Le interpretazioni del Fascismo
Stanley G. Payne




Dai tempi della marcia su Roma, gli studiosi e altri scrittori di storia hanno cercato di fornire un'interpretazione o una teoria in grado di spiegare il fascismo. In quanto unica forma veramente nuova di radicalismo emergente dalla prima guerra mondiale, che sembrava presentare molteplici ambiguità se non determinanti contraddizioni, il fascismo non, si prestava facilmente, come è ovvio, a spiegazioni univoche o a semplici teorie, sebbene ciò non avesse scoraggiato molti commentatori. I primi tentativi di dare un'interpretazione vennero da avversari italiani, come Luigi Salvatorelli e altri liberali, dai socialisti e dai comunisti. Già nel 1922 la questione fu lanciata dal Comintern e, senza dubbio, l'attività principale nel generalizzare il concetto fu portata avanti dai comunisti e da altri esponenti della sinistra con lo scopo di valorizzare l'antifascismo. Il termine "fascista" era stato ampiamente usato in alcuni paesi europei, soprattutto in Spagna, dai primi anni Trenta; esso fu sempre più utilizzata come peggiorativo per gli avversari politici, anche se in diversi casi alcuni lo usarono come simbolo d'onore. Fu ampiamente impiegato in Unione Sovietica come vocabolo con il quale marchiare gli avversari, ma anche come sinonimo di base del nazionalsocialismo tedesco, essendo quest'ultimo una parola scomoda che era loro troppo vicina per lasciare tranquilli i comunisti. Angelo Tasca, un comunista italiano dissidente, osservò che definire il fascismo significava scriverne la storia e, dopo il 1945, la storiografia occidentale si concentrò su studi monografici dei singoli paesi e movimenti. In seguito il "dibattito sul fascismo" degli anni Sessanta e Settanta avviato in particolare da Der Faschismus in seiner Epoche (1963) di Ernst Nolte, ricondusse l'attenzione degli studiosi sul concetto generale, ma non si è mai raggiunto alcun accordo riguardante un'interpretazione o una teoria esplicativa o anche una definizione completa ed esatta.
Le principali interpretazioni del fascismo si sono orientate verso una definizione di comportamento che sta alla base di tale presunto genere di politica, e quindi verso il suo significato globale o, più comunemente, verso le sue fonti o cause primarie. Per comodità, le interpretazioni principali si possono riassumere in tredici categorie, tenendo presente che tali componenti non si eludono a vicenda ma, in alcuni casi, possono coincidere tra foro. Il fascismo è stato considerato un portatore violento e dittatoriale del capitalismo borghese; un radicalismo, unico nel suo genere, del ceto medio; una forma di "bonapartismo" del XX secolo; una tipica manifestazione del totalitarismo del XX secolo; una nuova forma di "policrazia autoritaria"; una rivoluzione culturale; il prodotto di patologie culturali; morali o sociopsicologiche; il prodotto dell'ascesa di masse amorfe; la conseguenza di storie nazionali particolari; una reazione alla modernizzazione; un prodotto della lotta per il progresso o uno stadio della crescita socioeconomica; un fenomeno metapolitico dalle caratteristiche uniche. Infine, alcuni studiosi hanno negato che si possa definire o identificare un fenomeno così generale come un fascismo generico.
Prima di analizzare brevemente ognuna di queste interpretazioni, dovremmo tenere presente che pochi tra coloro che tentano di sviluppare una teoria causale o un concetto esplicativo del fascismo definiscono con esattezza ciò che intendono con tale termine o identificano in modo specifico quali settori o movimenti essi tentino di interpretare, al di là di un riferimento principale che in genere riguarda solo il nazionalsocialismo. L'assenza di una definizione empirica di ciò che viene definito "Fascismo" è stata un impedimento alla chiarificazione concettuale.



Il fascismo come agente violento e dittatoriale del capitalismo borghese

L'idea secondo la quale il fascismo debba intendersi in primo luogo come elemento del "capitalismo", della "grande impresa", del "capitale finanziario", della "borghesia", del "capitalismo monopolistico di Stato" (Stamokap) o di una possibile loro combinazione, è una tra le interpretazioni più vecchie e più ampiamente diffuse, essendo stata utilizzata per molti decenni come teoria comunista ufficiale del fascismo. Fu sviluppata, fino a un certo livello, addirittura prima dell'avvento del fascismo italiano, al fine di dare una spiegazione del distacco di Mussolini dal socialismo ortodosso, e iniziò ad avere validità, con principale riferimento all'Italia, già nel l923, nelle formulazioni del comunista ungherese Gyula Šaš e del russo?tedesco Sandomirsky. Sebbene successivamente comunisti dissidenti o più critici avrebbero dato interpretazioni più complesse ed elaborate, la "teoria dell'agente" fu adottata nel 1924 come interpretazione ufficiale del fascismo, e del nazionalsocialismo tedesco, dalla Terza Internazionale e, a partire dal 1935, fu codificata ufficialmente nella definizione dei "fascismo" come "la palese dittatura terroristica degli elementi più reazionari, più sciovinisti e più imperialisti del grande capitale".I principali esponenti marxisti occidentali di tale concetto, negli anni Trenta, furono R. Palme Dutt e Daniel Guérin.
La teoria comunista dell'"agente" portò con sé anche il concetto di "pan-fascismo" secondo il quale dopo l'avvento dei fascismo In quanto strumento del grande capitale, anche tutte le altre forze che "servivano" il capitalismo sarebbero state "obiettivamente fasciste". Ciò includeva non solo tutte le forze e i regimi dittatoriali di destra ma anche, in maniera prevalente e insidiosa, i socialdemocratici che "collaboravano" con le forze capitaliste all'interno dei sistemi democratici. Già nel 1924 i socialisti divennero "social?fascisti" obiettivamente i più pericolosi perché rappresentavano esplicitamente i lavoratori. Le dottrine "pan?fasciste" e, "social-fasciste" furono modificate solo in parte nel 1935, dopo che la leadership sovietica aveva preso più seriamente in considerazione il pericolo del vero fascismo e a considerare le alternative in maniera più obiettiva.
La teoria dell'"agente" toccò il massimo dell'elaborazione e della completezza dopo la seconda guerra mondiale, soprattutto nella Germania dell'Est, dove lo Stamokap era la dottrina ufficiale. L'interpretazione del nazismo, in particolare, diventò una grande fonte di divergenza tra gli studiosi delle due Germanie, anche se nella Germania dell'Ovest alcuni adottarono la teoria dell'"agente". Questa crebbe nel decennio tra il 1965 e il 1975, il periodo dell'ultima grande fase dell'isteria marxista nel mondo occidentale.
La reductio ad absurdum tutte le teorie dell'"agente" si manifestò quasi simultaneamente in Unione Sovietica, quando alcuni ideologi russi antisemiti, in rapido aumento, svilupparono l'idea secondo la quale il fascismo ? e particolarmente il nazismo ? fosse stato esso stesso un "complotto ebreo". Secondo Trofim Kichko e alcuni altri mitomani russi antisemiti l'idea del giudaismo è l'idea del fascismo mondiale. L'Antico Testamento era fascista; lo erano Mosè, re Salomone e virtualmente tutti gli altri capi ebrei, sin dalle origini. Gli ebrei sono sempre stati aggressori sciovinisti e sterminatori di masse. Hitler e gli altri capi nazisti non sono stati altro che semplici marionette nelle loro mani. Essi sono stati complici di Hitler per l'eliminazione degli ebrei indigenti durante la seconda guerra mondiale, ma il numero degli uccisi è stato di molto esagerato. Il fine di questo complotto era di arrivare a sanzioni internazionali per la fondazione dello Stato di Israele. Ma Israele era un avvenimento secondario; il vero bersaglio era il dominio del mondo.
Questa divenne la teoria finale dell'"agente". Tali interpretazioni sono divenute esse stesse parte della vera e propria idea che pretendevano di spiegare.



Il fascismo come espressione del radicalismo unico nel suo genere del ceto medio

Un diverso concetto di fascismo, in riferimento alle classi sociali, è stato suggerito da alcuni osservatori e studiosi che non consideravano il fascismo un agente della borghesia ma piuttosto lo strumento di alcuni settori del ceto medio, che in precedenza si erano visti negare la condizione di élite nazionale, per forgiare un nuovo sistema in grado di conferire loro una funzione più prominente. Questa interpretazione fu suggerita dapprima da Luigi Salvatorelli nel suo Nazionalfascismo (1923) quando sottolineò il ruolo della "piccola borghesia dall'educazione umanistica" (impiegati statali, coloro che erano professionalmente istruiti) che cercava di ristrutturare lo Stato e la società italiani sia contro l'alta borghesia capitalista che contro gli operai. La sua interpretazione ha ottenuto un notevole consenso dal principale studioso dei fascismo italiano, Renzo De Felice, come anche da Gioacchino Volpe, lo storico ufficiale del movimento, e coincide ampiamente con la tesi di Seymour Lipset secondo la quale il fascismo è il "radicalismo del centro".
Questo approccio spiega il reclutamento sociale di parte della base dì alcuni principali partiti socialisti e inoltre legittima alcuni aspetti del programma fascista, pur essendo limitato nella sua capacità esplicativa perché non può dare una spiegazione del numero di sostenitori fascisti non legati alla classe media in paesi tanto diversi come la Germania, l'Ungheria e la Romania. Né è in grado di spiegare la vera natura e la reale estensione degli obiettivi radicali di leader tanto diversi come Hitler, Déat, Piasecki e Codreanu. Il "radicalismo" del ceto medio', dunque, è la spiegazione di uno tra i più importanti fili conduttori del fascismo, ma è inadeguato a fornirne una teoria generale.


Il fascismo come forma di "Bonapartismo" del XX secolo

L'inesattezza della semplice teoria dell'"agente" divenne palese per molti osservatori perspicaci e obiettivi, compresi alcuni marxisti, durati te i primi anni del fascismo italiano. L'interpretazione del "bonapartismo" da parte di Marx ed Engels, in seguito alla fondazione in Francia del Secondo impero come sistema autoritario sotto Luigi Napoleone nel 1852, fu evocata dal socialista austriaco Julius Braunthal alla fine del 1922 per spiegare come, in una situazione di dispersione sociopolitica ("equilibrio delle forze sociali") una forza nuova potesse creare un potere autonomo non fondato unicamente, sugli interessi di una sola classe sociale, pur garantendo, in campo economico, gli "interessi di classe della borghesia". L'interpretazione "bonapartista" fu elaborata ulteriormente da August Thalheimer, comunista tedesco dissidente, che spiegò il fascismo come prodotto di una crisi politica e sociale, in cui le forme tradizionali di dominio classista non erano più efficaci e in cui le
forze antagoniste si eliminavano a vicenda, permettendo a una nuova forma di dittatura di liberarsi dal dominio di classe. Sebbene il fascismo fosse capace di recare benefici a una classe piuttosto che a un'altra, operò soprattutto come forza politica e poté godere di un successo indipendente transitorio fino a quando il peso di altri fattori non gli si ritorse contro.
Altre varianti o conferme della teoria bonapartista furono proposte da un buon numero di scrittori socialisti, in particolare dall'austriaco Otto Bauer e dal tedesco Rudolf Hilferding. Teorici più tardi del blocco sovietico postbellico, come Alexander Galkin e Mihaly Vajda, accolsero anch'essi alcuni aspetti di questa interpretazione. Non sorprende perciò che i fautori della teoria bonapartista si trovassero generalmente d'accordo sul fatto che l'"indipendenza dello Stato" era maggiore nella Germania nazista che nell'Italia fascista.



Il fascismo come tipica manifestazione di totalitarismo del XX secolo

Era logico che l'avvento al potere di un leader di un movimento autoritario rivoluzionarlo in Italia, capace di creare liti nuovo tipo di dittatura radicale, fosse paragonato alla dittatura rivoluzionaria radicale già al potere in Unione Sovietica. Critici liberali come Mario Missiroli e Luigi Salvatorelli furono i primi, negli anni 1922?23, a commentare l'analogia degli schemi rivoluzionari del fascismo in rapporto al comunismo, mentre nel suo Il Fascio: Sinn und Wirklichkeit des italienischen Fascismus [sic], pubblicato nel 1924, il socialdemocratico tedesco Fritz Schotthöfer dichiarò che il fascismo e il bolscevismo erano "fratelli nello spirito di violenza", assimilandosi l'un l'altro come "due eserciti contrapposti". Quello stesso anno anche Otto Bauer fece notare le convergenze tra i due movimenti, uno avendo istituito e l'altro avendo cercato di istituire una dittatura assoluta, staccata dal dominio delle singole classi sociali. Ciò fu subito sottolineato da molti commentatori e, più tardi, Leon Trotskij andò oltre la sua prima analisi del fascismo (una variazione della tesi bonapartista), per definire la fondamentale somiglianza tra lo "Stato totale" di Hitler e lo stato sovietico: i tratti in comune comprendevano la dittatura assoluta, il terrorismo, la burocrazia centralizzata e l'eliminazione del potere proletario. Trotskij, comunque, non poté adottare in pieno una posizione di "totalitarismo generale" perché parve certo che la borghesia tedesca aveva ampiamente conservato il proprio potere economico.
Anche i socialdemocratici si sentirono costretti a sottolineare con decisione il carattere presumibilmente capitalistico del fascismo,' tanto che la teoria del "totalitarismo generale" fu elaborata in particolare dai liberali non marxisti e dai conservatori, che non avevano alcuna motivazione ideologica per impegnarsi in argomentazioni economicamente riduttive. Il primo studioso liberale che tentò di stabilire in modo sistematico le similitudini tipologiche fu Francesco Nitti nel suo Bolschevismus, Fascismus und Demokratie [sic], pubblicato nel 1923.' Luigi Sturzo fu ancora più categorico, definendo il bolscevismo un "fascismo di sinistra" e il fascismo come un "bolscevismo di destra".' I conservatori tedeschi, come Waldemar Gurian e Friedrich Meinecke, assunsero più o meno la stessa posizione.
Una teoria completa e sistematica dei totalitarismo si sarebbe sviluppata solo dopo il 1945, quando lo spettro di un'Europa dominata dall'hitlerismo venne sostituito da quello di un'Europa dominata dallo stalinismo. L'interpretazione formulata da alcuni teorici politici occidentali suggeriva che il fascismo in generale, ma in modo più specifico il nazionalsocialismo tedesco, non costituiva una categoria o un genere assolutamente unico ma era semplicemente una tipica manifestazione del più ampio e ancor più sinistro fenomeno generale del totalitarismo del XX secolo, che sarebbe durato a lungo dopo la scomparsa dei singoli movimenti e regimi fascisti. Il referto più preciso di questo approccio fu Totalitarian Dictatorship and Autocracy, pubblicato nel 1956 da Carl J. Friedrich e Zbigniew Brzezinski. Esso individuava le caratteristiche distintive del totalitarismo in un'ideologia rivoluzionaria onnicomprensiva, un partito di massa che raccoglieva circa il 10 percento della popolazione totale, una politica di continuo terrore di massa, il monopolio della classe militare e di altre forze armate, una costante manipolazione dei mezzi di comunicazione e il controllo economico centrale.
L'idea di totalitarismo godette di una notevole popolarità durante gli anni Cinquanta, più come interpretazione dei regimi comunisti che fascisti. Gli anni seguenti, comunque, produssero crescenti critiche. The Origins of Totalitarianism (195l) di Hannah Arendt aveva escluso il governo di Mussolini dalla categoria dei veri sistemi totalitari, contestando il concetto secondo il quale il fascismo tendeva in prevalenza verso il totalitarismo. In un importante articolo, Wolfgang Sauer indicò le caratteristiche comuni del fascismo e del nazionalsocialismo con le loro differenze rispetto ai sistemi comunisti, ponendo ulteriori dubbi su un qualche ampio concetto di totalitarismo generale Dagli ultimi anni sessanta, gli studiosi hanno incontrato crescenti difficoltà nel definire in qualche modo il totalitarismo, e molti ne hanno posto in dubbio l'esistenza come categoria di continuo confronto con i sistemi politici. Comunque il modello sarebbe stato ancora utilizzato da altri studiosi.
Durante il disgelo del blocco sovietico, negli anni Ottanta, gli studiosi dei paesi comunisti che analizzavano i regimi fascisti dell'Europa centrale furono sempre più impressionati dalla similitudine delle istituzioni autoritarie sotto il fascismo rispetto a quelle dello stesso blocco sovietico. Essi iniziarono, in modo spontaneo, a riesumare la teoria del totalitarismo generale, forse anche esagerando. Il principale risultato di questa sindrome fu il libro Fashizmut (Fascismo) pubblicato nel 1982 dal più importante dissidente bulgaro, Zheliu Zhelev, ma immediatamente ritirato e soppresso dalla censura bulgara. Questo studio comparato dei regimi di Germania, Italia e Spagna mancava di una totale apertura alla bibliografia occidentale, relativamente ricca, malgrado Zhelev fosse giunto ad una interpretazione del totalitarismo generale per alcuni aspetti fortemente simile a quella di Friedrich e Brzezinski e la estese, in maniera audace, fino a includere anche il modello sovietico.



Il regime fascista come nuva forma di "policrazia autoritaria"

Le prime interpretazioni tendevano a ritrarre il regime italiano e tedesco quali agenti del capitalismo o nuove forme di dittature radicali e centralizzate, sebbene le analisi di diversi socialisti e di uno o due dissidenti comunisti offrissero soprattutto la percezione di una possibile delimitazione di potere tra le forze politiche ed economiche, come nella teoria bonapartista. Quest'ultima tendenza interpretativa fu esposta in The Dual State (194l) di Ernst Fraenkel, che interpretava il Terzo Reich come una inquieta simbiosi di nazismo e capitalismo, con il primo che tendeva al dominio, all'intervento e all'espansione e il secondo che conservava gli elementi delle strutture precedenti e una vita normativa più tradizionale. Fraenkel concludeva che le tendenze espansioniste, violente e dominanti del nazismo, avevano condotto sia all'indebolimento del capitalismo che all'autodistruzione del nazismo stesso. Questa interpretazione assunse una forma più complessa in Behemoth (1944) di Franz Neumann, secondo il quale lo "Stato totale" autoproclamatosi del nazismo poggiava effettivamente su quattro pilastri o blocchi di potere in concorrenza tra loro: il partito, l'esercito, la burocrazia e la leadership economica.
Un approccio di questo tipo fu sviluppato e perfezionato da storici della Germania Occidentale quali Martin Broszat, Hans Mommsen e Peter Hüttenberger, negli ultimi anni Sessanta e negli anni Settanta, cristallizzandosi nel concetto di Hüttenberger di una "policrazia" nazista.Questa si riferisce alla concorrenza tra le strutture semiautonome dell'esercito, dell'élite economica, della burocrazia e del partito, con diverse combinazioni di leader, di gruppi di interesse o sezioni di tali forze. Uno tra i lavori neomarxisti più letti in quegli anni, Fascisme et dictature (1972) di Nikos Poulantzas, tendeva anch'esso in questa direzione. Esso considerava il fascismo un "regime eccezionale" del capitalismo e rifiutava la tesi bonapartista perché attribuiva troppa autonomia ed eccessivo potere centrale allo Stato fascista. Poulantzas considerava i regimi fascisti come divisi tra i blocchi di potere burocratico, politico ed economico, che rappresentavano classi e gruppi di potere distinti. La percezione delle limitazioni del potere statale fu rafforzata anche da studi di vicende locali e regionali sotto il nazismo e dallo sviluppo della Alltagsgeschichte (la storia della vita quotidiana) negli anni Settanta e Ottanta.
In particolare l'interpretazione della Germania nazista come una sorta di policrazia fu contestata non soltanto dai sostenitori della tesi totalitaria, ma anche da coloro che enfatizzavano un approccio "intenzionalista" al Terzo Reich, fondato sulla priorità delle mire ideologiche e della Zielstrebigkeit (la tenacia dei propositi) di Hitler, insieme con la sua virtuale autorità assoluta e onnicomprensiva, anche per le politiche più radicali.



Il fascismo come rivoluzione culturale

Una tra le interpretazioni più chiare, forti e valide del fascismo è la rappresentazione che ne fa George L. Mosse in quanto nuova forma di rivoluzione culturale. Egli ha interpretato il fascismo come il tentativo di promuovere un'ideologia e una cultura nuove e di creare un rivoluzionario "uomo nuovo" al posto della cultura materialista, pragmatica e liberale del XIX secolo. L'approccio di Mosse si basa su un concetto non hegeliano di dialettica tra il mito e la realtà oggettiva e quindi rifiuta l'interpretazione avanzata da alcuni marxisti e liberali di una improvvisa esplosione dell'irrazionale. Il nazionalsocialismo qui è considerato come l'attualizzazione e la cristallizzazione degli elementi di una tradizione specifica all'interno della storia tedesca sin dalla guerra di liberazione contro Napoleone, sebbene non inerente alla storia tedesca dei tempi più antichi. Il fascismo, quindi, non fu semplicemente reazionario, ma piuttosto una ben determinata rivoluzione che proveniva dalla destra e si basava sulla razza e sulla combinazione di concetti mistici, addirittura semiocculti, impiegati per nazionalizzare e mobilitare le masse. La cultura fascista si richiamava fortemente al passato e, al contempo, alla creazione degli eroi della nuova razza, anche se nei fatti la maggior parte dei suoi valori nazionali e razziali si basava su una moralità borghese o tradizionale. Un aspetto importante del progetto fascista riguardò l'attuazione di tali concetti attraverso nuove forme di estetica di massa e di liturgia. Tutti i movimenti fascisti tentarono di creare un nuovo senso di stabilità per le masse attraverso le comunità e il cameratismo e una nuova gerarchia sociale fondata sulla funzione piuttosto che sulla condizione sociale.



Il fascismo come prodotto di patologie culturali morali o sociopsicologiche

Altre interpretazioni pongono molto meno l'attenzione sul contenuto culturale del fascismo e si concentrano invece su ciò che gli studiosi percepiscono come i germi patogeni culturali, morali o sociopsicologici nell'ambiente prefascista, considerati responsabili di aver prodotto il fascismo stesso. Alcuni importanti storici tedeschi e italiani hanno considerato il fascismo il prodotto di una singolare crisi morale e culturale finita con un crollo, mentre le teorie sviluppate da diversi studiosi (soprattutto tedeschi e americani) hanno interpretato il fascismo quale prodotto di valori e schemi socioculturali fondamentalmente autoritari e patologici.



Il fascismo come prodotto del crollo culturale e morale

In Germania e in Italia alcuni storici e filosofi guidati da figure come Benedetto Croce e Friedrich Meinecke hanno ritenuto il fascismo la risultante della frammentazione culturale e del relativismo morale dei valori europei dalla fine del XIX secolo in poi. Secondo il loro approccio la crisi della prima guerra mondiale e le sue conseguenze, producendo un'intensa dispersione economica, conflitti sociali e anomie culturali, condusse a una forma di crollo spirituale che permise l'insorgere di nuove forme di nazionalismo radicale. Una tra le più concrete affermazioni contemporanee di questa interpretazione fu fatta, prima della seconda guerra mondiale, da Peter Drucker. Una variante in qualche modo più radicale si deve a Hermann Rauschning il quale affermava che il deterioramento culturale e politico aveva prodotto una condizione di nichilismo culturale e morale. Il principale contributo marxista a questo approccio fu dato da György Lukács che, pur non abbandonando la teoria dell'"agente", era d'accordo su alcuni aspetti della ultima interpretazione di Mosse e, in parte, anche con gli aspetti rilevati da Croce e da Meinecke. Lukács considerava il nazionalsocialismo come il prodotto di uno specifico processo culturale tedesco irrazionale, che andava dal romanticismo al fascismo culturale e sociale, passando attraverso le dottrine vitalistiche, lo pseudoscientismo, l'antiscientismo e l'amore per la creazione del mito.
Il fascismo aveva una chiara genealogia intellettuale ma la fragilità di un approccio basato solo sulla crisi morale si riconosce nel tentativo di spiegare soltanto quali condizioni permisero alle teorie e ai movimenti fascisti di svilupparsi, senza dare conto delle loro idee, dei valori, delle forme o degli obiettivi specifici. Di contro, nel suo The Ideology of Fascism (1969) A. James Gregor afferma che il fascismo italiano promosse un'ideologia coerente che non era il prodotto di un crollo nichilista ma, piuttosto, la conseguenza di nuove idee culturali, politiche e sociologiche sviluppatesi nell'Europa occidentale e centrale durante gli ultimi anni dell'Ottocento e i primi anni del Novecento.



Il fascismo come prodotto di schemi socioculturali fondalmentamente autoritari e patologici

Numerose intuizioni correlate ma non identiche sono state avanzate da studiosi della psicologia e del sociale, per spiegare il fascismo tramite schemi fondamentali di attitudini socioculturali autoritarie e patologiche. Questo approccio, più intuitivo che empirico, assunse dapprima rilievo attraverso la lettura psicosessuale freudiana radicale proposta in Psicologia di massa del fascismo di Wilhelm Reich, apparso in Germania nel 1934 e poi in Inghilterra dodici anni più tardi. Reich considerava il fascismo come il prodotto della repressione sessuale nella società borghese, frammisto a impulsi aggressivi e di compensazione. Interpretava dunque il fascismo come la conseguenza "naturale" della società borghese radicata nella repressione sessuale, ma lo riteneva in grado di coinvolgere anche altre classi sociali. Dal momento che la cultura della "società borghese" era il prodotto di secoli di civilizzazione occidentale, il numero dei potenziali fascisti sembrava essere ampio. Questa idea, naturalmente, fallì del tutto quando si trattò di chiarire perché la maggior parte delle società borghesi non producessero movimenti fascisti significativi; il voler pretendere che una tale repressione fosse peggiore in Germania non fu provata in alcun modo e la sua estensione all'Italia appare ancora oggi ridicola.
Interpretazioni più importanti sarebbero state presentate in seguito da ex membri della Scuola di studi sociali di Francoforte. In quanto membri di questo ben noto istituto, gli storici della Scuola di Francoforte non avevano preso il fascismo molto seriamente prima del 1933; in quanto marxisti tedeschi dissidenti, ritenevano che il trionfo della rivoluzione socialista fosse inevitabile e che la Germania, più che la Russia, rappresentasse il "futuro storico del mondo". Solo più tardi, in esilio, studiarono il fascismo in modo più serio, ma rimasero legati alla loro vecchia idée fixe di considerare la Germania come rappresentante delle tendenze future. Il fascismo, dunque, sarebbe stato un pericolo per altre società di maggiore importanza durante la "fase finale" del capitalismo.
Una nuova interpretazione socioculturale di uno degli associati, che attirò una notevole attenzione, fu Fuga dalla libertà (1941) di Erich Fromm. Questi sosteneva che il fascismo dovesse essere considerato il prodotto della decadente società del ceto medio dell'Europa centrale, la cui struttura familiare favoriva rapporti sadomasochistici di potere personale. Fromm enfatizzò anche i sentimenti di isolamento, impotenza, anomia e frustrazione.
Theodor Adorno, Max Horkheimer e altri sociologi della Scuola di Francoforte posero un folle accento sull'influenza di una cultura generalmente autoritaria e rigida, che produceva un determinato tipo di personalità definito "personalità autoritaria". Si riteneva che questa avesse creato forti tendenze antisemite, etnocentriche, conservatrici e antidemocratiche emerse in particolare, ma non solo, nell'Europa centrale all'inizio del XX secolo. In diversi scritti Horkcheimer ha coniugato analisi di strutture economiche e modelli psicologici con riflessioni sulla famiglia borghese, sull'insicurezza e su diverse forze economiche, che conducevano all'autodistruzione della ragione e alla sua sostituzione con una "ragione perversa", o soggettiva, in una società che ha incoraggiato le tendenze irrazionali. L'ultimo prodotto della Scuola di Francoforte è stata la filosofia di Herbert Marcuse, che in seguito ottenne un certo favore presso la nuova sinistra degli ultimi anni Sessanta.
Marcuse sosteneva che il fascismo costituiva un'estensione dei termini di produzione che si ritrovano nel capitalismo, rappresentando il culmine di determinate tendenze al suo interno. Più che presentare un'interpretazione del fascismo, Marcuse sembrò semplicemente rispecchiare quel tipo di riflessione che aveva caratterizzato il fascismo nella prima fase.
I sociologi americani Harold Lasswell e Talcott Parsons tentarono un'analisi più empiricamente fondata. L'interpretazione psicologica di Lasswell sottolineava i temi comuni dell'insicurezza e del risentimento del ceto medio. Parsons, invece, sviluppò un ampio discorso che tentava di far coincidere gli effetti dell'insicurezza psicologica, della razionalizzazione economica e sociale, dell'anomia sociale, della perdita di simboli familiari, dell'alienazione generale, della reazione contro il capitalismo e del pensiero razionalista con le condizioni generali della storia, della società, della cultura e dell'economia tedesche recenti.'
Lo studio di Parsons coinvolgeva molti aspetti dimostrabili, ma in generale la debolezza della maggior parte di queste teorie stava nel loro contenuto puramente speculativo e non verificabile, in particolare nei casi di Fromm e Reich e, soprattutto, nella natura riduttiva delle idee sessuali di quest'ultimo che non possono essere metodologicamente applicabili ai problemi principali. Le componenti della "personalità autoritaria" sono più empiriche, ma le indagini che ne sono derivate non sono state in grado di sostanziare una qualche chiara affermazione sul ceto medio o sui tratti della personalità centro-europea di questo periodo e non sorprende che uno studio empirico abbia trovato personalità comuniste tanto "autoritarie" quanto quelle dei fascisti.



Il fascismo come prodotto dell'ascesa di masse amorfe

Una interpretazione sociologica in qualche modo correlata ha considerato il fascismo come il prodotto di singolari mutamenti qualitativi all'interno della società, mentre la tradizionale struttura classista cedeva il posto a una popolazione ampia, indifferenziata e atomizzata: le "masse" della società urbana industriale. Questa idea fu avanzata per la prima volta da José Ortega y Gasset ed è stata riformulata in diversi modi da Emil Lederer, Talcott Parsons e Hannah Arendt e, forse in maniera più puntuale, da William Kornhauser. Essa enfatizza la natura irrazionale, anti?intellettuale e viscerale del richiamo fascista sull'"uomo della folla" e quindi è un parallelo e un complemento delle teorie del "crollo culturale".
Questo approccio tende però a offuscare il ruolo di un contenuto ideologico pratico e pertanto i validi appelli agli interessi tangibili apparivano nei programmi e nelle pratiche dei movimenti fascisti, come anche il livello in cui molti loro sostenitori erano ancora identificati e definibili come membri di settori sociali o strutture istituzionali. Inoltre esso difetta nel distinguere tra la natura della "società di massa" nel contesto dell'Europa centrale e una qualsiasi altra struttura collettiva della società industrializzata.



Il fascismo come conseguenza di storie nazionali particolari

Diversi studiosi e storici hanno cercato di ritrarre il fascismo e il nazismo come caratteristiche forme del disordine italiano e tedesco, emerse da valori sociali e culturali carenti e da istituzioni radicate nella storia precedente di questi paesi. Un approccio del genere non può essere del tutto sottovalutato, ma i suoi sostenitori hanno perduto consensi a causa della relativa superficialità delle analisi delle due storie nazionali incapaci di sviluppare un confronto adeguato con altri paesi con caratteristiche e problemi simili, anche se in grado minore.
É chiaramente utile isolare quelle nazioni che hanno prodotto movimenti fascisti significativi per determinare in modo esatto ciò che avevano in comune e si tenterà di farlo nel capitolo 15. La letteratura della prima ora, comunque, mancava di obiettività e di specificità analitica.



Il fascismo come reazione alla modernizzazione

La vecchia argomentazione secondo la quale il fascismo era semplicemente irrazionale e incomprensibile in termini normali visse una nuova svolta in anni più recenti da parte di studiosi occidentali, che lo interpretarono come espressione di resistenza alla "modernizzazione", pur variamente definita. Essi consideravano il fascismo come reazione in primo luogo ai tratti fondamentali della società liberale occidentale, quali l'urbanizzazione, l'industrializzazione, l'istruzione liberale, il materialismo razionalista, l'individualismo, la differenziazione sociale e l'autonomia pluralista, per cui catalogavano il fascismo come naturalmente avverso alla modernizzazione in sé. Henry A. Turner Jr. ha offerto la definizione più chiara di questo punto di vista, mentre Wolfgang Sauer ha interpretato il fascismo come il movimento politico dei "perdenti" all'interno del processo di modernizzazione. Barrington Moore Jr., impiegando una definizione molto elastica di fascismo, ha affermato che questo era il prodotto di un aberrante e distorto processo di modernizzazione controllato da élite rurali e militari, anche se questa tesi è difficile da dimostrare a livello empirico. Ernst Nolte ha asserito che il fascismo era, fra l'altro, l'espressione della resistenza alla "trascendenza" moderna, un concetto filosofico forse non disgiunto da quello della modernizzazione delle scienze sociali.
Un altro approccio interpretativo riconosce che il fascismo ha impiegato tecnologie e metodi del tutto moderni, ma ritiene che questi fossero accolti essenzialmente per fini antimoderni. Tale argomentazione è presentata in Reactionary Modernism (1984) di Jeffrey Herf, che sottolinea in particolare il fascino della tecnologia. Detlev Peukert si è occupato prevalentemente delle politiche sociali e culturali naziste, moderne per stile e tecnica ma, secondo la sua interpretazione, regressive nei contenuti.' Hans?Dieter Schäfer ha applicato un simile approccio alla cultura popolare nazista e queste ambiguità sono state discusse nei lavori di Hans?U1rich Thamer e di Horst Matzerath e Heinrich Volkmann.



Il fascismo come modernizzazione o spazio della crescita socioeconomica

Una interpretazione diametralmente opposta non solo sottolinea la moderna tecnologia dei fascismo, ma ne esalta anche le funzioni e gli obiettivi fondamentalmente tendenti al moderno. Un approccio di questo tipo è stato esposto per primo, in un saggio, da Franz Borkenau, che nel 1933 interpretava il fascismo italiano come una sorta di "dittatura di sviluppo". In quegli anni questa era un'interpretazione relativamente isolata, ma il concetto riemerse venti anni dopo la sconfitta della Germania nazista e fu influenzato da idee generali concernenti gli imperativi politici e strutturali della modernizzazione economica, unitamente alle recenti esperienze dei nuovi paesi emergenti.
Secondo il concetto degli stadi di crescita, il processo di modernizzazione e di industrializzazione ha teso di frequente a produrre aspri conflitti interni, dal momento che l'equilibrio del potere si sposta tra i diversi gruppi sociali ed economici talvolta minacciandoli. Coloro che propendono per questo approccio si differenziano dai marxisti per non saper ridurre il conflitto a una lotta del capitale contro i lavoratori, e nel definirlo in maniera più ampia attraverso una grande varietà di forze sociali e strutturali e di interessi nazionali.
Due importanti esponenti di questo approccio sono A.F.K. Organski e Ludovico Garruccio (uno pseudonimo). Organski ha suggerito che una situazione potenziale per il fascismo emerge nel momento in cui il settore industriale dell'economia inizia dapprima a uguagliare, in grandezza e forza lavoro, il settore primario, creando i presupposti per quegli scontri violenti che sono anche causa di un nazionalismo radicale e di un potere autoritario. Il problema inerente a questo concetto è che il suo autore non ha saputo definirlo in modo sufficiente sì da renderlo applicabile in maniera univoca all'Italia e agli altri paesi che hanno avuto una esperienza "fascista", e, in quanto tale, non può essere applicato alla Germania, né l'autore tenta di farlo. La maggior parte dei paesi che sono passati attraverso questo stadio di crescita non ha mai sperimentato niente che potesse essere chiamato fascismo.
Forse il più serio tentativo di comprendere il fascismo attraverso ampi schemi comparativi di modernizzazione è L'industrializzazione tra nazionalismo e rivoluzione (1969) di Garruccio. Il concetto fondamentale sottolinea che tutto quanto era conosciuto come fascismo rappresentava la variante dell'Europa centrale di una comune esperienza di crisi, vigente normalmente nei governi autoritari e che aveva accompagnato lo sforzo delle nazioni moderne o, nel caso della Russia, degli imperi, di fondare identità e potere su una base moderna, per superare il conflitto interno e completare la modernizzazione sociale ed economica. Questo concetto è molto stimolante e potrebbe aiutare a spiegare il rapporto del fascismo con il comunismo e con le dittature dei Terzo Mondo, ma non riesce a dare una identificazione o una spiegazione dei tratti storici precipui del fascismo europeo.
Sia il sociologo Ralf Dahrendorf che lo storico sociale David Schoenbaum hanno esaltato gli effetti modernizzanti del Terzo Reich e dell'esperienza bellica sulla società tedesca. Essi non ritengono che il nazionalsocialismo abbia costituito un tentativo pianificato e cosciente di modernizzazione, ma hanno affermato che gli effetti del governo di Hitler, combinati in particolare con le profonde alterazioni portate dalla seconda guerra mondiale, ebbero innegabilmente effetti modernizzanti sulla società tedesca.
Altri studiosi riconoscono tutto questo, anche se principalmente in rapporto all'Italia, e distinguono tra le "due facce" del fascismo. La prima, in alcuni paesi sottosviluppati, ebbe lo scopo e anche l'effetto di accelerare la modernizzazione, mentre la seconda, in Germania e in altri paesi, fu regressiva e fondamentalmente antimoderna.
Renzo De Felice, il maggior storico del fascismo italiano, è ampiamente d'accordo con questo approccio. Egli ritiene che il fascismo italiano abbia origini progressiste e rivoluzionarie, derivando dall'Illuminismo e dalla Rivoluzione francese, mentre considera il nazismo antimodernista e regressivo. De Felice ritiene che il fascismo sia stato il veicolo della piccola borghesia emergente, tipico prodotto della modernizzazione, e distingue in modo netto tra il movimento e il regime, quest'ultimo evidenziatosi come "la politica di Mussolini". Il movimento fascista, dunque, era rivoluzionario in quanto mobilitava le masse per una "società nuova" e un "uomo nuovo", cosa che il regime fascista tentò di raggiungere anche tramite i tipici mezzi di educazione moderni.
A. James Gregor ha assunto la posizione più audace, almeno riguardo al fascismo italiano. Ha affermato che questo ha sviluppato un'ideologia coerente basata su un nucleo stabile di nuove idee sociali, politiche e filosofiche, e che il fascismo, più del comunismo, fu in diverse manifestazioni la tipica rivoluzione del XX secolo, essendo il primo a introdurre tecniche e concetti nuovi e coerenti di rivoluzione nazionale, di sviluppo accelerato e di dittatura integrata. Il fascismo italiano viene identificato in particolar modo come prototipo della dittatura progressiva di mobilitazione di massa, progettata per raggiungere un'ampia soglia di modernizzazione e quindi un modello per la Spagna, la Grecia e diversi paesi del "Terzo Mondo", che sotto l'autoritarismo hanno raggiunto un significativo livello di sviluppo.



Il fascismo come fenomeno metapolitico dalle caratteristiche uniche

Alcuni tra i più attenti studiosi del fascismo si sono rifiutati di classificarlo in semplici termini politici, sociali o economici, considerandolo piuttosto un fenomeno storico dalle caratteristiche uniche, che ha tentato di sintetizzare o rappresentare simbolicamente i tratti specifici di una distinta tendenza storica di inizio Novecento. Ernst Nolte ha dunque respinto la maggior parte delle prime interpretazioni perché si occupano di fattori che sono secondari oppure irrilevanti. Egli ha considerato il fascismo in primo luogo come fenomeno metapolitico, vale a dire come il prodotto di determinate aspirazioni politiche, culturali e ideologiche insorgenti all'inizio del secolo e che miravano a creare un ordine radicalmente nuovo, con nuovi valori e dottrine proprie, rifiutando i progetti esistenti di "trascendenza" e cercando una rivoluzione alternativa della destra. Per lui il fascismo è un prodotto dell'epoca delle guerre mondiali e del bolscevismo, che ha cercato di contrastare quest'ultimo adottandone alcune forme e tecniche.
Pur essendo pochi gli studiosi che hanno accettato l'interpretazione di Nolte, altre figure importanti hanno suggerito proprie intuizioni metapolitiche di supporto. Quasi in coincidenza con la pubblicazione del primo libro di Nolte sul fascismo, Eugen Weber affermava che il fascismo era di per sé un progetto rivoluzionario unico e specifico. George L. Mosse, il principale storico della cultura nazista e prenazista, interpreta il fascismo come una rivoluzione della destra con obiettivi trascendentali e contenuti specifici, culturali e ideologici propri, non semplicemente reattivi od opportunistici. Similmente, per certi aspetti, il filosofo cattolico Augusto Del Noce vede il fascismo come una forma rivoluzionaria di alcuni nazionalismi europei durante la "prima fase di secolarizzazione", quando il laicismo moderno era ancora in grado di progettare obiettivi idealistici e semitrascendentali, prima della completa vittoria del materialismo e del consumismo. Egli interpreta il fascismo italiano come il concorrente del leninismo, e il più radicale nazionalsocialismo tedesco come la controparte dello stalinismo, costituendo in tal modo due fasi differenti del radicalismo dei XX secolo.
L'interpretazione di Roger Griffin corre parallela ma diverge anche da quella di Nolte. Per Griffin il fascismo era un movimento rivoluzionario epocale di un ultranazionalismo populista palingenetico.
Non si trattava dell'agente di una qualche altra forza o il riflesso di una qualche classe sociale in particolare, ma era il prodotto di condizioni storiche, politiche, sociali e culturali specifiche insorgenti sul piano ideologico dalla crisi di fine secolo. Esso raggiunse una certa importanza solo in alcuni paesi caratterizzati da potenti forze nazionaliste preesistenti, da una limitata esperienza di istituzioni democratiche liberali e da grandi crisi nel periodo tra le due guerre, che avevano aperto un nuovo spazio politico significativo. Le principali sollecitazioni psicologiche e psicosociali del fascismo non erano semplicemente la paura o l'insicurezza, ma talvolta rappresentavano l'opposto del "nichilismo", poiché scaturivano dal bisogno di trovare significati, valori e autotrascendenza, come in tutti i più grandi movimenti religiosi o rivoluzionari. In quanto espressione radicale dei nazionalismi europei in una determinata epoca storica, non ci si può attendere che il fascismo riemerga senza che ricorrano condizioni simili, cosa improbabile. L'interpretazione del fascismo di Griffin è troppo ricca per essere adeguatamente riassunta in poche parole e fra tanti dibattiti accademici è tra le più degne di una attenta lettura.
Ancora un'altra interpretazione vede il fascismo (e a volte tutti i movimenti rivoluzionari utopici moderni) come "religione politica", gnostica, mistica e totalitaria, al di là di normali Concetti e argomenti politici. Questa è stata applicata in particolare al fascismo italiano e al nazionalsocialismo tedesco, ma anche al comunismo sovietico, dal filosofo austriaco Eric Voegelin nel suo Politische Religionen (1938) pubblicato alla vigilia dell'entrata dei nazisti a Vienna. Con una tendenza simile, James Rhodes ha visto il nazionalsocialismo come "una moderna rivoluzione millenaristica". Dopo il 1945, alcuni neofascisti hanno affermato che il fascismo era soprattutto un "mito'', un nuovo sistema di ideali e di valori. Nella sua forma definitiva, certamente, il fascismo ha costituito la rivoluzione morale e culturale più estrema del XX secolo. Esso era l'unica ideologia che ribaltava le dottrine dell'egualitarisrno presente o latente sia nel capitalismo che nel socialismo.



L'impossibilità di poter dare una definizione generica di fascismo

Infine, alcuni studiosi nominalisti, hanno concluso che il fascismo generico è una proiezione dell'immaginazione, dal momento che i diversi movimenti cosiddetti fascisti sono troppo dissimili per formare una categoria comune. Per quanto rigidamente o uniformemente si determina la categoria del fascismo generico, questi studiosi potrebbero avere ragione. L'affermazione più diretta ditale posizione si deve a Gilbert Allardyce, ma è stata sostenuta, a vari livelli, da Karl D. Bracher e Renzo De Felice (i quali non rifiutano la possibilità di costruire in modo analitico un comune "minimo fascista" astratto, pur dubitando della sua utilità), da John Lukacs e altri.

extracto de: S.G. Payne, Il fascismo, 1914-45, Roma, Newton.


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