PORTE APERTE

CREDITI

Anno: 1990 Nazione: Italia Durata: 108 m

Regia: Gianni Amelio

Soggetto: dal libro omonimo dii Leonardo Sciascia Sceneggiatura: Gianni Amelio, Vincenzo Cerami, con la collaborazione di Alessandro Sermoneta

Fotografia: (Technicolor-35mm) Tonino Nardi Montaggio: Simona Paggi Scenografia: Franco Velchi, Amedeo Fago Costumi: Gianna Gissi Musiche: Franco Piersanti

Produzione: Angelo Rizzoli per Erre Produzioni, Istituto Luce, Urania Film in collaborazione con Rai 2

 

CAST

Gian Maria Volonté, Ennio Fantastichini, Renzo Giovanpietro, Renato Carpentieri, Tuccio Musmeci, Silverio Blasi, Vitalba Andrea, Giacomo Piperno

 

TRAMA

Palermo, 1937. Piccolo giudice a latere si batte perché un pluriomicida, fascista, che ritiene giusta la pena capitale, abbia l'ergastolo invece della pena di morte. Con Cadaveri eccellenti di Rosi, è il migliore dei film tratti dalla narrativa di Sciascia. Con il lontano Processo alla città (1952) di Zampa è il miglior dramma giudiziario italiano. Molti premi tra cui il Felix 1990 per il miglior attore europeo a G.M. Volonté straordinario per misura e intensità. Tratto da un romanzo breve (1987), sceneggiato da G. Amelio con Vincenzo Cerami. (M. Morandini)

 

COMMENTI

Ho la presunzione di credere che Sciascia avrebbe molto amato Porte Aperte e penso che l'avrebbe amato proprio perchè, insieme a Cadaveri Eccellenti di Rosi, è il film che più non si accontenta di Sciascia; è il film che, più degli altri, mette in discussione quello che Sciascia ha scritto.

Qui io credo di aver riportato il discorso di Sciascia alle sue radici più lontane, nel senso che credo -nonostante lavorassi con il mezzo del cinema, che viene considerato da tutti un mezzo più popolare, in senso anche riduttivo rispetto alla letteratura- di aver fatto nel film ancora meno concessioni di Sciascia. Penso che sia un film più duro e più concentrato sul temo di quanto non sia invece la cronaca di Sciascia, che qualche concessione al colore letterario spesso la fa. Io ho poi reso il protagonista giudice molto più ambiguo e meno limpido, meno portatore di verità.

Per esempio, mi sono chiesto che cosa facesse il padre del giudice, che io ho battezzato Di Francesco. Ho cercato dei chiarimenti nel libro, e poi ho capito che doveca trattarsi di un borghese, di una famiglia borghese; sarà stato avvocato pure lui, oppure giudice o comunque impiegato di concetto, quello che vuoi tu. Io, invece, ne ho fatto un panettiere. Questa è stata la prima cosa che ho detto a Cerami, e Cerami era d'accordissimo con me: deve essere qualcuno che per tutta la vita ha lottato per vedere suo figlio diverso da sé, in modo che quando questo figlio mette in discussione non solo il proprio lavoro, ma anche il lavoro di suo padre e di suo nonno e tutta quanta la loro esistenza, la storia assume forza, concretezza.

Nello stesso modo, del cosiddetto contadino Sciascia da un proprietario terriero, un contadino-filosofo, sposato con una francese, avvezzo alle lingue, ai viaggi, agli scambi ecc., mentre io ne ho fatto il figlio di un bracciante che, per ragioni se si vuole romanzesche, avendo il marchese di Salemi, perso al gioco certe proprietà, ha acquistato dal marchese, di cui era mezzadro, il suo palazzo. Il figlio del mezzadro è entrato in una biblioteca, ha visto dei libri, e ha deciso di leggerli. (Gianni Amelio)

 

Io mi considero veramente fortunato per aver lavorato in due film con Gian Maria. Raramente nel corso di una carriera in cui si lavora e si fatica come tutti, capita di incontrare il modello centrale della propria vita. Per me è stata una esperienza indimenticabile tant’è vero che alla fine del film è nata una grande amicizia. Io poi andavo a trovarlo a Velletri dove viveva. Durante la lavorazione del secondo film addirittura mi usava come portavoce. Mi ricordo che a volte non voleva parlare con nessuno e quindi mi chiamava e mi diceva ”…dì a quelli che…”.

La morte di Gian Maria è stata uno dei dolori più forti della mia vita dopo la morte di mio padre perché è stato come perdere una parte del mio immaginario, una parte della mia cultura, della mia memoria, dell’amore per il mio lavoro…mi sono sentito come perduto. E non dimenticherò mai il giorno del funerale, sotto la pioggia a Velletri. Fuori dal comune, perché ci fu una cerimonia laica con le bandiere dello spettacolo che aveva fatto per Sarajevo. Con Angelica (la sua compagna) e i pianti di quella giornata terribile. E’ stato come se avessi perso l’unico grande poeta a cui mi riferivo, e questa è la cosa che mi spinge a continuare nel mio lavoro anche se molte volte dico ”…Dio mio”.

Penso spesso a Gian Maria e a volte lo ricordo un po’ pieno di amarezza rispetto a questo tema. Era un po’ isolato, un po’ a disagio per questi cambiamenti (ed uso un eufemismo) della nostra politica culturale, dei nostri riferimenti. Si era un pò allontanato proprio per una ”non corrispondenza”. D’altronde lui è stato un monumento del cinema politico, dell’impegno e quindi in una società che propone modelli come quelli della nostra, non credo si trovasse perfettamente a proprio agio. (Ennio Fantastichini)

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