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Fonte: Selezione del Reader’s Digest – Marzo 2004

 

Interviste immaginarie

Qualche domanda a Montezuma

Il crollo dell'impero azteco raccontato da uno dei protagonisti. Che rifiuta l'accusa di essere un pavido. "La nostra visione del mondo era dominata da forze divine".

Confesso che sono un po' imbarazzato, anche perché non so bene come chiamarla, Vostra Maestà o Santità?

Non si preoccupi, comprendo benissimo il suo dubbio, del resto voi europei non avete mai capito molto del nostro mondo.  Neppure il mio vero nome avete saputo tramandare, che non è Moctezuma o peggio Montezuma, è Mohtecuzomatzin, da Moh, espressione di deferenza, tecuhtli, "signore", zoma, "valoroso", e tzin, "principe".  In realtà io concentravo nella mia persona due ruoli, quello politico e quello religioso, quindi mi chiami pure tlatoani, il "Grande Capo".

Se non Le spiace vorrei partire dal dubbio che arrovella storici e studiosi da quasi cinque secoli. Come è  possibile che poche centinaia di ignoranti soldatacci abbiano spazzato via in due anni un impero apparentemente invincibile, nel pieno della sua gloria. O per dirla tutta, eccellentissimo tlatoani, come risponde all'accusa di essere stato un filosofo roso da dubbi esistenziali invece dello spregiudicato condottiero di cui avrebbero avuto bisogno gli aztechi?

Pavido io che nella mia prima spedizione militare ho catturato da solo tre guerrieri nemici?  Io che da comandante supremo ho distrutto eserciti nemici, incendiato i loro villaggi, devastato i campi, requisito vittime da sacrificare?  Io che ho dichiarato guerra alle città ribelli di Uexotzinco e Tlaxcala riportandone migliaia di prigionieri da sacrificare agli dei? Io che ho sterminato la popolazione di Zulantlaca che rifiutava di pagare i tributi?

Suvvia non sia ridicolo.

 

E allora come spiega questo disastro?

Il fattore fondamentale è stata l'incomunicabilità culturale, voi la chiamate così se non sbaglio, perché quelle che per voi sono le mie contraddizioni, o la mia presunta debolezza psicologica, sono solo il risultato del tentativo di far convivere mondi inconciliabili.  La forza dei conquistadores non era tanto nei cavalli, nei cannoni o nelle lame di Toledo, era piuttosto nella capacità di fare spietatamente leva su ogni nostra anche piccola contraddizione, mentre noi aztechi ci muovevamo all'interno di una visione del mondo dominata da forze divine, che spesso agivano in modo apparentemente incomprensibile.  Prenda per esempio la faccenda di Quetzacoatl, la "Stella del Mattino" che voi chiamate erroneamente "Serpente Piumato", l'antico dio barbuto dalla pelle chiara dei Toltechi, che secondo le profezie un giorno sarebbe tornato.  Cortès ha giocato a lungo su questo equivoco, spacciandosi come la reincarnazione del dio.

Se fosse stato vero avrebbe significato lo scontro con Huitzilopochtli, Colibrì Azzurro, il dio supremo dei mio popolo, e questo mi avrebbe creato non pochi problemi visto che Quetzacoatl era la mia divinità protettrice personale.  Così ho cercato a tutti i costi di evitare uno scontro tra dei che avrebbe avuto conseguenze spaventose per gli uomini.  Come vede un panteon di dei troppo complicato può avere ripercussioni nefaste, forse avete ragione voi, un dio solo è più facile da gestire.

 

Lei sostiene che gli spagnoli hanno "barato”, però anche voi -non avete una storia così limpida alle spalle.

Sinceramente preferirei non rispondere perché‚ è una faccenda piuttosto delicata, ma da quanto mi ha raccontato in gran segreto mio padre Axayacatl, è stato il mio bisnonno Itzcoad a distruggere la documentazione della nostra storia antica sostituendola con una versione più "ufficiale".  D’altronde non era accettabile che i potenti Tenochca o Mexica, i nostri veri nomi perché sono stati gli spagnoli a chiamarci aztechi, discendessero da un clan di nomadi straccioni.  Così secondo la nuova versione ci siamo messi in marcia dalla mitica terra di Aztlan in cerca di un'aquila appollaiata su un cactus che spuntava da una roccia.  Lì, secondo la promessa del grande dio Colibrì Azzurro, avremmo potuto fondare la nostra capitale Tenochtitlan, la “roccia del cactus".

 

Forse comincio a capire quello che vi ha perduti, l'adesione a un ferreo sistema di simbolismi che vi condizionava fin dall'infanzia.  Provi a parlarmi della Sua.

Ho un ricordo molto felice di quando giocavo nei giardini fioriti del palazzo di mio padre, respirando l'aria profumata di orchidee e di ibisco.  Compiuti i cinque anni, i miei genitori mi portarono al calmecac, la scuola del tempio, perché mi insegnassero a predire il futuro scrutando gli astri e a interpretare il Teoamoxli, il Libro Sacro.

Poi a dodici anni andai al telpuchcalli, la "Casa dei Giovani", la scuola di guerra che rappresentava il massimo delle aspirazioni per un ragazzo azteco.  Era pi— divertente dei calmecac, perché si imparava a combattere e si apprendevano le danze di guerra.  Lì sono venuto per la prima volta a contatto con l'universo femminile, perché alle danze partecipavano anche delle ragazze, anche se non potevamo parlare tra noi perché era ritenuto troppo peccaminoso.

 

A proposito di donne, può raccontarmi qualcosa di sua moglie.

Penso che si riferisca alla "moglie della stuoia", la prima moglie.  A un certo punto mio zio Ahuitzotl, che allora era il Grande Capo, decise che dovevo sposare Tezalco, una principessa di discendenza reale tolteca come mia madre.  Per fortuna era bellissima, e mi ricorderò sempre i suoi splendidi capelli neri durante la cerimonia nuziale.  Quello fu senza dubbio un periodo felice della mia vita, a trent'anni diventai "condottiero degli uomini", comandante in capo dell'esercito, e nel frattempo era nata Tecuichpo, la mia prima figlia.

 

Poi diventò tlatoani, a 41 anni se non ricordo male.

Si, fu allora che il consiglio delle famiglie nobili mi scelse come capo supremo.  Tutto cambiò nella mia vita, anche in quella privata perché oltre alle prime due mogli, Tezalco e Acatlàn, centinaia di principesse divennero mie spose     perché tutti desideravano imparentarsi con me. Diventai più duro, e forse gli unici momenti in cui ritrovavo la pace erano i rari giorni che trascorrevo in meditazione tra le rovine di Tula, l'antica capitale dei toltechi.  Ma il destino era ormai in agguato.

 

Quando si rese conto che qualcosa di insolito stava per accadere?

Fu a partire dall'anno che voi chiamate 1506, quando il destino cominciò a manifestarsi con un terremoto, un'eclisse di sole e un grande fuoco che ogni notte si alzava nel cielo, era una cometa ma i nostri sacerdoti non sapevano spiegare il fenomeno.  Cominciarono anche spaventose visioni, donne dal volto scarnificato che preconizzavano sciagure, storpi e uomini con due teste che apparivano e scomparivano.  Erano gli stessi anni in cui le acalli, le grandi case galleggianti, cominciarono ad apparire lungo le nostre coste.  Per ben tre volte mi arrivarono rapporti su quegli strani  uomini barbuti arrivati dal mare che avevano volti dal colore di pietra, montavano animali simili a cervi e combattevano con uno strano bastone, un teputzli che lanciava tuoni e fulmini e poteva abbattere un muro.  Sospettavo che disponessero di poteri magici perché adoravano uno strano personaggio inchiodato a una croce che sembrava vittima di un sortilegio, però i loro sacerdoti erano vestiti di nero come i nostri e facevano offerte di fiori e frutta, una caratteristica di Quetzacoatl, e come lui vietavano i sacrifici umani, anche se era un Quetzacoatl strano quello che stava tornando, meno divino e più guerriero. Ero quasi sicuro che fossero esseri umani, probabilmente inviati di Quetzacoatl che preparavano il suo ritorno e, anche se ero deciso ad affrontare il destino, ero consapevole che tutto sarebbe stato inutile e che l'unica cosa possibile fosse temporeggiare.

 

Un errore fatale probabilmente.

E’ facile giudicare adesso, io ricevevo rapporti confusi così il mio piano era di ostacolarli senza combatterli, in attesa di capire se e come il volere divino si manifestasse.  Cortès poi con il suo comportamento facilitava questa confusione, perché scese a terra vestito di nero con un cappello piatto, come usava indossare Quetzacoatl.  Solo in seguito mi sono reso conto che erano suggerimenti di quel serpente a sonagli di Malintzin.

 

Parla della Malinche, l'amante e consigliera di Cortès?

Quella non era una donna, era una creatrice di sventura, d'altronde il suo nome significa "principessa della sofferenza".  All'inizio era solo una schiava-interprete regalata a Cortès, che traduceva il nahuad, la nostra lingua, in maya per l'altro interprete, Aguilar, che a sua volta traduceva in spagnolo.  Però Malintzin era molto intelligente e in poco tempo imparò lo spagnolo, così  diventò l'unica interprete di Cortès, e in più possedeva le chiavi del suo cuore.

 

Come è stato l'incontro con Hernan Cortès?

Quando andai incontro agli stranieri sulla grande strada-diga che univa Tenochtitlàn alla terraferma tutto splendeva nella fredda luce del mattino, le loro corazze d'argento e gli splendidi abiti ricoperti di piume del mio seguito.  Quando finalmente io e Cortès-Quetzacoatl ci trovammo uno di fronte all'altro ci guardammo a lungo in silenzio poi, dopo i saluti di circostanza, riprendemmo la strada insieme.

 

Che ricordo ha dei Suoi rapporti con lui e con gli altri conquistadores?

All'inizio i rapporti erano formalmente buoni, anche perché‚ Cortès con me era di una gentilezza squisita, i problemi grossi nacquero quando volle visitare il Grande Tempio, malgrado il parere contrario dei nostri sacerdoti.

Quando vide il santuario di Colibrì Azzurro attorniato dai resti delle vittime minacciò di distruggerlo se fossero stati fatti altri sacrifici umani.  Ne rimasi sconvolto, come poteva Quetzacoatl chiedere la distruzione di un altro dio?

Però avevamo anche dei momenti piacevoli, ricordo una gita sul lago con uno dei battelli a vela che aveva fatto costruire, o le partite di bocce.  Giocavamo spesso, con una manciata di gioielli come posta, quando vincevo io distribuivo i gioielli tra i soldati spagnoli, quando vinceva lui ricambiava regalando ai miei nipoti,  solo che lui barava, e poi alla fine era pur sempre roba mia quella che regalava, non le pare?

Cortès aveva un minimo d'educazione ma i suoi erano veri selvaggi,  soprattutto i soldati semplici, pensi che quando ero prigioniero uno di loro faceva rumori corporali così spaventosi che gli ho regalato un oggetto d'oro chiedendogli di non farlo più per rispetto alla mia persona.  Invece quello la notte dopo si è comportato ancora peggio, sperando in un altro regalo.

 

Tornando alla politica, ha mai avuto l'idea che le sorti dello scontro potessero mutare?

L’unico momento in cui mi son illuso è stato quando un altro esercito spagnolo è sbarcato sulla costa per arrestare Cortès, ma purtroppo lui ha sconfitto anche Panfilo de Narvaez, il suo rivale.  Poco tempo dopo gli spagnoli mi accusarono di doppiezza e mi presero in ostaggio, quel punto ho capito che sarebbe finito tutto in un bagno di sangue però non avevo scelta, dovevo ritardare il più a lungo possibile il disastro del mio popolo.

 

Mi racconti la fine, se non Le riesce troppo triste rievocare quegli avvenimenti.

Quando Cortès pare per combattere Narvaez al comando rimase Pedro de Alvarado, un uomo valoroso ma impulsivo che, sentendosi minacciato, fece massacrare centinaia di nobili e guerrieri a tradimento mentre festeggiavano Colibrì Azzurro.  Ormai la situazione precipitava, il palazzo dove vivevo con gli spagnoli era praticamente sotto assedio e la mia autorità sempre più debole.

Pochi giorni dopo il ritorno di Cortès ondate di guerrieri si lanciarono all'assalto, gli spagnoli erano in una posizione sempre più precaria, e Cortès mi chiese di ordinare la cessazione delle ostilità. lo sapevo che ormai solo gli dei avrebbero potuto ribaltare il corso degli eventi, ma indossai la corona e mi recai sulle mura.

Per qualche istante regnò un silenzio irreale, poi in molti mi gridarono "traditore" e cominciarono a volare molte pietre, alcune mi ferirono al volto.  Mentre molti aztechi si allontanavano piangendo gli spagnoli mi riportarono dentro il palazzo.  Rimasi in vita tre giorni, poi il quarto gli dei posero fine alle mie sofferenze.  Il mio corpo venne buttato fuori dal palazzo, bruciato su una pira e sepolto in un luogo segreto, così  finì l'ultimo grande tlatoani azteco.                          

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