Fascismo: la modellizzazione impossibile?
Pierre Milza
*articolo tratto da: Che cos'è il fascismo? Interpretazione e prospettive di ricerche,
a cura di Alessandro Campi, Ideazione editrice.
Se è vero che la prima guerra mondiale e l’ondata rivoluzionaria che n’è
seguita hanno giocato un ruolo determinante nella nascita e nell’affermazione
del fascismo, è altrettanto vero che esse non hanno soppresso le distanze e le
differenze esistenti tra le famiglie ideologiche che, come spesso si sostiene,
avrebbero aperto la strada a questo nazionalismo di un nuovo genere. Ora, se la
maggior parte degli specialisti tende oggigiorno ad isolare il “modello”
fascista dalle altre forme di rifiuto radicale della democrazia liberale e del
marxismo, la tesi che consiste nel considerare fascista qualunque organizzazione
che aspiri a stabilire o a restaurare un potere forte con un obiettivo, al tempo
stesso, difensivo (sconfiggere la sovversione comunista o, più semplicemente,
arrestare la “decadenza”) e offensivo (assicurare la grandezza della nazione
attraverso l’espansionismo territoriale), continua ad avere dei sostenitori.
Questi ultimi sono i fautori dell’ortodossia marxista, che sino
all’implosione del blocco dell’Est ed alla scomparsa o alla
marginalizzazione dei partiti comunisti occidentali hanno occupato più spazio
nel dibattito ed hanno mantenuto pressoché invariato il nocciolo duro della
loro interpretazione iniziale. Ancora egemoniche all’inizio degli anni
Settanta, le loro posizioni si sono successivamente molto indebolite, senza
tuttavia sparire dal campo sia della ricerca scientifica sia della
volgarizzazione editoriale e mediatica. Dopo lo scisma rappresentato dal crollo
del comunismo, da qualche anno si assiste anche al ritorno di una forma di
“fiancheggiamento” che, per suo conto, riprende alcuni degli schemi
semplicistici elaborati dalla Terza internazionale nel periodo tra le due
guerre. Se il fascismo non è più interpretato universalmente come il prodotto,
"necessario ed inevitabile", delle leggi che governano il sistema
capitalista, come "la dittatura aperta e terroristica degli elementi più
reazionari, più sciovinisti, più imperialisti del capitale finanziario",
esso resta tuttavia associato, in questi settori dell’opinione pubblica, alla
“borghesia” ed alla “destra”: tutti i regimi autoritari che puntano al
mantenimento o al rafforzamento delle classi possidenti, così come tutte le
organizzazioni nazionaliste radicali, si vedono raccolti sotto la stessa
categoria passe-partout di “fascismi”.
Naturalmente, non si tratta di ripetere, ancora una volta, la critica
all’interpretazione marxista del fascismo. Tutti i lavori basati su un esame
rigoroso delle fonti disponibili mostrano, con riferimento ai due paesi in cui
esso si è imposto grazie ad una grave crisi del sistema liberale, che se i
rappresentanti delle classi economicamente dominanti hanno offerto il loro
sostegno al fascismo ed hanno complessivamente beneficiato delle sue imprese,
essi tuttavia non hanno assunto l’iniziativa della sovversione, né hanno
sostenuto altro che una dittatura temporanea, né soprattutto hanno imposto le
loro direttive ai detentori del potere. Assimilare, puramente e semplicemente,
fascismo e “grande capitale”, fascismo e “dittatura borghese”, fascismo
e reazione, e non vedere in questo fenomeno che la risposta orchestrata dai
possidenti contro la minaccia di distruzione dell’ordine sociale esistente, è
indicativo di una visione semplicistica della storia (…).
Altrettanto discutibile è l’assimilazione che, in una prospettiva del tutto
diversa, è operata da quegli storici delle idee per i quali fascismi e correnti
di pensiero appartenenti all’ultra-destra tradizionalista possono essere
compresi all’interno di una stessa categoria. La figura più rappresentativa
di questa tendenza è Ernst Nolte, a giudizio del quale l’Action française ha
costituito l’archetipo del fascismo francese. In realtà, la sua analisi non
resiste ad un esame attento del pensiero maurrassiano e della cultura politica
del piccolo gruppo di intellettuali che ha dato vita a quest’organizzazione.
Quest’ultima, in effetti, s’ispira al tradizionalismo controrivoluzionario,
dal quale essa riprende e sviluppa un certo numero di temi. Il primo è quello
dell’ordine politico fondato sulla tradizione e su un “ordine naturale”
supposto immutabile. Da questo postulato organicista discende un certo numero di
tratti che apparentano il discorso maurrassiano a quello dei classici dottrinari
della contro-rivoluzione: un’etica naturalistica i cui valori e le cui norme
derivano dalle strutture immobili della “natura umana” (mentre il fascismo
intende cambiare l’uomo), il rigetto di un egualitarismo che si suppone
contrario all’ordine del mondo, l’idea che la “decadenza” è nata dal
rifiuto di osservare le gerarchie e di obbedire alle regole che definiscono il
rapporto tra l’uomo e la natura, il processo intentato all’universalismo ed
all’astrazione ai quali i tradizionalisti oppongono l’esperienza e la
“storia”, il radicamento nella terra degli antenati e la specificità
etnica.
Se fascismo e tradizionalismo hanno in comune degli elementi (alcuni dei quali
adottati tardivamente: è il caso della specificità etnica), essi differiscono
su un punto essenziale, che concerne il posto dello Stato all’interno del
sistema politico che essi intendono realizzare. Se i maurrassiani sono
partigiani di uno Stato forte, al tempo stesso essi pensano che il ruolo di
quest’ultimo debba essere circoscritto alle funzioni sovrane – difesa,
sicurezza interna, giustizia, ecc. – e che esso non debba intaccare i diritti
e le libertà dei gruppi organicamente costituiti, e meno ancora debba servirsi
della propria forza per far regnare l’arbitrarietà ed il dispotismo. Con
l’obiettivo di salvaguardare le libertà “concrete”, Maurras, come gli
ultras della Restaurazione, oppone a queste ultime la Libertà astratta e
“menzognera” così come è stata concepita dagli uomini dei Lumi e dai loro
successori repubblicani e democratici.
La cultura politica maurrassiana è dunque essenzialmente rivolta al passato.
Essa fa tabula rasa di un secolo di storia e ripone il proprio ideale in una
forma di società che è pressappoco quella della “vecchia Francia”, una
società nella quale tra l’individuo ed il potere andrebbero ricostituiti dei
corpi intermedi nei quali inquadrare gli individui: famiglia, comunità di
villaggio, provincia, corporazione ecc. Essa esalta il potere e la ragion di
Stato, ma l’idea che essa si fa del potere e dello Stato è agli antipodi
delle concezioni ereditate dal giacobinismo burocratizzante e centralizzatore.
Essa è rispettosa delle gerarchie, ma allorché si tratti di gerarchie
tradizionali e non di una “élite di rimpiazzo”: quella che la democrazia
liberale ha realizzato allo stesso titolo di quella che il fascismo tenterà di
creare. Infine, e si tratta di un’altra fondamentale differenza rispetto al
fascismo, essa è ostile a qualunque forma di potere derivante direttamente dal
popolo ed esprime una grande diffidenza nei confronti delle masse.
Ora, è proprio lungo il solco tracciato dall’idea controrivoluzionaria che,
sovente, tra le due guerre, si sono incanalati molti dei movimenti abitualmente
definiti come “fascisti”, sebbene essi derivassero da tutt’altra cultura
politica. In effetti, l’influenza del maurrassismo è stata considerevole,
soprattutto in Francia, dove esso è nato e dove esso ha giocato, prima e dopo
la “grande guerra”, un ruolo più importante che negli altri Stati europei
nei quali esso ha egualmente avuto un grande impatto su un certo numero di
dirigenti e di movimenti nazionalisti, ovvero sulla formazione di regimi
politici talvolta battezzati, con un abuso linguistico, “clerico-fascisti”.
Il capo del rexismo vallone, Léon Degrelle, e quello del movimento fiammingo
Verdinaso, Joris Van Severen (entrambi prima della loro conversione al
fascismo), movimenti reazionari quali Ordre et Tradition, Schweitzer Heimatwehr,
la lega Aufgebot in Svizzera, quelli guidati da Andrej Hlinka e da monsignor
Tiso in Slovacchia – tutti hanno fortemente subito l’influsso del
maurrassismo, il quale ha egualmente ispirato il fondatore dell’Estado novo
portoghese, Oliveira Salazar, la dittatura del generale Primo de Rivera in
Spagna e lo Stato autoritario corporativista instaurato in Austria nel 1934 dal
partito cristiano-democratico del Cancelliere Dollfuss.
D’altro canto, il pensiero maurrassiano non rappresenta l’unica espressione
della corrente tradizionalista e controrivoluzionaria. Cartesiano come principio
ispiratore, latino e cattolico, esso ha un’eco soprattutto nell’Europa
mediterranea e, più in generale, nei paesi di osservanza cattolico-romana. Nel
resto d’Europa, l’influenza dominante è quella del nazionalismo romantico e
reazionario tedesco, sia nella sua versione völkisch, che conduce all’estremo
l’idea della superiorità della razza germanica, sia in una forma più
prossima al pensiero tradizionalista del XIX secolo, quella rappresentata dalla
“rivoluzione conservatrice”. In quest’ultimo caso, i punti di convergenza
con il fascismo italiano sono più numerosi e più marcati. In effetti, per gli
intellettuali che si rifanno a questa corrente, la salvezza della Germania
all’indomani del primo conflitto mondiale non risiede in un nostalgico
attaccamento al Reich guglielmino. Al contrario, essi pensano che il declino
abbia avuto inizio ben prima del terremoto del 1918, vale a dire con l’avvento
di un ordine capitalista e materialista ben rappresentato da Berlino (…): la
guerra non ha fatto che accentuare un processo di deculturazione già ampiamente
cominciato prima del conflitto.
Diversamente dalle grandi forze conservatrici classiche (il partito
“populista” ed il partito nazionale tedesco), i teorici del nuovo
nazionalismo non ricercano il rimedio a questa decomposizione nel ritorno puro e
semplice al “vecchio regime”, incarnato dal Reich guglielmino, ovvero
bismarckiano, già sospetto ai loro occhi di avere subito gli effetti dei virus
dissolvitori rappresentati dal cattolicesimo romano, dal democraticismo
plutocratico e dal socialismo marxista, ma nella restaurazione dei valori
profondamente radicati nella storia della nazione tedesca. La “rivoluzione
conservatrice” alla quale essi affidano le loro speranze si richiama ad un
modello “prussiano” precedente al dispotismo illuminato – abbastanza
cosmopolita e francofilo – di un Federico II. Tale è, ad esempio, il cammino
tracciato da Oswald Spengler nel suo Tramonto dell’Occidente (1918-1922) e in
Prussianesimo e socialismo (1919), più ancora di quello definito da Moeller van
den Bruck nel suo Il Terzo Reich (1923): aspirazione alla restaurazione di uno
Stato forte, ritorno alla tradizione tedesca e, soprattutto, a quella del
solidarismo “da caserma”, superamento della nozione di classe, assimilazione
dei nuovi valori solo nella misura in cui essi contribuiscono a sviluppare la
vitalità della nazione, costruzione di un Grande Reich a vocazione
universalista.
A cavaliere tra gli anni Venti e Trenta, riuniti in potenti associazioni quali
lo Juni Klub e l’Herren Klub, provenienti spesso dai Corpi franchi e militanti
nelle fila della Stalhelm di Hugenberg, uomini come Heinrich von Gleichen, Max
Hildebert, Rudolf Pechel ed Edgar Jung si pronunciano dunque a favore di un
ultra-conservatorismo rinnovato, promotore di uno Stato autoritario, corporativo
e cristiano, difensore del germanesimo e capace di assicurare la preponderanza
della Germania sulla Mitteleuropa. Tutto ciò, all’interno di una forma che
resta profondamente impregnata di tradizionalismo e di spirito aristocratico. Ma
il fatto che il nazionalsocialismo abbia attinto da questa corrente di pensiero
una parte del suo armamentario ideologico, non è sufficiente a fare della
“rivoluzione conservatrice” un fascismo.
Ideazione, 14 marzo 2003