mvs museo virtuale di scenografia, rivista on-line, servizi per lo spettacolo

 

 

SCENE MADRI

FRA TEATRO TERAPEUTICO E PISCOLOGIA ATTIVA
PER LO SVILUPPO DELLA SPONTANEITA'
Intervista a Giovanni Boria, direttore dello Studio di Psicodramma di Milano
a cura di Donatella Leoni

Milano, 18 settembre 2000, ore 16, Via Cola Montano 18, in un curioso edificio 'novecentista' degli anni '30 color nocciola ha sede al primo piano lo Studio di Psicodramma del Dottor Giovanni Boria. Mi accoglie una collaboratrice che mi dice di attendere presso l'anticamera. Mi siedo in uno spazio piccolo ma accogliente che sembra un ridotto di un piccolo teatro rivestito di moquette blu, su un sedile rivestito di velluto giallo. Alle pareti osservo i ritratti di Jacob Levi Moreno, lo scopritore del metodo psicodrmammatico, di cui uno è bellissimo e lo ritrae in piedi, a figura intera, al centro dell'orchestra di un teatro all'aperto sul tipo greco. Agli angoli scorgo appese delle maschere di bronzo, riproduzioni di maschere classiche da originali greci o romani. Finalmente termina la mia attesa e Giovanni Boria mi accoglie nel suo ufficio ingombro di libri, computer e attrezzature. Dopo i primi convenevoli, mi invita immediatamente a rivolgergli il tu ed io lo seguo in questo invito ad una cordiale vicinanza, inusuale nei confronti di uno psicoterapeuta che so essere di formazione analitica.

DL. Chi sei tu Giovanni Boria e come hai incontrato l'opera di Jacob Levi Moreno sulla tua strada.

GB. Sono partito come assistente sociale negli anni '50 quando l'assistenza sociale era un'idea importata dagli Stati Uniti. Una borsa di studio mi ha consentito di andare a Roma per fare un'esperienza pagata. Avevo scelto di lavorare nel sociale per problemi contingenti, però mi interessava molto la psicologia, quindi, mentre ero a Roma ho potuto laurearmi in Filosofia, non esisteva ancora la laurea in Psicologia; in seguito ho frequentato un corso post-laurea di specializzazione in psicologia all'Università Cattolica di Milano. Nel frattempo mi sono anche sposato e quindi, non essendo più studente, sono stato subito assorbito dalla psicologia perché in Italia c'erano pochissimi psicologi. Era un periodo in cui bisognava costruire le scuole speciali per i disabili in età scolare (Legge n° 1073/1962); poi bisognava andare a disfarle (Legge n° 477/73). Un Comune mi ha assunto per prestare servizio nella scuola. Era una psicologia applicata in funzione di progetti politici, io invece sognavo di fare la psicologia quella vera, di contatto, quella che può passare nella relazione interpersonale terapeuta-paziente. Ho fatto poi l'analisi classica, quella freudiana come lavoro personale e infine l'analisi didattica. Così; oltre al lavoro nel campo istituzionale ho fatto anche per dieci anni l'analista freudiano. Però mi sono sempre sentito un po' a disagio con gli analisti perché sono persone che si propongono spesso come coloro che sanno la verità, sanno come sono fatti gli altri e devono spiegare agli altri come sono fatti. Così, nella mia comunità di colleghi, che è conosciuta come Centro di Via Ariosto…

DL. Anche la mia analista veniva da lì…

GB. Sono analisti che fanno un'analisi di tipo un po' più relazionale, eppure mi trovavo a disagio. Io lavoravo lì, il mio studio era proprio lì. A livello umano c'era anche un bel rapporto, ci intendevamo, ma quando si cominciava con le discussioni io pensavo: "Ma guarda un po' loro cosa capiscono del paziente!" Io invece 'sentivo' l'altro, inteso come paziente, sentivo di passare all'altro degli elementi di conoscenza, degli elementi formativi, ma non sentivo l'esigenza di farci intorno tutti questi ricami che mi sembravano un po' barocchi. Avevo la sensazione che lo psicoanalista avesse bisogno di affermare la sua verità... Quindi, lavorando nelle istituzioni pubbliche, nella scuola speciale dove svolgevo la mia professione erano venuti degli psicomotricisti. La psicomotricità allora era una terapia nuova e così chiesi a questi psicologi di spiegarmi cosa fosse. Mi risposero che occorreva piuttosto provare nella pratica cos'era, così, assieme ad altri colleghi psicologi e sociologi decisi di fare un'esperienza di psicomotricià, con musica, movimento eccetera. In quel momento mi resi conto che in quest'esperienza c'era qualcosa in più, che c'era il corpo, il movimento, la parola non regnava incontrastata e anche l'abilità dialettica, che era così pregnante nell'ambito psicoanalitico, mi sembrava che passasse in secondo piano. Però continuavo ad essere sospettoso, per via della mia formazione. Mi sembrava tutto troppo semplice, troppo immediato, poco costruito dal punto di vista teorico e sono rimasto sospettoso per diverso tempo, finché una collega, sempre dell'ambito psicanalitico, mi raccontò di essere andata a fare un week-end di espressione non verbale e che l'aveva trovata molto interessante, così anch'io decisi di partecipare a due o tre week-end con questa collega, e lì mi sentii bene, mi sentii capito e sentii di capire, nel senso che in quell'esperienza prima si intuisce e poi si pensa, cosa che normalmente avveniva al in senso contrario, cioè prima pensavo e poi intuivo. Questa collega frequentava un certo giro di ricercatori dove si praticavano forme di psicologia sul versante umanistico, d'espressione globale, dove la parola e il pensiero non sono così predominanti. La collega mi informò che sarebbe venuto da Parigi uno psicoterapeuta che faceva esperienze non verbali, ma con un quadro teorico ben strutturato, non basato su intuizioni ingenue, come poteva sembrare a prima vista. Feci questa esperienza e siccome ho una sorella psichiatra negli Stati Uniti, le domandai quali esperienze vi fossero in atto in America e lei mi consigliò di andare nel suo ospedale, a Baltimora (dove aveva lavorato Sullivan e c'era una tradizione di lavoro molto ben articolato) a fare una permanenza di studio. Nell'estate del '77 decisi di passare le mie ferie a Baltimora e presi anche un secondo mese in aggiunta in modo da totalizzare due mesi di lavoro in questo ospedale, dove ne vidi di tutti i colori. Facevo un po' l'itinerante nei vari reparti e padiglioni e lì ho sperimentato l'approccio pragmatico degli americani che consente di sperimentare delle situazioni, dalle più banali alle più raffinate. In questo modo direttamente si prova a vedere se un approccio terapeutico funziona o non funziona indipendentemente dalle aspettative di successo. Si andava dagli incontri con i pazienti per leggere il giornale, alla danza-terapia, alla rap-session, al lavoro con la creta, agli incontri oceanici di comunità; finché un giorno ho partecipato ad una sessione di psicodramma. Questo era quell'approccio psicologico di cui avevo sentito parlare quando studiavo a Roma. Ora venivo a sapere che c'era un centro dove si praticava questa metodologia vicino a New York, precisamente a Beacon, sulle rive del fiume Hudson. Qui Moreno, che era morto da qualche anno, aveva creato il primo teatro di psicodramma. Prima di tornare in Italia decisi di passare da Beacon e di fermarmici un giorno o due. Qui Zerka, la vedova di Moreno, alla sera teneva delle 'sessioni aperte' di psicodramma. Si pagavano cinque dollari, come andare a teatro, ed era un teatro che nasceva con le persone che erano presenti in quella sera. Così è avvenuto il mio primo incontro di rilievo con lo psicodramma, in un teatro apposito come quello di Beacon, con tutte le suggestioni. L'impalcatura, le luci ...c'era Zerka che distribuiva fazzoletti di carta a chi piangeva. Il mio inglese non era perfetto però riuscivo a seguire. Dopo la sessione mi sono intrattenuto con Zerka, la quale mi ha riempito di dépliants. Mi sembrava di aver trovato la strada giusta. Così mi sono organizzato in modo da poter seguire i corsi di psicodramma a Beacon. Per fortuna negli Stati Uniti la formazione avviene a punti: si fanno 30 ore che equivalgono, ad esempio, a 90 punti. Li chiamano crediti. Così ho realizzato a periodi la mia formazione (con il vantaggio di avere una sorella negli Stati Uniti che mi ospitava... e i miei pazienti italiani aspettavano). Ho imparato presto lo psicodramma, anche grazie al mio background di formazione psicoanalitica. Non apprezzavo il setting analitico, però le chiavi di lettura le mantenevo. Gli americani praticavano lo psicodramma in un modo che a me sembra oggi molto discutibile, in quanto spesso non avevano espliciti riferimenti a sostegno della loro pratica. Moreno invece era anche un grande pensatore. Però non è stato capace di avviare una scuola, non era capace di crearsi collaboratori, e la trasmissione del suo metodo è avvenuta in modo un po' empirico. Anche per questo oggi esistono molte forme diverse che prendono il nome di psicodramma, giochi di ruolo eccetera, ma che non hanno niente a che vedere con i riferimenti teorici pensati da Moreno. E io sono abbastanza ostinato, e ho deciso che in Italia volevo costruire qualcosa di che si proponesse come una scuola di trasmissione dell'anima di Moreno. Ho cominciato con piccoli gruppi di colleghi nel '78, sette o otto mesi dopo la permanenza negli Stati Uniti. Si faceva psicodramma come lavoro su di sé ma anche con l'intento di apprenderne lo spirito e la metodologia, con colleghi che avevo conosciuto in occasioni diverse.

DL. Vorrei che tu mi raccontassi le tappe più significative dello sviluppo dello psicodramma, i suoi usi e la sua diffusione.

GB. È una domanda piuttosto dolente nel senso che Moreno era uomo di pensiero, ma soprattutto uomo d'azione e, come la maggior parte delle persone d'azione, aveva delle intuizioni, ma non trovava il momento per sistematizzare, correggere, limare a tavolino, vagliare.

DL. Come molte persone di teatro, come i registi, io ho presente una mia amica scenografa che lavora in una compagnia come l'ATIR, una compagnia di giovani bravissima che ha portato "Le Baccanti" in Albania, che fa un lavoro di scavo emotivo notevole e la regista tira le fila del gruppo.

GB. Però, in questo modo spesso non si riesce a leggere dietro cosa ci sia. Moreno entusiasmava molto le persone con il suo approccio e poi scriveva, però aveva quel modo di scrivere che nella sua forma a volte era controproducente. Nella sua forma di narcisismo aveva deciso di costruirsi la sua casa editrice a Beacon, senza pensare che una casa editrice sopravvive se ha una buona distribuzione. Sarebbe stato opportuno avere un editore esterno che conosceva il mercato, che sapeva approcciarsi ad un libro come ad un prodotto, che poteva consigliare di cambiare certe cose, di tagliarne delle altre o di allungarne altre ancora. Mentre Moreno faceva un po' tutto da solo e pubblicava i suoi pezzi ad uso dei suoi conoscenti. Così, quando ero a Beacon sono andato nelle cantine che erano piene di sue pubblicazioni e con pochi soldi ne ho portate via molte e che sono qui, dietro alle tue spalle, in quella libreria. Lui stampava tutto quello che sentiva di voler pubblicare, ma poi molto rimaneva lì. Erano libri non appetibili dal punto di vista del mercato perché poco strutturati. Scriveva un pezzo e lo pubblicava, ne scriveva un altro e idem. Successivamente decideva di scrivere un libro, costruendolo come un grande collage di quanto precedentemente aveva pubblicato, per cui la sensazione era che leggendolo ti sembrava di averlo già letto da un'altra parte, lasciandoti un senso di irritazione. Molte volte metteva insieme cose in cui la cronologia alla fine non funzionava.

DL. In questo somiglia un po' a Umberto Galimberti.

GB. Ad esempio, il suo testo "Il teatro della spontaneità" era del '24, l'aveva scritto in tedesco. Lo ripubblicò, tradotto, negli Stati Uniti nel dopoguerra con una parte integrativa in cui parlava della bomba atomica senza però precisare al lettore che questa era una parte scritta ed inserita successivamente. Avrebbe avuto bisogno della consulenza di uno che si intende di scrittura e di pubblicazioni, insomma di un buon editore.

DL. È successo così anche un po' con Jung.

GB. Sì, ma Jung aveva un pensiero di tipo immaginifico; in Moreno ci sono passaggi molto logici che dovevano essere trasmessi con maggior rigore. Così chi da fuori leggeva era stimolato a pensare fra sé e sé: "Ma questo è un pazzo, un paranoico, poi critica la psicoanalisi… ma guarda un po', come si permette?"

DL. Per esempio, si permette di contestare il concetto cardine dell'analisi freudiana, la rimozione, che in fondo, per certi versi, è una contestazione abbastanza condivisibile e che poi è stata mossa anche di recente da Massimo Fagioli o da Silvia Montefoschi.

GB. Infatti chi legge Moreno venendo da una formazione come la mia rimane un po' scettico, però la cosa che colpiva, e che ha colpito anche me, era l'efficacia del metodo. Poter osservare una persona molto rigida che si lascia andare abbastanza presto ad esprimere parti di se' che in un ciclo normale di psicoterapia vengono fuori soltanto dopo anni e anni di analisi… Le difese, ad esempio, vengono aggirate in un modo abilissimo e allora ci si rende conto che è un metodo interessante. Coloro che sono affascinati da questo metodo sono persone o eccessivamente sprovvedute, oppure persone particolarmente 'riflessive', fra le quali anche degli analisti. Ma gli analisti spesso prendono delle tecniche dello psicodramma e poi le inseriscono nel loro schema di riferimento, ma alla fine ne stravolgono lo spirito. Manca in queste operazioni concetti di base quali quello dell'incontro e del 'tele' (il rapporto 'reale' fra terapeuta e paziente, il più possibile scevro da fenomeni di 'transfert' vale a dire di proiezioni di propri contenuti inconsci sulla persona del terapeuta).

DL. Ecco, sì, l'idea del 'tele'. Quando nello psicodramma analitico riportiamo ancora il discorso dell'inconscio a mamma e papa, al romanzo familiare... è una forzatura. L'inconscio non è solo mamma e papà e romanzo familiare. Io ad esempio, dopo tanto romanzo familiare, ad un certo punto ho dovuto affrontare gli archetipi. Perché fin dall'85, in tempi non sospetti da successive mode, ero attratta dal buddhismo? Volevo un papa alternativo? Però questi problemi non potevano essere affrontati in analisi, ad un certo punto ho dovuto farci i conti e sono scoppiati, così non trovando nell'analista una alleata in questa ricerca ho dovuto alla fine cavarmela da sola.

GB. In particolare, ritornando al discorso di come si è sviluppato lo psicodramma, in Francia, nel '46-47, con questo aggancio dell'Europa e degli Stati Uniti, mentre in Italia eravamo impegnati nella ricostruzione, molti analisti come Mireille Monod, Serge Lebovici, René Diatkine si recano a Beacon e assistono a sessioni nello stesso modo con cui vi ho assistito io, prendono elementi singoli dello psicodramma e li inseriscono nelle terapie che conducono loro. Da allora in Europa cominciano a fiorire diverse terapie che si chiamano psicodramma, con aspetti di dettaglio (soprattutto di natura tecnica) presi da Moreno e introdotti in altri schemi complessivi di riferimento (per esempio, quello psicoanalitico). In Francia chi fa il cosiddetto 'psicodramma psicoanalitico', ad esempio, usa le azioni sceniche semplicemente come mezzo per avere altro materiale su cui 'discutere'. Si prepara la scena, la si fa interpretare al paziente e alla fine si lanciano le interpretazioni su colui che si è 'mostrato' sulla scena. Gli si dice: "Ti succede così perché… tua madre, tuo padre, l'Edipo eccetera eccetera…". Negli Stati Uniti, invece, l'atteggiamento fondamentalmente pragmatico spesso fa accadere il contrario, nel senso che c'è scarsa rielaborazione intellettuale.

DL. Mi domando perché non chiamare questi modi diversi con altri nomi, come 'analisi operativa' o 'analisi catartica'.

GB. Io chiamo il mio modo di procedere 'psicodramma classico' perchè rispetta i principi originali di Jacob Levy Moreno, che contengono idee quali quella di essere co-creatori nel cosmo. Oppure l'importanza attribuita alla soggettività, intesa come fonte di verità soggettiva che merita il rispetto totale da parte degli altri. Ognuno, in quanto portatore di esperienze diverse, ha la sua verità. Ogni persona è quello che è senza giudizi di valore in termini di normalità o di patologia.

DL. Ci sarà un periodo in cui una persona sta meglio ed un periodo in cui sta peggio...

GB. Lo psicodramma ti consente di creare l'ambiente intorno alla persona su misura dei suoi bisogni. Moreno intorno alla persona che si definiva Gesù Cristo ha collocato gli apostoli.

DL. Qui viene fuori un'altra questione da dibattere con gli psicologi: la preoccupazione nei confronti della fantasia, per cui per alcuni è una fuga dalla realtà, per altri è un espediente che ti consente di acquisire strumenti per affrontare la realtà.

GB. Nello psicodramma la realtà è costruita coi criteri del gioco… Noi parliamo di 'semirealtà', nel senso che i fatti scenici sono una finzione, ma le emozioni sottostanti sono reali.

DL. Oggi poi con la presenza della realtà virtuale la questione si pone ancora di più.

GB. Io tengo ad insegnare lo psicodramma in teatro, non lo faccio fuori dal teatro. Posso anche improvvisarlo da qualche parte, però se voglio trasmetterlo con tutta la ricchezza che può presentare, soltanto il teatro mi consente di controllare tutte le variabili percettive: può esserci il buio come può esserci la luce; la scena può dare suggestioni di un tipo oppure di un altro. L'attrezzatura scenica può offrire esperienze tattili con oggetti morbidi oppure con oggetti rigidi. Il palcoscenico è uno strumento diverso dal lettino dove la mente, nelle libere associazioni, vaga e il corpo deve rimanere a lei subordinato… Nello psicodramma si vive in un mondo di concretezza, anche se fittiziamente costruito. Se il lettino costituisce un importante elemento di setting per l'analista, il corrispondente strumento per lo psicodrammatista è il palcoscenico. Lo psicodramma intende esplorare il mondo psichico con metodologie d'azione. Che cos'è 'dramma'? 'Dramma' è azione. Che cos'è azione? Azione è ciò che accade nel presente, ciò che si 'consuma' nell'attimo. L'azione può essere verbale, può essere motoria, può essere soltanto interiore. L'azione si contrappone al racconto. Sono stato al mare con i miei amici questa estate e voglio rendere partecipi gli altri di come è stata bella quest'esperienza? Allora comincio a raccontare: "Sapete, quella sera del venti agosto eravamo in dodici, c'era il mare, c'era una luce, c'era la luna..." Mi affido alla mia naturale capacità di mettere insieme le rappresentazioni delle immagini di vacanza, secondo il codice narrativo che ordina il discorso e che rende possibile trasmetterlo, rende possibile presentificare l'esperienza. Nello psicodramma si lascia il minimo spazio al racconto: la presentificazione di un evento viene fatta facendolo accadere nuovamente 'qui ed ora'. Allora se voglio che i miei amici sappiano come è stata emozionante la mia estate, io ricreo quel momento, qui ed ora, sul palcoscenico (che quindi ospita la spiaggia e me coi miei amici). Ciò che m'interessa non è riprodurre quello che storicamente è avvenuto, ma riprodurre quello che è rimasto dentro di me di quella esperienza, come memoria emotiva.

DL. Come dev'essere lo spazio per lo psicodramma? Qual è il teatro psicodrammatico ideale?

GB. Quale teatro reale, non teatro ideale! Il primo elemento costitutivo è il palcoscenico su cui possa consumarsi l'azione. Azione che deve essere chiaramente percepibile da chi si trova in uno spazio esterno rispetto al palcoscenico (spazio chiamato 'uditorio', il quale costituisce il secondo elemento costitutivo). Chi vive lo psicodramma deve sapere (e 'sentire') di essere visto, di essere in qualche modo 'esposto'. È molto diverso dal sentirsi in un confessionale. In confessionale io so che nessuno mi sente. Invece se in palcoscenico io affermo di aver ammazzato mio padre, lo affermo di fronte a me e lo dico anche agli altri; la mia espressione diventa imprescindibile patrimonio del gruppo che ne è stato testimone. Quindi occorre uno spazio dove si possa agire ed essere visti, uno spazio possibilmente circolare: il cerchio non ha angoli, dà forma ad uno spazio che non permette di isolarsi ('ritirarsi nel proprio angolino'). Nel cerchio si è sempre 'in ballo'. Lo spazio poi deve essere tale da consentire qualunque tipo d'azione senza conseguenze dannose per il corpo. Noi, ad esempio, abbiamo messo sotto la moquette morbida che copre tutto il palcoscenico della gomma del tipo che si usa per i tappetini del karate, in modo che se si cade non ci si fa male. Si deve poter fare con sicurezza delle azioni anche se di per sé sono rischiose. Il teatro deve essere un luogo dove gli aspetti percettivi, uditivi, visivi sono attinenti e adeguati al contesto che si sta vivendo. Se sono in un letto di morte ho bisogno di una luce bassa, di non percepire la vivacità di una luce calda che potrei invece utilmente impiegare se mettessi in scena l'allegro ricordo di una giornata estiva sulla spiaggia assolata. Nel teatro di psicodramma ci deve essere, quindi, la possibilità di usare gli elementi percettivi per fare in modo che sia chi osserva che chi agisce una scena abbia la giusta atmosfera sensibile, cosa che in altre forme di terapia non è minimamente contemplata.

DL. Strana infatti questa faccenda che nello psicodramma analitico sia proibito toccarsi o addirittura sono strane certe raccomandazioni di cui riferiva anche Massimo Fagioli di analisti che evitavano di dare la mano al paziente al momento del saluto, all'inizio di una seduta. Non sono preoccupazioni un po' assurde? Come questo rapporto che il paziente instaura con l'analista che è un rapporto con un oggetto parziale, come l'analisi, e non un rapporto con la totalità della persona che sta dietro l'analista.

GB. Ma il setting analitico deve essere così, è corretto che sia così. Deve essere così perché più l'analista riesce a non dare una percezione precisa di sé, più il paziente è costretto a costruire delle proiezioni con cui leggere la realtà dell'interlocutore. Invece nello psicodramma, quanto meno girano proiezioni, tanto più funziona il 'tele'. Nello psicodramma si è indotti a percepire l'altro. Noi privilegiamo, sin dal primo incontro col paziente, il 'tele' rispetto al 'transfert'. Certo, il transfert non può essere eliminato, in quanto fenomeno naturale funzionale al nostro benessere; ma noi non lo provochiamo massicciamente come accade nel setting analitico.

DL. Sì, ad un certo punto fra le persone deve stabilirsi anche un 'tele'.

GB. Infatti anche la conclusione di un buon trattamento psicoanalitico dovrebbe condurre ad una relazione di 'tele'; cioè portare a ritrovarsi come persone che si percepiscono realisticamente per quello che sono. Per la mia esperienza, il percorso psicoanalitico è segnato da una sensazione costante di solitudine. Invece, chi non ha mai avuto compagnia ha bisogno di esperienze riparatrici, chi non è mai stato abbracciato proprio fisicamente deve poterlo sperimentare nel setting adatto. Non basta che io immagini o sappia di aver avuto una madre insoddisfacente, ho bisogno di 'sperimentare' la relazione con una madre buona. Lo psicodramma consente di consumare sulla scena esperienze compensative, che sono assolutamente rigeneranti. Ci vuole nello spazio dello psicodramma molta permeabilità fra la scena e l'uditorio, perché ciascuno può essere uditore e, improvvisamente, trasformarsi in attore. Il terzo elemento costitutivo del teatro di psicodramma è la balconata. È un luogo alto, esterno al palcoscenico, che consente di togliersi per un attimo dall'azione per guardare dal di fuori e dall'alto quella stessa azione. Quindi un membro del gruppo può essere invitato a rifare l'azione del protagonista, il protagonista va sulla balconata. Questi sono i tre elementi che compongono il teatro di psicodramma.

DL. E lo studio televisivo psicodrammatico di cui ho letto su "Manuale di psicodramma" di Moreno?

GB. Sì, qui siamo nel capitolo delle proiezioni nel futuro: Moreno pensava al coinvolgimento di un grande pubblico attraverso il mezzo televisivo. Ma non ha sviluppato l'idea.

DL. Un po' nello spirito avanguardista e futurista... Quando però vedo certi programmi in televisione dove si scannano in pubblico penso e spero che Moreno non volesse una esperienza del genere.

GB. Hai visto quelle otto puntate di psicodramma preparate per la televisione da Ottavio Rosati e trasmesse da Raitre qualche anno fa?

DL. No. Ho letto però la prefazione del 'Manuale' di Moreno e penso che mi avvicinerò agli scritti di Rosati perché so che ha pubblicato un libro dal titolo "Intervista multistrato ad Aldo Carotenuto".

GB. Comunque, per tornare all'uso di strumenti come videocamere o altro, noi qui videoregistriamo molti gruppi da più di dieci anni. Nella scuola di psicodramma ogni anno scegliamo un caso in videocassetta e lo analizziamo approfonditamente, lo seguiamo dalla prima sessione fino all'ultima.

DL. Qual è il ruolo dell'architetto o dello scenografo quando si progettano questi spazi ad uso psicodrammatico?

GB. Per quanto riguarda questo spazio, inizialmente l'architetto sono stato io. Il teatro di Moreno di Beacon l'ho ripensato, l'ho rivisto eccetera. Molti psicodrammatisti, invece, provano lo psicodramma in una stanza qualsiasi, vedono che funziona lo stesso e allora si domandano se è necessario spendere denaro, investire energie per la costruzione di un teatro. Io credo di essere uno dei pochi psicodrammatisti ad aver sottolineato la necessità di avere il teatro psicodrammatico. Alcuni miei allievi che hanno voluto crearsi il loro spazio hanno chiamato un architetto. Per esempio, a Torino un mio allievo si è affidato ad un architetto di quelli che si appassionano alle cose, il quale ha voluto, prima di tutto, capire lo psicodramma, ed è venuto qua, ha partecipato a molte sessioni aperte e, seguendo le mie indicazioni, ne ha progettato uno. A Torino (via San Domenico) infatti ci sarà un teatro dalla forma di uovo, dove il tuorlo sta a segnare il palcoscenico e la parte lunga dell'ovale sarà l'uditorio. Un altro teatro molto funzionale è stato costruito a Bologna (via Cartoleria). Sempre a Bologna, al teatro 'Arena del Sole' una volta al mese in cartellone c'è uno psicodramma pubblico.

DL. Oggetti, colori e arredi dello psicodramma.

GB. Ci vogliono tutti quegli strumenti che consentono di dare forma simbolica alla rappresentazione scenica. Qui per esempio abbiamo molti foulards colorati, molti cuscini colorati. Gli oggetti sono di due tipi, o rigidi o morbidi; e poi sedie, sgabelli e tavolo.

DL. Se volessimo uscire dal teatro di psicodramma e dovessimo invece pensare alle possibilità formative del teatro in senso generale, noi vediamo che molto spesso le scuole hanno a disposizione degli auditorium che non sono funzionali perché hanno spesso una rigida separazione fra platea e palcoscenico e ciò non consente la permeabilità e il cambiamento di stato fra spettatore e attore. Secondo te, applicativamente, è possibile usare lo psicodramma per fare delle esperienze formative ed educative?

GB. Noi lo usiamo molto spesso con questo scopo. Ad esempio nelle scuole, su richiesta dei consigli scolastici, mettiamo in scena con gruppi di insegnanti quelle situazioni del rapporto educativo che essi sentono problematiche: il rapporto dell'adulto con l'adolescente, la relazione coi genitori degli alunni, le relazioni collaborative fra colleghi… Ne deriva per loro una migliore identificazione col proprio ruolo educativo. Alcuni accorgimenti, poi, che noi usiamo nella conduzione del loro gruppo, possono essere da loro utilmente trasferiti nella gestione della classe (lavoro a coppie, gioco di ruolo, equilibrata distribuzione dei tempi di autoespressione, ecc.). Ma lo psicodramma 'extra moenia' (fuori dall'apposito teatro) non si fa soltanto nelle scuole, si utilizza anche nel mondo del lavoro: oggi in particolare ci troviamo di fronte al problema della mobilità che richiede alle persone ad essere capaci di adattarsi rapidamente a contesti nuovi. Lo psicodramma sviluppa la capacità di moltiplicare i propri ruoli, uscendo dalla fissità di schemi uguali e ripetitivi.

Giovanni mi invita ad entrare nel teatro psicodrammatico, nel quale si entra senza scarpe. Una tenda come nei veri teatri separa lo spazio dall'anticamera al locale dalla forma tonda, con una serie di gradini sui quali si siedono gli uditori, una piccola piattaforma gialla sulla quale avviene la scena e la "balconata" sulla parete di fronte. Appese sono altre maschere bianche, con un manico, che Giovanni spiega essere state confezionate appositamente, su sue indicazioni, da un professionista di Venezia e che riproducono varie espressioni del volto, che dovrebbero essere di supporto per l'azione, quando il terapeuta chiede al paziente quale di questi volti lo identifica. Cuscini rossi sono sparsi un po' ovunque, mentre su un lato noto anche una videocamera installata per riprendere la scena, ed uno schermo, dove, all'occorrenza, è possibile rivedersi ed analizzare la scena così come si è svolta poc'anzi. Mi sembra davvero un approccio diverso alla psicologia del profondo, un approccio più caldo, quello dello psicodramma, forse anche più liberatorio, che consente possibilità e ruoli diversi dal paziente sul lettino o frontale, e allora mi appaiono chiare certe dinamiche liberatorie dei gruppi teatrali e lo speciale rapporto di solidarietà che nel gruppo si forma, solo che qui, a differenza che in una compagnia, lo scopo principale resta sempre il supporto al percorso di individuazione di ciascuno che non l'efficacia artistica della rappresentazione.

torna su

 

Hosted by www.Geocities.ws

1