documentos


 

Giovanni Gentile

Lo Stato

_______________________________________________

G. Gentile , "Lo Stato", in Genesi e struttura della società. Firenze, Sansoni, 1975, pp. 57-70. [1a ed. 1945]

* Il manoscritto originale é del settembre 1943.

_______________________________________________

 

1. - Concetto dello Stato

Il volere come volere comune e universale è Stato. Per intendere il quale, secondo la sua essenza, non bisogna fermarsi ad alcuno de' suoi aspetti empirici.

2. - Nazione e Stato

La nazione non è data dal suolo, né dalla vita comune e conseguente comunanza di tradizioni, di costumi, linguaggio, religione, ecc. Tutto ciò è la materia della nazione. La quale non sarà tale se non avrà la coscienza di questa materia e non l'assumerà nella sua coscienza come il contenuto costitutivo della propria essenza spirituale; e quindi non ne farà oggetto della propria volontà. La quale volontà, nella sua concreta attualità, è lo Stato: già costituito o da costituirsi; e veramente in ogni caso da costituire (conservare è un continuo costituire, un creare continuo). Volontà.

Errore della dottrina delle nazionalità, che avrebbero diritto a unità e autonomia statale. Non è la nazionalità che crea lo Stato; ma lo Stato crea (suggella e fa essere) la nazionalità. Che conquistando la propria unità e indipendenza celebra la sua volontà politica, realizzatrice dello Stato.

3. - Diritto

La volontà dello Stato è diritto (pubblico o privato, secondo che regola i rapporti tra Stato e cittadini, o tra cittadini e cittadini). In ogni caso attua la sua volontà come volontà del cittadino in quanto volontà universale. Non c'è diritto senza Stato, e ogni individuo che afferma un suo diritto si appella sempre a un volere universale a cui ogni arbitrio deve cedere, appunto perché arbitrio.

Diritto positivo? Solo in quanto positivo il diritto si fa valere, ed è volere effettivamente universale che ha ragione degli arbitrii. Ma questa positività non è carattere distintivo della sfera strettamente giuridica dello Stato. Anche la morale è positiva in quanto il dovere esiste come sempre determinato, singolo, concreto dovere: volontà in atto.

C'è una positività del diritto che distingue questa dalla legge morale. Ed è quella positività che traluce anche nel concetto etimologico di «Stato»: che non è quello che si attua ora, ma quello che si è attuato, e sta. E deve stare, con la sua autorità riconosciuta (meglio se scesa dal cielo, immediata, ereditaria) con le sue leggi certe, con la sua forza che le rende esecutive e ne impedisce la violazione. Lo Stato c'è già (almeno così pare). C'è l'impero della legge, l'ordine pubblico, complesso di fatti che siano effetto dell'esserci lo Stato. A cominciare dal Governo, che è il motore attivo di tutta la macchina, già costruita e in essere.

C'è lo Stato; e c'è la sua volontà; la sua legge. Nella quale il cittadino, dalla nascita alla morte, trova il suo limite, presupposto della sua esistenza, condizione della sua libertà. La volontà dello Stato, con cui egli deve fare i conti, è volontà non in atto, ma già posta, già voluta, già manifestata in maniera chiara, esplicita, certa. E questa manifestazione della volontà statale deve precedere i casi che essa regola.

Sicché il volere per cui la legge deve valere non può osservarla (volerla) se non l'ha innanzi come già voluta; e in tal senso positiva. E allora la morale sarebbe il volere attuale; ma il diritto, in quanto tale, il volere già voluto. (Quello che è stato voluto e perciò si vuole: legge di fatto, come è in natura la legge che vi si trova operante prima e indipendentemente dal nostro apprenderla ed entrare comunque in rapporto con essa).

Ma questo diritto (come lo Stato che lo pone) è momento astratto della vita etica. È logo astratto. Risponde a una posizione ideale del volere, che volendosi si fa voluto: oggetto innanzi al quale non può fermarsi. La sintesi reale è unità di volere e voluto, incorporarsi del volere nel voluto e spiritualizzarsi del voluto nell'atto del volere.

Così la positività del diritto è superata nell'atto concreto del volere che nega il diritto e agisce moralmente come libertà assoluta. Il limite non è negato se non in quanto si conserva: è riconosciuto, cioè posto, e quindi è autolimite, che non toglie nulla alla libertà, anzi ne prova l'energia.

Superata la positività del diritto, il diritto stesso è risoluto nella morale.

4. - Governo e governati

La stessa positività del diritto ritorna nell'opposizione fra Governo e governati, che male dal volgo viene scambiata con la dualità di Stato e cittadini. Il Governo (assoluto o rappresentativo) fa la legge e la tutela; e i governati presuppongono, per essere governati, l'azione del Governo. E in astratto è così. Ma come il diritto positivo è negato nell'attualità dell'azione etica, così ogni opposizione di Governo e governati cade nel consenso di costoro, senza del quale il Governo non si regge.

Questo consenso sarà spontaneo, o sarà coatto. E la moralità dello Stato, in cui il Governo esercita la sua autorità, richiede un massimo di spontaneità e un minimo di coazione; senza che l'una possa mai star da sé, scompagnata dall'altra. E i popoli si agitano inquieti tra i due poli opposti del minimo di coazione con massima spontaneità e il massimo di coazione con minima spontaneità: tra democrazia e assolutismo, poiché è molto difficile quella giusta contemperanza degli opposti principii, in cui consiste la loro sintesi dialettica.

5. - AutoritÀ e libertÀ

Oggi è gran parlare di governi autoritari e governi liberali, tornando sempre a opporre astrattamente autorità e libertà, Governo e individui; rappresentati questi come atomi, ciascuno a sé stante e derivante da sé tutti i diritti e tutti i doveri che abbiano un significato per lui; e quello inteso come potere semplicemente limitativo e coordinatore delle libere attività dei singoli. E non si vuol aprire gli occhi e vedere che la questione dei congegni opportuni onde si contemperino insieme i due opposti principii non si risolve alla luce di principii eterni, ma con criteri storici fondati su considerazioni di opportunità secondo il variare delle contingenze storiche. Si tratta di dosature, in cui può vedere di più l'intuizione dell'uomo di Stato, che non il teorico della scienza politica.

Quel che il filosofo dovrà sempre ammonire è che l'autorità non deve recidere la libertà, né la libertà pretendere di fare a meno dell'autorità. Perché nessuno dei due termini può stare senza l'altro; e la necessità della loro sintesi deriva dalla profonda natura sintetica dell'atto spirituale.

6. - Il liberalismo

Chi conosce la storia del liberalismo sa bene che esso ha origini storiche circostanziate e contingenti e uno sviluppo storico aderente allo sviluppo della società borghese e industriale europea dalla fine del 600 in qua: ossia che esso non è propriamente una dottrina filosofica dell'uomo considerato — come lo considera sempre la filosofia — sub specie æterni, ma la soluzione di un determinato problema storico. Il quale, comunque, è risoluto e sorpassato. E coincide con la formazione di quello che si dice lo Stato moderno, che passa per due forme differenti, variamente rappresentate in modo più o meno distinto e significativo nei vari paesi d'Europa, ma così strettamente connesse che la seconda non s'intende senza la prima di cui è lo svolgimento necessario.

Queste due forme muovono dalla negazione dello Stato feudale del medio evo, e chi oggi, esaltando il sistema liberale, ne cerca gli incunaboli nei parlamenti medievali, dimostra in verità di non possedere un chiaro concetto di quel che sia storicamente la ragione e l'essenza dello Stato liberale. Giacché lo Stato feudale è quello dell'autorità che scende dall'alto, per diritto divino, per grazia di Dio, come qualche cosa di natura, un che di immediato. La feudalità e i parlamenti in cui essa si organizza variamente, non toccano questa essenza dell'autorità in cui si concretano il potere e il valore dello Stato. La quale invece è negata con lo stato delle Signorie, prodotto dell'umanesimo italiano: quando la forza, o virtù che si dica, dell'uomo operante secondo la logica del Principato crea storicamente lo Stato, che né Pontefici né imperatori instaurano, nulla di trascendente l'umano volere pone in essere, ma deriva appunto dall'atto di questo volere, anzi è questo atto. E la Signoria è una trasformazione del Comune, che è sì, esso, la culla dello Stato liberale. Ma la Signoria rispetto al Comune ha un vantaggio essenziale: essa introduce l'unità del potere e risolve l'atomismo degl'individui e delle classi nella personalità dello Stato, che vuole attuarsi compiutamente come autocoscienza. Dalle Signorie l'assolutismo dei monarchi nazionali, che conquistano, detengono e difendono il dominio, e possono dire: l'Etat c’est moi. E politici e filosofi s'inchinano al monarca illuminato, in cui vedono l'interesse e il pensiero dei cittadini, eguagliati sotto il potere supremo in comunanza di diritti e di doveri, fatto persona, autocoscienza. E se tutti i cittadini potessero essere veramente uguali, come quella filosofia li presuppone, e cioè indifferenti, quell'assolutismo sarebbe l'ideale dello Stato. Il quale regge infatti finché nella sfera della società civile che il monarca dirige e governa, non si viene sensibilmente rompendo cotesta indifferenza, col costituirsi di interessi di individui e di gruppi sociali che col lavoro, l'iniziativa, l'ingegno, l'operosità, ecc., vengono assommando a sé cospicue energie sociali della cui plusvalenza e prevalenza a poco a poco diventa impossibile non tener conto. Sorge la borghesia. Di fronte alle classi privilegiate (clero e nobiltà, naturali alleati del dispotismo che, pur essendo un prodotto storico, si pone di fronte al cittadino come un immediato e un limite da riconoscere meccanicamente) sorge questa nuova classe che scalzerà le altre e vorrà esser tutto: la classe degli uomini senza passato e senza investitura, figli di sé stessi, e forti della forza che essi stessi vengono di fatto dimostrando col lavoro e ogni altra sorta di attività personale, nell'industria creatrice dei beni di cui tutti han bisogno per vivere. Questa classe raccoglie in verità tutti gli uomini che siano degni di questo nome nello Stato moderno, in cui l'uomo (il principe) vale tanto quanto sa e può, e perciò quanto è capace di produrre e metter di suo nel mondo.

Questa classe, la borghesia, con la sua effettiva produttività, mentre si differenzia dalle vecchie classi e si differenzia in sé stessa per la necessaria varietà del lavoro e degli interessi che esso crea — non è più riducibile al principio del Principato, ma concorre con questo nella creazione degl'interessi che lo Stato contiene e tutela. Vi concorre in vario modo, e in misura sempre maggiore a mano a mano che l'industria con lo sviluppo del lavoro (del pensiero) si svolge, e aumenta sempre più il proprio valore. La rivoluzione francese, come già la inglese e l'americana, è l'affermarsi del terzo Stato, ossia della borghesia, che a un certo punto del suo sviluppo si sveglia, sente che il Principe di contro a essa è puro arbitrio, e gli sorge di fronte per limitarlo alla funzione di organo esecutore della propria volontà. Che d'ora innanzi si presumerà possa manifestarsi attraverso la rappresentanza nazionale. Ed ecco il liberalismo.

Ma c'è bisogno di ricordare che nel secolo passato lo sviluppo della grande industria doveva evocare dietro al terzo, il quarto stato, poiché l'industria aveva creato il capitalismo, e il lavoro dei capitalisti o detentori delle ricchezze conquistate col lavoro diventava un'astrazione senza il lavoro dei lavoratori? Anche una volta il popolo minuto insorse contro il popolo grasso. Sorse il socialismo e il comunismo; e lo Stato liberale, lo Stato della borghesia cominciò a essere scrollato come Stato incapace a garantire la libertà della maggioranza dei cittadini, che è costituita dalla massa dei lavoratori. Lo Stato liberale entrò in crisi, da quando cominciò a staccarsi dalla realtà sociale-economica, per la cui organizzazione politica era nato. I rappresentanti non rappresentarono più nello Stato l'effettiva volontà del cittadino. Il quale si estraniò dal congegno di questo Stato falso, vuotato del suo proprio contenuto, e cominciò a corroderlo in doppio modo:

1))

partecipando al giuoco della rappresentanza sentita come una forma vuota e fallace e destinata perciò a cadere, piegando con la violenza del numero le forme parlamentari al tradimento della loro originaria funzione statale (metodo negativo che ha ne' vari Stati corrotto il sistema parlamentare, disgregando le forze vitali dello Stato che i liberali originari avevano creduto di salvaguardare e rafforzare con la stessa libertà;

2))

appartandosi nei sindacati, per creare in questi il loro vero Stato, aderente veramente al loro interesse e capace perciò di tutelarli.

Il problema dello Stato oggi non è più quello di assicurare il riconoscimento del valore politico del terzo Stato — che fu il cómpito dello Stato liberale — ma di garantire al lavoratore e ai suoi sindacati il valore politico, che essi reclamano e che non possono ottenere finché la molteplicità dei sindacati non si componga nell'unità dello Stato. Perché l'uomo politicamente è Stato; ed è uno Stato o nulla. Laddove i sindacati come raggruppamento di individui secondo le differenti categorie in cui gli individui economicamente, come forze produttive, vengono a distribuirsi, sono al pari degl'individui molti: ciascuno diverso da tutti gli altri, e ciascuno perciò chiuso in sé stesso e non disposto a riconoscere se non il proprio esclusivo interesse. Che è la forza, com'è il difetto del sindacato. Nel quale l'individuo ritrova quella immediatezza che trova in sé stesso: niente che astragga dal suo proprio interesse, niente di generico che gli possa parere imposto dall'alto o dall'esterno. Qualche cosa come la sua stessa famiglia per chi la famiglia senta come l'ampliamento e la concretezza della sua stessa persona in breve cerchia dove tutto gli è noto, tutto domestico e intimo, e suo ogni dolore come ogni gioia, e la vita di cui si parla e per cui si ha interesse è la sua stessa vita. E come la famiglia infatti il sindacato è stato esaltato quale efficacissima scuola dell'operaio, che vi impara naturalmente a uscire dal suo primitivo egoismo, ad apprezzare e sentire come suo un interesse comune, e a trovare, per tal modo, la norma della propria condotta in un ideale superiore all'istinto di natura.

Ma il sindacato è il sindacato, e la sua struttura omogenea importa per la divisione del lavoro altri sindacati. Ci sono, e non possono non esserci altri sindacati. E una volta sorti i sindacati contro i datori di lavoro, i lavoratori si troveranno di fronte le unioni di questi datori di lavoro. Un atomismo sociale in flagrante contrasto con le necessarie correlazioni che intercorrono tra ogni sindacato e tutti gli altri. Il sindacato perciò è un atomo, come apparisce alle sue unità, e non è un atomo, perché è superato dal suo naturale nesso cogli altri. Supera e deve superare il particolarismo che è il suo astratto universalismo sociale. Ogni sindacato è una fetta d'uomo, e l'uomo non può essere che uomo intero; e il suo Stato perciò non è sindacato, ma superamento e risoluzione dei sindacati nell'unità fondamentale dell'uomo che si articola in tutte le sue categorie sindacali; e che non è un risultato, ma il principio e la condizione della molteplicità dei sindacati.

Sicché lo Stato è sì sindacato allo stesso titolo per cui è individuo: ma individuo consapevole della propria reale complessa universalità la cui attuosa volontà è lo Stato. Così il sindacato è lo stesso Stato quando si eleva dagli angusti suoi limiti di categoria sociale alla piena unità del volere univerale che anima e promuove tutte le categorie.

L'errore del vecchio liberalismo che torna sempre variamente camuffandosi a girare pel mondo come l'ultimo figurino della politica estera, è l'errore stesso del sindacalismo: la concezione atomistica della società, intesa come l'accidentale coacervo e incontro di individui, che sono astratti individui, o di sindacati, che male presumono di esistere e male pretendono di esistere perché sono astratti. Come li può concepire soltanto chi alla società guarda materialisticamente, e la vede come moltitudine che convive e deve unificarsi non essendo per sé altro che negazione della unità. Individui esterni l'uno all'altro, partecipi al bellum omnium contra omnes; sindacati esterni del pari reciprocamente e incapaci perciò di attingere quella unità, di cui la loro natura è la negazione.

A vincere perciò questo astratto sindacalismo non può essere il liberalismo ugualmente astratto degli individualisti; quella sorta di massiccio materialismo, che fu sempre combattuto da uno che di libertà se ne intendeva, il Mazzini. Il quale voleva sì la libertà, come la vuole ogni uomo consapevole della sua natura; ma sapeva che la libertà non è attributo dell'individuo astratto, ma di quello che è ogni individuo in concreto, il popolo: è libero italiano in quanto libero è il popolo italiano e non può che essere schiavo se schiavo è il suo popolo. Quindi prima unità e indipendenza di esso; che non è un popolo se è diviso e ignora o è inetto ad attuare la coscienza della propria unità; e non è un popolo neppure se è soggetto allo straniero. Dunque, libero è soltanto l'individuo nel libero Stato. O meglio, libero è l'individuo che è Stato libero, poiché lo Stato, realmente, non è tra gli individui, ma nell'individuo, in quella unità di particolare e universale che è l'individuo (1).

7. - Etica e politica

È una delle distinzioni su cui la recente filosofia italiana più ha voluto insistere, salvo a trascurarla strada facendo per fare intervenire il criterio etico nella politica.

La base della distinzione è sempre nell'astratta considerazione de' vari momenti che si possono infatti distinguere nella vita dello spirito. Volere semplice, economico, pura forza, — e operare morale? Ma la forza del volere, in quanto forza che si chiama diritto (dura lex sed lex) è il volere voluto, che si pone come limite della libertà. Questo limite è necessario, e non può mancare. È il momento del diritto, dello Stato come autorità, che è volere potente, innanzi a cui deve cedere l'arbitrio.

Lo Stato è lo stesso individuo nella sua universalità. Impossibile quindi che non gli competa la stessa moralità dell'individuo, quando nell'individuo lo Stato non sia un presupposto — limite della sua libertà — ma la stessa attualità concreta del suo volere. La distinzione regge nel terreno empirico finché si distingua e opponga l'individuo allo Stato. Allora si può pensare una moralità individuale non congruente con la legge dello Stato. Ma, comunque, lo Stato come volere ha una legge universale, un imperativo categorico, che non può essere altro che moralità. E le incongruenze non possono riguardare altro che la diversità dei problemi da risolvere, sempre diversi anche nell'ambito della cosiddetta moralità individuale.

8. - Stato etico

Da questo concetto dello Stato deriva la sua immanente eticità. Della quale vuole spogliarlo chi? Chi ha interesse a osteggiarlo: l'opposizione che ne fa bersaglio a' suoi colpi, comincia naturalmente dal farne una res, scevra di valore, immeritevole perciò di qualsiasi rispetto. Ma chi nega l'eticità dello Stato, s'affretta ad apprestargli con la sinistra quel che gli ha strappato con la destra. Perché lo Stato di cui si disconosce il valore etico è... quello degli altri. Al quale giova sostituirne un altro che, ben inteso e ben trattato, potrà esser sì rivestito del valore che la concezione morale e religiosa della vita può conferirgli facendone uno strumento delle sue finalità superiori. Senza avvertire che una cosa (strumento) non potrà mai acquisire alcun valore; e che perciò, su questa via, non c'è altra possibile via d'uscita che la teocrazia. La quale foggia o postula uno Stato, che coincidendo con la stessa divina volontà ricade nel concetto del contestato Stato etico.

Ma se la teocrazia non è parola vuota, non c'è ragione di adombrarsene. Perché nessun dubbio che il volere dello Stato è un volere divino, sia che s'intenda nell'immediatezza della sua attività, sia che più pienamente si assuma come l'attualità concreta del volere. C'è sempre Dio: il Dio del vecchio e del nuovo Testamento.

La ribellione morale che provoca lo Stato etico è la riconferma della sua eticità. Perché una forza amorale non potrebbe mai dar luogo ad apprezzamento etico. La ribellione nasce ogni volta che dello Stato si senta la forza, e non si riconosca il valore (positivo). Ma in questo caso gli si attribuisce bensì un valore, ancorché negativo; come al peccatore che si vuol ravveduto, pentito, redento; e si considera perciò capace di ciò.

La prova flagrante dell'eticità dello Stato è nella coscienza dell'uomo di Stato.

I luoghi comuni delle divergenze tra morale e politica rientrano nella casistica della dottrina morale.

9. - Moralismo

Nessuna più efficace riprova dell'eticità dello Stato che il moralismo, di buona o cattiva lega, ingenuo o retorico, con cui s'industriano di venir toccando e tentando di risanare le piaghe morali della convivenza politica gli avversari della dottrina dello Stato etico. I quali dopo avere logicamente spogliato lo Stato e la politica, in cui esso si attua, d'ogni attributo morale, inorridiscono della umanità che essi si sono artificialmente foggiata in mente: umanità senza umanità, poiché la moralità è certamente la caratteristica più essenziale dello spirito umano.

Uno Stato per sua natura anetico non è perciò immorale; ma è peggio che immorale. Io direi che sia inumano, se è vero, come s'è avvertito, che nessuna forma di attività umana è concepibile che non sia per sé stessa subordinata alla legge morale. Peggio che immorale. Perché l'immorale è destinato a redimersi e ricrearsi nella moralità; laddove l'amorale è per definizione escluso da ogni possibilità di moralizzarsi.

E può l'uomo tollerare che nell'ambito del suo operare qualche cosa si sottragga all'impero di quella legge morale che è la creatrice della sola vita possibile all'uomo? Anche gli animali domestici che l'uomo s'è indotto ad ammettere nel circolo della sua vita quotidiana, egli li assoggetta a una rudimentale regola di condotta, a un'elementare distinzione di lecito e illecito, che in tutti i modi cerca loro di inculcare fino al punto di poter confidare che essi, comunque, se la siano appropriata e l'osserveranno. Così innanzi alla feroce forza che fa nomarsi dritto, innanzi a questo Briareo dalle cento braccia, che mette le mani per tutto e fa e disfà l'opera degl'individui che sono in concreto la realtà morale, pura forza immane e ignara di ogni norma di giustizia, ecco scattare il naturale bisogno dell'anima umana di proclamare e difendere la moralità, ossia la salvezza dello spirito. Cotesta forza andrà bensì riconosciuta e conservata, ma in quanto utile ai fini dello spirito che essa ignora, e che perciò la trascendono. Lo spirito, moralità, è libertà. Ebbene lo Stato, che per sé stesso ignora questa libertà, la quale lo trascende come qualcosa di affatto superiore e incommensurabile, deve con le sue istituzioni favorire e promuovere l'esercizio di questa libertà. Deve? Ma dunque ha un dovere morale? È anch'esso etico come ogni singolo individuo che ha i suoi doveri verso la libertà e che noi distinguiamo nel seno dello Stato? Sarà come un animale da addomesticare; giacché che altro è addomesticare un animale se non ammetterlo, come si diceva, nella nostra società, nella nostra famiglia, e quindi contraddire in pratica a quella natura sub-umana e però antisociale che gli si è attribuita senza troppo pensarci su?

Lo Stato sordo alla legge morale appunto perciò si finisce con volerlo assoggettare a una guida superiore, quasi a un'artificiale moralizzazione e umanizzazione. E dall'arbitrarietà dell'assunto, scaturisce una sorta di zelo impaziente, di violenta frettolosità di strafare. Per la quale in questi filosofi della politica non è più la moralità che si fa innanzi con la sua schietta ed eloquente semplicità, ma un moralismo passionato e oratorio che si riversa sulla storia e la sommerge in un indistinto movimento di luci e di ombre soprannuotanti al reale processo storico, in cui si viene realizzando lo Stato: col risultato di ridurre il grande problema dello Stato, che è il problema della storia universale, al piccolo problema borghese del dare e dell'avere di questo o quello Stato, di questo o quel partito dominante, di questo o quell'uomo di Stato di fronte all'ideale morale. Tanto più cresce l'ansia morale quanto più questa è stata negata là dove è la sua sede. L'ansia, l'affanno... e la retorica traggono motivo dalla disperazione di mai più abbracciarsi col vivo della vita morale.

 

GIOVANNI GENTILE - 1943

 

Note

____________

(1)

La libertà del cittadino è la libertà dello Stato. Non c'è libertà all'interno senza indipendenza all'esterno. La quale importa la guerra e quindi una limitazione della libertà interna. Ma senza questo limite non è possibile libertà, perché non è possibile indipendenza. In generale, dove si scuote l'autorità e autonomia dello Stato, si compromette e si scrolla il fondamento della libertà. Infatti chi mina quell'autorità non intende a negare lo Stato, ma a distruggere uno Stato per edificarne un altro. Perciò rivoluzione sì, ma transitoria.

 

 

Ed. digitale: F. Savarino, 2005


back

 

Hosted by www.Geocities.ws

1