SOTTO IL SEGNO DELLO SCORPIONE

CREDITI

Anno: 1969 Nazione: Italia Durata: 100 m

Regia: Paolo e Vittorio Taviani

Fotografia: (techinicolor) Giuseppe Pinori Scenografia: Giovanni Sbarra Costumi: Lina Nerli Taviani Musica: Vittorio Gelmetti Montaggio: Roberto Perpignani

Produzione: Giuliani G. De Negri per la Ager Film

 

CAST

Gian Maria Volonté, Lucia Bosé, Giulio Brogi, Alessandro Haber

TRAMA

In un'epoca preistorica i superstiti di un'isola, devastata da un'eruzione vulcanica, si rifugiano su un'isola vicina, anch'essa vulcanica, e cercano, seminando disordine e discordia, di convincere la gente che li ha ospitati a trasferirsi tutti sul continente per fondare una nuova società. Ricorrono, infine, alla violenza, uccidendo gli uomini e portando con sé le donne. Nel loro 4° film i Taviani ricorrono all'allegoria, in una riflessione metafisica e metaforica, per rappresentare un conflitto tra riformisti e rivoluzionari e tra due generazioni. In bilico tra Brecht e Godard (ma con evidenti echi di Pasolini), pur vantando momenti suggestivi, il film risulta intellettualistico sul piano stilistico, poco incisivo su quello narrativo, astratto e velleitario su quello ideologico. Musiche elettroniche di V. Gelmetti.(M. Morandini)

 

LA CRITICA

Forse può stupire come in piena contestazione la scelta degli autori italiani cada su una forma stilistica lontana dall'intervento: si preferisce la metafora al cinema militante. Al contrario che in Francia, in America Latina e negli Stati Uniti, dove Godard scende in piazza a filmare tracts rivoluzionari, Guerra propone il cinema come fucile e fioriscono operazioni quali il News-ree1, qui da noi quasi tutti i registi (le eccezioni sono assai rare) scelgono un apparente distacco dalla realtà, per costruire apologhi, favole fuori dalla Storia, le cui coordinate si perdono in spazi e tempi irreali. Il cinema come volantino viene accettato e vissuto solo da esperienze militanti: cosí è per il Movimento studentesco, soprattutto romano, ma i risultati sono sempre limitati e discutibili.

Il tentativo, poi, di istituzionalizzare il discorso politico vedrà nascere da una parte esperimenti come Apollon di Gregoretti, incapaci di costituire un'alternativa praticabile; dall'altra i film di Petri e di Damiani, che si riveleranno piú che altro un grosso affare commerciale, mostrando le eccessive manchevolezze e cedimenti dei loro autori. Questi, spesso confortati dall'esigenza mal posta della comprensibilità e accessibilità a tutti (un generico pubblico, il cui volto non è ben identificabile), fanno passare una qualunquista quanto approssimativa condanna della borghesia. I registi, impegnati artisticamente, invece, rifiutano una scelta realistica, documentaria o immediatamente decifrabile. Per spiegare tale preferenza, crediamo opportuno tornare qualche anno indietro: all'inizio degli anni sessanta. Il fatto nuovo che caratterizza il cinema italiano di questo periodo è il diffondersi delle eresie. Eresie pronunciate, proclamate o addirittura urlate, ora con onestà, ora con furbizia, talvolta con sofferenza, talaltra con superficialità. Eresie, fino a qualche tempo prima indicibili, ma anche impensabili, aleggiano nei pensieri di molti, svolazzano di bocca in bocca, di film in film.

Alcuni tra i protagonisti si ribeillano e respingono una realtà che non è piú la loro, proponendo soluzioni anche sbagliate, ma preferi58 bili alla ripetizione e all'immobilismo. La malattia del cinema italiano è la paranoia, affermano i trasgressori, ossessionati dal Neorealismo, troppo- legato a una situazione lontana e ormai conclusa, La prima roccaforte a cadere è quella della ragione, che aveva costretto al silenzio per troppo tempo le contraddizioni esistenti, di cui bisogna finalmente decidersi a parlare. L'ideologia, quella marxista, si scopre diventata una formula continuamente riproposta, incapace però di mostrare il reale in tutta la sua ambìguità. Il mostro dell'irrazionalismo si affaccia allora alle finestre dei primi autori. Fellìnì e Antonioni vengono subìto denunciati: " [ ... 1 gli elementi del passaggio dal neorealismo al realismo critico, alla linea div'ersiva, all'irrazionalismo sono già latenti nell'immediato dopoguerra. Era possibile fin d'allora individuare quali registi sarebbero rimasti fedeli allo spìrito neorealistico nell'accezione zavattiniana, e quali, invece, si sarebbero offerti a mutamenti, a "correzioni", a trasformazioni, o, semplicemente, a chiarire la loro vera natura " (Guido Aristarco, Avventure ed eclissi nel cinema italiano, in " Filorosso ", n. 8).

La dolce vita e L'avventura, infatti, grattano via ancora un po' di questa famosa ragione, producendo dubbi e meditazioni in chi da tempo era abituato alle speranze e non alle angosce e alle paure. L'attenzione si sposta dal " sociale" per incentrarsi solo (e anche) sul privato", l'umano, il biologico. Tutti conoscono i motivi e le circostanze in cui era nato il Neorealismo e, come questi via via si esauriscono, la crisi viene preparandosi durante gli anni cinquanta, perscoppiare nel decennio successivo. L'immagine neorealista da tempo si era rivelata opaca; il riflesso della vita aveva còlto una verità manchevole e populista. E se a ragione Vittorini aveva ricordato per quel momento storico l'impossibilità di richiamarsi a un ben definito concetto dì classe, con gli anni sessanta anche questo scopre la propria insufficienza. La soggettività reclama uno spazio, che gli autorì sonoormai obbligati ad assegnarle.

Anche se ciò sconforta non poco i sostenìtori dell'impegno, Marcello è solo con i propri malesseri esistenziali al parì di Claudìa, entrambi immersi in una realtà nuova e temuta. Il paesaggio italiano, infattì, è mutato nelle proprie forme e fattezze: è diventato irriconoscibile agli occhi dei più, che hanno assistito al crollare di troppe certezze e al nascere di un periodo critico non ancora concluso. L'intellettuale, dopo aver tentato l'evasione in un mondo a parte e fasullo, si suicida, quell'intellettuale che negli anni settanta sarà massacrato a colpi di pietra. (Allucinante nella sua drammatica veridicità è la profezia pronunciata in La dolce vita sulla spiaggia romana da un omosessuale imbellettato: "A me mi pare che nel '70 saremo tutti così. Sarà una depravazione completa, peggio che una Apocalisse, sarà"). Il lungo viaggio verso il nuovo cinema italiano si insabbia così sulle rive esistenziali.

Il turbamento, ingrossatosi, come dicevamo, negli anni cinquanta, conclude il ciclo storico del Neorealismo. Difatti già i De Santis e i Germi, con diverse capacità, avevano cominciato ad avvelenare il loro ancor giovane padre, del tutto deluso, poi, dalla nascita dì figli troppo gracili per le proprie ambizioni. Un buco culturale era cresciuto con gli anziani e i giovani Lattuada, Monicelli, Blasetti, Castellani, Zampa, Pietrangeli, Comencini, Risi, Loy, Lizzani, Damiani e altri ancora. Ci si comincia ad accorgere della crisi solamente quando il piú è già stato fatto. Allorché i critici elaborano la loro denuncia, il nostro cinema manca & una tendenza coesiva.

Alcuni tentativi riparatori vengono compiuti, ma anche il vecchio Rossellini non può e non vuole esibire alcun rimedio contro il male inguaribile del tempo. Anzi, egli stesso nel '60 gira Era notte a Roma, una metafora anticipatrice di soluzioni successive. Quando poi lo stesso Visconti realizza Le notti bianche, " lasciandosi incantare dalle suggestioni irrazionalistiche, dalla solitudine ontologica ", la crisi raggiunge il parossismo. Il panorama desolato, che si presenta agli occhi dei vecchi critici, offre non pochi spunti di disperafione. Gli equivoci intorno alla questione dell'impegno, costantemente verificato col libretto in mano, crescono e confondono chi si era fino allora rispecchiato in un'arte " didascalica " e " moralistica ". Le nuove soluzioni, laiche o mistiche, vengono efichettate come decadenti. La polemica si accende; le revisioni critiche si moltiplicano; le autocritiche non mancano: si spiegano la storia e le ragioni dell'impegno, gli anni quaranta e cinquanta vengono messi al vaglio, la crisi e le sue cause sono attentamente analizzate. Il risultato unanime dei diversi bilanci riscontra la fine di un periodo storico e della sua espressione piú vera 60 e l'inizio di un altro ciclo, che si prepara senza alcuna prospettiva.

 

Le uniche speranze che illuminano tanta desolazione sono, con le parole di Aristarco, " alcune singolari eccezioni (Pasolini, ad esempio, il De Seta di Banditi a Orgosolo, i Taviani e l'Orsini di Un uomo da bruciare) ". Soprattutto nei due fratelli vengono riposte le attese dì quel cinema ora in declino; ma anch'essi tradiranno non poco le aspettative. Lo vedremo soprattutto in Sotto il segno dello Scorpione, dove, col padre, i registi si sbarazzano definitivamente anche del Neorealismo. In ogni caso, con Un uomo da bruciare i Taviani costruiscono volutamente un discorso lontano dai " furori sentimentali del neopopulismo ", dalle " consolazioni della mitologia politica ", dalle " allegorie magiche dell'incomunicabilità ". Eppure lo stesso Pasolini, in Accattone, mette a fuoco il motivo dell'angoscia. Certo un'angoscia diversa da quella borghese esistenziale di tipo sartriano e kìerkegaardiano, come l'autore ci spiega. Nonostante ciò, è sintomatico che l'accento cada proprio su questa nota. Il " sociale" per Pasolini (ernarginato come intellettuale, comunista e diverso) prende forma nella realtà a parte del sottoproletariato.

Gli unici che effettivamente rimangono legati a una stretta nozione di impegno civile sono Rosi e De Seta, ma sono soli (lo stesso Rosi si farà a sua volta tentare, in ritardo, da una proposta di metafora, nel '76). In entrambi si riscoprono il documentario, l'attenzione al Merìdione e al problema dell'emarginazione e della miseria. Ma, ripetiamo, sono gli unici in una realtà fondamentalmente rivolta ad argomenti diversi. L'ambiguità è la nebbia che si è ormai alzata sulla pianura italiana. Già si sono fatti avantì i Ferreri e i Bellocchio a graffiare le strutture intoccabili, nell'Italia cattolica e conformista, della famiglia e della Chiesa. La madre e la moglie sono mostrate come implacabili vampiri dell'energia umana, donne sempre circondate da uno stuolo di preti, catechismi, tabù. La provincia non è piú il luogo sano ove rifugiarsi: appare, invece, come il territorio ove si annidano piú saldamente focolai di restaurazione. In essa nascono scritti sovversivi, in cui si discute di cultura borghese, contestazione e terzo mondo. Alla nostalgia di Fellini segue il piacere della distruzione, dell'incendio e della liberazione, cercata anche nella follia. La normalità è deprecata; l'inno è all'isteria. I pugni in tasca costituiscono un fatto nuovo: questo è il film delle eresie. L'irrazionalismo si è ormai impadronito dello schermo. A la stessa pazzia a proclamare la propria saggezza e a denunciare l'assurdità della ragione. Si scopre (Pasolini è tra i primi a farlo) che l'irrazionafismo, contro cui si è tanto lottato, non era il vero bersaglio contro cui scagliarsi. La negazione comincia ad essere il segno caratterizzante del cinema della crisi. Ma alla gioia della distruzione segue lo sgomento e l'impotenza della ricostruzione (l'attacco epilettico e mortale di Sandro). Sgomento e impotenza distinguono altri due film: Uccellacci e uccellini e Sovversivi.

Lo smarrimento e la debolezza, però, non possono impedire la trasgressione, né mantenere la tranquillità. Nella'furia iconoclasta di Bellocchio viene finalmente soppressa quella piccola borghesia cattolica e provinciale, sempre immersa nella lettura di " Famiglia Cristiana " e catechismi. Ma anche la sinistra ufficiale non riesce a sfuggire alle Erinni risvegliate. Ninetto e Totò non possono piú impedire alla loro fame di mangiare quel corvo nero che da sempre li segue sputando sentenze. L'antica strada che i due percorrono non porta da nessuna parte, non preannuncia una direzione né una conclusione. il cammino del vecchio marxismo è ora interrotto bruscamente: ritornano le tesi della "verifica" di Fortini e come in quella si vedono levie diverse che un intellettuale quale è Pasolini sente, con difficoltà, di dovere attraversare, anche se le indicazioni rimangono quelle delle scritte dei cartelli segnaletici: Istanbul km 4.253, Cuba km 13.257.

E' in questo quadro che l'esperienza della metafora trova una suaspiegazione. Essa non esprime tanto un allontanamento degli autori da una realtà con cui sono in completo disaccordo, né il loro scoramento, quanto il tentativo di trovare una forma all'ambiguità di cui abbiamo parlato. La metafora è un modo di prendere le distanze da una materia infuocata, di organizzarla, di sistemarla in un discorso, i cui tempi non vogliono essere quelli del volantino. La narrazione me testazione e in cui gli autori in modi differenti (chi con speranza, chi con scetticismo) credono. La rivoluzione è l'utopia come cambiamento, sovvertimento totale e definitivo. In questa situazione Ferreri dipinge un gesto anarchico e non risolutivo o un'apocalisse che costringe al ripensamento dei rapporti umani; Bertolucci distingue un sosia ivoluzionario all'interno di un professore di teatro; Pasolini canta inendecasillabi la rabbia antiborghese e i Taviani compongono lo Scorpione. La scelta della metafora per i due registi è un tentativo, non una presa di posizione teorica, è una soluzione temporanea e necessaria, ma che successivamente sarà abbandonata, come del resto anche da tutti gli altri autori.

Lo Scorpione è un apologo semplice e lineare che si costruisce su un'isola, spazio collocato fuori dalla Storia, dimensione leggendaria, metafora di un presente (il '68/69) che non si vuole rappresentare col documento, bensí manipolare con la finzione. invenzione e immaginazione sono i confini di questa narrazione dove i Taviani raccolgono frammenti dì antiche leggende, che raccontano di Enea, di Romolo e Remo (Rutolo e Taleno, i due nomi sono onomatopeici), del ratto delle Sabine, ma di questo nel film non sono rimaste che piccolissime tracce, orme di ricordi impressi nell'ínfanzia: come una fotografia di un libro di Storia, dìmenticata dagli autori e pur indelebile nella loro memoria. Una fotografia che mostra campi lunghi di spiagge gialle e minuscoli uomini, immagini che si approprieranno dello stile della pellicola. Lo Scorpione è una favola che appartiene a una memoria antica; l'avvenimento rimosso è quello che commise l'orda primitiva quando si liberò del maschio forte, del capo, del padre: il fatto tornato alla luce è dunque un assassinio. Rutolo e Taleno sono ì due fratelli che con altri compagni approdano in cerca di salvezza su un'isola identica a quella da cui sono fuggitì: una realtà che si ripropone sempre uguale. Anche nell'isola la Storia segue ritmi troppo lenti rispetto all'esigenza di cambiare, di mutare, dei giovani fuggiaschi. Essi non possono accontentarsi della ricostruzione; esigono l'alterità, il nuovo, anche se sconosciuto. L'ambizione al continente, terra ove l'utopia potrà finalmente realizzarsi, spinge i giovani ad agire presto, subito: essi non hanno tempo; pure in quest'isola c'è un vulcano che potrebbe attivarsi, provocare la morte sopita, ma sempre in agguato.

La metafora sul presente è semplicissima, e a ragione i due fratelli si meravigliavano quando qualcuno definiva in tal senso difficile il film. Eppure se la struttura narrativa qui è elementare, altre componenti concorrono a rendere meno facile la comprensione: la mancanza di un protagonista, la recitazione corale, polifonica, ma soprattutto l'assenza di avvenimenti della realtà, che l'abitudine spinge a chiedere allo schermo, possono far sí che l'opera appaia come un prodotto intricato e lontano. Al contrario lo Scorpione è una storia volutamente scritta con estrema finearità e la cui problematica è quella dell'attualità: la rivoluzione subito, qui e ora; il rifiuto della politica dei padrì, scoperti nella faticosa ricostruzione di una società soggetta alle bìzze di un capìtalismo che elargisce benessere o miseria; il gruppo come manifestazìone proprìa del movimento giovanìle; e ancora, ì] discorso sull'impegno e sull'arte; lo spettacolo che si interroga, capace o impotente quale agitatore.

La materia è complicata, ma viene sciolta nell'azione drammatica; gli argomenti teorici divengono gesti, parole, sentimenti, come sempre nei Taviani. 1 gesti sono quelli bruschi e rituali della manifestazione di piazza; le parole, agitate e isteriche, della rappresentazione; i sentimenti: l'attenzione fraterna, la solidarietà dei gruppi, la ribellione, l'attrazione, l'amore, la rivalità. Ogni elemento va a comporre un film, il cui tema principale è una riflessione sul cinema e il suo rapporto con il momento politico, sul linguaggio verosimile e la sua capacità di giungere come messaggio, sul Neorealismo e sulla necessità di sbarazzarsene, una volta per tutte. Negli anni in cui si esige dall'autore un messaggio diretto, il volantino, il pamphIet, i Taviani rìspondono con quest'opera.

Tutto il film mostra lo sforzo, il tentativo (fallito) degli esulì di convìncere gli abitantì dellIsola ad abbandonare la loro terra. 1 ribelli esigono un gesto fuorì della ragione, della ragionevolezza: la proposta è di un " folle volo ", per sfuggire alla certezza dì un presente falsamente tranquillo. Gli isolani devono partire anch'essi, con le donne, per costruire un nuovo mondo, per riprodurre la vita sul continente. Le donne, la terra e l'acqua sono i motivi conduttori del film, che si apre con quel corpo di donna nuda e morta portata dal mare, donna che con la terra è sempre metafora di fertifità: la sua seconda immagine, infatti, è subito rappresentata dal ventre gonfio di vita di una gestante. L'isola deve essere lasciata proprio perché la terra non è piú generatrice di vita: può produrre invece la morte, precipitando sugli uomini il fuoco del vulcano. Lontani dalla terra matrigna, gli esuli potranno affondare il loro aratro nel terreno benigno del continente

Ma per ottenere tutto ciò, è necessario persuadere Renno e il suo popolo a rinunziare all'isola. è possibile far questo con uno spettacolo, una rappresentazione verosimile che coinvolga gli isolani e faccia loro credere nelle parole e li spinga all'azione? Per rispondere i registi tornano a ricordare per l'arte i tempi di Benjamin. L'impegno dell'artista è il suo momento artistico: il cinema come fucile non riesce a uccidere nessuno. E qui è di un assassinio che si ha bisogno. Il padre, il capo (Renno e tutto ciò che propone e rappresenta) deve essere eliminato.

Ragione e astuzia sono le principali doti di Renno, che con costanza gli hanno permesso di ritrovare la pace e la tranquillità, una pace e una tranquillità sempre controllate, presso la moglie, il figlio, la propria casa. Rutolo, che gli somiglia (lo sottolinea la madre di Renno), cerca in un primo momento di usare i suoi stessi mezzi, ragione e astuzia, per conquistarsi gli isolani. Egli, ancor piú che il fratello e i suoi compagni, si oppone al richiamo della sicurezza e della quiete, fatte del pericolo sorvegliato, della paura repressa, eppure piú rasserenante dell'ignoto. Taleno è meno forte e deciso: cerca conforto nella fossa dove con gli altri sarà imprigionato da Renno (disperato si accovaccia in posizione fetale, senza trovar sollievo). Proprio per questa sua esigenza di consolazione materna, alla fine morirà ucciso dalla moglie di Renno, dalla madre che non è piú capace di accoglierlo nel proprio ventre per offrirgli protezione. La donna non può che sopprimerlo, proprio perché nei suoi confronti non deve piú svolgere un ruolo di madre: deve essere sua moglie. Rutolo è piú forte. Anche se conosce il panico, lo sgomento, come gli altri, reagisce con caparbietà. La sua ansia di realizzare l'utopia lo spinge a non rassegnarsi. A cosí che all'inizio insiste perché il ricordo (la memoria del singolo) si faccia metafora nella parola, si trasformi in finzione nello spettacolo. I profughi mettono in scena il loro ricordo, fanno della loro realtà vissuta una rappresentazione. Per far spettacolo Rutolo indica: " Esagerate, impauriteli, fateli piangere ". Taleno: " Senza esagerare, basta raccontare quello che è successo ". Rutolo: " Ma no! Fate spettacolo, come se l'isola stesse per saltare davvero ".

I due fratelli si scontrano. Rutolo crede che solo facendo vivere (immedesimare) gli isolani nella loro vicenda riusciranno nel loro intento. Si illude che il linguaggio abbia le qualità magiche del rito: è la stessa illusione che possiede una cultura fondata sul mito, ove l'elemento fantastico induce l'uomo a credere di poter agire attraverso un rito sui processi vitali,. è questa la funzione dei campanacci sacri usati dagli isolani, ed è quella che Rutolo vuole loro affidare nell'espressione artistica. Ma l'arte non gode di una facoltà taumaturgica. Per vincere Renno, Rutolo smaschera la sua cultura e i valori ad essa legati. I campanacci perdono il loro volto religioso, per acquistarne uno estetico nella manifestazione sacrilega. In entrambi i casi essi sono un simbolo, in cui credere o da rinnegare, a cui però si attribuisce una proprietà inesistente. E' questo lo sbaglio del giovane. Ciò procurerà a lui e ai suoi compagni la reclusione. L'arte è impotente nell'immediato; gli isolani non si lasciano convincere, anzi la loro reazione permette l'esclusione, l'allontanamento dalla comunità. Renno li imprigiona nella fossa dell'acqua e gli abitanti dell'isola ne sono soddisfatti, liberati dalla costrizione di una decisione scomoda e compromettente.

All'impotenza della parola subentra così la necessità del gesto: unico mezzo per modificare il reale. Infatti anche il linguaggio verosimile, dell'esagerazione, quale è quello che Rutolo spinge a usare, fallisce nel suo intento. Come sostiene Pascal Kané nel suo articolo stimolante, Présentaflon de " Sous la sìgne du Scorpìon " (la parziale traduzione italiana, analizzata e commentata puntualmente da Leonardo Quaresima, si trova in " Cinema e Cinema ", n. 1, ottobre-dicembre 1974), non può esservi dialettica tra i due gruppi, ma solo il sovvertimento. Come spiega il critico francese, il percorso compiuto dai profughi non può portare che allo scontro. Infatti, se all'inízio il tentativo di farsi comprendere conduce gli Scorpionidi ad adoperare lo stesso linguaggio ideologico degli isolani, e, alla loro mancata risposta, a sostituire alle vecchie nuove rappresentazioni (i campanacci sacri, desacralizzatí), la reazione di Renno provoca la violenza dei giovani. Il padre-capo, dopo averne tentato l'assimilazione (" Fateli mangiare, si calmeranno " tranquillizza la moglie di Renno), li esclude, vanificandone il discorso, dimostrato assurdo e irragionevole. Dopo averli rinchiusi nella fossa dell'acqua, gli isolani fanno credere a Rutolo e ai suoi compagni l'avvento di un terremoto, riproducendo grida d'animali.

In tal modo questi ultimi appaiono come colpevoli: essi sono pronti ad affrontare l'incognito senza assicurazioni. Ma dalla fossa, grembo materno, gli esuli, liberati, rinascono con nuova forza, t-,n l'energia di uccidere gli uomini dell'isola e rapirne le donne, sore-ti di vita. Al primo battesimo, celebrato con l'acqua del mare (che mwia gli Scorpionidi pacifici agli isolani), segue questo secondo, neli trissa dell'acqua, da cui escono nemici e aggressivi. Il film, che tornauna volta di più a ripetere l'esigenza di un gesto sovversivo e l'inapacità del momento artistico di commetterlo, si avvia così alla conclusione.

Film volutamente difficile, Sotto il segno dello Scorpione svela, svela, nella maniera piú compiuta, l'aspetto razionale, logico, con cui gli autori costruiscono il loro cinema e organizzano le loro immagini, rima mentali, inconsce, dominio della memoria, poi concrete, illusoe cinematografiche. La storia, come qualsiasi apologo, è volutaente semplice ed efficace (isola=il passato, realtà superata dalla oria; vulcano=pericolo incombente e ignorato; indigeni= pubblico cui si rivolgono gli Scorpionidi e i registi; Scorpionidi=protagonii dell'utopia e gli autori stessi; continente=luogo dell'utopia e delimmaginario; assassinio degli isolani=atto sovversivo, politico per lì Scorpionidi, artistico per gli autori).

La trama ha un'importanza secondaria, funzionale al discorso che li autori vogliono portare a compimento. Ciò che assume una fondaientale rilevanza sono le singole parti, i tratti in cui il racconto si -antuma, le sequenze attraverso le quali il film si costruisce. Esse sono chiuse in se stesse, finite, brechtianamente concluse e signifianti, separate appositamente da fastidiose code nere, per interromere la visione, per risvegliare lo spettatore come se il film fosse fini, come se con il rullo fosse terminata anche una parte del film. E' cosí che i Taviani compiono il loro gesto sovversivo, allontanandosi al Neorealismo.

Nello Scorpione, con una operazione che è sempre manifesta nei ue fratelli, ogni elemento superfluo viene negato ed escluso. Qui on vi sono piani di raccordo: come è quasi una regola passare dal rimo o primissimo piano al campo lungo o lunghissimo senza interruzione, così pure ogni parola, ogni frase inutile è eliminata. La sceneggiatura, come sempre, conserva solo l'indispensabile.

Per tutti questi motivi il film esige una lettura attenta; attiva, non consolatoria, nè presuntuosa. E' necessario compiere la fatica di leggere un cinema fuori dagli schemi abituali, dove si può incontrare (come spessissimo avviene nei film di Godard) anche una scena in cui si riescono ad avvertire solo frammenti di dialogo (quella dei due amanti stesi su un prato) o l'ascolto di un vociferare assordante (quello degli scorpionidi). (Fulvio Accialini, Lucia Coluccelli)

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