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Mario Lamberti


"IL FASCISMO"

(1922)


Fascismo e crisi di Stato

Il fascismo è l'espressione di crisi dello Stato che si travaglia nel problema dell'adesione delle masse.

Lo Stato si era affermato alla fine del periodo eroico del Risorgimento più come compromesso che come fusione tra la conquista regia e la rivoluzione popolare. Le classi dirigenti non avevano che superficialmente sentito e non coscientemente voluto l'unità della Patria; il popolo era stato estraneo e indifferente, quando non ostile. Non sorretto da salda coscienza di sé e da intima vita, le nuove improvvisate "élites" - per conciliarsi il favor popolare e mantenersi in un equilibrio, sia pure instabile - si erano fermate, attraverso una ideologia pseudo-democratica, nell'orbita parlamentare e di governo, all'infuori della quale, e alle volte contro, si svolgeva l'intima vita della nuova nazione.

La guerra, che ha portato per la prima volta lo Stato alla prova del fuoco e, vittoriosa, l'ha cementato nel cozzo con gli altri Stati, ne ha insieme tragicamente rivelato la profonda divisione interna. Lo stesso dissidio tra neutralisti e interventisti si è svolto alla superficie: la massa è apparsa estranea. Ma sotto l'apparenza apatica ferveva una nuova vita che si svolgeva autonoma nell'ambito della classe, all'infuori della nazione attraverso gli episodi informi e caotici, in cui è difficile separare i nuovi motivi ideali dalle semplici ribellioni di disertori, s'andava lentamente formando una coscienza politica nelle masse.

Intanto - sotto l'urto della guerra - negli strati medi della società, in cui le tradizioni democratiche erano rimaste più salde, parve rivivere quella potente ideologia democratica che (pur utopisticamente richiedendo che le condizioni di fatto fossero trasformate secondo un modello ideale di progresso) era stata mezzo a formare l'embrione della coscienza di popolo.

La crisi che travaglia ancor oggi lo Stato parve poter essere superata per lo slancio vitale di un manipolo incitatore.

Per questo intimo ma confuso bisogno di unità morale e ideale - elaboratosi attraverso il tormento della trincea - sorge da "interventisti di sinistra" il fascismo, come impulso sentimentale e ideale confusamente messianico, che da uno sperato rinnovamento individuale traeva motivo per proiettare in un vicino avvenire un rinnovamento totale.

Nei "neutralisti" (e le masse erano state neutraliste, seppure come semplice e negativa opposizione) si vede il nemico, in sé i liberatori della nuova Italia. Di fronte a neutralisti e socialisti si formò il nuovo mito dei "combattenti", per cui "medaglie d'oro" e mutilati insorsero contro la "svalutazione" della vittoria, in opposizione alla "viltà" socialista e al "tradimento" neutralista. Il valore della guerra, rivoluzionaria perché cementatrice dell'unità era affermato; ma l'affermazione rimaneva sentimentale e superficiale. La mentalità giacobina impediva d'intendere la vera e profonda crisi di unità, per cui nell'anti-patriottismo dei socialisti era implicito tutto un processo storico di creazione di una coscienza statale nelle masse.


Il nuovo mito parve dare la bandiera di raccolta ai reduci, e si formarono i "Fasci di Combattimento" - esigui ed isolati dapprima. I primi organizzatori, quasi tutti interventisti ex-sindacalisti, discepoli della "teoria della violenza" tentavano di dare una formazione dottrinale alla violenza pratica dell'arditismo. Così i "Fasci" si ponevano come negatori del socialismo: non antiproletari, ma salvatori del proletariato contro un partito che lo tradiva nel riformismo.

Volevano aderire alla realtà del libero movimento operaio, svolgentesi fuori di ogni imposizione di partito; aiutavano ed organizzavano scioperi economici: da un lato contro il socialismo, che aveva strozzato la ideologia proletaria nella illusione riformista, dall'altro contro la borghesia, anch'essa uccisa nell'aberrazione protezionistica ed in un cieco egoismo di casta. La "disfatta del socialismo" suonava come volontà di una nuova e più profonda rivoluzione. Nel mito dei "combattenti" e dei "sindacati" tornavano con significato quarantottesco le parole di "popolo" e "libertà".

Ma il popolo non intendeva più queste parole. Il fascismo, affermantesi come "alta realizzazione rivoluzionaria" in una "palingenesi nazionale ed umana", non era sorto dalle masse, la cui coscienza si era formata fuori dello Stato in contrasto assoluto ed insanabile, e non poteva essere che superficiale sovrapposizione e caotica irrequietudine. La superficialità massimalista era giustamente veduta, ma il fascismo non poteva non dibattersi nella stessa crisi: invano era sorto come anti-partito che nel suo dinamismo contrario alle formule inceppatrici avrebbe saputo fare la vera rivoluzione, anti-borghese ma nazionale.

Sulla nuova ideologia dei "produttori" si affermava il nuovo movimento. Incominciavano gli scontri cruenti coi socialisti e si esaltava il "lavoro intellettuale" che doveva essere organizzato come quello manuale. Attraverso i "produttori" si giunse all'esaltazione di una borghesia concepita non come antinomia al proletariato, ma come in se assorbente gli elementi migliori del proletariato stesso (che si doveva liberare dal giogo socialista) e della vecchia borghesia. Ma questa nuova classe dirigente non scaturisce attraverso un sanguinoso mito dal dramma storico, rimane superficiale imposizione: e il fascismo invece di condurre all'avvento di una nuova borghesia - nuova élite - rimarrà a difesa delle vecchie classi dirigenti.


Fra le classi medie, che si muovevano attorno al fascismo e che gridavano un linguaggio ormai privo di vita, e la nuova coscienza proletaria, che queste parole più non intendeva non poteva non esservi che reciproca incomprensione. Mentre le masse apparivano negare lo Stato, in effetti lo riaffermavano nella propria intimità creandosi una coscienza politica. Le classi medie non compresero questo - e pur avendo la parola "popolo" alla cima dei loro programmi, parlavano un linguaggio che per il popolo non aveva più significato e se ne sentivano lontane. Mentre il massimalismo agitando miti astrattisti si abbandonava al confusionismo demagogico, alla superficialità anti-patriottica si contrapponeva la superficialità antipussista, e la "rissa senza lampi" si profilava come cozzo delle due superficialità. Al massimalismo, che tentò invano con procedimento di sovrapposizione di dare alle masse la coscienza di un nuovo Stato, corrisponde il fascismo, superficiale tentativo di far accettare alle masse lo Stato.

Al disotto si formava autonoma una nuova coscienza nelle masse: non compresa né dagli uni né dagli altri.

Ma il fascismo incominciava a rimanere impigliato nella sua stessa azione.

Sorto da uno "stato d'animo" si era scagliato, privo com'era di una salda e reale concezione politica, con tutta la sua forza contro il "pussismo"; ma, movimento superficiale, non riusciva a concretare la nuova élite; inciampava nel presupposto patriottico: la questione adriatica da mezzo diveniva fine; e mentre il massimalismo tentava l'ultimo assalto allo Stato, il fascismo si trovava, senz'accorgersene, non "vero rivoluzionario" contro la "viltà" borghese e contro la "viltà" proletaria, ma per la conservazione da una parte sola della barricata.

Il massimalismo intanto aveva dimostrato la propria incapacità rivoluzionaria. I rancori si scatenano al ritardatario grido di "Viva l'Italia!". Nuovi aderenti continuamente ingrossano i Fasci; e il fascismo quasi per allagamento si estende in tutta l'Italia. Fallito l'assalto massimalista, incominciava la reazione. Il fascismo da cittadino divenne agrario. Le "baronie rosse" vennero disciolte e l'imperio non della legge ma di un nuovo arbitrio instaurato in intere regioni d'Italia.


Ancora rimaneva - a tratti - l'ideologia rivoluzionaria e sindacalista che, formando i sindacati nazionali, dava ad industriali ed agrari una nuova e più potente arma di disgregazione proletaria. I socialisti - demagogicamente rivoluzionari o riformisti - avevano compiuto una unificazione operaia superficiale o coatta, non intimamente e vigorosamente sentita. Questo stesso astrattismo, accompagnato da provocante tracotanza, aveva accresciuto gli odi. Al primo urto con tutti gli interessi opposti coalizzati, al disotto della apparente unificazione appare il vuoto e le leghe rosse si sciolsero, incapaci di difesa, quando addirittura i loro aderenti non passarono in massa alle improvvisate leghe tricolori. Le spedizioni fasciste mentre distruggevano sedi di organizzazioni e Camere del Lavoro, venivano a disperdere negli organizzati l'embrionale coscienza politica, confusamente formatasi attraverso la pratica economica. Così si spiegano le adesioni in massa: segno del fallimento socialista, ma insieme annuncio del fallimento di ogni possibile organizzazione proletaria fascista, per cui il fascismo non può essere che "schiavismo agrario", non solo quando distrugge ed incendia ma anche quando lotta per gli operai contro i proprietari.

Non la dittatura rivoluzionaria ha scatenato il fascismo, ma la debolezza impotente e provocatrice; le "squadre" fasciste sorte da questa debolezza e non da intimo processo, peccano anch'esse non di forza ma di debolezza che si esplica, nella gioia della rivincita, in violenza personale. Nella profonda crisi dello Stato queste bande armate, protette contro la legge dalla pratica solidarietà degli organi esecutivi, presero il caratteristico aspetto di restauratrici dell'ordine e di giusta e "legale " reazione al prepotente-impotente sovversivismo rosso. Il fascismo si svolge nel ritmo di una insanabile contraddizione: si pone da un lato come difensore della autorità dello Stato e dall'altro ne infirma ogni autorità nella sua pratica quotidiana. Il comunismo, pur negando lo Stato qual'è, crea nelle masse le premesse per una nuova coscienza politica. Il fascismo non può giungere a questo: non prepara l'instaurazione di un ordine nuovo e infirma il vecchio volendo difenderlo.

Intanto Fiume cadeva.

Il fascismo anche in questa che era la sua logica conseguenza, e per cui avrebbe salvato almeno gli ultimi valori morali, si conservò in quello stesso equivoco che lasciava sussistere dentro di sé la tendenza ancora sindacalista-repubblicana e quella che si andava ormai affermando come restauratrice.


Le ultime ideologie si annullavano nell'adesione, sia pure non dichiarata e con riserve, a Giolitti: rimaneva solo la fantasia coreografica di gagliardetti e camicie nere. Orgogliosa affermazione di rinascita, nel momento in cui pareva deciso il suo trionfo, il fascismo, per le sue stesse premesse oscillanti ed incerte, colpiva a vuoto.

Imbrigliato nel parlamento: la tendenzialità repubblicana e il patto di pacificazione furono tentativi di organizzarlo in una nuova orbita. Ma i fasci erano ormai squadre d'azione autonome, fisse quasi solo ad una politica regionale e personale: i "destri" insorsero contro la tendenzialità repubblicana, i "sinistri" contro il patto di pacificazione. Il gruppo parlamentare fascista sedeva a destra tra nazionalisti e liberali.
La destra.

Nella rivolta anti-intellettualista era più direttamente sorta la teoria sindacalista, per la quale lo slancio vitale prendeva la forma di "violenza" e l'evoluzione creatrice sarebbe sorta dal cozzo violento tra proletariato e borghesia. In questa potente affermazione dialettica si erano posti i sindacalisti italiani che avevano tentato di seguire appunto il proletariato, al di fuori e contro i partiti politici, nella lotta dalla quale sarebbe scaturito l'avvenire. Si è visto come questi sindacalisti abbiano formato i primi nuclei dei Fasci di Combattimento.

Se non con sicura coscienza dalla medesima teoria, certo dalle medesime tendenze erano sorti altri gruppi che, partendo dalla comune posizione anti-democratica accettando la lotta come forza dialettica, la trasportavano dal campo borghesia-proletariato (lotta di classe) a quello delle nazioni (guerra) affermando il valore assoluto della Nazione. Contrapponendo lo Stato nazionale, conscio dei suoi supremi valori, allo Stato liberale, degradatosi in una uniforme e amorfa democrazia, non rifuggivano - secondo uno scrittore nazionalista - dal concepire "una futura sistemazione nazionale a somiglianza di un grande sindacato, composto di tanti piccoli sindacati di lavoratori".

Partiti da queste posizioni intellettuali, in gran parte comuni con i sindacalisti, i nazionalisti gettarono le basi di una dottrina democratica "nell'accettazione del continuo rinnovamento dei valori", aristocratica "nella concezione di uno Stato che dentro di sé elabora i fini suoi" anti-democratica in quanto si opponeva allo Stato liberale e allo Stato sociale. Ma positivamente né democratica né aristocratica né democratico-aristocratica, e solo negativamente anti-democratica. Fra i due termini da cui avrebbe dovuto uscire la sintesi nazionale, democrazia di rinnovamento e aristocrazia di fini, non si trovava un valido nesso, che solo avrebbe potuto consistere nell'adesione allo svolgimento di creazione autonoma nelle masse. Il fine era violentemente imposto e l'autorità non scaturiva dalla libertà: a questa sovrapposta, la soffocava.

La politica estera nazionalista era sopravalutata in confronto alla politica interna, e, pur riuscendo in un certo modo di scuola alla classe dirigente, destinata ad insuccesso. Il tentativo di dare una concezione organica di Stato era minato da questo intimo dissidio. Come i fascisti da propugnatori di una rivoluzione proletaria e da avversari dei socialisti, che accusavano di riformismo, erano divenuti difensori di industriali ed agrari, così i nazionalisti da unificatori delle varie classi, in nome del valore assoluto dell'idea di Nazione, erano divenuti difensori di quella stessa "casta politica" che volevano rinnovare.


In opposizione al governo, ma nell'orbita della stessa casta, si muoveva un altro partito, che sorto con presupposti di libertà si era allontanato completamente dal paese e anche per lui la libertà era morta nell'autorità: il partito liberale. Mentre la gran massa liberale-democratica si manteneva nel centro sinistro, questo partito che aveva voluta e gridata la guerra si poneva come erede della "Destra storica", e pareva affermare i principi veramente liberali contro il liberalismo giolittiano, che si era trasformato in burocratica democrazia tendente a fondersi demagogicamente con un socialismo trasformato anch'esso in burocratico socialismo di Stato. Ma la libertà frettolosamente cristallizzata in autorità, l'aveva fatto incapace di guidare la guerra ed oggi lo faceva aderire ad una non chiaroveggente opera di conservazione.

Così, mentre l'azione pratica faceva lottare a fianco gli antichi sindacalisti coi nazionalisti e coi liberali, anche teoricamente la fusione s'imponeva. I sindacalisti avevano abbandonato l'internazionalismo e la lotta di classe per conservare le loro simpatie per la forza. I nazionalisti non erano stati capaci, per la loro teorica che non era adesione ma sovrapposizione, di ottenere la fusione delle classi in una concezione organica di Stato e si erano fermati alla teorizzazione dell'autorità; mentre la volontà di riallacciarsi alla tradizione poneva per loro la pregiudiziale monarchica, per una dinastia ormai fuori della vita della nazione. I liberali, dimentichi del loro nome che era stato rivoluzionario, portavano l'ideale di uno Stato trascendente, privo di vita.

Tra fascisti nazionalisti e liberali si formava in parlamento la Destra Nazionale che non nasconde oggi le sue simpatie per Giolitti che, ucciso ormai nella progressione storica e rimasto fermo nel suo tentativo di salvare lo Stato liberale negandolo in una trasformazione pseudo-democratica, porta la adesione della burocrazia e di larghi ceti medi ad una comune opera di conservazione.
La crisi del fascismo.

Attraverso i tentativi dottrinari e gli eventi sanguinosi il fascismo si è concretato in una sola pratica: la distruzione anti-socialista. Tra spedizioni punitive e improvvisi successi si è formata quella mentalità vanagloriosa, che con le parole crede rinnovare il mondo e non si solleva al di là delle squadre di azione, strumento di lotta estra-legale sotto la protezione della legge.

Al nuovo partito sorto dall'anti-partito la necessità di uscire da questo stato d'animo si pone come condizione primordiale di vita.

Ma l'aver sentito il bisogno di cambiare la forma esterna è indizio dell'incapacità di un cambiamento radicale dall'interno.


Dal rifiuto di un pacifico adattarsi alla vita politica parlamentare sorge, pur volendo uscire dalla pratica violenta e disordinata e riallacciarsi alla coscienza popolare, un'affermazione di "gerarchia" quasi simbolo che conduca ad intima unità la Nazione. Ma è intuito della Nazione in una confusa religiosità e non reale comprensione.

Le masse non potranno aderire allo Stato che attraverso un intimo processo di esperienze e di elaborazione e non (volendo imporre un ideale che esse non ponno avere, perché formatosi all'infuori della loro coscienza) nella vana ideologia dello Stato nazionale, confusione di concetti. Le stesse masse fasciste sono spostate fuori della loro orbita vitale: operai e contadini potranno trovare nelle Corporazioni Nazionali l'attuazione di qualche postulato economico, non mai la fiera coscienza di una libertà conquistata. Le adesioni obbligate e gli entusiasmi superficiali non che all'urto di una nuova forza, non possono reggere alla semplice disgregazione del tempo.

Mentre la contro-reazione riformista prende piede nello stesso fascismo (gli interessi che ad esso fanno capo non potranno più a lungo aver giovamento da una continuata azione extra-legale) e già si tenta incanalarlo, attraverso la pratica parlamentare giolittiana, in una nuova "democrazia" che sieda a destra, il movimento sentimentale ond'era sorto muore in una contraddizione insanabile.

Le masse portate in un tumultuare caotico, dalla inane rivolta massimalista e dalla confusa e contraddittoria reazione fascista, ad affiorare alla vita politica, ricadranno apparentemente inerti.

Nella dolorosa e sanguinosa esperienza elaboreranno con travaglio intimo la loro crisi, che è crisi dello Stato.

MARIO LAMBERTI.




Le parole sono veramente una mitica forza. Ma perché lo splendore dei suoni sia potenza, non deve rimanere gonfia affermazione di astratto simbolo. Quando vi sia rispondenza fra le parole ed il pensiero che devono esprimere, esse converse in sostanza umana hanno veramente la forza di muovere la storia: ma è forza che viene dal pensiero che le sorregge. Questa intima unione è rotta nella ideologia fascista: la mitica forza non sgorga, la parola alto-sonante ha valore per sé stessa: il pensiero non conta. Di quanto è difficile il pensare ed è facile il parlare, di tanto si è propagato il fascismo.
In Gabriele d'Annunzio la parola - non sempre - penetra la realtà, la esprime, nelle sue apparenze magiche e la muove profonda; in C. M. De Vecchi - il retore del fascismo dannunziano - rimane, sempre, chiacchiera.
[postilla di P. Gobetti]

 

[La Rivoluzione Liberale, A. 1, n. 15 (28-5-1922), p. 55]


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