El Palazzo della Civiltà del Lavoro en el EUR (Roma). Foto: F. Savarino (1998)

 

Ritratto di un’idea. Arte e architettura nel fascismo

di Vittorio Sgarbi

La mostra Ritratto di un’idea, organizzata dalla Galleria 56 negli spazi romani di Palazzo Valentini, offre un quadro complessivo di ciò che è stata la politica artistica del fascismo durante il Ventennio. Animo in fondo romantico, convinto dell’autonomia spirituale dell’arte, Mussolini aveva affermato nel 1923, sulle pagine de "Il Popolo d’Italia": "Dichiaro che è lungi da me l’idea di incoraggiare qualche cosa che possa assomigliare all’arte di Stato. Lo Stato ha un solo dovere, quello di non sabotarla…". Pare, quindi, che Mussolini, nei primi anni del fascismo, non fosse molto propenso a promuovere un’arte di stato e di regime! Poi, avrebbe cambiato idea, aiutato soprattutto da una donna, Margherita Sarfatti, che riesce a convincerlo sull’importanza che avrebbe avuto, anche ai fini della politica fascista, la promozione di uno stile che fosse allo stesso tempo nazionale e moderno. Mussolini voleva cambiare radicalmente l’Italia: voleva modernizzarla, evolverla economicamente e culturalmente, trasformarla in una potenza mondiale in grado di dettare legge come un tempo aveva fatto Roma. Quale strumento migliore dell’arte per costruire, diffondere, dare letteralmente "forma" a questa nuova identità? La Sarfatti lo aveva capito, anche se da un punto di vista culturale più che politico: se il fascismo voleva essere una nuova civiltà, come Mussolini affermava, non poteva esimersi dall’esprimere una sua arte. E così è stato; dopo le esitazioni iniziali, le ricorrenze per il decimo anniversario della Marcia su Roma (1932) hanno dato il via a un programma sempre più intenso e sistematico di iniziative promosse dal regime. Attraverso l’arte e l’architettura, il fascismo si avvia a diventare "immagine". Ma la Sarfatti non fa più parte del gioco, ingenerosamente liquidata dai gerarchi che si preoccupavano della sua influenza sul duce.

Prima ancora che il fascismo potesse stabilire una propria politica artistica, sono stati gli artisti a offrire la possibilità del proprio apporto al disegno culturale fascista; infatti, erano già arrivati a concepire uno stile moderno e nazionale, come ad esempio i pittori di Novecento. Bisognava fondare un nuovo ordine, un nuovo classicismo in cui da una parte si guardasse alla tradizione latina e rinascimentale, dall’altra al plasticismo cubista e alle atmosfere rarefatte della Metafisica. Da Novecento sarebbe emersa la personalità di Sironi, il maggior teorico di una nuova arte fascista della società di massa; ma Sironi è stato fascista per conto proprio, non ha direttive dall’alto, è totalmente convinto dell’utilità del progetto di Mussolini. E’ in questa dialettica fra politici e artisti, che va inquadrata l’intera strategia del fascismo volta a creare un nuovo stile nazionale. La politica dà l’ideologia, i progetti generali, i contenuti propagandistici; gli artisti hanno la "libertà", se così si può dire, di dare forma a quelle idee e a quei progetti secondo i loro propositi estetici, nella coscienza di dover concorrere a un obiettivo che è comune: la fondazione di una nuova civiltà italiana. A differenza di Hitler, Mussolini non era un mancato architetto, un artista fallito che si è preso le sue rivincite quando è salito al potere. Mussolini equiparava l’arte alla politica, come aveva fatto D’Annunzio; in entrambe le discipline bisognava essere geniali, creativi. Ecco perché non ha mai voluto entrare nelle questioni strettamente artistiche, imporre gusti personali: in questo senso i veri "capi" dell’arte italiana erano altri artisti (Sironi, Cipriano Efisio Oppo), altri architetti (Marcello Piacentini). Altri artisti si sono fatti conoscere (praticamente i migliori di quanto poteva offrire il panorama nazionale compresi gli "eretici" Fontana, Melotti, Mafai, valutati non per la loro fedeltà al credo fascista, ma per quello che sapevano fare. Non a caso, all’interno dello stile fascista, c’è stato spazio per il Neo-Rinascimento e per il Neo-Futurismo, per il Razionalismo e per l’Espressionismo, senza nessuna contraddizione. Certo, non sono mancati i casi in cui la propaganda (con l’arroganza dell’ideologia) ha sopraffatto la dignità della forma; ma non era la regola assoluta, non si doveva arrivare a tanto per compiere il proprio dovere! E’ questa particolare dialettica che ha permesso all’arte del fascismo di essere la più evoluta (anche con tutti i suoi limiti) fra quelle promosse dagli altri regimi totalitari della stessa epoca, il nazista, lo stalinista, il franchista.

Rinnovamento e tradizione, classicismo e modernità: questi sono stati i termini fondamentali entro i quali si è mossa la politica artistica del fascismo. Molti ritengono, giustamente, che l’architettura sia stata la più emblematica e coerente espressione dello stile fascista. Nella mostra di Palazzo Valentini, si evidenzia infatti la maggiore aderenza dell’architettura ad alcune delle imprese più simboliche della politica fascista (la creazione delle nuove colonie nell’Agro Pontino, a Carbonia, in Africa; la preparazione dell’E.U.R.); la stessa pittura, attraverso Sironi, aveva accettato questo primato accettando di produrre decorazioni nelle grandi commesse pubbliche. Un elemento comune ha tenuto salda l’architettura italiana del Ventennio come nessun altro: la "scoperta" del Razionalismo, interpretato in modo più entusiastico e "internazionale" da alcuni (Pagano, Libera, Michelucci, Moretti), in modo più cauto e in parziale conciliazione con l’eclettismo accademico da altri (Piacentini, La Padula, Montuori, Del Debbio). In passato si è molto insistito sulla positività del primo Razionalismo e sulla negatività del secondo; oggi credo sia più interessante rilevare la complementarietà fra l’uno e l’altro, all’interno di un unico stile fascista (non si dimentichi che niente si poteva costruire senza il volere del potere), dove ciò che veniva permesso all’uno era compensato da ciò che faceva l’altro. Il Razionalismo ha avuto un ruolo fondamentale anche nella modernizzazione delle arti applicate (è in fondo in questi anni che nasce il grande design italiano), nella grafica dei manifesti e delle pubblicazioni, nella moda, nella scenografia. E’ stata la "cifra" comune, innegabilmente moderna, di uno stile fascista che ha avuto l’ambizione di essere totale, coinvolgendo volutamente ogni campo del visivo (le arti tradizionali, le arti applicate, il cinema, la fotografia).

 

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