documentos


 

Giuseppe Bottai

Fascismo e cultura

_______________________________________________

G. Bottai, "Fascismo e Cultura", in Critica Fascista, 1° dicembre 1928, pp. 441-443.

_______________________________________________


 

Cerchiamo di cogliere l'intima significazione dei rapporti sempre più vivi, più assidui e, mi auguro, più fecondi, che si vanno creando tra gli uomini del Fascismo e le Università italiane. È bene che tali rapporti si creino e si ricreino di continuo. Ma occorre che non rimangano mera forma; occorre che divengano sostanza d'una nuova, più fusa compenetrazione tra il mondo della politica attuale e il mondo della cultura, che ha, o deve tornare ad avere, nell'Università il suo centro di formazione, di propulsione e di irradiazione.

Non ci dissimuliamo che i più frequenti contatti tra uomini, che nel Fascismo hanno posti di responsabilità attiva, e uomini, che dedicano alla scienza la loro vita, suscitano in taluni gridi di scandalo o atti contriti di pudore.

Vi è, anzitutto, il falso pudore di certi zitelloni della cultura, che deplorano la contaminazione degli studi da parte di uomini dominati dalla vita pubblica. Essi sognano, evidentemente non ad occhi aperti, che l'Università abbia ad essere una specie di campo trincerato, di compartimento stagno o di ermetico laboratorio, dove, in alambicchi misteriosi, si distillano formule vane e sterili. Costoro, o sono dei puri spiriti senza iniziativa, alcun  poco mistici e contemplativi, o dei volponi in veste d'eremiti, che in siffatti modi si lusingano di conservare, per tempi migliori, le fondamenta ormai vecchie, nelle quali si sono scavata la nicchia. Io vorrei domandare a coteste volpi incappucciate: quando mai l'Università fu, negli anni, staccata, avulsa, assente dal suo tempo?

Il professor Brugi, ch'è di noi tutti maestro, ci ha ricordato come tutte le Università, nel loro sorgere, nel loro fiorire, nel loro svilupparsi e, infine, nel loro decadere, aderissero alle condizioni politiche, morali e intellettuali dei tempi in cui ebbero a vivere. Verità vera e provata: o che, forse, nelle Università italiane, negli ultimi anni del secolo scorso e nei primi di questo, fino a ieri, fino a oggi, purtroppo, non prevalse un indirizzo di cultura democratica, liberale illuministica e anche un poco sovversiva e negatrice? E per quali ragioni mai, io sempre domando, se l'Università nostra per opera di uomini della vecchia classe dirigente si conformò agli orientamenti filosofici e spirituali del vecchio Stato, non dovrebbe, oggi che il Regime Fascista ha capovolte le ragioni ideali dello Stato, mutare, come da occidente a oriente, la sua rotta e diventare, vivaddio, fascista fino al midollo?

C'è, poi, accanto a tal sorta di pudore di marca accademica, il pudore degli uomini cosiddetti d'azione, tutti muscoli, tutti nervi, tutti fegato, che temono che il Fascismo, bazzicando le aule universitarie, perda il suo vigor pratico e la sua energia creatrice di fatti. Essi pronunziano parole difficili, come pragmatismo e pragmatistico, onde gabellarci per buono un Fascismo privo di ogni contenuto; ma, per dire il vero, il loro giuoco non è né nuovo né ben trovato, consistendo nell'attribuire al movimento politico e spirituale la povertà interiore di alcuni tra coloro che lo seguono.

Occorre risolvere l'assurda antitesi, con cui, da campi opposti, come s'è visto, da quello concluso della cultura intellettualistica e dall'altro senza confini dell'ignoranza presuntuosa, si tenta di generare un pratico contrasto tra Fascismo-azione e Fascismo-cultura. Basta, a tal uopo, ripensare al breve ma denso corso della nostra Rivoluzione, per ritrovarvi, nelle successive fasi, un integramento non nominale, ma storico dell'un Fascismo nell'altro.

Il Fascismo fu, nei suoi inizi, reazione contro uno stato di cose a tutti insopportabile, che non importa qui descrivere, tanto, nei suoi aspetti di dissoluzione statale e nazionale, esso è vivo nella nostra memoria. Una reazione non uniforme, anzi diversa, da una parte all'altra Italia, dal nord industriale al sud rurale, da provincia a provincia e, nella stessa provincia, da paese a paese medesimo, da individuo a individuo e, nell'aspra lotta di difesa, comune era il nemico, ma contro di esso ciascuno combatteva per quel ch'era alla sua coscienza più chiaro, interesse o ragione ideale. Solo quando il Fascismo marcia su Roma le singole volontà si stringono nell'unica volontà, che cancella ogni particolarismo di individui, di categorie, di ceti, di regioni, per la fondazione del nuovo Stato.

La comunione delle volontà non è ancora la comunione del pensiero, della dottrina, del sistema, del metodo. Il che è un bene nei periodi dell'azione diretta. Le rivoluzioni, allorquando combattono per il loro trionfo, guadagnano d'una tal quale indeterminatezza e imprecisione di idee, così che, nel loro ondeggiante programma, ciascuno possa cogliervi o intendervi quel che più si attagli al suo gusto o al suo interesse. Ma, quando l'azione deve riflettersi e, più che riflettersi, tradursi concretamente nelle leggi, negli istituti o addirittura, come noi stiamo facendo, nella costituzione d'un popolo, l'unità del pensiero è necessaria e, ove essa manchi, si ha l'incongruenza legislativa e giuridica, per cui una rivoluzione può affermarsi in un ordine di istituti e in altro contraddirsi e negarsi. A mantenerla, a temperarla, ad accrescerla dev'essere, io dico, volta ogni nostra cura, in questo tempo e più ancora in quelli cui andiamo incontro.

È vero, e mi piace qui riaffermarlo, che per noi fascisti le teorie, in politica come in ogni altro campo, non sono che strumenti di lavoro, fili conduttori, grandi linee direttrici di marcia. Esse, insomma, non sono la vita, ma mezzi di vita. Del resto, tutte le applicazioni, non solo quelle d'ordine più propriamente politico o economico o sociale, hanno un carattere sperimentale. Nella stessa storia della scienza, nel regno, cioè, delle formule e dei dati precisi e sicuri, si ha una vicenda continua di esperimenti che si legano l'uno all'altro, in una serie infinita e interdipendente di ritrovamenti tecnici e pratiche attuazioni. Ma perché la scienza e ogni altra specie di attività dell'intelletto, non ultima tra le quali la politica, non degenerino in gretto empirismo, è necessario sulla frammentarietà ed episodicità degli esperimenti sovrastare, incombere, con l'unità d'un pensiero organico e sistematico, che riduca tutto ad una traccia e ad un orientamento.

Nessuno, io meno che altri, pensa che sia sopprimibile l'interiore processo critico e dialettico e, ove occorra, perfino polemico del Fascismo. Ma è giunta l'ora di dir chiaro a chi si ostina a riguardare i fatti e le cose e gli uomini e i problemi con la sola osservazione dell'interesse immediato e giornaliero, che in siffatto modo non si vedono che fatti, cose, uomini e problemi in serie, cronaca e non istoria, ideali di settore e non di popolo. Solo un pensiero unitario, solo un'ordinata cultura possono stabilire i rapporti e le connessioni necessarie a dare alla politica d'una classe dirigente un respiro di politica nazionale. Una grande politica non è, in fondo, che un metodo di pensare, studiare, predisporre e ordinare i rapporti tra i valori, ponderabili e imponderabili, che si agitano nella vita di un popolo; un'energia che, ricollegando i particolari all'universale, determina le qualità fondamentali d'un processo storico e crea, con moto unitario e unificatore, uno stile politico e il carattere d'un'epoca.

In questi termini si pone, secondo me, il problema della cultura nella fase attuale del Fascismo. Il Fascismo-cultura, in cui, come s'è visto, si integra, non si nega, il Fascismo-azione, è il fondamento del Fascismo-Stato. Già troppo certi demagogici e facili incitamenti all'incultura hanno devastate anime e coscienze, perché noi si debba seguitare a prestar fede a quegli empirici, che si vantano di procedere a lume di naso. Io non credo alla pratica dei praticoni. Chi non sa organizzare le proprie idee non può pretendere di organizzare quelle degli altri. Nel nostro tipo di Stato, che non è un'arida costruzione burocratica (sia che si tratti della vecchia burocrazia, sia che si tratti di quelle ora nascenti nell'orbita sindacale), non basta una sorta di contabile praticità. Il nostro Stato impegna i cittadini nel loro spirito e nella loro coscienza; è sugli spiriti e sulle coscienze che occorre operare per servirlo. Nelle stesse leggi sindacali, nella “Carta del Lavoro”, l'impostazione dei problemi di interessi materiali e di garanzie contrattuali si lega a ragioni di ordine superiore, come l'educazione e l'istruzione dei singoli e il supremo interesse della produzione, che un organizzatore deve essere in grado di interpretare. Perché ciò avvenga gli è d'uopo non solo conoscere quelle leggi nella loro applicazione immediata, ma saperne calcolare, con almeno approssimativa preveggenza, i possibili sviluppi. L'organizzatore, insomma, deve possedere quella superiore forma di praticità, che consiste nel saper guardare innanzi a sé per non sbagliare o perdere la strada. Quando Benito Mussolini, nella prefazione al libro del tedesco Korherr, afferma che non ha diritto di governare una Nazione chi non sia capace di guardare almeno a cinquanta anni di distanza, vuole alludere all'antiveggenza necessaria nei posti supremi del comando. Ma è pur certo che, discendendo giù per li rami della gerarchia, qualcosa, almeno un paio d'anni di respiro, una vista lunga un po' più che spanna, si avrebbe da trovarla anche nel più umile degli organizzatori. Lasciamo al Capo la visione delle mete estreme; ma esigiamo in noi e negli altri un occhio attento almeno agli obiettivi men lontani. Il problema del comando, si manifesti nelle più alte autorità dello Stato o nelle più modeste, non è solo un problema tecnico, ma un problema di conoscenza e di comprensione, un problema morale, cioè a dire di cultura.

In questo punto preciso si innesta, secondo me, la funzione universitaria nel Fascismo: nella preparazione d'una cultura viva, creatrice d'una classe di uomini atta a dirigere, nella politica, nella scienza, nell'arte. L'Università deve adeguarsi a un compito di questa specie. Tutti i grandi aspetti d'una civiltà, dalla religione alla filosofia, dalla scienza alla letteratura, dagli istituti politici alle organizzazioni economiche, sono riducibili a un principio, unico, che tutti li informi. Il principio animatore del Fascismo deve essere elevato a comun denominatore di ogni ordine di studi. Di ogni ordine: ché, se la necessità di una rivoluzione culturale è soprattutto sensibile negli studi giuridici, politici, economici e sociali, non meno urgente è anche in altri ordini di studi, dove prevalgono tuttavia indirizzi in contrasto con la formazione fascista del carattere e della mente degli individui. Noi non chiediamo all'Università di piegarsi alle finalità particolari e agli interessi contingenti degli uomini, con apologie ed esaltazioni di falsi valori. Non chiediamo bassi servizi, ma che il divino ufficio della cultura sia compiuto con gli occhi fissi alle nuove ideali verità, sorte dal sacrificio d'una generazione. Sempre, negli anni della rivoluzione unitaria, dettero le Università italiane alla lotta idee e combattenti. Idee e combattenti si preparino esse a dare per le lotte di domani, per quelle che l'Italia affronterà, non più per la sua libertà, ma per la sua potenza: potenza di una cultura e di una civiltà nuove, per tutto il mondo esemplari.

 

GIUSEPPE BOTTAI

 

 

Ed. digitale: F. Savarino, 2004


back

 

Hosted by www.Geocities.ws

1