LA QUESTIONE NAZIONALE ALLE SOGLIE DEL XXI SECOLO
-note introduttive ad un problema delicato e pieno di pregiudizi-

Costanzo Preve



1. L'origine storica delle nazioni fra stato ed etnia.
2. La questione nazionale ed il colonialismo imperialistico.
3. La questione nazionale e la questione sociale.
4. La questione nazionale e l'orrore delle guerre etniche.
5. La tradizione culturale di sinistra fra sradicamento e cosmopolitismo ultracapitalistico.
6. La natura storica dell'attuale globalizzazione imperialistica.
7. Il problema del cosiddetto americanismo e dell'americanizzazione del pianeta.
8. Le forze di resistenza all'americanismo e all'americanizzazione forzata del pianeta.
9. L'Organizzazione delle Nazioni Unite e la questione nazionale oggi.
10. Conclusioni provvisorie. Informazione, democrazia, solidarismo, liberazione.




Sul precedente numero della rivista Indipendenza ho pubblicato un primo saggio di carattere politico (sul passaggio dalla prima alla seconda Repubblica nell'Italia degli anni Novanta) al quale fa séguito un secondo di carattere culturale (sui problemi generali di orientamento culturale nel mondo contemporaneo) che esce in questo stesso numero. Sebbene il primo saggio sia probabilmente di maggior interesse immediato e di più facile leggibilità, è il secondo a mio avviso il più importante, perché pone in modo esplicito la questione culturale principale dell'attuale momento storico, per cui la tradizione definita comunemente "di sinistra" è sostanzialmente inutilizzabile oggi per motivare un serio atteggiamento di critica e di resistenza all'attuale globalizzazione capitalistica ed imperialistica. Quest'opinione si scontra oggi con una resistenza sorda, opaca, pressoché insormontabile. Ciò avviene per un insieme di ragioni, di cui ricorderò qui solo le due principali. In primo luogo, è giusto ammettere che nei due secoli trascorsi la tradizione "di sinistra", nonostante i suoi limiti culturali incredibili (economicismo, laicismo positivistico, populismo, mitologie miserabilistiche, sfrenata seduzione per il nuovo di qualsiasi tipo, eccetera), ha nell'essenziale difeso cause sociali giuste, e solo da due decenni circa sta mutando qualitativamente di natura, insieme con l'irreversibile declino storico dei suoi referenti sociali. In secondo luogo, l'opposizione destra/sinistra, ormai in gran parte artificiale e 'virtuale', continua ad essere riprodotta dall'alto per strutturare simbolicamente uno spazio politico manipolato. In questo breve saggio parleremo solo della questione nazionale oggi, un tema cruciale in cui la tradizione culturale di sinistra è assolutamente incapace di orientarsi neppure sui punti più generali. Senza troppe speranze a breve termine, mi limiterò a criticare i pregiudizi più tenaci indicando nel contempo lo scenario nuovo, storico e sociale, in cui siamo oggi collocati.
Nel primo paragrafo, richiamerò criticamente le due principali teorie sull'origine storica delle nazioni (la teoria statuale e la teoria etnica), chiarendo sommariamente la mia personale posizione in proposito. Nei paragrafi due, tre e quattro segnalerò rapidamente i tre principali pregiudizi cui ci si scontra quando si osa parlare di questione nazionale in senso positivo e non immediatamente demonizzante. Nel quinto paragrafo, che è assolutamente centrale per la comprensione dell'intero saggio, esporrò la ragione principale, per il momento assolutamente insormontabile (ma in un futuro chissà), per cui la tradizione culturale di sinistra non è in grado oggi di comprendere la natura della questione nazionale. Nel sesto paragrafo, anch'esso molto importante, chiarirò la natura del complesso rapporto fra la globalizzazione imperialistica attuale ed i nuovi termini della questione nazionale. I paragrafi che restano toccano tutti temi specifici e particolari alla luce delle tesi esposte nel sesto paragrafo. L'insieme del saggio, data la sua brevità, si propone di essere soltanto una nota introduttiva ad un problema delicato e carico di pregiudizi.

1. L'origine storica delle nazioni fra stato ed etnia.

La bibliografia specialistica e divulgativa sull'origine e sullo sviluppo delle nazioni, anche in lingua italiana, è ricca e variata. Non mancano i libri, anche buoni, manca la loro assimilazione, conoscenza e soprattutto collocazione critica. In termini generali, le teorie sull'origine storica delle nazioni moderne possono essere divise in due grandi classi, quelle che insistono sull'origine statuale, moderna, protocapitalistica delle nazioni, e quelle invece che ne individuano un'origine etnica, premoderna, precapitalistica, su cui la statualità (di cui nessuno ovviamente nega l'importanza) si è innestata solo in un secondo momento. Vediamo meglio.
Le teorie sull'origine statuale, e dunque moderna, protocapitalistica e protoborghese delle nazioni insistono molto sul fatto che la stessa idea di nazione è una costruzione artificiale, in cui la stessa tradizione storica di riferimento è stata in gran parte "inventata" a posteriori. Gli apparati statuali, costruiti quasi sempre in funzione del sostegno politico alla formazione di un mercato capitalistico unitario e/o alla tutela economica e militare della propria nazione rispetto ad altre nazioni concorrenti, hanno volentieri delegato ai gruppi intellettuali ed al sistema scolastico l'invenzione di una tradizione storica nazionale unificata e la sistemazione linguistica unitaria di un dialetto letterario. Il nazionalismo è dunque un tipico prodotto della modernità capitalistica, ed in particolare protocapitalistica (laddove nel capitalismo 'maturo', mondializzato, informatizzato, globalizzato, esso dovrebbe essere superato ed abolito). In proposito, è bene rilevare subito che l'invenzione culturale e letteraria di una tradizione non è assolutamente un fenomeno tipico della modernità capitalistica. Basti pensare (ma si potrebbero fare decine di esempi storici) agli intellettuali romani di età augustea (Livio, Virgilio, eccetera) che furono chiamati ad inventarsi una tradizione (Enea, Romolo, eccetera). Più in generale, le teorie sull'origine statuale delle nazioni, insieme ad intelligentissimi contributi storico-culturali specifici, suggeriscono che la nazione non esiste, è un prodotto artificiale, è un'invenzione del capitalismo borghese, e come tutte le invenzioni artificiali è destinata a dissolversi ed a morire in un indefinito "mutamento di fase storica". Si ha qui, a mio parere, una reazione culturale, comprensibile ma errata, alle teorie della nazione come "comunità organica" (Gemeinschaft), esclusiva ed un po' razzista, che hanno effettivamente insanguinato la storia degli ultimi due secoli. Ancora una volta, però, non bisognerebbe buttare via il bambino con l'acqua sporca.
Le teorie sull'origine etnica, e dunque premoderna, precapitalistica e preborghese delle nazioni, insistono invece sul fatto che nella stragrande maggioranza dei casi (certo, non in tutti) esiste una robusta realtà etnica al di sotto, dentro e a fianco della posteriore costituzione della nazione in popolo ed in stato moderno. La storia non comincia con il capitalismo, l'accumulazione del capitale o l'arrivo dei colonialisti europei e americani. A mio avviso questo è indubitabile e sacrosanto. Certo, l'origine etnica si evolve storicamente e culturalmente, e si intreccia con una identità parzialmente artificiale costruita in un secondo momento dallo stato moderno, dagli intellettuali e dal sistema scolastico, ma questo secondo momento non nasce dal vuoto, ma si basa su di una realtà precedente, che modifica, ma che non può azzerare ed annullare.
Chi ha ragione? Difficile dirlo, e comunque manca lo spazio per discuterne seriamente. Dire che hanno ragione tutti e due è ragionevole, ma è anche opportunistico e fuorviante. In prima approssimazione, se riconosciamo che il momento della statualità, laddove si impone (ma non si è imposto ad esempio in moltissime nazioni, dai còrsi ai bretoni, dai gallesi ai baschi, dai kurdi ai maya latinoamericani), ha comunque come presupposto un momento etnico precedente, dobbiamo riconoscere che la teoria etnica è migliore della teoria statuale, anche se quest'ultima la corregge utilmente in molti punti.
Non è però questo a mio avviso il punto filosofico essenziale della questione. Indipendentemente da chi abbia ragione, o più ragione, fra i sostenitori delle due teorie, si potrebbe sostenere che comunque, etnica o statuale che sia, la nazione ha avuto una genesi storica in un momento passato ed ormai tramontato (precapitalistico o protocapitalistico), e dunque non ha più oggi una sua validità. Ebbene, è proprio questo il punto: la genesi è sempre -ed in ogni caso- particolare, la validità è universale laddove naturalmente questa universalità sia logicamente costruita come momento di una verità reale. Gesù di Nazareth si mosse in un contesto storico ultraparticolare, oggi completamente tramontato, ma la validità del suo messaggio non è riducibile a questa genesi storica particolare, ma possiede una sua validità veritativa metastorica. Facciamo ancora l'esempio del liberalismo, della democrazia e del socialismo. Storicamente, nella loro forma moderna, queste tre tradizioni hanno avuto una genesi storica particolare, rispettivamente borghese (il liberalismo), piccolo-borghese (la democrazia) ed operaia e proletaria (il socialismo). Ebbene, questa genesi storica particolare in tutti e tre i casi trapassa in validità universale non nella totalità delle loro componenti storiche, ma in quelle che la razionalità logica convalida e conferma.
È esattamente questa la realtà dell'identità nazionale, statuale o etnica che ne sia stata la genesi particolare. Ma per comprendere questo bisogna subito liberarsi di tre ordini di pregiudizi quasi invincibili, che discuteremo nei prossimi tre paragrafi.

2. La questione nazionale ed il colonialismo imperialistico.

Un grande pregiudizio contro la nazione sta nel fatto che essa, sia nell'Ottocento che nel Novecento, è stata il pretesto ideologico per praticare una politica di potenza, il militarismo ed il colonialismo imperialistico, quasi sempre di tipo razzista. In proposito, si suole generalmente dire che il nazionalismo colonialistico, imperialistico e razzista è stato una perversione ed una deviazione -insomma una maligna patologia- dell'originario ed autentico concetto di nazione, che invece a metà Ottocento era stato democratico (1848, eccetera). Ebbene, a mio avviso questa formulazione è una mezza misura, ed è insufficiente ed errata. Bisogna dire invece che il nazionalismo militaristico ed il colonialismo imperialistico, nonostante le loro bandiere ed i loro "fardelli dell'uomo bianco", sono stati la negazione, il nemico frontale della realtà nazionale per la stragrande maggioranza dei popoli del mondo. Voglio fare in proposito un solo semplice esempio. Per decenni chi scrive ha sempre sostenuto virtuosamente che il razzismo è una cosa cattiva, che non esistono razze superiori e razze inferiori, che tutte le razze sono eguali, che non bisogna aver paura di una società multirazziale, eccetera. Ebbene, mi è stato fatto personalmente notare da uno studioso della questione razziale (Hosea Jaffe) che questa impostazione era errata, che era un'involontaria ed implicita concessione teorica al razzismo, che semplicemente le razze non esistono, non solo in senso politico-culturale, ma anche e soprattutto biologico (ed infatti il vero razzismo hard, come quello hitleriano, è una forma di biologismo). Nello stesso modo, non bisogna dire che il colonialismo imperialistico è una perversione ed una deviazione di un'originaria identità nazionale in sé positiva. Il colonialismo imperialistico è la negazione, è il più grande nemico del riconoscimento della legittimità dell'identità nazionale, che ha come sua prima caratteristica il riconoscimento dell'altro come differente e perciò eguale, che è cosa ben diversa, ed anzi opposta, dal considerarlo diverso e perciò diseguale. Raccomandiamo al lettore di non fare concessioni su questo punto, che è concettualmente il più delicato ed importante di tutti.

3. La questione nazionale e la questione sociale.

Un secondo pregiudizio a proposito della questione nazionale insiste nel fatto che l'idea di nazione è nemica della questione sociale, anzi della rivoluzione sociale proletaria ed internazionalistica. La nazione implicherebbe una falsa unità interclassista, e l'identità nazionale non sarebbe altro che un'identità borghese e capitalistica mascherata e travestita, venduta ai proletari dagli apparati ideologici di stato per trasformare i proletari stessi in carne da macello per le guerre imperialistiche. Non intendo tornare qui sulle considerazioni già svolte nel paragrafo precedente. È invece giusto riconoscere la parziale pertinenza di questa obiezione, che tocca un punto reale (rilevato da Marx e dal marxismo successivo in tutte le sue tendenze). Per affrontare questo problema bisogna però liberarsi dalle impostazioni ingenue, per cui il nazionalismo interclassista distrarrebbe i proletari dal fare la loro bella rivoluzione comunista direttamente internazionalistica. La mancata rivoluzione come prodotto di un sistema pianificato di distrazioni mi ricorda irresistibilmente la teoria dei comunisti italiani che non hanno fatto la rivoluzione nel 1948 perché distratti dalle vittorie del ciclista Bartali al Giro di Francia, o ancora meglio delle plebi romane che accettavano lo schiavismo e non si ribellavano alla loro triste sorte perché distratte dai gladiatori e dalle belve del circo. La gente è forse un po' cogliona, ma non è mai cogliona fino a questo punto (è questo un precetto storiografico che non mi stanco mai di segnalare). La questione nazionale non distrae mai dalla questione sociale, quando essa è realmente radicata in forze sociali reali. Lo sviluppo dialettico della cosiddetta questione sociale (che è poi quella della lotta di classe, o meglio della lotta fra le differenti classi che costituiscono la società capitalistica, e che non sono a mio avviso soltanto due) ha anzi come presupposto storico la precedente identità nazionale. Personalmente, preferisco di gran lunga l'internazionalismo al nazionalismo. Ma, appunto, l'internazionalismo (e si rifletta sul significato letterale della sua etimologia, inter-nazioni-ismo) presuppone il rapporto fra nazioni differenti ed eguali (dalla preposizione latina inter), non certo la negazione dell'identità nazionale. Tuttavia, se si prova a fare un breve sondaggio fra le cosiddette "persone colte" (in particolare di "sinistra"), si vedrà che l'internazionalismo è sistematicamente confuso con la negazione in via di principio della questione nazionale, che viene al massimo ridotta a quella, contigua ma distinta, dei cosiddetti "diritti umani".
La rivoluzione classista pura è un'astrazione dei dogmatici. Tutte le rivoluzioni sociali concrete non sono mai state pure. Ad esempio, la rivoluzione russa del 1917 ha avuto almeno tre soggetti sociali distinti (operai, contadini poveri ed intellettuali rivoluzionari), con distinti programmi e distinte finalità. Il mito della rivoluzione proletaria è una costruzione ideologica posteriore. Tutte le rivoluzioni sociali concretamente avvenute (facciamo qui solo tre esempi: Cina 1949, Vietnam 1954, Cuba 1959) sono tutte sorte da una precedente questione nazionale non risolta, a causa appunto dell'imperialismo, che non è una deviazione patologica dell'idea nazionale, ma ne è la sua negazione assoluta. Il lettore vede dunque come in concreto non abbia nessun senso continuare a sostenere pigramente che le classi oppresse sono sistematicamente ingannate dall'utopia interclassista dell'identità nazionale. Questo fa semplicemente a pugni con la realtà storica veramente esistita.

4. La questione nazionale e l'orrore delle guerre etniche.

Vi è un terzo pregiudizio sulla questione nazionale, secondo cui lo stesso riconoscimento della legittimità dell'identità nazionale è pericoloso, perché porta alle terribili e sanguinose guerre etniche (Hutu contro Tutsi, musulmani di Bosnia contro serbi di Bosnia, eccetera). L'esempio di Sarajevo, questo simbolo costruito dai media degli anni Novanta, è in proposito illuminante. Il messaggio che i media occidentali hanno inviato fino al parossismo è stato in breve questo: in questa guerra c'è un cattivo, un nuovo Hitler, un nuovo Saddam, e sono i serbi di Bosnia; c'è anche un buono, e sono la gente comune, ingannata dai politici che hanno inventato la nazione per i loro sporchi scopi; ma la nazione non esiste, i giovani non sanno che farsene, vogliono parlare inglese, vogliono i MacDonald, vogliono i concerti rock, vogliono le Spice Girls e Michael Jackson, sono cittadini di un unico mondo televisivo, informatico ed Internet; la nazione non esiste, e c'è soltanto un grande mercato mondiale capitalistico mondializzato.
Purtroppo, a fianco di questo messaggio dei media, cui si sono prestati anche molti intellettuali vanitosi, ignoranti e male informati, c'erano anche le sofferenze concrete dei bosniaci, serbi, croati e musulmani implicati in questa spaventosa guerra etnica. Ebbene, le guerre etniche non sono l'inevitabile e triste conseguenza del riconoscimento della questione nazionale, ma sono appunto l'opposto, il frutto della negazione e della banalizzazione colpevole della questione nazionale stessa. Alla Germania ed agli USA non interessava nulla l'esame delle ragioni dei musulmani, dei croati e dei serbi di Bosnia. A queste potenze imperialiste interessava soltanto l'appoggio preferenziale ad un cliente (preferibilmente i musulmani per gli USA ed i croati per la Germania), e per questo era necessario demonizzare alcuni e santificare altri. Anche nel caso delle "pulizie etniche" si può dire, come per gli animali di Orwell, che alcune erano più "eguali" di altre. Le espulsioni etniche dei serbi della Krajna e di Sarajevo, ad esempio, sono state considerate legittime dalla cosiddetta opinione pubblica internazionale, che è poi il nome dato all'insieme di alcune centinaia di giornalisti direttamente legati al grande capitale finanziario. Il punto essenziale, comunque, stava nell'individuazione del "nemico", un'individuazione che era il presupposto della legittimazione della trasformazione dei "diritti umani" e dell'aiuto umanitario in corpi speciali di intervento militare imperialistico.
Le guerre cosiddette etniche potrebbero già oggi essere risolte e composte dal diritto internazionale onestamente applicato. Ma, appunto, questo presuppone il riconoscimento della legittimità e delle ragioni della questione nazionale, non il contrario, cioè la retorica del cosmopolitismo rock e dell'interventismo militare "umanitario". Come è chiaro, bisogna purtroppo affrontare il centro culturale del problema, senza il quale continueremo a girare in tondo ed a perderci nei particolari. Lo faremo nel prossimo paragrafo.

5. La tradizione culturale di sinistra fra sradicamento e cosmopolitismo ultracapitalistico.

Anziché girare in tondo, bisogna affrontare il problema principale. La sinistra è oggi il luogo culturale principale dello sradicamento, e proprio per questa ragione è il referente culturale privilegiato per l'attuale globalizzazione capitalistica. Il rifiuto della pertinenza della questione nazionale non è che una delle forme, e neppure purtroppo la principale, di questo generale sradicamento. Vediamo come, cercando di non 'saltare' i passaggi logici principali.
Parlare di sradicamento significa riferirsi ad una situazione precedente in cui si era in qualche modo radicati in qualcosa, qualcosa da cui si è poi stati sradicati. Ed è proprio questo il caso della "sinistra" presa nel suo complesso. La parte comunista della sinistra si era radicata nel corso dell'ultimo secolo sul terreno della Classe (operaia e proletaria) e del Partito (comunista). La parte non comunista della sinistra aveva cercato il proprio radicamento sociale e culturale in una piccola-borghesia progressista legata a valori di riformismo politico e di eguaglianza sociale. Lo sradicamento da queste precedenti radici culturali e sociali è avvenuto per un doppio fenomeno interconnesso, la trasformazione endogena del modo di produzione capitalistico globale (dalla sinistra non prevista neppure nei suoi termini più generali) ed il fallimento programmatico nell'edificazione di una società alternativa al capitalismo. Parlando di doppio fenomeno interconnesso, intendiamo sottolineare che i due fenomeni non debbono essere analizzati separatamente come processi paralleli, come purtroppo tende a fare tutta la storiografia, anche la migliore.
Apriamo qui una piccola parentesi sul comunismo storico novecentesco e sui suoi esiti dissolutivi. Chi scrive è contrario alla sua demonizzazione filosofica, che sulla scia della scuola di François Furet e di libri come Il libro nero del comunismo interpretano metafisicamente l'intera storia del comunismo stesso in termini di illusione criminale, più esattamente di una illusione rivoluzionaria utopica che si è necessariamente concretizzata in una serie di crimini. In questo modo, riteniamo, l'intero XX secolo diventa completamente incomprensibile. Il comunismo storico novecentesco (da tenere ben distinto dall'utopia comunista di Marx) ha presentato specifici e ben precisi elementi illusori (l'illusione di edificare una società comunista per mezzo di uno stato-partito totalitario ed attraverso l'azione di una classe strutturalmente non universalistica e non intermodale come il proletariato di fabbrica), insieme con specifici e ben precisi elementi criminali (la distruzione di interi gruppi sociali ed i metodi dei processi, dell'incarcerazione e dello spionaggio di massa). Ma pressoché tutti i fenomeni sociali e storici del Novecento (il colonialismo imperialistico, il sionismo, il normale capitalismo finanziario, il nazifascismo, eccetera) hanno prodotto specifici fenomeni criminali, oltre a legittimarsi con un'ideologia illusoria. È dunque assolutamente errato attribuire al comunismo un carattere globalmente criminale. E chiudiamo qui per brevità questa parentesi.
Radicata in questa realtà sociale (il progresso, la scienza, la classe, il partito, eccetera) la sinistra ne è stata brutalmente sradicata dal mutamento sociale, che le sue categorie culturali non permettevano neppure di immaginare nella forma in cui è avvenuto (pensiamo solo al mitico Sessantotto, vissuto esistenzialmente dalla sinistra come una sorta di rivoluzione sociale, senza sospettarne mai il ben più robusto carattere di modernizzazione ultracapitalistica ed antiborghese del costume e delle forme di consenso e di dominio). Questo sradicamento ha prodotto una sorta di vertigine da spaesamento, di azzeramento vissuto con voluttà di annientamento e di vergogna della propria precedente identità, vissuta come un peso di cui liberarsi assolutamente il più presto possibile.
È questa la ragione per cui la sinistra è oggi il luogo culturale principale del cosmopolitismo ultracapitalistico, dell'americanizzazione a tappe forzate, dello smantellamento dei residui di conservatorismo "borghese" in direzione di un capitalismo integralmente postborghese. Si tratta, in un certo senso, di un perverso rovesciamento dialettico dell'utopia dell'uomo nuovo. L'uomo nuovo delle utopie ricostruttive comuniste avrebbe dovuto essere un uomo rinnovato dalla catarsi rivoluzionaria, senza più tracce dell'egoismo e dell'individualismo borghesi. Sfigurata caricatura di quest'ultimo, l'uomo nuovo postborghese è una sorta di 'grado zero' del nuovo consumismo capitalistico, che ha ormai il permesso di fare tutto ciò che non sia incompatibile con la riproduzione capitalistica. Dentro di essa, infatti, tutto è permesso. Il cosiddetto buonismo italiano (Veltroni, eccetera) è infatti una forma di permissivismo moderato. È possibile essere buoni rispetto a tutti i comportamenti trasgressivi che non trasgrediscano però i limiti sistemici del capitalismo contemporaneo.
Il passaggio dal precedente radicamento classista-proletario al presente radicamento cosmopolitico-ultracapitalistico è ovviamente avvenuto senza un radicale processo culturale autocritico. In linguaggio filosofico (apertamente rivendicato dal cosiddetto pensiero debole, la versione italiana del post-moderno) si è trattato non di una Uberwindung (superamento consapevole), ma di una Verwindung (lasciar perdere, lasciar cadere). Ciò è stato anche teorizzato, fra gli applausi della stragrande maggioranza dei nuovi intellettuali.
La comprensione dell'importanza dell'identità nazionale, già assente nel vecchio radicamento apparentemente internazionalistico, in cui l'internazionalismo era in realtà malcompreso e frainteso come negazione di ogni identità nazionale in un astratto comunitarismo classistico, è ancora più assente nel nuovo cosmopolitismo ultracapitalistico. Ed è questa appunto la situazione in cui ci troviamo sciaguratamente oggi.

6. La natura storica dell'attuale globalizzazione imperialistica.

Abbiamo visto come lo sradicamento esistenziale, sociale e culturale della tradizione di "sinistra" è il presupposto per l'adozione di un nuovo fondamento, la globalizzazione capitalistica attuale. Bisogna ora chiarirci le idee su che cosa significa esattamente quella "globalizzazione" divenuta ormai un luogo comune giornalistico da tutti ripetuto. 
Il termine "globalizzazione" non significa soltanto un inaudito sveltimento della comunicazione di transazioni finanziarie e di decentramento di beni e servizi (tecnologie informatiche, Internet, eccetera). Esso non significa neppure soltanto la nuova centralità di organismi finanziari internazionali (come il Fondo Monetario Internazionale), che hanno ricostituito per molti paesi del mondo (debito, eccetera) un nuovo imperialismo virtuale a volte peggiore di quello delle vecchie cannoniere. La globalizzazione è una situazione storica relativamente nuova nella storia del capitalismo, in cui la pressoché integrale "restaurazione" del pieno funzionamento dei rapporti capitalistici di produzione (dopo l'intervallo del comunismo storico novecentesco dal 1917 al 1991) ripropone sotto molti aspetti la situazione precedente al 1914, mentre sotto altri aspetti siamo di fronte ad uno scenario nuovo. Una corretta valutazione della questione nazionale oggi richiede di comprendere bene i due aspetti della globalizzazione capitalistica di oggi, ed in questo breve paragrafo li esamineremo tutte e due separatamente.
In primo luogo, non bisogna essere incantati dalla presunta "novità assoluta" della situazione attuale. Paradossalmente, coloro che sono maggiormente disposti a lasciarsi incantare da una presunta novità assoluta della situazione attuale, incomparabile con qualsiasi epoca storica precedente, sono spesso dei "pentiti" del comunismo e/o della socialdemocrazia, che avendo sempre pensato la storia in termini di successione stadiale direzionata verso un cosiddetto ultimo stadio, sono ora portati psicologicamente a vedere la globalizzazione capitalistica attuale come una sorta di "stadio finale" della storia, in cui vivere in pienezza esistenziale il regno dei diritti umani di cittadinanza e della flessibilità del lavoro presunto "indipendente". Ma la storia non ha mai ultimi stadi, né capitalistici né comunistici, ecco il terribile segreto inaccessibile a costoro. Hanno dunque più ragione quegli studiosi (come l'italiano Gianfranco La Grassa) che rifiutano esplicitamente la teoria del cosiddetto ultimo stadio del capitalismo, e ripropongono sostanzialmente una concezione ciclica dello sviluppo del capitalismo. Si tratta però di non fermarsi ad una concezione ciclica puramente economica (come la riproposizione della teoria delle "onde lunghe" di Ernest Mandel), ma di riproporre una teoria della ciclicità globale integralmente storica, e non solo economica. L'attuale fase della globalizzazione capitalistica appare dunque essere una fase sostanzialmente "ricorsiva" nella storia del capitalismo, in cui vi è un "policentrismo" di aree imperialistiche (oggi fondamentalmente tre: USA, Giappone e futura Europa unita ad egemonia tedesca), un policentrismo per molti aspetti simile a quello di prima del 1914.
Se si adotta questa concezione, non si cadrà nella trappola di pensare che l'attuale globalizzazione fa sparire integralmente le funzioni economiche degli stati, sostituiti dalla mano invisibile di una rete pura di mercati finanziari internazionali anonimi. Gli stati perdono (anzi dismettono) alcune funzioni tipiche della fase 1945-1990 (i cosiddetti decenni felici dello storico inglese Hobsbawn), ma mantengono ed anzi rafforzano il loro ruolo di appoggio economico, politico e militare alle loro industrie. È vero che le società dette transnazionali sono maggiormente internazionalizzate rispetto a quelle dette multinazionali (vi è su questo un'abbondante letteratura economica di riferimento), ma è anche vero che non cessa affatto il ruolo di appoggio degli stati principali di riferimento. Insomma, l'attuale globalizzazione è una globalizzazione imperialistica, e dunque alcuni elementi delle teorie classiche dell'imperialismo (Lenin, Hilferding, eccetera) sono ancora parzialmente validi.
In secondo luogo, tuttavia, il riconoscimento del carattere ricorsivo dell'attuale fase capitalistica internazionale non deve farci diventare ciechi rispetto ad alcune novità storiche specifiche della situazione attuale. Rispetto al 1914, infatti, vi sono alcune novità qualitative di enorme importanza. Primo, siamo di fronte ad una superpotenza militare globale (gli USA) che ha una capacità di intervento incomparabile ed inconfrontabile rispetto a tutte le altre grandi potenze, anche se (aggiungiamo noi, per fortuna) essa non ha il monopolio delle armi atomiche di distruzione totale, e non può pertanto fare tutto quello che vuole, almeno per ora. Secondo, siamo di fronte ad una "grande disillusione" storico-filosofica inesistente nel 1914, in quanto ormai conosciamo la triste verità allora sostanzialmente ancora sconosciuta, per cui è impossibile costruire una società nuova sulla doppia fragile base di una classe sociale non universalistica e di un partito politico oligarchico e corruttibile per natura. Terzo, siamo di fronte, forse per la prima volta nella storia mondiale, ad una cultura particolare (quella americana) che tende irresistibilmente a proporsi come unica cultura universale, e sostiene questa sgradevole ambizione con un quasi monopolio sull'immaginario giovanile mondiale.
La discussione della questione nazionale oggi deve dunque a mio avviso essere condotta dentro le coordinate essenziali segnalate in questi ultimi due paragrafi. Non troveremo certo la soluzione, ma almeno eviteremo di perderci in un labirinto di falsi problemi.

7. Il problema del cosiddetto americanismo e dell'americanizzazione del pianeta.

Abbiamo segnalato come l'aspetto più odioso e pericoloso della situazione storica attuale sia l'inaudita sproporzione di potenza militare e culturale fra gli USA e tutti gli altri stati del pianeta, una sproporzione che invece non è tale in campo puramente economico, ed ecco perché siamo di fronte ad una fase parzialmente ciclica e ricorsiva in cui vi è un vero e proprio policentrismo imperialistico. È questo un triste fatto di cui prendere atto, e non una gioiosa novità, come avviene per i nuovi americanofili passati dalla contestazione sessantottina all'apologia sfrenata dell'americanizzazione (segnalo come particolarmente comico il giornalista italiano Paolo Guzzanti), cioè il 90% della classe universitaria, giornalistica e letteraria italiana. Tuttavia, bisogna egualmente evitare di connotare gli USA come il nemico principale, come fa (peraltro con buone ragioni) una parte della cultura della cosiddetta nuova destra europea (Il nemico principale è ad esempio il titolo di un libro di Alain De Benoist, uno degli intellettuali più acuti della nuova destra europea). In una prospettiva di democrazia, solidarismo e liberazione non esiste mai un nemico metafisico principale, soprattutto se identificato in una cultura nazionale. È perfettamente comprensibile ed ammissibile che in questo momento storico per gli arabi ed i latino-americani lo stato imperialistico nordamericano sia considerato il nemico politico e militare principale. Infatti così è. In una prospettiva culturale globale, invece, non è consigliabile indicare un presunto "nemico principale", perché in questo modo si apre la via ad una sorta di paranoia culturale fortemente deviante.
La nazione nordamericana presenta aspetti fortemente peculiari. Nazione di emigranti, priva di tradizioni giacobine e pertanto disponibile a riconoscere l'autonomia culturale delle diverse etnie che la compongono, si è tuttavia costituita su di una matrice originaria puritana ed anglosassone, che le ha lasciato in eredità la sgradevole illusione di possedere un primato morale nel mondo e pertanto di rappresentare una sorta di "destino speciale". Chi conosce la storia sa che la genesi di questa sgradevole illusione di superiorità sta in una specifica ideologia puritana inglese del Seicento, e che questa genesi non può però ambire ad alcuna validità, perché la genesi trapassa in validità solo quando è universalizzabile in senso logico ed ontologico, e non è certo questo il caso. La sgradevole presunzione di avere un destino speciale si è ovviamente incarnata nell'Ottocento nel proprio presunto diritto a sottomettere i pellirossa e ad annettere terre messicane ed ispanofone da due secoli, e nel Novecento ad assumere un ruolo imperialistico mascherato da moralità religiosa e politica. A fianco di questi elementi pericolosi la nazione americana ha anche prodotto cose molto positive in campo scientifico, letterario, musicale e civile che verrebbero demonizzate in una prospettiva di generico antiamericanismo aprioristico, che per questo appunto sconsigliamo con forza.
Dunque, nessun antiamericanismo culturale aprioristico. Nello stesso tempo, è necessaria la resistenza più intransigente alla sconveniente pretesa della cultura dominante americana di essere il modello di riferimento di una prossima cultura mondiale unificata, pretesa che diventa oscena quando parla di un destino "speciale" dato da Dio agli americani. A volte questa resistenza è resa difficile dal fatto che l'americanismo non si presenta direttamente come tale, ma come difesa disinteressata dei "diritti umani", ovunque essi vengano violati. E qui si innesta appunto la pertinenza della questione nazionale, perché l'imperialismo americano si arroga il diritto di decidere sovranamente quali nazioni possano esistere e quali no, in base non soltanto ai suoi interessi economici imperialistici, ma anche in base alle sue lobby elettoralmente influenti. Purtroppo la sensibilità su questo punto è insufficiente, per le ragioni richiamate prima.
Apriamo una parentesi sulla questione della lingua inglese come l'unica vera lingua mondiale contemporanea, e sul rapporto fra l'americanismo ideologico e culturale e l'anglofonia. A mio avviso, l'affermazione della lingua inglese come lingua di comunicazione mondiale privilegiata è in questo momento storico irreversibile, ed ogni tentativo di opporsi è non solo destinato ad un prevedibile insuccesso, ma è anche sostanzialmente sbagliato e controproducente. È vero che il latino o l'esperanto come lingua di comunicazione internazionale sarebbero astrattamente preferibili, perché non darebbero un vantaggio iniziale ed ingiusto a coloro che parlano già l'inglese come lingua madre o come lingua scolastica privilegiata (ed è il caso di paesi diversissimi come le Filippine, l'India o la Svezia), ma è anche vero che questo resta pura illusione. L'inglese ha ormai vinto irreversibilmente la sua lotta contro il francese, il tedesco o il russo come lingua di comunicazione internazionale. Bisogna dunque distinguere attentamente fra l'apprendimento linguistico dell'inglese come strumento di comunicazione internazionale e la moda stracciona e subalterna del monolinguismo anglofono come "destino linguistico" di un'umanità americanizzata. In Italia, ad esempio, l'inglese è ancora imparato poco e male, e bisogna migliorarne l'apprendimento soprattutto sul versante della comprensibilità orale e televisiva. La nostra classe dirigente culturalmente stracciona, americanofila ed anglomane ma scarsamente anglofona, non è per esempio ancora riuscita a produrre un canale televisivo didattico in lingua inglese (dal momento che la CNN o i canali rock giovanili sono comprensibili solo per conoscitori avanzatissimi della lingua inglese). È questo un piccolo ma triste esempio di come si possa unire servilismo americanofilo con totale incapacità didattica ed educativa. E chiudiamo qui questa triste parentesi.
La nazione nordamericana deve dunque essere rispettata come una nazione normale, una nazione come tutte le altre, una nazione senza un mandato divino o un destino speciale. Altre grandi nazioni di matrice anglosassone, come il Canada o l'Australia, si sono già messe su questa strada 'normale', ed infatti si mostrano disposte ad affrontare correttamente i loro delicati problemi di riconoscimento dei diritti delle loro etnie originarie (da quanto ne so, i problemi della nazione esquimese e delle nazioni indiane in Canada, e quello delle nazioni aborigene in Australia mi sembrano impostati in modo corretto e democratico). Ancora una volta, il corretto riconoscimento delle questioni nazionali "interne" è il presupposto della rinuncia alla megalomane pretesa di essere una nazione "speciale", orwellianamente più eguale di tutte le altre.

8. Le forze di resistenza all'americanismo e all'americanizzazione forzata del pianeta.

Se riusciamo ad impostare in modo chiaro, né servile né paranoico, la questione dell'americanizzazione, ci muoveremo anche meglio sulla questione delle forze storiche che oggi sembrano opporsi ad essa. Qui occorre fare un discorso cauto, sfumato e differenziato, perché non si è ancora aperta una vera discussione in proposito, e questa mancanza pesa molto. Ancora una volta, la mancata chiarezza sulla questione nazionale comporta svariate 'fughe in avanti' verso false prospettive. Indichiamone alcune.
In primo luogo, c'è chi vuole opporsi all'americanizzazione (scorrettamente identificata con una pretesa "occidentalizzazione del pianeta") facendo leva sulle comunità solidali delle zone più povere del pianeta (in proposito, faccio solo il nome del francese Latouche). Dico subito di avere molta simpatia umana per questa prospettiva solidaristica, di ritenerla pertinente, e soprattutto di condividere filosoficamente i presupposti teorici anti-utilitaristici (e dunque anti-economicistici) che la sostanziano. Non vorrei però che fosse un ennesimo alibi pauperistico per evitare di riconoscere il diritto primario delle comunità nazionali ad opporsi alla globalizzazione imperialistica, con la scusa che bisogna privilegiare gli ultimi, gli esclusi, e solo essi. Questo discorso pauperistico non è affatto incompatibile con l'americanizzazione imperialistica, che lo prevede e tende a delegarlo alle comunità religiose ed alle agenzie di volontariato pubbliche e private. Più in generale, è difficile che le comunità di mutuo soccorso e di mutua assistenza, che per ora effettivamente mantengono in vita nei paesi poveri centinaia di milioni di persone che altrimenti morrebbero, possano trascrescere storicamente in forze sociali di liberazione mondiale. Posso capire che questa prospettiva seduca gli orfani del messianesimo operaio e proletario, rimasti senza soggetto di riferimento, ma è bene che la loro elaborazione del lutto avvenga in modo più razionale. Altra cosa, ovviamente, è la resistenza anche armata di comunità nazionali oppresse come le popolazioni maya del Chiapas in Messico. Qui siamo completamente dentro la questione nazionale, e siamo anzi di fronte ad un caso esemplare per capire che non solo la questione nazionale non è opposta a quella della liberazione sociale, ma ne è a tutti gli effetti il presupposto storico e politico. In Italia, fino ad oggi, il mito del Chiapas ha funzionato come una sorta di evasione tropicale verso una specie di grande centro sociale esotico, per cui il comandante Marcos era trendy, mentre i poveri kurdi non lo erano. È evidente che se si vuole veramente rispettare la legittima e giusta lotta militare e politica delle comunità indie del Chiapas non si può poi disprezzare ed ignorare la questione nazionale che vi sta sotto.
In secondo luogo, c'è chi vuole opporsi all'americanizzazione rilanciando comunità linguistiche internazionali diverse, come ad esempio la francofonia. Dico subito di essere molto favorevole alla francofonia, dileggiata in Italia da giornalisti ed intellettuali subalterni, generalmente incapaci di difendere e di sviluppare la loro lingua e la loro cultura. Certo, nella francofonia vi è anche una componente odiosa, quella della copertura culturale degli interessi economici e militari dell'imperialismo francese (e questa componente si è vista in fenomeni come l'appoggio decennale a Mobutu, il tiranno corrotto del Congo, e l'avallo dato al governo hutu del Ruanda colpevole del genocidio del popolo tutsi). Più in generale, la francofonia non deve essere confusa con la reticenza dello stato francese a riconoscere e ad applicare pienamente i diritti delle nazioni presenti all'interno del suo stesso stato (dai baschi francesi ai còrsi, dai bretoni agli alsaziani). Parlando di francofonia, alludo semplicemente alla positività di chiunque si oppone al monopolio culturale uniformante dell'americanizzazione. Lo capisce un diplomatico arabo conservatore come Boutros Ghali, non capisco come non lo possa capire un intellettuale italiano medio che si riempie innocuamente la bocca con parole come diversità, pluralismo, ricchezza e varietà delle culture.
In terzo luogo, c'è chi pensa che la sola forza capace oggi di opporsi all'americanizzazione imperialistica sia l'integralismo religioso musulmano, visto non solo come religione monoteistica islamica, ma come vero e proprio modello culturale incompatibile con l'occidentalizzazione culturale del pianeta. Non nego che in questa valutazione ci sia qualcosa di vero, anche se profondi conoscitori del mondo arabo (come l'egiziano Samir Amin) sostengono invece che l'integralismo musulmano è una forza segretamente alleata all'egemonia americana (dall'Algeria all'Arabia Saudita). Non entro nel merito della questione, non solo per ragioni di spazio, ma anche per scarsa preparazione personale. Dico subito che mentre il riconoscimento democratico e solidaristico del diritto di tutte le nazioni, piccole e grandi, alla loro liberazione, mi sembra una causa universalistica, non è questo il caso dell'integralismo musulmano. Esso è a mio parere giustificato politicamente come reazione estrema all'arroganza del sionismo e più in generale dell'imperialismo, ma è anche il sintomo di un sostanziale 'blocco' dei processi di liberazione nazionale e sociale nel mondo arabo ed islamico (e dunque non solo arabo, ma anche turco, persiano, pakistano, eccetera). In questo momento, è necessario opporsi alla demonizzazione dell'Islam, un fenomeno culturale razzista che non ha forse molto spazio nella saggistica colta, ma che fa furore nelle forme della cultura di massa come i giornali, i film, eccetera.
Ai tre esempi fatti potremmo ovviamente aggiungerne molti altri, ma non lo facciamo per ragioni di spazio. Ciò che conta è che il lettore capisca che non esistono scorciatoie per evitare di affrontare la legittimità della questione nazionale. Ciò sarà ancora più evidente per chi leggerà il prossimo paragrafo, dedicato al rapporto fra questione nazionale ed organismi internazionali, in particolare le Nazioni Unite (ONU).

9. L'organizzazione delle Nazioni Unite e la questione nazionale oggi.

Un ottimo luogo per discutere e risolvere i problemi sollevati dai conflitti nazionali dovrebbe essere l'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU). Già a suo tempo il grande filosofo Immanuel Kant, nel 1795, nel suo libro Per la pace perpetua (che consiglio caldamente di leggere per la sua profondità, ed anche per la sua semplicità e brevità) impostò correttamente i termini teorici fondamentali del problema: in caso di conflitto fra stati solo l'autorità di un punto di vista soprastatuale può favorire una soluzione pacifica dei conflitti. A distanza di più di duecento anni questa impostazione teorica regge ancora, purché questo punto di vista soprastatuale abbia certe caratteristiche imprescindibili, come quelle essenziali della giustizia e dell'equità.
Non è questo purtroppo il caso dell'ONU di oggi. E non lo è per una serie di ragioni, che qui limiterò a due non perché queste due esauriscano il problema, ma per pure ragioni di spazio.
In primo luogo, l'ONU è di fatto controllato, per ragioni storiche ed economiche di cui qui si presupporrà nel lettore la conoscenza, dalle principali potenze imperialistiche, e dagli USA prima di tutte le altre. Ora, non si può essere contemporaneamente arbitro e concorrente, accusato e giudice nello stesso tempo, e gli USA lo sono. In questo modo, il principale elemento di un tribunale internazionale, l'equità, cioè il comportamento eguale in casi eguali e diseguale in casi diseguali, viene meno, e non può essere applicato. In questo modo si hanno veri e propri scandali internazionali permanenti, per cui lo stesso crimine per cui Saddam Hussein viene punito (l'occupazione di territori altrui) non è invece un crimine per lo stato sionista israeliano, che ha invece il diritto divino di occupare territori altrui, e di battezzare "terroristi" i patrioti locali che si battono legittimamente contro questa occupazione. Purtroppo, si potrebbero fare molti altri esempi come questo. E non esistono purtroppo a breve termine speranze reali di riportare l'ONU ad un ruolo di giudice equo.
In secondo luogo, l'ONU è un'organizzazione di stati, non di nazioni o di etnie. In questo modo, la repressione ed addirittura il potenziale genocidio di una nazione o di un'etnia sono considerati "affari interni" di uno stato, su cui l'ONU non ha giurisdizione (e facciamo, fra decine di esempi possibili, la situazione del popolo kurdo, in particolare in Turchia). La conseguenza di tutto questo è l'arbitrarietà e la casualità più totali. Ad esempio, l'ONU si è occupata dei kurdi irakeni, per il semplice fatto che gli USA sono nemici del regime di Baghdad, ma non dei kurdi turchi (molto più numerosi e molto più oppressi), perché la Turchia è un paese che sta dalla parte giusta, essendo alleato agli USA in questa delicata e cruciale area geopolitica. Facciamo anche l'esempio del Tibet, una regione autonoma della Cina. Ora, è assolutamente indiscutibile che i tibetani sono una nazionalità distinta da quella cinese han, e che non si può negare loro in via di principio ciò che si concede a tutti gli altri popoli (cioè la democrazia, il solidarismo e la liberazione). Non si può però consegnare la causa tibetana agli apparati cinematografici di Hollywood, a Richard Gere, agli pseudo-buddisti californiani e a coloro che vorrebbero preparare ideologicamente una futura guerra fra gli USA e la Cina. I diritti umani, che sono sacrosanti ed inalienabili, non sono proprietà privata e monopolio ideologico di piccoli gruppi di guerrafondai a corrente alternata. 
Ed è questa purtroppo la situazione attuale. In questa sostanziale assenza di indipendenza politica e di autorità morale dell'ONU si è fatto strada in molti intellettuali europei ed americani una sorta di nuovo e sciagurato "interventismo democratico", che delega direttamente ai corpi militari delle potenze imperialiste una presunta difesa dei diritti umani. Negli ultimi anni, dalla Bosnia all'Albania, dalla Somalia alla Liberia, abbiamo assistito attoniti ed impotenti a questa mascherata interventista truccata da umanitarismo. Purtroppo è molto difficile smascherare questo sciagurato "interventismo democratico", perché apparentemente esso adempie a compiti umanitari, e bisogna proprio conoscere molto bene la situazione locale per capire che il presunto arbitro non è imparziale. Non si può onestamente chiedere al giovane onesto e generoso, aperto al solidarismo ed al volontariato, di essere uno specialista di questioni internazionali, nazionali ed etniche. Purtroppo su questa ignoranza fa leva l'imperialismo. Dunque l'informazione corretta è molto importante.

10. Conclusioni provvisorie. Informazione, democrazia, solidarismo, liberazione.

Come si vede, siamo costretti all'ammissione che la democrazia, il solidarismo e la liberazione non possono essere affidati all'ONU oppure a specialisti professionali della diplomazia, ma devono essere cause cui il cittadino comune ha diritto di accedere. Siamo ora in grado di capire meglio in che senso la questione nazionale si trova al centro di un quadrato composto dai termini di informazione, democrazia, solidarismo e liberazione, che tratteremo ora separatamente.
In primo luogo, informazione. I giornali e la televisione, purtroppo, non sono in grado di fornire un'informazione completa e costante, e del resto non intendono farlo, perché non è questo il loro compito attuale, non è per questo che vengono acquistati e controllati dalle grandi potenze economiche e finanziarie. Del resto, la tendenza a passare dall'informazione all'intrattenimento è ormai ammessa apertamente. La grande stampa anglosassone, all'avanguardia in questi processi di manipolazione, parla già in modo esplicito di infotainment, un neologismo che fonde insieme information e entertainment, cioè informazione ed intrattenimento. Alcuni dei nostri sciagurati e lottizzati telegiornali sono già molto avanti su questa strada. L'incredibile santificazione popolare di Lady Diana del 1997 non deve essere interpretata semplicisticamente come una prova dell'inestinguibile sete di favole della nuova plebe post-moderna, ma sottende una grande prova di forza dell'establishment mediatico, che si ritiene ormai in grado di dettare alla monarchia britannica le nuove regole di comportamento e di regalità. L'incredibile balletto sulle prestazioni sessuali del presidente Clinton non è un ennesimo episodio boccaccesco sui frettolosi coiti fra potenti e segretarie, re e cameriere, ma deve essere interpretato come una grande prova di forza fra le categorie dei magistrati e dei giornalisti che vogliono affermare la loro sovranità sulla categoria dei politici di professione i quali, sia pure corrotti, sono pur sempre espressione di una sovranità popolare. Magistrati e giornalisti sono invece del tutto slegati da questa legittimazione, ed appunto per questo sono categorie tanto pompate ed apprezzate dai grandi capitalisti finanziari, che sono oggi i veri padroni del pianeta. In definitiva, è chiaro che l'informazione non ci verrà data, e dovremo cercarcela da soli.
In secondo luogo, democrazia. Con questa parola, oggi, non si intende più la vecchia etimologia greca, che voleva dire "potere del popolo". Oggi il termine connota una oligarchia di ricchi, che si legittima di tanto in tanto con manifestazioni elettorali già largamente decise da sondaggi orientativi fatti ormai industrialmente. Ogni riferimento al vecchio significato greco è ormai del tutto ingannevole. La democrazia è oggi esclusivamente la capacità concreta di resistenza degli individui, dei gruppi sociali e delle comunità nazionali all'omologazione ed alla manipolazione della nuova globalizzazione imperialista. Non c'è dunque democrazia senza resistenza. Chi oggi parla di democrazia senza resistenza allude ad una sorta di proceduralismo e di garantismo astratti, che tocca forse il 10% degli abitanti del pianeta, ed esclude tutti gli altri, e che in ogni caso non garantisce neppure la sovranità reale di questo 10% di privilegiati, che sono in realtà la folla d'accompagnamento plaudente di un'oligarchia molto più ristretta.
In terzo luogo, solidarismo. Quando si parla di solidarismo verso altri popoli, classi e nazioni oppresse ci si sente spesso dire che abbiamo già tanti guai e tanti problemi a casa nostra da non potere proprio occuparci dei guai e dei problemi degli altri. Con tutti i disoccupati che abbiamo in Italia, come occuparci anche dei disoccupati kurdi ed albanesi? È questo un discorso che fa molta presa, e che spesso viene confuso con un discorso "razzista". In realtà questo non è affatto un discorso razzista. È del tutto logico che la beneficenza cominci a casa propria. Ma oggi il solidarismo non è un lusso facoltativo, da delegare a chi ha soldi e tempo da perdere, ma è diventato una necessità. In un mondo globalizzato, aiutare gli altri vuol dire aiutare noi stessi. Lo sguardo dell'altro ci rimanda il nostro stesso destino, cui non possiamo sfuggire come lo struzzo che mette la testa sotto la sabbia. 
Ed infine, liberazione. Senza il diritto di liberazione per i popoli e le comunità nazionali, non vi è liberazione neppure per gli individui isolati e per le loro famiglie. Chi scrive resta fedele all'indicazione filosofica originaria di Karl Marx, per cui il fine del comunismo non è in ogni caso una sorta di proletarizzazione universale livellata, guidata da una casta politica di comunisti professionali, ma è la libera individualità, per cui il libero sviluppo di ciascuno è il presupposto del libero sviluppo di tutti. Questa libera individualità, però, non è la semplice 'replicazione' comunista clonata dell'individuo borghese, cui si toglie semplicemente la proprietà privata. Questa libera individualità è arricchita dalla multiforme pluralità delle culture etniche e nazionali. Senza dialogo fra le nazioni, non c'è neppure dialogo fra gli individui, dal momento che l'universalismo di un mondo globalizzato non può essere la cancellazione delle differenze e l'uniformità conformista, rigida o flessibile che sia. L'universalismo è il dialogo delle differenze, non certo un altoparlante che diffonde orwellianamente ad una plebe post-moderna livellata un unico messaggio universale obbligatorio.
Per capire filosoficamente tutto questo, bisogna prima riconoscere la legittimità della questione nazionale. Siamo ancora purtroppo ben lontani da questo riconoscimento. Ma possiamo essere ottimisti sul fatto che una causa giusta, anche se condivisa all'inizio da poche persone, ha di fronte a sé un futuro più promettente del presente.

Costanzo Preve

tratto dalla rivista Indipendenza n° 3 (Nuova Serie), Novembre 1997/ Febbraio 1998


back

 

 

Hosted by www.Geocities.ws

1