Il fascismo come problema storico
Intervista ad Alberto De Bernardi

a cura di Antonino Criscione

 
Con questo libro (Alberto De Bernardi, Una dittatura moderna. Il fascismo come problema storico, Milano, Bruno Mondadori, 2001, pp.322, £ 28.000) Alberto De Bernardi propone una riflessione sulle questioni legate all’analisi e all’interpretazione del fascismo come momento importante nella storia italiana del Novecento. La crisi del "paradigma antifascista", l’indubbio successo non solo editoriale dell’opera di Renzo De Felice, l’"uso pubblico" di quest’ultima in funzione di una svalutazione dell’antifascismo e quindi dei fondamenti della Costituzione repubblicana, costituiscono il punto di partenza della riflessione e disegnano lo scenario in cui si colloca questa proposta. Se a lungo la storiografia italiana si è misurata soprattutto con la domanda "come è potuto accadere ? ", e quindi con i temi della nascita e dell’avvento del fascismo, ciò è stato il risultato di un approccio di tipo etico-politico e di una visione del fascismo come "parentesi", o come "reazione" antimoderna, priva di consistenza ideologica e ostacolo allo sviluppo sociale ed economico del paese. L’abbandono di questi presupposti e la considerazione critica del fascismo come un fenomeno politico e sociale prodotto dalle dinamiche del Novecento, e in primo luogo dalla Grande Guerra, portano inevitabilmente a non considerare il ventennio del regime come una parentesi tra il suo avvento e la sua fine rovinosa ma ad interrogarsi sulle sue caratteristiche intrinseche e quindi sulla storia del fascismo e della società italiana tra la prima e la seconda guerra mondiale. A partire da queste considerazioni, sviluppate e argomentate nel corso del primo capitolo ("Il fascismo: un problema storiografico aperto"), vengono poi indagati i quattro momenti principali del fascismo come fenomeno storico: le origini, la costruzione del regime, l’affermazione del progetto totalitario, il declino e il crollo. Nel corso dell’intervista che qui pubblichiamo A. De Bernardi discute alcuni temi centrali del suo libro.

 

 

Totalitarismo

 D.: Un tema importante, che attraversa tutto il libro, è il confronto con la categoria di totalitarismo, della quale si mette in evidenza da una parte l’insufficienza dall’altra parte l’utilità per una piena comprensione del fascismo.

R.: Il punto da cui io sono partito è una riflessione sulla categoria del totalitarismo e sulla legittimità ad applicarla al regime fascista. Perché questo approccio? Perché esso chiama in causa non solo la necessità di valutare il carattere effettivamente propositivo della categoria "totalitarismo", ma anche perché, una volta affermato che questa categoria abbia una sua legittimità, è possibile avviare un confronto e una valutazione comparata di tutti i totalitarismi moderni, il fascismo, il nazismo, lo stalinismo, che non sia votata ad un destino negativo, e cioè quello di affermare che questi tre regimi sono la stessa cosa, ma che sia invece votata ad un destino positivo, e cioè individuare quali sono i termini possibili di una comparazione tra regimi che hanno punti di contatto e, come tutte le esperienze storiche, originalità e dissimiglianze.

Il fatto che fascismo, nazismo e comunismo, si definiscano in quanto regimi comparabili non comporta affermare che essi siano la stessa cosa, significa soltanto dire che essi sono comparabili. Per poter dire ciò bisogna però astrarre da questi regimi una categoria generale che li renda tali e che sia depositaria di alcuni contenuti storici che effettivamente compaiano in tutti i regimi. Per fare questo bisogna da un lato riflettere sul fatto che la categoria di totalitarismo non è una categoria neutrale, ma è nata in una certa fase storica nella quale è servita a un uso pubblico della storia fortemente orientato, e quindi bisogna liberarla dall’uso che ne è stato fatto, e che era un uso tutto interno alla guerra fredda. Bisogna quindi ritornare alle categorie arendtiane del totalitarismo, più ampie, più larghe, e quindi assai più utili in sede storiografica Si tratta cioè di storicizzare la categoria stessa del totalitarismo. Ovviamente il carattere ideologico che essa ha avuto non ha giovato al suo uso, e quindi non c’è dubbio che recuperarla significa liberarla da questi condizionamenti e da queste incrostazioni per andare all’essenza delle cose.

Ma noi dobbiamo anche liberarci da una caratteristica della cultura storiografica italiana che accomuna, per usare queste parole che non definiscono niente, "revisionisti" e "antirevisionisti" sul fatto che il fascismo sia un unicum, che il fascismo italiano non sia comparabile con nessun altro regime coevo.

Io credo che in questo caso bisogna prendere sul serio i protagonisti: se c’è un regime che si è definito come totalitario, questo è il regime fascista. Mussolini fin dagli anni ’20 ha detto che il regime che intendeva costruire era totalitario. Questa definizione offre dunque una chiave di lettura che non può rimossa e che serve invece a penetrare nella storia del fascismo con una bussola euristicamente molto utile.

 

Fascismo e contadini

 D.: Un altro tema importante, che in qualche modo si collega a questo discorso ma in parte lo travalica, è quello del rapporto tra fascismo, totalitarismo e contadini o aristocrazia terriera. Tu riprendi la riflessione di Barrington Moore ( Barrington Moore jr., Le origini sociali della dittatura e della democrazia. Proprietari e contadini nella formazione del mondo moderno, Torino, Einaudi, 1966) sul rapporto tra le classi sociali legate all’agricoltura e lo sviluppo effettivo o mancato della democrazia in varie parti del mondo. Fai riferimento inoltre a Serpieri (A. Serpieri La struttura dell'agricoltura italiana,Roma, Edizioni italiane, 1947), che sottolinea come tra il 1911 e il 1921 si sia verificato in Italia un consistente spostamento della proprietà fondiaria dai ceti nobiliari o borghesi ai contadini. A questo proposito mi sembra che Salvatore Lupo, nel suo recente libro (S. Lupo, Il fascismo. La politica in un regime totalitario, Roma, Donzelli, 2000, pp. 85-98) prenda le distanze dalla tesi che istituisce un rapporto molto stretto tra fascismo e mobilitazione delle classi medie agricole, e cioè questi nuovi proprietari che emergono negli anni intorno alla prima guerra mondiale. D’altro canto il rapporto con i contadini è un elemento fondamentale nell’ascesa del nazismo, e ha un forte rilievo nel caso dello stalinismo. Tu affermi che "Il fascismo divenne […] il partito della piccola borghesia contadina, nazionalizzata dalla guerra" (A. De Bernardi, Una dittatura moderna..., cit., pg. 138). Come si spiega il fatto che uno degli attori sociali più rilevanti nell’affermazione del regime fascista sia il primo a subire le conseguenze negative delle sue scelte sia dopo il 1926 sia dopo la crisi del 1929, quando cioè "il 30 per cento dei contadini diventati proprietari nel primo dopoguerra fu costretto a vendere il proprio fondo" (A. De Bernardi, Una dittatura moderna..., cit., pg. 255)?

R.: Ci sono due elementi che noi dobbiamo tenere presenti: uno è di carattere storico politico, e uno è di carattere socioeconomico; uno ha una scala nazionale, e uno ha una scala generale. C’è un problema che riguarda il rapporto delle forze politiche italiane con la formazione di questa nuova borghesia rurale che cresce sull’onda della guerra, sull’onda della smobilitazione postbellica, sull’onda del fatto che la proprietà fondiaria accentua le sue tendenze già visibili dalla fine del secolo XIX a ruralizzarsi e a contadinizzarsi.

La guerra enfatizza questo fenomeno. C’è questa borghesia rurale che comincia a contare, con i proprio nuclei familiari qualche milione di individui e che tra l’altro è collocata in aree geografiche calde, la quale ha un problema di rappresentanza politica e ha un problema di difesa della proprietà. Su questo coacervo sociale istintivamente agiscono due forze, che ne capiscono l’importanza: in parte sono i socialisti, in parte sono i fascisti. I socialisti non riescono a liberarsi però da una rappresentanza esclusivamente bracciantile, e nel momento in cui i braccianti entrano in conflitto con queste forze non soltanto in termini di lotta sindacale ma anche nella complessa gestione delle amministrazioni locali, nel controllo del territorio, nella definizione degli spazi che il mondo rurale riesce a garantire all’articolazione dei suoi soggetti, qui i socialisti perdono. Noi vediamo una cosa molto semplice: i mezzadri e i coloni tra il 1919 e il 1920 stanno nel socialismo italiano ma dopo non più. Il caso di Ferrara, dove si sviluppa uno dei più grandi fenomeni di rassismo rurale è emblematico: qui vediamo che già nel ’21 la rappresentanza politica di questi nuovi ceti, che rifiutano quella che allora veniva chiamata "la dittatura socialista", si orienta in direzione del partito fascista, che acquisisce la rappresentanza di questi ceti proprio perché non fa un discorso conservatore volto a tutelare gli interessi rurali e agrari, ma nonostante l’appoggio degli agrari fa un ragionamento volto alla promozione di questi strati, tanto è vero che tutto il conflitto che si apre nel fascismo tra rappresentare gli agrari e rappresentare queste nuove classi è uno degli elementi cruciali della polemica dei rassisti e dei "sinistri" con il centro milanese, con Mussolini stesso.

Qui si gioca una partita molto complessa. Questo per gli anni Venti. E’ chiaro che poi le politiche agrarie del fascismo furono orientate ad una pluralità di fini. Innanzitutto c’è un elemento cruciale, che riguarda l’Europa e il mondo, cioè il fatto che negli anni Venti e Trenta l’agricoltura diventa un’area assistita del sistema economico, e questo vale anche per l’Italia. L’afflusso di risorse non va soltanto nelle mani degli agrari; si verifica, attraverso vari canali politici ed economici, un afflusso di risorse anche in direzione di questi nuovi proprietari. La bonifica, la battaglia del grano, sono tutte politiche che in qualche modo tendono anche a favorire questi strati sociali. Poi c’è un problema molto di fondo, e qui è l’incompiutezza di cui prima parlavamo. Non c’è dubbio che la linea dei tecnocrati alla Serpieri è volta alla modernizzazione delle campagne, che in qualche caso tende ad avere in questi ceti nuovi il punto di riferimento e a usarli in qualche modo contro la vecchia rendita. Però nel contempo il fascismo è anche il movimento che ha raccolto l’adesione degli agrari e qui si apre un contenzioso, un conflitto. La fine stessa di Serpieri, la fine delle politiche di modernizzazione del Mezzogiorno, la fine all’interno della distribuzione di risorse all’agraria di fondi che andavano in direzione della modernizzazione delle campagne, sono tutti segnali che mettono in evidenza come si fosse verificato un vero conflitto di interessi tra ceti medi rurali e grande proprietà fondiaria all’interno del quale il fascismo non ha saputo giocare un ruolo dirimente e alla fine è stato travolto dalla forza e dal peso che gli agrari avevano nel mondo rurale e di conseguenza negli equilibri "di classe" sui quali stava in piedi il regime. Non bisogna dimenticare però che soprattutto nella Pianura Padana, nonostante la modestia dei risultati delle politiche di "sbracciantizzazione", gli interventi volti a trasformare i braccianti in compartecipanti e tutti gli interventi volti alla promozione della cooperazione rurale in funzione del potenziamento delle capacità economiche di questi strati intermedi.

Certo, le istanze iniziali del movimento fascista negli anni Trenta si perdono, su questo non ci sono dubbi. Fino agli anni Venti l’agricoltura era stata in qualche modo una leva di equilibrio della bilancia dei pagamenti, aveva avuto un ruolo attivo, pur in un paese in via di industrializzazione, nel sistema economico, dopo perde questo significato e diventa o una riserva indiana di forza lavoro, o comunque un settore assistito.

 

La periodizzazione

D.: Questo è un elemento interessante anche rispetto alla periodizzazione che proponi: "compromesso bonapartista" (1922-1924), "compromesso autoritario" (1925-1929), "progetto totalitario" (dal 1930 in avanti).

R.: La mia impressione è questa: non c’è dubbio che dal 1922 fino alle "leggi fascistissime" non è chiaro quale sarà il destino del fascismo. Tutto sommato per una lunga fase l’idea che il notabilato liberale aveva alimentato e promosso, che era quella di utilizzare il fascismo come "guardia bianca" per ristabilire l’ordine e poi di metterlo da parte una volta ottenuto il risultato, è un progetto reale e perseguito. Un progetto che lo stesso Mussolini ha presente e teme moltissimo, perché è chiaro che tutto il dilemma tra "rivoluzione" e "compromesso" che divide il fascismo tra il 1922 e il 1926 ha un fondamento di verità, per il semplice fatto che l’appoggio che la borghesia, i liberali, il vecchio establishment, erano disposti a dare a Mussolini presupponeva esplicitamente il rinnegare la "rivoluzione" e quindi di rientrare progressivamente nell’alveo del vecchio sistema liberale. Croce è emblematico da questo punto di vista, lui l’ha sempre sperato fino al 1925. E’ proprio quando Mussolini non ottempera al patto bonapartista, dopo l’assassinio di Matteotti e le "leggi fascistissime" e quindi sposta in avanti il carattere del regime in linea esplicitamente autoritaria, proponendo un cambiamento radicale dello Stato e mettendo in soffitta lo Statuto albertino e così via, che gli uomini come Albertini e Croce passeranno da posizioni di neutralità o di appoggio a posizioni "antifasciste". Prima no. E’ chiaro quindi che questo è un passaggio cruciale, che dà il senso dell’evoluzione politica che attraversa il fascismo. Si tratta di un’evoluzione politica che non si conclude nel 1929, perché nel 1929 il "compromesso autoritario", così l’ho chiamato, ha un ulteriore salto in avanti perché Mussolini decide di perseguire il suo disegno totalitario.Ed è a questo punto che si apre la fase del totalitarismo incompiuto di cui ho parlato prima.

D.: C’è una periodizzazione abbastanza simile a questa di cui stiamo parlando, ed è quella delineata a livello europeo da K. Polanyi (K. Polanyi, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Torino, Einaudi, 1974, pp.297-310): dal 1917 al 1923 (rivoluzione e controrivoluzione); dal 1924 al 1929 (il boom economico, il piano Dawes, etc.); dal 1929 in poi (il fascismo non più la caratteristica di un governo autoritario in Italia, ma una soluzione alternativa possibile al problema della società industriale). C’è un’anomalia italiana, dice Polanyi, perché soltanto in Italia i conservatori non furono in grado di liquidare da soli il movimento operaio, mentre in altri paesi essi riuscirono benissimo a fare ciò. L’altra cosa interessante che dice Polanyi è che "Se mai vi è stato un movimento politico che ha risposto alle necessità di una situazione obiettiva senza essere il risultato di cause fortuite, esso fu il fascismo." ( K. Polanyi, La grande trasformazione, cit., pg. 297); e più avanti: "Il fascismo fu una possibilità politica sempre presente, quasi una reazione emotiva istantanea, in ogni comunità industriale dopo gli anni Trenta. Si può chiamarlo una "mossa" piuttosto che un "movimento" per indicare la natura impersonale della crisi i cui sintomi erano spesso vaghi e ambigui." (K. Polanyi, La grande trasformazione, cit., pg. 299).

R.: Polanyi, insieme con Barrington Moore sono i punti di riferimento del mio modo di interpretare il fascismo. Perché lo dico? Perché innanzitutto Polanyi, e anche Barrington Moore, toglie dal campo un equivoco che vi è sempre stato nella riflessione storiografica italiana, e cioè l’idea che il fascismo sia stato un "accidente" della storia italiana e della storia europea, non tanto nel senso della "invasione degli Hyksos" per dirla in termini crociani , ma piuttosto di un fenomeno che ha niente a che vedere con i problemi che stavano di fronte alla società avanzata europea e nordamericana nel dopoguerra. Invece il fascismo è una risposta a questi problemi, ci piaccia o non ci piaccia. Anzi, fino a metà degli anni Trenta, dal 1929 al 1935, è "la" risposta, perché le alternative cioè il bolscevismo, e New Deal, sono per motivi diversi assolutamente deboli e scarsamente "competitive".

In Europa, di fronte ai problemi della crisi, dello sviluppo delle forze produttive, della inclusione e di nazionalizzazione delle masse, la risposta risolutiva è il fascismo, non il nazismo (e vedremo poi perché), cioè un regime totalitario a fortissima carica "sviluppista" e a forte carica nazionalizzatrice, perché l’elemento populista è molto presente nel fascismo. Ho fatto quell’accenno al nazismo perché secondo me il discorso che fa Polanyi della "mossa" è perfettamente aderente al nazismo. Il nazismo è la "mossa" nel momento di più grande marasma e in uno dei paesi dove la crisi era stata verticale, ma in Italia il fascismo non è una "mossa" perché si impone non sull’onda della crisi ma sull’onda del dopoguerra, cioè sull’onda di quel fenomeno di disgregazione dell’Europa fra il 1917 e 1923, nel quale è vero che cozzano rivoluzione e controrivoluzione, ma questa controrivoluzione è un disegno moderno, non è un disegno regressivo, è un disegno cioè che mette in campo la possibilità di risolvere gli stessi problemi che la rivoluzione avrebbe voluto risolvere: sviluppare le forze produttive, inglobare e favorire le classi lavoratrici e i contadini. Il fascismo queste stesse cose voleva. Certo, innanzitutto c’è un problema di classe dirigente, di ambiguità ideologica dietro il fascismo; c’è un problema che riguarda il fatto che l’Italia è un paese ancora in via di sviluppo, non è nel cuore dell’Europa. Da questo punto di vista è vero che il fascismo segnala una debolezza delle élites politiche. Tutta la riflessione molto interessante di Zeev Sternhell sul fatto che è la Francia la patria del fascismo è vera, però lui dimentica di segnalare un dato, che la borghesia francese non sceglie il fascismo. Ecco perché il fascismo [in Francia] rimane un fenomeno minoritario di movimenti, di gruppi che hanno pur un’influenza politica ma che se non ci fosse stata la sconfitta militare non avrebbe mai avuto la possibilità concreta di accedere al governo e quindi di diventare sistema politico. Perché lì la borghesia risolve da sola il problema, diciamo così, dell’ordine pubblico, del controllo sociale con un’ipotesi che potremmo chiamare radical-conservatrice, fortemente ancorata ai valori della democrazia e della Terza Repubblica. Anche in Inghilterra viene messa in campo una soluzione della crisi postbellica nella quale la classe dirigente borghese non abdica alla democrazia,affindandosi a movimenti eversivi di destra, pur presenti in quel paese.

In Italia invece è proprio questo che accade: la borghesia liberale rinuncia allo stato di diritto e alla libertà democratiche perché non ha un progetto di democratizzazione della società capace di fare convivere conflitto e inclusione sociale al di fuori di un disegno autoritario.

 

Una religione politica

D.: Un altro spunto di discussione sempre a proposito dell’analisi che Polanyi fa del fascismo. In L’essenza del fascismo (pubblicato nel 1935, ora in Karl Polanyi, La libertà in una società complessa, Torino, Einaudi,1987, pp. 90-117) egli analizza i testi di alcuni ideologi nazisti (O. Spann, L. Klages, A. Rosenberg) e sostiene che il fascismo è antiindividualista e antiuniversalista, e quindi anticristiano. Egli fa riferimento al tentativo, già in corso negli anni Trenta in Germania e in Italia, di creare una religione politica alternativa al cristianesimo. Ciò avrebbe determinato uno scontro durissimo tra il fascismo e le Chiese, sia con le Chiese protestanti sia con la Chiesa cattolica non in quanto istituzioni disposte anche a compromessi ma in quanto portatrici di un’idea dell’uomo e dell’umanità alla quale il fascismo si contrapponeva. Per Polanyi il fascismo è antisocialista in quanto è anticristiano: le persone non esistono se non in rapporto con la totalità rispetto alla quale possono essere definite (la nazione, la razza); la società quindi esiste al di fuori del rapporto tra le persone. Il razzismo è per Polanyi una componente fondamentale del fascismo, nella sua accezione tedesca, nel momento in cui si propone come nuova religione. Questo discorso si intreccia con la questione del totalitarismo e con la questione del rapporto tra Stato e società nel progetto totalitario del fascismo.

D.: Sono convinto che questa sia una chiave di lettura stimolante del fascismo, perché un progetto totalitario funziona nella misura in cui riesce a costruire una religione civile che sia parte integrante dell’identificazione dei cittadini con il regime, con lo Stato, con il potere politico. Possiamo dire che in fondo tutte le grandi ideologie politiche del XX secolo hanno attinto all’universo delle religioni molte delle loro modalità concrete di funzionamento. Il tentativo, in una società secolarizzata, di costruire dei progetti per il futuro che avessero per oggetto non semplicemente il miglioramento delle condizioni di vita ma la creazione di una nuova società, capace di rifondare l’umanità, segnalano che la componente escatologica e teleologica di queste ideologie sia fondamentale. Questa dimensione volontaristica e irrazionale è l’elemento cruciale del processo di mobilitazione della società civile, di fascistizzazione della società.

Non c’è dubbio che in paesi come l’URSS il problema è stato risolto alla radice: le Chiese vengono bandite e la religione abolita dall’universo dei comportamenti collettivi, e quindi rimane soltanto la religione pubblica, la religione di Stato, la religione del regime politico. E’ vero che Stalin non era un leader carismatico come Hitler o Mussolini, che non si presentava a torso nudo o non riuniva milioni di uomini nelle piazze di Norimberga, però è pur vero che qui il mito politico del comunismo assume la stessa funzione che il Führer o Mussolin antica hanno nel fascismo. E’ vero che tutto questo entra in rotta di collisione con le Chiese laddove, come nei regimi fascisti, non si procede per vie radicali come nel comunismo perché invece questi regimi non dichiarano apertamente il loro anticlericalismo, il loro ateismo. Anzi nel fascismo in particolare c’è, dopo un’iniziale fase radicale, una cristianizzazione, una cattolicizzazione del movimento che si pone in qualche modo a difesa e a bandiera della religione. Però il conflitto resta, perché non c’è dubbio che il totalitarismo di Mussolini che vuole educare gli italiani dalla nascita alla bara cozza contro un analogo disegno della Chiesa, e cristianizzare e fascistizzare gli italiani sono due progetti che astrattamente possono convergere e convivere, ma in realtà sono in rotta di collisione in quanto il fine della fascistizzazione è pur sempre la visione di un regime secolarizzato che si pone dei problemi che non hanno niente a che vedere con i fini ideali, religiosi del cristianesimo. Qui si gioca, nel caso dell’Italia, un’ambivalente serie di fenomeni: da una parte c’è il tentativo dei fascisti cristiani o dei cristiani fascistizzati di pensare che il fascismo possa essere la via attraverso la quale cristianizzare l’Italia e il mondo, (Gemelli e tanti altri), dall’altra parte ci sono quei cristiani che capiscono perfettamente che tra fascismo e cristianesimo c’è una frattura, e animarono quelle organizzazioni e quegli ambiti dentro cui sarebbe cresciuta una cultura cattolica antifascista; in mezzo c’è il comportamento della Chiesa cattolica che, nonostante la pressione dei fascisti cristiani o dei cristiani fascistizzati, non accetta fino in fondo il terreno della delega e rivendica una sua autonomia che, nonostante i Patti Lateranensi, darà sempre vita a tensioni e contrasti, molto evidenti nella seconda metà degli anni Trenta e soprattutto quando l’Italia entra in guerra.

Certo, sorprende lo storico il fatto che nella Chiesa cattolica siano state scarsissime le voci che si siano levate sull’atto dirimente del totalitarismo fascista cioè l’assunzione della politica antisemita, ma questo in parte si spiega con il fatto che l’antiebraismo è una componente fondamentale della cultura cattolica dal medioevo.

 

Fascismo e associazioni

D.: Un’ultima domanda sulle associazioni. Tu dici che con gli anni Trenta cambia la politica del regime nei confronti dell’associazionismo, per cui si passa da una fase di controllo e imposizione di rappresentanti del regime negli organi direttivi delle associazioni già esistenti ad una fase in cui il partito fascista assume direttamente la gestione del tempo libero e della vita associativa. Esistono, e quali sono, ricerche specifiche su questi temi?

R.: Innanzitutto ci sono state ricerche pionieristiche, svolte da Victoria De Grazia (V. De Grazia, Consenso e cultura di massa nell'Italia fascista : l' organizzazione del dopolavoro, Roma-Bari, Laterza, 1981) ed altri sul dopolavoro. Penso anche alle ricerche importanti che ha fatto Luisa Passerini. A queste ricerche di ordine generale, va affiancata una cospicua mole di studi locali, alcuni dei quali promossi anche da Istituti della rete. E’ uscito per esempio adesso un bel volume realizzato dall’Istituto sardo per la storia della Resistenza e dell'autonomia di Cagliari sul regime fascista in Sardegna che appunto sottolinea molto questi aspetti relativi ai processi di fascistizzazione.

D.: Sono state fatte ricerche su singole associazioni?

R.: Ci sono ricerche sia su singole associazioni dall’Onmi alle Massaie rurali, il Dopolavoro è una di queste….

D.: E ricerche su associazioni eliminate o sulle quali il fascismo ha imposto il proprio controllo?

R.: Per esempio, una cosa interessante, mi riferisco al grande volume che ha fatto Einaudi anni fa curato da Castronovo, Galasso, Zangheri (V. Castronovo, G. Galasso, R. Zangheri - Storia del movimento cooperativo in Italia : la Lega nazionale delle cooperative e mutue, 1886-1986i, Torino, Einaudi, 1987) sulla cooperazione dove emerge l’attività di una serie di cooperative preesistenti e poi fascistizzate, che hanno prodotto nel territorio dei fenomeni di aggregazione e comunque delle attività. Più complesso, e lo mette in luce molto bene anche Salvatore Lupo, il rapporto tra queste organizzazioni che sono nate fuori del partito, per esempio i Balilla, e il processo di centralizzazione che negli anni Trenta mette in campo Starace, il conflitto con Ricci. Perché non c’è dubbio che la costruzione degli strumenti di controllo del tempo libero è un fatto molto complesso e non lineare. Per esempio ho visto recentemente una serie di articoli pubblicati anche su "Italia contemporanea", uno in particolare sulle Massaie Rurali e sull’associazionismo rivolto alle donne rurali (Perry R. Wilson, Contadine e politica nel ventennio. La Sezione Massaie rurali nei Fasci femminili, in "Italia contemporanea", n. 218, marzo 2000, pp.31-47). Tutto il mondo delle campagne necessita di essere esplorato, da questo punto di vista, così come necessitano di essere esplorate tutte quelle associazioni e quei fenomeni o quelle forme aggregative messe in campo dal fascismo, per esempio tutte le attività che avevano a che fare con la fruizione del teatro, del cinema. Per esempio Luisa Betri ha fatto un bellissimo studio sulle Biblioteche ambulanti (M. L. Betri, Leggere obbedire combattere : le biblioteche popolari durante il fascismo, Milano, 1991) . Questo è un universo che è rimasto inesplorato per molto tempo, non soltanto per problemi di fonti o di altri orientamenti della storiografia ma perché si è ritenuto che questo tipo di associazioni fossero puramente strumentali, fossero puramente cartacee, fossero puramente coercitive, senza capire invece che dentro queste istituzioni è passato non solo il processo di fascistizzazione e di normalizzazione della società, ma è passato il canale principale di adesione al fascismo. Senza questi strumenti il cosiddetto consenso non esisterebbe, ma poiché il consenso è esistito noi lo possiamo ricostruire solo attraverso questi strumenti. E’ chiaro che se io ritengo che il regime fascista sia stato solo un regime di coercizione, e quindi i canali di costruzione del consenso vengono a priori respinti come problema storico, da questo ne deriverà senz’altro che io non metto al centro dei miei studi questa amplissima gamma di iniziative sociali e politiche che il fascismo ha messo in atto. Pensiamo all’Automobil Club, al Touring Club, che sono grandi realtà associative che non vengono affatto cancellate, anzi vengono ulteriormente gestite e fascistizzate nella misura in cui si politicizzano i fini di queste strutture.

D.: Il problema è capire fino a che punto queste associazioni, pur formalmente aderendo alla politica fascista, non siano state anche un ricettacolo di altro…

R.: Nel caso del Dopolavoro questo Victoria De Grazia l’ha messo in evidenza con chiarezza. Sono strumenti che ovviamente socializzano i lavoratori, fanno comunità di lavoro e quindi inevitabilmente sono i luoghi attraverso i quali passa anche l’antagonismo, il conflitto, l’identità contrapposta della classe operaia nei confronti del padronato, e quindi sono luoghi dove il fascismo vuole costruire i canali di un controllo sociale, ma poiché questo controllo sociale che il fascismo vuole organizzare, canalizzare e enfatizzare, ha al suo interno una dimensione eminentemente politica nel senso che il fascismo ha la politica prima di tutto, è chiaro che innescano un fenomeno di politicizzazione che non sempre va a finire là dove i suoi demiurghi volevano che andasse a finire, va a finire anche da un’altra parte non foss’altro perché mette insieme dei lavoratori, non foss’altro perché in un momento di grande dispersione sociale che il lavoro ha subito con la vittoria del fascismo, questi sono gli unici canali che invece riaggregano, consentendo quindi a vecchie idee e a vecchi valori e a nuove prese di coscienza della propria condizione sociale di farsi strada.

 

da: http://www.novecento.org/fascismo.htm


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