dove tali condizioni non esistevano, la loro pressione spinse invece gli avversari a riunire le forze formando coalizioni unitarie di emergenza. In molti paesi, l’emergere di un fronte antifascista precedette le mosse fasciste e rafforzò la stabilità dei governi democratici. Così accadde in Belgio, dove, al culmine della crisi, i maggiori partiti decisero di dare vita a un governo di "unità nazionale" e, dopo aver vietato la marcia su Bruxelles organizzata dai rexisti, il primo ministro van Zeeland sconfisse Degrelle in un duello elettorale diretto; in Olanda, dove l’alleanza antifascista venne sostenuta anche dal Partito antirivoluzionario, che pure aveva tendenze di destra; in Finlandia, dove il presidente Svinhufvud rifiutò ogni collusione con gli intrighi antidemocratici del movimento di Lapua, il cui sostegno lo aveva aiutato a diventare capo dello stato; in Francia, con la nascita del Front Populaire.

3.2 La seconda fase

I due processi che sostanziano la seconda e decisiva fase della crisi dei regimi democratici sono un forte e rapido aumento della violenza politica e il coinvolgimento nella lotta politica dei cosiddetti "poteri neutrali": l’esercito, la polizia, il potere giudiziario, il capo dello stato – monarca o presidente –, gli alti funzionari statali.

f. Aumento della violenza. La violenza generalmente era già in fase di crescita quando la crisi di molte democrazie europee nel periodo fra le due guerre mondiali stava attraversando la prima fase, e spesso contribuì profondamente all’intensificazione delle tensioni sociali e politiche; ma la sua importanza crebbe considerevolmente via via che i governi si rivelarono incapaci di riprendere il controllo della situazione. Dopo che tutte le modalità d’azione pacifiche ordinarie erano state provate senza successo, alcuni degli attori politici che volevano imporre ai conflitti la soluzione che a loro più conveniva videro nel ricorso alla forza la mossa decisiva per uscire dallo stallo e, a seconda degli obiettivi che si prefiggevano, restituire al sistema l’equilibrio perduto oppure causarne il crollo. Il terreno fertile per l’uso della violenza era ampio in quasi tutti i paesi europei: la disoccupazione, l’esclusione, la povertà alimentavano le frustrazioni e l’aggressività nelle fasce marginali della società, mentre l’esperienza del fronte aveva abituato milioni di persone a combattere e a maneggiare quotidianamente le armi per anni. Gli ex combattenti, che spesso dopo la smobilitazione si erano ritrovati disoccupati, erano pronti a svolgere la funzione di ausiliari delle forze di polizia, ad entrare a far parte delle milizie paramilitari, ad offrirsi volontari per missioni patriottiche, a spezzare i picchetti degli scioperanti con la forza. Partiti e governi potevano usarli, a seconda delle opportunità e delle circostanze, per restaurare l’ordine oppure per sollevare una rivolta, per pacificare i conflitti oppure per acuirli. Talvolta le loro azioni violente furono utilizzate per provocare, a titolo di reazione, il coinvolgimento nello scontro di altri settori della popolazione, riducendo ulteriormente il livello di legalità e di legittimità di cui il regime godeva.

La familiarità dei fascisti con la violenza è ben nota. Payne ha tuttavia pienamente ragione quando osserva che "l’idea che il Pnf abbia in un certo senso inventato la violenza politica è deplorevolmente superficiale […] Ciò che i fascisti fecero fu imitare un comune stile rivoluzionario, includendovi alcuni aspetti del comportamento e delle tattiche dei bolscevichi", così come è nel giusto quando asserisce che "la marcia verso il potere di un movimento fascista minacciava di introdurre nel contesto civico nel quale si svolgeva una situazione di guerra politica assolutamente diversa dalla normale politica parlamentare". Ovviamente, i partiti e movimenti fascisti non furono i primi, nella storia politica europea, a reclutare bande paramilitari o ad indossare uniformi, ma la loro strategia combinò in modo piuttosto originale l’azione violenta e il rispetto di alcune delle regole del gioco liberali, in un tentativo di impadronirsi del potere attraverso quella che Carl Schmitt definì, facendo riferimento al caso tedesco, una "rivoluzione legale". La violenza costituiva del resto una parte significativa del loro codice genetico: la propensione per uno stile politico militarizzato derivava direttamente dalla mentalità dei loro capi e dei loro seguaci, nella maggior parte ex combattenti o giovani studenti usi a considerare la prima guerra mondiale come l’anticamera di una necessaria rivoluzione nazionale. Trasferendo la lotta politica nelle strade e facendo uso della forza contro quelli che additavano come i "nemici della nazione" – scioperanti, socialisti, comunisti, militanti sindacali, membri dei gruppi etnici "stranieri", ecc. –, essi lanciarono una sfida diretta alle istituzioni liberali e sottolinearono il fatto che i governanti democratici non erano in grado di garantire l’ordine pubblico, sapendo bene che l’opposizione al disordine crescente era l’argomento migliore di cui disponevano per trovare alleati nel campo conservatore.

L’uso della violenza era implicito nella natura dei movimenti fascisti per un altro motivo. I capi fascisti, come tutti i loro discorsi, scritti e memoriali testimoniano, si sentivano investiti della urgente missione di salvare la comunità nazionale dall’incombente pericolo di disgregazione o di decadenza, e perciò vivevano ed agivano in una permanente condizione psicologica di emergenza. Ai loro occhi, la situazione di crisi non poteva durare a lungo, e d’altronde spesso i movimenti che guidavano scarseggiavano delle risorse necessarie a sostenere per anni una competizione con i partiti istituzionalizzati: una organizzazione territoriale, dirigenti esperti, il sostegno dichiarato di gruppi di interesse importanti, buone relazioni con la stampa, contributi finanziari regolari. La violenza era un potenziale acceleratore della crisi: precipitando le cose, poteva consentire ai "ritardatari" di recuperare in pochi anni il terreno perduto. In numerosi casi, i fascisti cercarono perciò di attizzare una situazione di guerra civile strisciante, certi che i sistemi democratici non avrebbero potuto sopportarla a lungo. Inoltre, là dove assunse le dimensioni di un movimento di massa, spesso il fascismo spinse gli avversari conservatori o – più frequentemente – socialisti ad imitare taluni aspetti del suo stile di azione, a creare le proprie organizzazioni paramilitari o a moltiplicare i comizi e le sfilate. L’esistenza di gruppi strutturati su una base paramilitare e che si ripromettevano di usare la forza a fini politici, anche se si identificavano nel regime democratico e dichiaravano di voler combattere i nemici del sistema, era in sé un incentivo alla radicalizzazione della lotta politica, e la spinse all’apice quando le forze di polizia e l’esercito non riuscirono più ad avere il completo controllo della forza legittima. La politica fascista del "tanto peggio, tanto meglio" non giovò, nel complesso, a chi la proponeva, ma i suoi costi furono molto elevati per la democrazia, specialmente nei paesi in cui gli attori di élite si convinsero che per respingere la sfida fascista occorreva instaurare un regime autoritario.

g. Politicizzazione dei poteri neutrali. Il ruolo della violenza come fattore di crisi è evidente anche se consideriamo il coinvolgimento dei poteri neutrali nell’inasprimento del conflitto politico, che portò alcuni regimi democratici a sfiorare il collasso. L’azione delle milizie di partito costituiva una sfida diretta al monopolio militare della forza coercitiva. Le forze armate, la cui subordinazione all’autorità politica era uno dei pilastri della legalità democratica, reagirono a questa minaccia in modi differenti. In molti casi, gran parte dei capi delle squadre fasciste erano ufficiali dell’esercito in pensione o in congedo, che godevano ancora di eccellenti rapporti con i precedenti compagni d’arme. Questa circostanza favorì la complicità, o quantomeno la tolleranza, nei confronti delle attività delle milizie, specialmente quando erano dirette ad affermare valori patriottici. Ciò accadeva d’abitudine in Finlandia, in Germania, in Austria, in Estonia, in Lituania e in Lettonia, vale a dire in quei paesi nei quali le bande irregolari di guardie civili, che all’immediato indomani della prima guerra mondiale avevano difeso i confini nazionali e represso ogni tentativo rivoluzionario ispirato all’esempio russo, fornivano ai gruppi fascisti o similari il nucleo essenziale delle loro truppe, ma anche in Italia, dove gli alti gradi dell’esercito vedevano di buon occhio il coinvolgimento fascista in complotti nazionalisti sul genere dell’occupazione di Fiume realizzata da Gabriele D’Annunzio. Più in generale, i militari di professione assai spesso simpatizzarono con le azioni violente fasciste, per ragioni culturali e ideologiche, tutte le volte che queste erano dirette contro i comunisti e i socialisti, mentre si dimostrarono sospettosi, e talvolta apertamente ostili, quando partiti o governi di sinistra fondarono milizie paramilitari per reagire agli attacchi fascisti, come accadde in Germania con il Reichsbanner, in Italia con gli "arditi del popolo" e in Spagna con le milizie popolari. Solamente in quei paesi nei quali non esistevano credibili minacce rivoluzionarie provenienti da sinistra, le forze armate aiutarono i governi legittimi a reprimere le attività sovversive fasciste, e a volte questo coinvolgimento nella lotta politica rappresentò il primo passo di un intervento diretto volto a sostituire la "conflittuale" democrazia con un "pacificante" regime autoritario posto sotto sorveglianza militare.

Quello militare non fu peraltro l’unico potere neutrale coinvolto nella lotta tra i governi democratici e le forze antidemocratiche nel periodo che stiamo considerando. Là dove il processo di crisi sfiorò il crollo, sia gli attori prosistema sia quelli antisistema cercarono di trovare alleati al di fuori dell’arena politica. Attraverso la politicizzazione delle istituzioni-chiave del regime – il capo dello stato, la magistratura, l’amministrazione statale – i campi in conflitto potevano impossessarsi di risorse cruciali, e soprattutto garantire oppure impedire la messa in opera delle decisioni assunte. I movimenti fascisti, facendo sfoggio del carattere patriottico delle loro rivendicazioni, dipingendo i nemici come "l’anti-stato" e accusando i governi liberali di partigianeria, fecero ogni sforzo per spingere i funzionari statali a rinunciare alla tradizionale lealtà nei confronti delle istituzioni democratiche. Quando riuscirono a raggiungere in qualche misura tale obiettivo, come accadde in Italia nel 1921-22, in Germania nel 1930-33 e in Spagna nel 1936, questo risultato spianò loro la strada verso la conquista del potere e gettò le prime fondamenta dell’instaurazione dello stato autoritario o totalitario.

Naturalmente, anche in questo ambito le affinità ideologiche e psicologiche giocarono un ruolo importante. L’azione fascista ebbe maggiore successo là dove il retroterra culturale dei leaders politici democratici differiva sensibilmente da quello dei ranghi più elevati della burocrazia; ottenne viceversa peggiori esiti nei contesti nei quali i membri della classe dirigente e gli alti funzionari condividevano gli stessi valori. Riscontri empirici della collusione fra poteri neutrali e fascisti si possono trovare in molti casi: in Italia, anche se il prestigio della monarchia favoriva una sorta di "doppia lealtà" (sia al re che ai valori del nazionalismo estremo) in seno alla burocrazia; nella Germania di Weimar; nella seconda repubblica spagnola, dove l’infiltrazione di idee fasciste e autoritarie nella pubblica amministrazione diventò evidente dopo il pronunciamiento militare e il conflitto scoppiato tra le istituzioni repubblicane e nazionaliste; in Romania, dove i giudici che nel 1924 mandarono assolto Codreanu sebbene avesse confessato di aver ucciso un prefetto di polizia non trovarono nulla da ridire sul fatto che tutti i giurati popolari indossassero al momento della sentenza un nastro su cui era riprodotto il simbolo di una Lega antisemita. La simpatia per le idee antidemocratiche di una larga parte dell’élite amministrativa, più che il prodotto del proselitismo fascista, era piuttosto una conseguenza dell’infatuazione autoritaria, corporativa e nazionalista che si era propagata già prima del 1914 in molti paesi d’Europa per il tramite di una pletora di associazioni sociali e culturali, e spesso si accompagnò al consenso per organizzazioni della "nuova destra" non fascista: le leghe pangermaniche, l’Action Française, l’Associazione nazionalista italiana, il carlismo tradizionalista spagnolo, il partito socialcristiano austriaco. I suoi effetti, tuttavia, agirono come un fattore di crisi soltanto quando, nel nuovo clima creato dagli imitatori e sostenitori esteri di Mussolini, l’autoritarismo cessò di esercitare una suggestione puramente intellettuale e si trasformò in un modello per movimenti e partiti che operavano ai margini della destra collocata nell’establishment o al di fuori di essa.

3.3. L’influenza generale sul processo di crisi

Le condizioni sociali, economiche e culturali influenzarono diversamente in ciascun paese le dimensioni dello spazio politico di cui il fascismo poteva disporre, determinandone in larga misura il successo o l’insuccesso. L’azione dei movimenti fascisti non ebbe pertanto la medesima influenza sulla crisi dei regimi democratici nei differenti casi che stiamo analizzando. Qualunque sia stato l’impatto che esercitarono sull’esito finale del processo, comunque, non vi è dubbio che le loro mosse danneggiarono, ovunque essi non costituivano dei meri gruppuscoli, i tre pilastri sui quali poggia la stabilità di tutte le democrazie: la legittimità, l’efficacia decisionale e l’effettività delle istituzioni.

Per quanto concerne l’efficacia e l’effettività, questa influenza corrosiva era semplicemente la conseguenza della natura antisistemica dei movimenti fascisti, e più specificamente del carattere di late-comers che li costringeva ad enfatizzare l’ostilità verso tutte le maggiori correnti politiche esistenti: il liberalismo, il socialismo, il comunismo, il conservatorismo, il cattolicesimo sociale. Per conquistarsi un proprio spazio politico, essi facevano di gran lunga più ricorso alle negazioni che ai programmi affermativi: il primo obiettivo cui miravano era essere riconosciuti e apprezzati come anti-movimenti, contrapposti alla "vecchia politica" e al "vecchio mondo" nel suo insieme. Non potevano pertanto concedere nessuna tregua ai nemici.

La propaganda fascista si concentrava soprattutto sull’inefficacia dei regimi democratici, cioè sul fatto che essi non erano in grado, per ragioni strutturali, di trovare le soluzioni appropriate ai problemi basilari, e faceva del suo meglio per impedire che i cittadini si sentissero soddisfatti dall’azione dei governi. Ogniqualvolta le circostanze offrirono loro un’opportunità di sottolineare l’impotenza dei governi eletti di fronte alla tensione sociale crescente, i fascisti tentarono di organizzare azioni spettacolari di "disobbedienza civile" per dimostrare di essere capaci di surrogare le autorità legali in casi di emergenza. Durante gli scioperi, in Italia, i militanti fascisti cooperarono più volte ad assicurare il funzionamento dei servizi di pubblica utilità, guidando treni, autobus e tram, spazzando le strade o proteggendo i negozianti che non aderivano agli scioperi dalle reazioni dei manifestanti. In Germania, al culmine della Grande Depressione, le SA e le SS costruirono mense e ostelli gratuiti per disoccupati privi di alloggio. Lo stesso si verificò su scala più ristretta in Francia e in molti altri paesi, sempre con lo scopo di diffondere fra la gente un messaggio di forte attrattiva: i fascisti erano pronti a prendere possesso dello stato ed erano in grado di far marciare la macchina della pubblica amministrazione. In altre parole l’agitazione fascista, sul piano sia legale che violento, era mirata innanzitutto a sottolineare l’evidente deficit di efficacia ed effettività dei regimi democratici e a far lievitare, di conseguenza, l’insoddisfazione popolare. Le carenze del processo decisionale e della messa in atto delle politiche ad esso correlate veniva imputata non solo ai politici ma anche alle regole e allo stile di azione che caratterizzano la democrazia: la strutturale debolezza dei governi che agivano sotto il ricatto dei partiti, sostenevano, non consentiva loro di portare a compimento i programmi che avevano adottato e tantomeno di difendere l’interesse pubblico.

Ancor più negativo fu l’impatto dell’azione fascista sulla legittimità dei regimi democratici degli anni Venti e Trenta. Come Linz ricorda, "al fondo la legittimità democratica si basa sul convincimento che per quel dato paese in quella data situazione storica nessun altro tipo di regime potrebbe assicurare con maggiore successo il perseguimento delle finalità collettive". Ed è proprio questa convinzione ciò che i movimenti fascisti intendevano negare con ogni mezzo. Facendo uso della violenza per motivi pretesamente patriottici, essi sfidarono apertamente le regole del gioco democratico e contrapposero il "superiore" interesse della patria al rispetto della legge. L’insistenza della loro propaganda sul carattere "antinazionale" dei governi eletti suggeriva che altre istituzioni avrebbero potuto fare meglio di quelle esistenti, biasimate per le tergiversazioni e i fallimenti, e metteva in discussione il diritto delle autorità istituzionali di emanare ordini in contrasto con la "volontà della nazione (o del popolo)". Assumere una simile posizione equivaleva ad istigare i poteri neutrali a rifiutarsi di obbedire quando non condividevano i contenuti di una decisione che erano chiamati a mettere in atto.

Un’altra minaccia alla legittimità democratica risiedeva nello stile politico dei movimenti e partiti fascisti. La loro azione, basata non soltanto sull’uso di milizie armate contro gli oppositori ma anche su una struttura simbolica fatta di comizi, marce e cerimonie, che puntava a creare effetti emotivi e a diffondere fra i seguaci la sensazione di appartenere ad una sorta di comunità mistica, estranea alle regole e alla mentalità della democrazia, provocò un profondo distacco della loro opposizione dallo spirito della politica parlamentare anche in quei paesi in cui rappresentanti fascisti sedevano nelle camere legislative. Inoltre il fascismo fornì alimento a due tendenze politiche la cui diffusione danneggiò gravemente la legittimità percepita dei regimi pluralistici: il culto della leadership carismatica personale e il crescente spostamento della competizione politica dall’arena parlamentare a quella extraparlamentare.

La fiducia assoluta nel capo fu forse la caratteristica più specifica dei movimenti fascisti e si contrappose direttamente alla mentalità democratica. Niente era più lontano del Führerprinzip dalle teorie liberali sulla rappresentanza elettorale, sulla responsabilità politica e sulle decisioni collettive, e nel mentre magnificavano le eccezionali qualità dei propri capi, i fascisti rimproveravano alle democrazie l’inefficienza dei loro processi decisionali, condizionati da un gran numero di poteri di veto e costretti ad estenuanti mediazioni. Quanto invece allo scivolamento della competizione politica verso l’arena extraparlamentare, esso aveva ampiamente preceduto la nascita dei movimenti fascisti e coesisteva in tutti i paesi europei con le democrazie parlamentari sin da quando queste si erano instaurate, come conseguenza dei conflitti scatenati dalle fratture socioculturali più rilevanti. Consapevoli di questo dato di fatto, dopo la prima guerra mondiale i regimi democratici pensarono di poter piegare la mobilitazione di massa ai propri fini, e in molti paesi – primi fra tutti quelli appartenenti al campo dei vincitori: Francia, Gran Bretagna, Italia ecc. – i rituali patriottici che raccoglievano folle moltitudinarie nelle commemorazioni degli eventi bellici divennero strumenti ordinari di integrazione democratica delle masse. Ciononostante, l’azione fascista (e comunista) rafforzò questa tendenza per tutt’altri scopi, puntando all’uso dell’agitazione di piazza non solo per esercitare una pressione dall’esterno su parlamenti e governi ma anche e principalmente per far penetrare nella mente della popolazione l’idea che gli interessi dell’uomo della strada non avevano niente a che vedere con le discussioni dei politicanti e potevano essere promossi solo al di fuori del parlamento (definito da Mussolini in un celebre discorso "aula sorda e grigia") e contro di esso.



4. Vittoria fascista e crollo della democrazia: Italia e Germania

Solamente in due dei tredici paesi nei quali le democrazie parlamentari nel 1938 erano già state sostituite da dittature i partiti fascisti presero il potere in modo diretto e raggiunsero una posizione egemonica all’interno della coalizione dominante dei regimi costruiti sulle rovine della poliarchia. È pertanto utile estrapolare l’Italia e la Germania dalla serie dei casi che stiamo esaminando in prospettiva comparata ed osservare più da vicino quale ruolo i movimenti fascisti svolsero nel processo di crisi della democrazia in questi due paesi. Tenendo conto dei propositi generali che la presente analisi si prefigge, non discuteremo qui le specifiche condizioni strutturali e congiunturali che resero possibile il successo fascista, ma ci concentreremo sugli effetti delle mosse che i partiti di Mussolini e di Hitler compirono con l’intenzione di volgere il corso della crisi a proprio vantaggio.

4.1 Il successo dell’opposizione sleale

Se lo esaminiamo nel quadro del già accennato schema di "sintassi dinamica", possiamo affermare che lo svolgimento della crisi in Italia e in Germania non differì sostanzialmente, durante la prima fase, dalla successione di fenomeni che caratterizzò alcuni altri paesi, come la Francia, il Belgio, la Finlandia, la Romania, l’Austria, l’Estonia, la Lettonia, la Spagna, la Jugoslavia. In tutti questi casi si verificarono disagi socioeconomici, crebbe il disordine pubblico, si acuirono la polarizzazione e la radicalizzazione della competizione politica, le forze antisistema si rafforzarono. Le differenze fra i primi due contesti e gli altri vennero alla luce quando i problemi insolubili si moltiplicarono e i governi democratici iniziarono a rischiare la paralisi. In quel momento, né in Italia né in Germania i partiti schierati a difesa del sistema riuscirono a raggiungere un compromesso che consentisse di rimettere in equilibrio la situazione, ed in entrambi i paesi l’opposizione fascista estese la propria influenza tanto ai vertici quanto alla base della società politica e si guadagnò legittimità come possibile alternativa di governo. Invece di liberarsi dell’immagine di opposizione sleale che li aveva sino a quel momento ostacolati nella ricerca delle alleanze, decretandone l’isolamento, il Pnf e la Nsdap enfatizzarono sempre di più la propria estraneità al sistema. L’ambiguità fu il cardine di questa strategia. L’opposizione alla democrazia era uno dei tratti distintivi del fascismo, ma i movimenti che vi si ispiravano non si fecero scrupolo nello sfruttare la libertà di parola e di azione che si vedevano garantire dalle regole democratiche; negavano apertamente la legittimità della classe dirigente eletta e deridevano l’asserita impotenza dei parlamenti ma usarono lo schede per conquistarsi consenso e influenza; biasimavano i partiti accusandoli di essere fattori di divisione ma fomentarono un duro scontro intestino. Appropriandosi dei simboli dell’unità nazionale e contrapponendoli al "particolarismo" strutturale dei sistemi pluralisti, camicie nere e camicie brune poterono combattere i regimi democratici dall’interno limitandosi a pagare il prezzo irrisorio di un’accettazione formale delle regole competitive.

Le alleanze tattiche con i partners conservatori svolsero un ruolo decisivo nell’attuazione di questa strategia. L’inserimento di candidati fascisti nei Blocchi nazionali alle elezioni italiane del 1921 non fu tanto importante per il numero dei deputati che il Pnf ottenne – soltanto 35 sul totale di 535 che sedevano alla Camera, benché in molti collegi i candidati fascisti avessero ottenuto più voti di preferenza degli alleati di destra, quanto piuttosto perché ne segnò la fine dell’isolamento a livello istituzionale, favorendo i contatti fra i suoi dirigenti e un certo numero di attori di élite e di rappresentanti dei gruppi di interesse. All’immediato indomani delle elezioni il Partito nazionale fascista raddoppiò del resto, nell’arco di un solo mese, il numero degli iscritti, aumentati da 98.399 a 187.098. La collaborazione con alcune forze conservatrici – la Dnvp, lo Stahlhelm e alcuni Interessenverbände – nella campagna contro il piano Young per il pagamento delle riparazioni di guerra ebbe gli stessi effetti sulla Nsdap in Germania. Il partito hitleriano invertì la tendenza al calo elettorale che lo affliggeva, acquistò visibilità sulla stampa e per la prima volta ottenne una posizione di governo a livello locale, entrando a far parte delle coalizioni che amministravano i Länder della Turingia e del Brunswick. Questa legittimazione di un’opposizione sleale, che malgrado le frequenti infrazioni alle leggi era diventata un attore rilevante della competizione politica sotto gli auspici di élites conservatrici che puntavano, così facendo, a disinnescarne la potenziale minaccia attraverso una graduale parlamentarizzazione, fu percepita tanto in Italia quanto in Germania da consistenti settori dell’opinione pubblica come una sconfitta simbolica della democrazia e sicuramente diminuì le probabilità di persistenza e stabilità dei regimi pluralistici in ambedue i paesi. Inoltre indusse alcuni attori politici conservatori, a livello sia di massa che di élite, ad assumere una posizione di semi-lealtà, vale a dire a modificare il proprio atteggiamento nei confronti dei fascisti a seconda delle convenienze, subordinando la difesa delle istituzioni agli interessi contingenti.

4.2 Partiti pigliatutto di protesta?

La connivenza di influenti attori sociali, le incertezze della situazione economica, le frustrazioni del sentimento nazionale, l’uso della violenza sono alcune delle condizioni cruciali che facilitarono la presa del potere fascista e nazionalsocialista. Ciascuna di esse ci aiuta a spiegare l’esito della crisi in Germania e in Italia. A livello di massa, comunque, la carta vincente dei movimenti fascisti fu la capacità di oltrepassare i tradizionali cleavages e di guadagnare consensi in settori estremamente eterogenei della società agitando le insegne della comunità nazionale, la Volksgemeinschaft enfatizzata da Hitler e dai suoi collaboratori sulla scia della tradizione intellettuale völkisch, e contribuendo per tale via alla socializzazione a valori antidemocratici di vasti settori dell’opinione pubblica. La propaganda fascista insisteva sulla retorica del patriottismo, sull’ossessivo riferimento alla solidarietà nazionale cementata dal sacrificio della generazione della guerra e sul rifiuto tanto della lotta di classe quanto dell’egoismo religioso che contraddistinguevano ai suoi occhi tutti gli altri partiti, con l’obiettivo di trarre vantaggio dalla crescente insicurezza di quei gruppi sociali che si sentivano minacciati dalle trasformazioni socioeconomiche e culturali in atto.

Gli atteggiamenti populisti e antipolitici favorirono l’ascesa del fascismo in entrambi i paesi. Come Linz ha scritto, la predicazione ideologica "conta molto nel successo o nell’insuccesso del movimento in ciascun singolo paese", perché "senza un numero sufficiente di persone che ad essa si dimostrarono sensibili, [essi] non sarebbero nati, anche se la loro successiva capacità di trasformarsi in movimenti di massa dipese dalla capacità di quel nucleo iniziale di cogliere le opportunità create dalla crisi sociale, di attrarre particolari strati sociali su basi più pragmatiche e di accedere a compromessi con l’establishment per avere accesso al potere". Ciò fu vero in particolare nei casi italiano e tedesco, nei quali i movimenti fascisti rifiutarono con forte enfasi l’istituzionalizzazione dei conflitti sociali e delle correlative linee di frattura e contrapposero le virtù idealizzate del popolo agli effetti di divisione prodotti dall’esistenza dei partiti politici, pretendendo di fare da portavoce della "parte sana" della società. L’antipolitica era un lascito della storia personale dei lori capi e dei loro sostenitori: l’appello alla componente emotiva della psicologia umana, l’uso di simboli e di rituali, il rispetto di rigide gerarchie, l’idealismo e il volontarismo facevano parte dell’esperienza del fronte e i fascisti le applicarono alla competizione politica per stabilire una comunicazione diretta con le masse sulla base delle nuove identità personali e collettive forgiate dalla guerra. Né le camicie nere né le camicie brune cercavano di nascondere la loro natura di outsiders; anzi, facevano tutti gli sforzi possibili per trasmettere un’immagine del Pnf e della Nsdap che ne sottolineasse il carattere di movimenti formati da giovani "uomini nuovi", estranei alla mentalità politica, temporaneamente "prestati" alla politica in una situazione di emergenza e imbevuti di uno spirito missionario. Non disponendo di una classe gardée, un gruppo sociale di riferimento con cui intrecciare rapporti di tipo esclusivo, essi si comportarono come una sorta di partiti pigliatutto di protesta, intervenendo contemporaneamente in vari conflitti e raccogliendo, sotto l’ombrello di un’ideologia sintetica a largo raggio, domande sia di alcuni settori la cui coscienza sociale era ancora limitata sia di altri più consolidati, colpiti dalle conseguenze della crisi economica e politica.

Per sottolineare la volontà di riunificare la comunità nazionale lacerata dai conflitti provocati dai processi di modernizzazione economica, tanto il Pnf quanto la Nsdap orientarono la propria azione in più direzioni, attraverso una rete organizzativa che soprattutto nel caso tedesco si dimostrò un efficace strumento di penetrazione e socializzazione politica, ottenendo i risultati migliori nei piccoli paesi e nelle città di media grandezza. Ovunque era possibile, i nazionalsocialisti e i fascisti, prestando attenzione a tutti i segnali di insoddisfazione, a un certo numero di domande trascurate dai concorrenti e alle lamentele degli attori sociali che non si sentivano sufficientemente rappresentati sul piano politico, moltiplicarono i contatti con circoli culturali e associazioni professionali, adattando i propri punti di vista alle diverse espressioni del malessere sociale in cui si imbattevano. In Germania, ove la società civile era densamente organizzata e le lealtà di tipo subculturale venivano ritualizzate attraverso l’affiliazione a gruppi esclusivi, mentre gli iscritti alla Nsdap si infiltravano nelle associazioni del ceto medio con lo scopo di partecipare alla vita delle comunità locali e di ampliare il raggio dei contatti e delle influenze, un gran numero di organizzazioni specifiche adattarono il messaggio del partito alle speranze e ai timori diffusi in altri contesti sociali: la NS-Frauenschaft si rivolgeva alle donne, la NS-Betreibszellenorganisation agli operai, l’Agrarpolitische Apparat agli agricoltori; e lo stesso facevano le associazioni studentesche, le leghe professionali, le organizzazioni per la protezione dei commercianti o dei pensionati e così via. In Italia, ove la vita associativa era piuttosto intensa nella classe operaia e nell’ambito confessionale cattolico ma scarsamente sviluppata nelle classi medie, i fascisti fecero invece conto sulla violenza per ostacolare l’attività delle organizzazioni comuniste, socialiste e clericali – leghe operaie e bracciantili, cooperative, sindacati, società di mutuo soccorso, case del popolo – in quei settori in cui la loro penetrazione diretta era difficoltosa. Soltanto dopo aver limitato con i mezzi della coercizione armata l’azione delle strutture rivali, i fascisti cercarono di raccogliere consensi per il tramite di propri sindacati, che nel giugno del 1922 dichiaravano di avere 458.284 iscritti. Il ceto medio fu il referente privilegiato dell’azione fascista. Il Pnf effettuò ripetuti sforzi per mobilitare le categorie meno integrate nella struttura di classe: ingegneri, assicuratori, medici, avvocati, architetti, artisti e incoraggiò l’ancora incerta sindacalizzazione degli impiegati e dei funzionari. Sebbene tali tentativi abbiano avuto solo in parte successo, attraverso il coinvolgimento dei ceti medi urbano e rurale nello scontro di classe e l’unificazione delle loro domande politiche il fascismo poté trovare un sostegno di massa e aprirsi uno spazio politico. Tramite l’egemonia sulle classi medie e la loro contromobilitazione, il movimento di Mussolini riuscì nel contempo ad acquistare consensi fra i simpatizzanti dei partiti borghesi, migliorare le relazioni con un buon numero di gruppi di interesse e rafforzare la propria immagine di baluardo contro la disgregazione del sistema di relazioni sociali, messo a dura prova dalla guerra civile strisciante in atto.

La penetrazione sociale che i movimenti fascisti, grazie alle risorse organizzative delle quali disponevano, riuscirono a realizzare, oltre ad allargarne i consensi elettorali, ridusse il potenziale democratico del sistema politico sia in Germania che in Italia. Come una variegata serie di studi sulla storia elettorale weimariana ha posto in chiaro, il nazionalsocialismo non solo mobilitò una forte percentuale di quei cittadini che in precedenza avevano scelto la via dell’astensione per esprimere apatia od ostilità verso la politica (la percentuale dei votanti, fra il 1919 e il 1928, decrebbe dall’82,7% al 75,5%, ma risalì all’81,4% nel 1930, all’83,4% nel 1932 e all’88,1% nel 1933), ma ottenne anche consensi dall’elettorato dei partiti democratici. Inoltre, a partire dal 1932 la Nsdap assorbì quasi tutti i votanti dei piccoli partiti di interessi – che nel 1928 e nel 1930 avevano raccolto il 14% dei voti espressi – e una quota rilevante dell’elettorato della Dnvp, formazione conservatrice con tendenze autoritarie, causando uno slittamento di questa frangia semi-leale della pubblica opinione verso un’opposizione globale al sistema. Come abbiamo già avuto modo di notare in altra sede, l’evoluzione molto più rapida della crisi italiana non consente di dimostrare l’esistenza di un andamento analogo sulla base dei dati elettorali: nel 1919 i fascisti si presentarono in un esiguo numero di circoscrizioni e nel 1921 fecero parte della coalizione guidata da Giolitti. Malgrado ciò, alcuni indicatori qualitativi suggeriscono che l’ascesa del fascismo al potere non fu la semplice conseguenza di un invito a governare rivolto al suo capo dalla classe dirigente politica dell’epoca o addirittura "un bluff che si sarebbe potuto facilmente prevenire se solo le forze armate avessero provato a farlo", ma piuttosto l’esito finale di un’opera di infiltrazione a tappe forzate nella società e nelle istituzioni italiane. Quando uno statista di lungo corso e di mentalità moderata come Giolitti decise di cooptare il movimento di Mussolini nell’arena politica legittimata, non venne guidato dall’ingenuità o dall’improvvisazione; la sua mossa era mirata a sfruttare il già non indifferente potenziale elettorale del fascismo (che era stato sperimentato attraverso una serie di alleanze "patriottiche" locali nelle elezioni comunali dell’autunno 1920) per riequilibrare il rapporto di forze esistente tra destra e sinistra in parlamento. La vasta rete di complicità che permise al fascismo di commettere azioni illegali su larga scala mise inoltre in evidenza l’esistenza di diffuse simpatie per le camicie nere non solo fra gli attori di élite ma anche a livello di massa. La crescita del consenso popolare venne del resto attestata, un anno prima della Marcia su Roma, dal forte aumento del numero degli iscritti al Pnf, che già nell’ottobre del 1921 superava le cifre del partito socialista: 217.072 tessere distribuite contro le 216.327 dell’avversario. E, come nel caso della Nsdap, si trattava di un sostegno che proveniva da un retroterra sociale composito.

Nei due paesi in cui presero il potere, i movimenti fascisti contribuirono durante la prima fase della crisi, assieme ai partiti rivali e alle organizzazioni di interessi, all’allargamento dell’arena politica, sostenendo le domande di nuovi attori mobilitati dall’esperienza di guerra. Nella seconda fase, quando l’eccessivo numero di problemi da risolvere, il disaccordo tra i partiti sull’adozione dei criteri di priorità per affrontare i vari temi sul tappeto e il loro conflitto sull’allocazione delle risorse disponibili inceppò l’agenda setting dei governi democratici, sia la Nsdap che il Pnf influirono invece sul restringimento di quella medesima arena. Svolsero tale ruolo assorbendo e aggregando le domande di tutti quei gruppi che, per motivi diversi, temevano le conseguenze di una espressione incontrollata di conflittualità in una società già profondamente segmentata e pertanto vedevano il pluralismo, e i suoi sostenitori, sotto una luce negativa. A quegli ansiosi settori di opinione i movimenti fascisti promisero, in caso di successo, un’immediata smobilitazione coercitiva dei partiti che fino ad allora avevano organizzato e alimentato i conflitti sorti attorno ai vari cleavages, nonché la nascita di un nuovo ordine basato sull’indiscussa supremazia dello stato su tutti gli interessi particolari (Gemeinnutz vor Eigennnutz, l’interesse generale prima dell’interesse individuale, era uno degli slogans più ripetuti dal partito di Hitler), nel cui ambito sarebbero state immediatamente create istituzioni più efficaci votate al compito di ristabilire l’ordine pubblico.



Conclusioni

Come è noto, nel periodo fra le due guerre mondiali i movimenti e partiti fascisti europei non conquistarono una schiacciante maggioranza di voti popolari (l’unica eccezione, corrispondente alle elezioni legislative italiane del 1924, fu condizionata dall’uso senza scrupoli delle risorse statali da parte del governo fascista in carica) e neppure riuscirono ad organizzare colpi di stato con i propri mezzi. Nella maggioranza delle situazioni, la loro sfida alla classe dirigente si risolse in un fallimento. In molti altri casi i fascisti dipesero, nei tentativi di conquistare il potere, da alleati conservatori inaffidabili e assai più potenti di loro, che spesso li emarginarono o li misero al bando dopo averne incamerato l’aiuto per distruggere il regime democratico e gettare le basi per la fondazione di uno stato autoritario. La tabella 2 offre un quadro di questo orientamento.



Tabella 2. Ruolo dei movimenti fascisti e sorte della democrazia in Europa nel periodo fra le due guerre

Paese Crollo della democrazia Ruolo attivo dei movimenti Inclusione dei movimenti fascisti nella coalizione

Fascisti o simili durante la crisi dominante dopo il crollo della democrazia

Austria sì sì sì

Belgio no sì -

Bulgaria sì no no

Cecoslovacchia no sì -

Danimarca no no -

Estonia sì sì no

Finlandia no sì -

Francia no sì -

Germania sì sì sì

Gran Bretagna no sì -

Grecia sì no no

Irlanda no sì -

Islanda no sì -

Italia sì sì sì

Jugoslavia sì sì no

Lettonia sì sì no

Lituania sì sì sì

Norvegia no sì -

Olanda no sì -

Polonia sì no no

Portogallo sì no no

Romania sì sì no

Spagna sì sì sì

Svezia no no -

Svizzera no sì -

Ungheria no sì -



Nonostante ciò, non vi è alcun dubbio sul fatto che il fascismo svolse nell’Europa degli anni Venti e Trenta del XX secolo il ruolo di principale sfidante della democrazia: l’attacco alle regole e ai valori democratici provenne in quasi tutti i paesi da due versanti opposti, estrema sinistra ed estrema destra, ma in nessuno di essi i gruppi comunisti o di estrema sinistra presero il potere, se si esclude l’effimera esperienza dell’Ungheria di Bela Kun, mentre un’ampia maggioranza dei dodici regimi non competitivi instaurati fra il giugno del 1923 (Bulgaria) e il febbraio del 1938 (Romania) fu influenzata dal precursore esempio italiano ed incorporò, in taluni casi dichiaratamente e in altri di fatto, alcuni elementi del modello fascista.

È vero che, come Juan Linz ha ripetutamente fatto notare, il successo del fascismo come movimento di massa fu perlopiù una conseguenza di fattori congiunturali, come l’insolita sequenza di cambiamenti sociali, economici e sociali innescati dalla prima guerra mondiale e dalle sue dirette conseguenze o l’alto grado di corruzione che affliggeva molti governi parlamentari. Tuttavia, la delusione e la mancanza di fiducia nei confronti delle ideologie e delle istituzioni democratiche furono condivise, in quegli anni, da un’ampia varietà di correnti intellettuali e di attori politici. Cattolici tradizionalisti, anarchici, sindacalisti rivoluzionari, comunisti, conservatori autoritari e nazionalisti imperialisti erano tutti immersi, ciascuno ovviamente con le proprie specifiche speranze e credenze, nello Zeitgeist antidemocratico e si consideravano, per ragioni diverse, nemici del liberalismo borghese. Nessuna di queste famiglie politiche, tuttavia, riuscì ad avvantaggiarsi in modo diretto della situazione esplosiva creata dalla prima guerra mondiale. Partiti e leghe di orientamento nazionalista esistevano nei più importanti paesi europei già dall’ultimo decennio del XVIII secolo, ed anche la loro ideologia collocava la lealtà verso la comunità nazionale al di sopra della lealtà nei confronti delle istituzioni statali, ma l’attivismo nazionalista non rappresento mai di per sé una seria minaccia alla legittimità dei sistemi liberali. La nuova sintesi ideologica e politica realizzata attraverso quel processo che Payne ha definito "la nazionalizzazione di certi settori della sinistra rivoluzionaria" consentì invece ai movimenti fascisti di sfidare simultaneamente la democrazia su un duplice terreno: la sfera razionale delle decisioni sostantive e la dimensione simbolica delle attività politiche identificanti, ed offrì loro un’importante carta da giocare.

All’immediato indomani di una guerra che aveva sconvolto quasi l’intero continente, il fascismo trovò terreno fertile nel clima psicologico di insicurezza che la brusca intensificazione dei conflitti sociali e della politica di massa stava producendo. In un’epoca nella quale i pilastri del vecchio ordine politico e sociale stavano progressivamente e rapidamente logorandosi e cresceva di continuo il numero delle domande contrastanti e intersecate le une con le altre che salivano dall’opinione pubblica verso i governi, i movimenti fascisti cercarono di assicurarsi uno spazio politico rassicurando tutti quei gruppi che la modernizzazione, con i suoi alti costi materiali e culturali, aveva spaventato. Diversamente dai partiti autoritari conservatori, essi non promisero il ritorno a una qualche passata età dell’oro, ma si impegnarono a restaurare in caso di successo l’ordine pubblico e l’autorità, onde porre sotto il controllo dello stato le inevitabili trasformazioni sociali richieste dalla civiltà di massa che ormai si era affermata.

Il carattere antidemocratico del programma fascista era evidente: esso proponeva un’estrema semplificazione del sistema politico e sociale, basata su una forte riduzione del pluralismo. A causa del suo modello rappresentativo, basato viceversa su un’illimitata libertà di azione per qualunque tipo di interessi organizzati, la democrazia era degenerata – a loro avviso – in un’incontrollata lotta di classe, nell’affermazione delle rivendicazioni particolaristiche sulle esigenze di ordine generale e nell’inefficienza parlamentare. Il corporativismo e il mito della comunità nazionale erano chiamati a rovesciare la situazione ed avrebbero consentito al futuro stato fascista di sfruttare le risorse offerte dalla modernizzazione per assicurare il bene comune.

Questo genere di suggestioni esercitò un’ampia influenza sullo "spirito del tempo" che si affermò in Europa nel periodo fra le due guerre mondiali, modificando la percezione della democrazia sia negli ambienti intellettuali, sia fra la gente comune. I parlamenti, che erano stati a lungo quasi unanimemente considerati un bastione della libertà popolare, vennero sempre più di frequente dipinti come simboli dell’impotenza e del privilegio; ai partiti si addebitò la disgregazione della società. Non dappertutto le negazioni e gli appelli fascisti riuscirono a farsi strada fra gli attori politici di vertice, nella comunità intellettuale o fra i cittadini; alcuni paesi, come la Gran Bretagna, si dimostrarono immuni dall’"infezione" fascista grazie all’elevata stabilità delle loro istituzioni, mentre altri, come l’Olanda, la Cecoslovacchia, la Svizzera e i paesi nordici reagirono alla minaccia soprattutto in virtù di riusciti accordi consociativi, che impedirono ai movimenti fascisti di trovare spazio a livello di massa e, in alcune occasioni, anche grazie a specifici provvedimenti repressivi rivolticontro le manifestazioni di estremismo. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, il fascismo contribuì a diffondere una mentalità incline all’autoritarismo e perciò fece da detonatore a svolte antidemocratiche anche laddove queste si verificarono ai suoi danni, come accadde in Romania, in Estonia, in Jugoslavia e in Lettonia.

Come la tabella 2 ci ricorda, il crollo dei regimi democratici nell’Europa degli anni Venti e Trenta non deve essere considerato sinonimo di successo fascista. Nondimeno, i movimenti fascisti influenzarono profondamente la dinamica della crisi della democrazia, favorendo la crescita di alcuni fattori cruciali per l’indebolimento degli stati liberali. Essi contribuirono all’intensificazione della lotta politica a livello sia di élite che di massa, coinvolgendo nel conflitto politico nuovi attori, mobilitati dalle conseguenze della guerra, ed espandendone il raggio agli scontri di piazza. La loro azione causò un’elevata fluidità e una serie di spostamenti sia dei tradizionali allineamenti dei partiti, dei sindacati e degli altri sociali, sia della società civile nel suo complesso; modificò la precedente distribuzione delle risorse e moltiplicò i problemi insolubili, che condussero in alcuni casi alla paralisi dell’agenda setting governativo. Soltanto in Germania e in Italia i fascisti presero il potere da soli, ma in molti altri casi vi si avvicinarono notevolmente e la loro presenza diventò di per sé una potenziale minaccia, una causa di instabilità per la democrazia. Ogni volta che una democrazia parlamentare crollava, il fascismo era evocato sia dai simpatizzanti che dagli avversari: talvolta era effettivamente presente sulla scena, talaltra svolgeva la funzione di "ospite silenzioso" del nuovo regime autoritario e il suo spettro serviva ad eccitare le passioni popolari. Ciò diventò particolarmente evidente dopo lo scoppio della guerra civile spagnola, che moltissimi osservatori interpretarono come il prologo del futuro scontro finale tra fascismo e democrazia, anche se il regime di Franco era ben lungi dal soddisfare i requisiti dell’idealtipo del fascismo e i comunisti facevano parte del campo democratico solo per motivi tattici.

Possiamo perciò concludere che il ruolo dei movimenti fascisti fu centrale nella crisi delle democrazie europee manifestatasi tra il primo e il secondo conflitto mondiale. L’intima debolezza dei regimi parlamentari, determinata dalla simultanea presenza di un’ampia serie di sfavorevoli condizioni economiche, sociali e culturali, fu all’origine della loro nascita e ne facilitò in molti casi il compito; ma i fascisti, a causa della mentalità attivistica che li caratterizzava, non potevano limitarsi ad aspettare che le circostanze volgessero ancor più a loro favore. La loro azione si diresse invariabilmente contro la democrazia con la non celata speranza di accelerarne il collasso; lungo l’intero periodo di crisi le loro mosse ridussero oppure aumentarono, a seconda dei risultati ottenuti, le probabilità di persistenza e di stabilità dei regimi che combattevano. In qualche caso, il fallimento delle sfide che avevano pubblicamente lanciato all’ordine legale – l’abortito colpo di stato di Mäntsälä del movimento di Lapua; la campagna elettorale di Degrelle contro il primo ministro van Zeeland; le violente scorribande delle milizie di Mosley nella East London; i tumulti provocati il 6 febbraio 1934 dalle Leghe francesi di fronte al parlamento – rafforzò la legittimità delle istituzioni che si prefiggevano di rovesciare. Qualunque sia stato l’esito finale della loro agitazione, in ogni caso i movimenti fascisti trassero alimento dalla crisi e nel contempo fecero del loro meglio per inasprirla; anche se non riuscirono, nell’insieme, ad approfittarne nella misura sperata.


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