Oggi, Italiani, siamo al punto. Oggi come non mai, da che siamo risorti a Stato e abbiamo detto: «Ci siamo», gli occhi dello straniero sono sopra di noi. Non basta che il nostro esercito, la nostra marina, la nostra aviazione abbiano fatto prodigi di valore; il nemico, che ha assaporato l'amarissimo gusto delle disfatte, si è rovesciato con tutto il peso immane delle sue macchine brute sopra questa più debole parte del fronte avversario tenuto da noi; ha fatto scempio delle nostre città; ha incrudelito contro i domestici focolari, sopra le nostre donne, i nostri vecchi, le nostre tenere creature: ha sperato, presume di fiaccarci e piegarci col terrore e l'orrore di un flagello, che assume proporzioni d'uno di quei flagelli che si scatenano dalla natura e innanzi ai quali l'uomo fugge esterrefatto, quando non sia sterminato. Oh la insana furia devastatrice che ha imperversato sulla bella Palermo, perla del Mediterraneo, cuore generoso dell'eroica Sicilia. La notizia dell'ultima spettacolosa e infame incursione sopra di essa mi giungeva con le bozze di un bellissimo libro, che ora si ristampa: Palermo cento e più anni fa di Giuseppe Pitrè, del siciliano più amante della Sicilia che ci sia mai stato, del più siciliano dei siciliani, scrittore di grande dottrina e di grande passione, autore di una ciquantína di volumi, in cui vive eterna la vecchia Sicilia, che portò alla patria comune l'ardore de' suoi entusiasmi, la tempra ferrea del suo carattere, la fierezza della sua anima indomita, l'acutezza dei suo ingegno, e una grande fede nell'Italia madre. Se Giuseppe Pitrè avesse vista la sua città natale, la città dove visse tutta la vita, la città da lui investigata in tutte le sue strade, le sue chiese, i suoi palazzi, nella vita pubblica e nella privata, nei suoi signori e nel suo popolo, e amata come la casa dove siamo nati e dove risorgono ad ora ad ora tutti i ricordi domestici intessuti nel fondo della nostra anima; se l'avesse vista devastata dai novissimi barbari, e le case abbattute e le strade desolate dalle macerie e dalla morte, oh, come ne sarebbe schiantato! Ma il suo schianto è il nostro schianto: per Palermo, per Genova, per Napoli, per Messina, per Cagliari, per Trapani, per le città più duramente colpite. La risposta a questi eroi dello sport in cui non splende una luce di onore militare, l'han data le nostre popolazioni bombardate, mitragliate, tormentate fisicamente e moralmente di giorno e di notte per mesi e mesi tra i disagi e le miserie inenarrabili di ogni genere, conseguenti a ogni incursione, tra il terrore della morte e le tribolazioni degli sfollamenti, nella fame e nella sete, maledicenti sempre al nemico spietato, anelanti sempre alla salvezza della Patria.
Non un grido di protesta contro i presunti responsabili della guerra; non un tentativo di farla comunque finita; non un segno di stanchezza e prostrazione degli animi.
Spettacolo ammirevole e altamente commovente che incute rispetto agli stranieri, che fa riflettere i nemici e deve far riflettere noi stessi. I nemici rifletteranno forse che non è questa la via della vittoria perché non è questa la via dell'onore. Noi, da parte nostra, dobbiamo riflettere che di questo popolo che meraviglia il mondo con la sua eroica capacità di resistenza, noi Italiani dobbiamo essere degni per l'animo impavido che non trema si fractus illabatur orbis; degni per la coscienza del dovere che c'incombe di assistere con cordiale solidarietà tutti questi nostri fratelli che più soffrono per la Patria comune; di sorreggerli con l'esempio e con la parola; con l'esempio di abnegazione e devozione alla causa per cui si combatte e per cui si può chiedere il sacrifizio anche delle cose più care: con l'esempio della fierezza con cui devono essere sfidati i pericoli e sopportati i più dolorosi disagi se questi sono inevitabili per la vittoria; con la parola animatrice, sdegnosa fino allo scrupolo d'ogni confessione delle nostre debolezze, dei nostri difetti, di tutte le difficoltà, tanto maggiori quanto più sentite e sciorinate agli altri e a noi stessi: la parola che sia sempre seminatrice di fede e non insinuatrice di pessimismo. Tutti gli Italiani che riflettono, che pensano, che in questa lunga vigilia della vittoria, quando non abbiano più urgenti cure di lavoro e di pratici problemi profittano del celeste dono dell'intelligenza, che è sempre critica e tende sempre alla satira o all'invettiva, per farne materia di analisi, di considerazioni più o meno oggettive, come si dicono, e ad ogni modo irresponsabili, sopra l'andamento della guerra, sopra le sue origini, sopra le sue difficoltà, sopra gli errori commessi, sopra l'esito finale, non sono gl'Italiani degni del popolo che soffre e non diserta. Gli Italiani che domandano ogni giorno i conti, che vogliono vedere freddamente come vanno le cose, che hanno da dire qualche cosa su tutto quello che si fa, che si mettono insomma al di sopra degli avvenimenti, poiché esercitare l'intelligenza è sempre un mettersi al di sopra delle cose e trarsi fuori dell'azione, per fare la parte di spettatore che giudica senza compromettersi; questi falsi Italiani devono aprire bene gli occhi e por mente che non è punto vero che essi non si compromettono e non agiscono. Essi compiono una loro azione, un'azione vile di devastazione delle energie morali del popolo che soffre e combatte, essi assumono una tremenda responsabilità: la responsabilità del tradimento. Nessun Italiano ha oggi il diritto di dire: - Questa non è la mia guerra; io non l'ho voluta -. Non c'è nessuno in Italia che prenda parte alla vita della nazione in modo più o meno attivo, che non abbia voluto la guerra in cui la Patria è impegnata.
L'avrà voluta indirettamente se non per diretta decisione. Poiché una guerra come questa, in cui sono impegnate, in un modo o nell'altro, tutte le forze del mondo, una guerra che gli storici non potranno spiegare senza risalire a secoli di eventi che l'hanno preparata, maturando lentamente attraverso tutto lo svolgimento dell'imperialismo anglo-sassone, la concentrazione e il potenziamento della grande industria, la risurrezione e l'organizzazione dell'Asia, il travaglio sociale del lavoro e pensiero europeo nella rivendicazione delle classi lavoratrici e delle utopie che ne son derivate; una guerra di queste proporzioni che è sotto i nostri occhi una delle maggiori crisi della storia del mondo, non è concepibile come risoluzione arbitraria di uno o più individui. Tutte le previsioni umane sono state via via superate; perché chi operava ed opera non è l'umano accorgimento, che negli individui pare arbitrio derivante da personali programmi contingenti. Opera un agente molto superiore, che è pure umano ma fa pensare a Dio; o se questo nome che qui non si nomina invano, vi pare troppo alto, dite pure la Provvidenza o anche la logica, o la necessità della storia. Fata trahunt; e ogni recriminazione nel pericolo è viltà. E' pavida ansia di mettersi in disparte, mentre l'incendio infuria ed è dovere di tutti adoperarsi a spegnerlo.
Da questa viltà non è facile guardarsi. Ma tanto maggiore perciò il dovere di non cadervi per leggerezza, irriflessione, perfido gusto di chiacchierare e far pompa del proprio acume. Massimo dovere questo per gli Italiani che hanno per lunghi secoli scontato questo difetto della loro più alta virtù, voglio dire l'intelligenza. Della quale abusarono in passato, dal Rinascimento in qua, staccandola dalla vita per darle agio di spaziare liberamente nella letteratura e nell'accademia; e dopo i martiri del '99, del '21 e del '31 ci volle l'apostolato assiduo, ardente di spirito religioso di Giuseppe Mazzini; ci volle anzitutto la rivoluzione spirituale operata, con quella mano poderosa che pareva non aver nervi, da Alessandro Manzoni, per riportare l'intelligenza alla serietà religiosa della vita: dove non c'è parola, non c'è sentimento che non pesi in eterno col suo valore, e non c'è perciò attimo della vita di cui l'uomo non debba render conto anche nel segreto della sua coscienza.
Né recriminare, né far profezie almanaccando sull'avvenire che resta sempre sulle ginocchia di Giove anche per quei pochi che conoscono della politica tutto ciò che ai molti sarà sempre impossibile conoscere. Vinceremo? Non vinceremo? Entrambe le previsioni sono deleterie se fatte come di eventi oggettivamente necessari, i quali accadranno, quale sia la nostra personale condotta.
Diventando infatti sorgente di quel facile ottimismo e di quel non meno facile pessimismo che non costano nulla oltre un piccolo gioco di parole e di calcoli più o meno probabili, ma sono ugualmente funeste come tentazioni rallentatrici e disgregatrici della volontà. Io sono stato sempre ottimista. Ma l'ottimismo sano e legittimo non riguarda gli avvenimenti che sono nelle mani di Dio, ma s'irradia dall'intimo della nostra coscienza e della nostra persona: è l'ottimismo di chi crede, e con la sua fede crea il bene a cui si aspira; o, che è lo stesso, concorre a crearlo.
Vincere l'Inghilterra, l'esecrata tiranna di ieri, la tiranna certamente spietata di domani, si, la dobbiamo vincere; e la vinceremo, se la vorremo vincere a qualunque costo; se non ci stancheremo di combattere, se resteremo fedeli ai nostri impegni verso gli altri e verso noi stessi, se in ogni ora del giorno, in ogni istante ci ricorderemo di questo nostro dovere. Ma questa vittoria è una vittoria secondaria e subordinata; la principale è un'altra vittoria, condizione della prima, e sola veramente essa è quella che dobbiamo ottenere giorno per giorno costantemente, sopra noi stessi, vincendo tutte le tentazioni allettatrici della viltà, reagendo con cuore indomabile ad ogni avversa fortuna, tenendo sempre alta la bandiera: la bandiera della Patria, che è la bandiera della nostra coscienza, della nostra morale esistenza. E’ la vittoria che dipende da noi, e che nessuno ci potrà strappare dalle mani se noi la terremo in pugno con tutto il vigore dell’anima, come la nostra dignità alla quale nessuno vorrà mai sopravvivere.
Ogni popolo ha Innanzi una vittoria che è il suo dovere, e una vittoria che è il suo diritto. Il quale non suole mancare a chi compie il proprio dovere. E quando fallisse, quando tutto fosse perduto tranne l'onore, o prima o poi, la storia ce l'insegna, la giustizia si compirebbe perchè un popolo che serbi intatta la coscienza della propria dignità, e la purezza della propria razza, che non smarrisce la nozione di quello che è, e dev'essere, potrà vedersi a un tratto oscurare il firmamento sopra di sé; ma a breve le stelle torneranno a brillare nel cielo; ed egli nella sua coscienza tranquilla saprà ritrovare la sua via. Ed i nemici continueranno ad inchinarsi alla nazione che anche attraverso la sventura abbia dimostrato la sua natura immortale. L'importante dunque è aver fede nella vittoria: nella essenziale vittoria che dipende dalla nostra stessa fede ed è infatti nella nostra volontà. Essa sola può farci meritevole dell'altra. La cui previsione è molto difficile per le ovvie ragioni che tutti sanno; ma anche per una considerazione che per solito sfugge, e che deriva dalla stessa difficoltà di determinare il significato reale della parola «Vittoria».
La quale è bensì la conclusione della guerra guerreggiata; ma può essere una conclusione militare, per cui una delle due parti contendenti è costretta a deporre le armi; ma può intendersi anche come una conclusione politica, la quale è complessa e risulta da una convergenza transitoria di interessi che provochi magari una Carta atlantica sottoscritta con la piena coscienza che gli eventi, andando al di là del preveduto, potranno buttare quella carta in fondo allo stesso Atlantico. Meglio dunque attenersi a Dante, che colloca in Malebolge indovini e astrologhi condannati in eterno a portare il viso stravolto sulle spalle, come Tiresia e come Anfiarao che ha fatto petto delle spalle perché volle veder troppo davanti; di retro guarda e fa retroso calle. Secondo Dante, questo strologare sul futuro è un portare passione al giudizio divino. L'uomo, che abbia senso di vita morale, deve anche lui chinare la fronte e riconoscere il massimo Fattore, e tacere, ma tenendo virilmente il proprio posto, disposto a vivere, disposto a morire.
Senza questa religiosa disposizione dell'animo, l'uomo si sbanda, e diventa pagliuzza in balia del vento; ma non è più uomo, come può soltanto avendo un carattere, un volere, un dover, un punto che è il suo centro, la sorgente della sua vita e di ogni suo pensiero. E vorremmo noi negar la fiducia a Dio se noi avremo fatto tutto il nostro dovere? Potremo noi sospettare che i valori dello spirito che noi realizziamo, vadano perduti? Potremo noi temere che questa Italia immortale, che splende agli occhi di tutti nel mondo, se è viva negli animi nostri, perisca sotto i colpi di ebbri piloti di fortezze volanti? Potranno cadere anche le mura e gli archi, che sono rimasti per millenni a testimoniare la maestà di Roma e la barbarie dei suoi nemici; potranno, in questa lotta del nuovo continente restio e sordo all'azione incivilitrice dell'Europa e cioè di Roma, i nuovi barbari compiere l'azione devastatrice degli antichi: ma ci può essere uomo al mondo, di qua o di là dall'Oceano, che pensi di far tramontare la gloria di questo Campidoglio fulgente? Che pensi che il Sole possa qualcosa urbe Roma videre maius? E dico Roma antica e moderna; e dico il Comune italiano e il Rinascimento; e dico il Risorgimento. Le città nostre potranno essere distrutte; ma saranno riedificate perché il popolo stesso che le ha fatte nascere le farà rinascere; potranno anche esser mutilate o annientate le chiese e i monumenti, che facevano ricercare da ogni uomo colto la nostra terra di civiltà sempre viva nel genio che le produsse; ma gli stessi avanzi parleranno e la memoria non potrà perire; e basterà mantener viva la coscienza della grandezza italiana e del bestiale vandalismo di chi a un tratto volle dimenticare che i monumenti di codesta grandezza erano patrimonio spirituale di tutti gli uomini del mondo; anche di quelli che, l’Italia proprio l'Italia, con Colombo trasse dagli oscuri e ignorati ipogei della storia, e accomunò alla vita dell'Europa elevandoli alla luce della nostra civiltà nella solidale collaborazione di tutte le nazioni disciplinate da un'altra religione umana, dalla ricerca scientifica spiritualizzatrice della materialità della natura che essa sottomette a mano a mano alla signoria dell'uomo, e della riflessione filosofica che fa l'uomo padrone di sé medesimo. Né gli Americani si può dire che non lo sapessero, se, come ognuno ricorda, non contenti di venire da noi ad ammirare e studiare, hanno tanto fatto e pagato per racimolare le briciole del grande banchetto italiano di storia ed arte, e arricchirne i loro musei e le loro biblioteche. Italiani, siate voi fedeli alla madre antica; disciplinati, concordi, memori della responsabilità -che viene a voi dall’onore di essere Italiani; risoluti di resistere, di combattere, di non smobilitare gli animi finché il nemico vi minacci, e dubiti della vostra fede e dei vostro carattere. Le dispute e le dissensioni a dopo. A Calatafimi Garibaldi gridò a Nino Bixio: Qui si fa l'Italia o si muore. Quel grido non è spento e la grande voce dell'Eroe risuona, deve risuonare oggi nel nostro cuore: Qui si salva l'Italia o si muore. Noi che siamo sulla china degli anni, e siamo vissuti dell'eredità dei padri, sentendo sempre l’obbligo nostro di conservarla, questa eredità, e per quanto era da noi di accrescerla col nostro lavoro e con ogni sforzo di buona volontà, non sappiamo pensare che essa non abbia a potersi consegnare nelle mani dei giovani, capaci di sollevarla in alto col vigore delle loro braccia al di sopra delle passeggere discordie, dei piccoli risentimenti settari, delle ansie e de' rischi dell'ora presente, al di sopra di tutte le umane debolezze, per tramandarla ai nepoti, sempre viva, splendida della sua eterna giovinezza.
Con questa fede nella Patria immortale, noi mandiamo il nostro saluto di riconoscenza e di amore agli eroici soldati di terra, di mare e del cielo; e continuiamo a guardare alla Sacra Maestà del Re, silenzioso e sicuro nella semplicità austera del gesto e della parola; a guardare negli occhi del Duce, che conosce le tempeste e ci ha dato prove del coraggio che le fa vincere, della indomita passione con cui si deve guardare al destino.