UN UOMO DA BRUCIARE

CREDITI

Anno: 1962 Nazione: Italia Durata: 92 m

Regia: Paolo e Vittorio Taviani, Valentino Orsini

Soggetto e Sceneggiatura: Paolo e Vittorio Taviani, Valentino Orsini

Fotografia: Toni Secchi Montaggio: Lionello Massobrio Scenografia: Piero Poletto Musiche: Gianfranco Intra

Produzione: Giuliani G. De Negri per Ager Film, Sancro Filmm, Alfa cinematografica

 

CAST

Gian Maria Volonté, Didi Perego, Turi Ferro, Spyros Focas, Marina Malfatti, Lydia Alfonsi, Vittorio Duse, Alessandro Sperli

 

TRAMA

Salvatore, un giovane contadino, dopo due anni di continente, torna al suo paese in Sicilia per riprendere la lotta contro la mafia, i privilegi, l'ingiustizia. Lo eliminano. Le intenzioni dei registi esordienti non sono sempre risolte ma la sincerità e l'energia morale da una parte, la forza plastica delle immagini e la compattezza della narrazione dall'altra approdano a esiti di incontestabile vigore espressivo. Liberamente ispirato alla figura del sindacalista socialista Salvatore Carnevale. Premiato dalla critica alla Mostra di Venezia. 1° ruolo di protagonista per G.M. Volonté. (M. Morandini)

 

LA CRITICA

Salvatore era tornato. I compagni, Rocco, Vanni, Turi, Vincenzo, Antonio non lo aspettavano. "Ora sono tornato io", Salvatore. "Che successe?". "E' tornato Salvatore". "E' chi è Salvatore? Un fatato?". "Si sono un fatato", Salvatore.

Un uomo da bruciare si apre col canto del protagonista e il controcanto dei compagni: lui il solista, loro il coro; lui venuto a salvare gli amici suoi dalle prevaricazioni della mafia, loro i contadini, capaci di organizzarsi anche da soli, lui istruito in continente che decide per la lotta, loro vissuti sempre tra "zappaterra" e mafiosi. Vediamo un "eroe" e un gruppo, un primo attore ed un contorno di uomini stanchi di aspettare eroi "fatati" disposti a divenire capi per liberarli.

Troviamo subito uno dei principali temi ricorrenti nei film dei Taviani, il confronto, che spesso muta in scontro, tra il singolo e il gruppo. Salvatore è un uomo incapace di cantare in coro; i compagni non riescono a mettergli il morso, ad impedirgli di montare in testa; a lui non basta seguire le direttive del capolega, che alla riunione nel teatro di Palermo invita con autorità i contadini a por fine a ogni tendenza settaria. Salvatore non si era accontentato neanche durante l'occupazione delle terre: aveva voluto seminarle, -commettere la " bravata " - come poi gli sarà rimproverato - di far sfondare il cascinale eprendere le semenze-di Don Carmelo, un capo mafia. Eppure, nonostante le apparenze, è di Salvatore la modernità dei gesti e dei pensieri. L'ansia di forzare i tempi, sempre troppo lenti, si urta con la necessità di comprendere una situazione complessa, con l'esigenza di metodi di lotta diversi, " che non isolino i contadini dal resto dell'opiníone pubblica ".

Il problema, che continuamente assilla i due autori, privi di una direttiva da additare al pubblico, è quello di riuscire a conciliare il gesto dell'immaginazione, ma anarchico, col gesto della ragione, del già sul l'organizzazione, del partito. La soggettività, padrona del desiderio, contro la necessità della ragione, ed entrambe si inseguono in un'altalena che mostra in primo piano ora l'una, ora l'altra. L'eversione, arma con cui la fantasia ricerca la realizzazione di un'utopia, è un ruolo da protagonisti, e tali sono Salvatore, Ermanno, Giulia, Ettore, Ludovico, Leonardo, gli Scorpionidi, Giulio, Allosanfan, Gavino, tutti in possesso, come sottolineava Sergio Finzí in un'intervista, di quell'elemento infantile e femminile di cui parlava Marx, quale elemento regressivo, ma riscoperto necessario per l'avvento di un uomo nuovo, che non sia l'io forte, identità alienata. Questo momento infantile, precisava il direttore de " Il piccolo Hans ", non va confuso con il motivo dell'infanzia, quale modello di uno sviluppo da fasi primitive verso l'adulto, cioè verso quel piano della genitalità, in cui il desiderio dovrebbe assestarsi. La scelta tra ragione e immaginazionenon è mai operata, bensí vive del reciproco rapporto che tra le due siinstaura e che permette alla Storia di costruirsi e di procedere.

La lotta politica, al pari dell'arte, ambisce a un margine per l'invenzione della fantasia. Salvatore è un politico artista e un politico-scienziato; vuole rinnovarsi, rinnovare, cercare di capire, decifrare gli interrogativi del proprio tempo. là un diverso. Lo è sempre stato. Questo è il rimprovero della madre preoccupata, timorosa e incredula innanzi agli atti e alle parole del figlio, esagerato, fin da piccolo. Non ha voluto farsi una famiglia, come hanno preferito gli altri; non è un figlio come gli altri; è differente, fuori della misura, appunto. " Siamo per gli esagerati ", esclamano gli autori, per coloro che non si accontentano, che vogliono cambiare le cose, anche a rischio della propria vita. " ... Io credo che qui ci sia bisogno di me. Forse della mia morte", dichiara il personaggio.

Ma anche Salvatore spesso commette errori. I registi, pur sottolineandone le qualità, il coraggio, la combattività, ne guardano con ironia i limiti e le debolezze. " La " smargiassata " di aver voluto sfondare il cascinale ha avuto successo, ma il rischio è stato l'ospedale, dove è finito un compagno, e il carcere, che Bastiano indica a soli cento metri dal teatro di Palermo dove si sono riuniti in assemblea. Salvatore tornerà ad aver ragione, quando rifiuterà di farsi comperare dalla mafia e inciterà i compagni a combattere per l'orario di lavoro nelle cave, ma pagherà con la propria morte lo sbaglio di essersi spinto troppo avanti, da solo, nella lotta: avanguardia isolata e impotente, ma pur sempre necessaria spinta a continuare ad andare avanti.

Un tema politico muove questo, come tutti i film dei Taviani. Un argomento politico che si pone, però, quale scelta esistenziale, pratica. " La politica fa parte della nostra vita ", sostengono i registi, e Salvatore vive intensamente la realtà che lo circonda. La semplicità dell'azione, la concretezza delle immagini, delle parole, degli avvenímenti sciolgono un ragionamento teorico, astratto. La capacità dei Taviani, e in questo lavoro anche di Orsini, al contrario di tanto cinema politico, è quella di presentare una realtà scelta e ricostruita sull'esigenza di problemi speculativi, evitando l'equivoco di situazioni e di personaggi stereotipati, con in bocca un linguaggio da tribuni, oratori, politici. Le figure dei Taviani sono persone, non burattini. Oppure, ad esempio, è lo stesso Salvatore a investirsi del ruolo di tribuno del popolo, alzando la voce a teatro, ma qui è del tutto naturale. Non che la recitazione di Volonté, nei panni del sindacalista, sia naturalista. Al contrario, è marcata, drammatizzata, teatrale: questo per segnare la distanza con un verismo improponibile.

Lo spazio della finzione è racchiuso in un'isola, luogo che ritorna con costanza nelle opere dei nostri registi. La Sicilia è utilizzata come una terra mitica, fuori della Storia: a questa vuole pervenire e partecipare con consapevolezza. Il mito, altro punto fermo nella produzione artistica di Paolo e Vittorio, deve destarsi, approdare a una dimensione storica. Il ruolo dell'intellettuale, di Salvatore, che vede inderogabile il ritorno alla propria terra, riscoprirà in ogni film con un nome diverso la sua impotenza, ritardo o anticipo (anche in Padre Padrone, dove il personaggio Gavino non proclama la vittoria, ma solo l'inizio di una nuova lotta). La realtà dà ragione agli autori quando vede il vero Ledda osteggiato, rifiutato, respinto dai suoi stessi compaesani e dai sardi, che denunciano improprio e mistificante il discorso dello scrittore, quale portatore della voce sarda. Eppure Salvatore continua a combattere, eroicamente, da martire. L'attenzione dei registi è puntata su di lui: l'uomo da bruciare. Un uomo che qui è arso, consumato dalla mafia, dai nemici, dagli altri e che in Allosanfan sarà, invece, massacrato dagli stessi contadini, che non lo capiscono e lo rifiutano.

Salvatore è un uomo che cerca di capire, che si sforza di indovinare, prevedere, immaginare, conoscere la realtà che lo circonda. Per lui conoscere significa essere " immerso ", coinvolto nel reale. il nostro protagonista è un soggetto sartriano, completamente calato nel mondo, un intellettuale gramsciano, per il quale cercare di comprendere ha significato tornare tra la sua gente, abbandonare Roma, il continente, Wilma. " Perché sono tornato? No, voglio dire soltanto che in continente ho lasciato tante cose: la città, Wilma! Non devo pensare a Wilma, non serve. Se ci penso non resisto qui, fino a stasera. Mazzara è casa mia, non il continente: mi è servito, ora basta! L.I ". Salvatore vuole essere libero e per esserlo deve necessariamente tornare a casa sua, tra la sua gente, lí dove è lui stesso: " [ ... 1 non in un ipotetico rifugio noi scopriremo noi stessi: ma per la strada, per la città, in mezzo alla folla, cosa tra le cose, uomo fra gli uomini ". Per Salvatore il continente sarebbe un rifugio. La sua città, la sua strada è Mazzara, dove rimarrà sino alla fine; da cui rifiuterà di fuggire anche quando saprà di dover morire: non può scappare perché non sarebbe più libero.I Taviani, qui con Orsini, si liberano di Proust e dell'intimità: " Eccoci liberati da Proust. Liberati nello stesso tempo dalla---vitainteriore": invano cercheremmo, come Amiel, come una bambina che si abbracci le spalle, le carezze e le lusinghe della nostra intimità, perché finalmente tutto è fuori, tutto! perfino noi stessi: fuori, nel mondo, tra gli altri" (questa, come la frase citata sopra,è tratta da

Sartre, La trascendance de Vego, trad. it., Napoli 1972). Lo stesso Gìulio di San Mìchele, in prigione, esce, fuori, tra la gente. Cosí Salvatore è tornato per conoscersi, per liberarsi, immaginando. L'immaginario di Salvatore è prodotto fuori del mondo, ma la sua coscienza rimane nel mondo. "Potessi farvi vedere con i miei occhi. [ ... 1 lo li vedo. Ci aspettano alle cave. Ci preparano la trappola. [-1 ", avverte Salvatore. Egli possiede qualcosa in piú rìspetto'ai compagni che hanno si la ragione dell'organizzazione, ma mancano della capacità di immaginare. E non deve ingannarci il fatto che Cola gridi a Bastiano: " Guarda il masso: non ti sembra un piede? Sembra un piede! ". Cola non sta immaginando, ha solo sbagliato a percepire un masso. Cola come gli altri non sa sviluppare il proprio immaginario, " il qualcosa concreto verso cui l'esistente è oltrepassato". Salvatore sa presagire il loro futuro, può negare la realtà, perché riesce a vederne un'altra, un vuoto, un nulla verso cui tendere. L'utopia che vede Salvatore anima le sue azioni.

Ma i compagni non lo comprendono: " A bravo, lo riconosco. bravo, io non lo capisco, ma è bravo ", dice di lui Bastíano. Ciò lo ucciderà, lo ripetiamo, perché lo farà solo nella lotta. La morte lo eleggerà eroe, un eroe classico, epico. L'innovazione, acclamata e riconosciuta da tutti, operata dai Taviani e Orsini, è quella di proporci un nuovo modello di eroe: abbiamo qui Ettore e non Achílle, un eroe umano, anzi umanissimo, e non divino; ma pur sempre un eroe, come lo è chiunque sacrifichi la propria vita per un'idea. Salvatore non è certo un idealista; al contrario, lo abbiamo già visto. Non ha certezze, tenta soluzioni, senza indicare la via da seguire. t questo il motivo per cui si lascia quasi convincere dai compagni dei suo errore: " E chi scherza? Con voi non si scherza. Ho visto di che cosa siete capaci, lo riconosco. A Palermo c'eravate riusciti. A farmi sentire fottuto. Da quella domenica in teatro, questa bella faccia mia mi è sembrata la faccia di un fottuto! ". " Non è piú il tempo della trincea ", scrivono i Tavìani; la realtà non è più schematizzata nel bene e nel male, i tempi sono cambiati e " al fascismo antifascismo, socialismo ímperialismo, rivoluzione reazione", che avevano colorato il Neorealismo, è succeduto un momento storico differente, incerto, da costruire e verificare il bene e il male sono in Salvatore, nei compagni. La sinistra non può più apparire come-una sostanza omogenea, compatta, bensì lacerata, frastagliata, già in crisi. Con una lucidità rara, i registi analizzano il momento che stanno vivendo e motivano le proprie scelte, invitando alla ragione e all'ironia. La svolta necessaria e successiva al Neorealismo è effettuata da questi autori senza una rivoluzione. Lukács non viene rinnegato, ma solo depurato, accettato in parte, nella sua parte migliore, la prima; il realismo non abbandonato subito, ma aggiustato a una situazione nuova, piú ambigua; la ragione non distrutta, al contrario aìutata dall'immaginazione a vedere di pìú, a vedere meglio. I Taviani, lo osserveremo in ogni loro lavoro, compiono piccoli, sottili ma costanti cambiamenti. Il loro non è mai stato un cinema di rottura, alla Bellocchio. Ha proseguito la via tracciata dai padri con nuovi mezzi, rinnovate strategie. Come nei loro film, i figli assomigliano moltissimo ai padri che rinnegano.

Del Neorealismo i due fratelli hanno conservato il lato piú valido e attuale: l'impegno politico, l'attinenza alla realtà, un cinema umano. Un cinema diverso per un mondo che cambia s'intitolava un colloquio con Roberto Rossellini, dove questì vì sosteneva che " [ ... 1 tutto il problema della cultura del dopoguerra [...] pare sia divenuto sempre piú confuso, sempre piú lontano dai nostri sentimenti umani [ ... 1 " e, piú avanti: " [ ... 1 vale la pena di raccontare la cronaca, raccontare quello che succede, senza poi saperlo inquadrare storicamente? ". Con la forza di una fresca ingenuità, stupefacente in un regista non piú giovane, Rossellini parla di umanità e di sintesi della cronaca nella Storia: due momenti che il cinema dei Taviani fa propri e sviluppa. La cronaca da cui si parte anche in questo film (Salvatore Carnevale fu un vero sindacalista ucciso dalla mafia) è abbandonata, collocata in un'ottica storica e, ancor piú, còlta nella sua esemplarità, unicità e posta come metafora di un discorso piú vasto e complesso.

Tradizione e innovazione sono le caratteristiche dell'opera dei registi toscani, sia nei contenuti che nella forma, già fin d'ora attenta ad ascoltare parole anche straniere. Forse non è casuale in Un uomo da bruciare questa continua riflessione sul cinema, sul modo di proporsi dell'artista, sul ruolo che entrambi posseggono e devono svolgere. Salvatore ha il cinematografo in testa, ha nel proprio cervello la capacità di prevedere, di immaginare. Questo è il compito che i nostri autori affidano alla loro arte, che non è un ordigno taumaturgico: Salvatore sarà ammazzato, anche se presagisce la propria morte, vedendo un film, un fumettone dove un marinaio viene ucciso.

" Un atto d'amore verso il Neorealismo ", definiranno gli autori questo film, eppure un'opera già piena di aperture, di tentativi, che fanno intravedere le soluzioni da provare in futuro. 1 riferimenti che ritroveremo nei film successivi sono molti, tanti li abbiamo già visti. Persino alcune battute riappariranno uguali, con lo stesso o altro significato, come ad esempìo il saluto di Salvatore ai propri compagni. Parole che ben altri sentimenti esprimeranno in Allosanfan. " Compo-niamo sempre lo stesso film - dìchiarano gli autori -, è la Storia che cambia". E la Storia cambia: Salvatore muterà il proprio nei mille volti di nuovi personaggi, giovani, ansiosi, poi meno giovani, piú stanchi e poi ancora dì nuovo giovani con la voglia di lottare, rinnovata ma continuamente animata dalla stessa volontà di contribuire a cambiare una società ingiusta e inadeguata.

Qui Salvatore è come Cristo, come Cristo viene ucciso, sacrificato per la salvezza dei compagni, che dopo la sua morte sfileranno in piazza sotto gli occhi della mafia, col coraggio di coprire la bara col rosso delle loro bandiere. Una morte non inutile quindi, un film non pessimista, seppur preoccupato. Per i Taviani, qui ancora con Orsini, il cinema si colloca già in una posizione ben precisa, per loro è un mezzo per risvegliare l'intelletto, è un " se magico ", " una circostanza data ", è uno strumento capace di mostrare un modo di vivere, pensare, agire differente, è un ordigno capace di suscitare emozioni e risvegliare le coscienze; per questi motivi è un mezzo attivo, positivo, pur vivendo i limiti e le insufficienze dell'arte, ritmata da tempi piú lenti, meno pronti di quelli storici.

Di qui la scelta di un cinema classico, che si svincola dal presente e si propone anche per il futuro, come arte che costruisce e non distrugge. La distanza, che separa il lavoro dei Taviani da tanta opera contemporanea, sta proprio in questo: alla volontà di abbattere, massacrare, rìdurre al nulla i valori e la società di crisi in cui viviamo (volontà che nelle visìoni apocalittiche di Ferreri, qui in Italia, vede 38 la sua migliore espressione) si oppone il desiderio e la necessità di comprendere, scoprire, far luce, proporre nuovi significati. Non un cinema di negazione, quindi, ma fiducioso nell'uomo e nella sua capacità di trasformarsi da vittima in protagonista.

Col sorriso della maturtà, ricordando il loro primo lungometraggio, i fratelli Taviani raccontano che finito il lavoro si guardarono un pò sconcertati e si chiesero: "Abbiamo già detto tutto, e ora?". il film era composto, le immagini inalterabili, fissate, scelte e montate sulla pellicola; i temi cari e ricorrenti avevano travato infine la loro migliore e unica espressione. (Fulvio Accialini, Lucia Coluccelli).

 

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