A CIASCUNO IL SUO

CREDITI

origine: Italia anno: 1967 durata: 93 m

regia: Elio Petri

sceneggiatura: Elio Petri e Ugo Pirro dal romanzo omonimo di Leonardo Sciascia fotografia (Eastmancolor): Luigi Kuveiller scenografia: Sergio Canevari musica: Luis Enriquez Bacalov montaggio: Ruggero Mastroianni

produzione: Giuseppe Zaccariello per la Cemo Film distribuzione: United Artists

 

CAST

Gian Maria Volonté, Irene Papas, Gabriele Ferzetti, Salvo Randone, Mario Scaccia, Laura Nucci, Franco Tranchina, Luigi Pistilli, Anna Rivero, Luciana Scalise, Giovanni Pallavicino, Leopoldo Trieste, Orio Cannarozzo, Carmelo Olivero, Carlo Ferro, Valentino Macchi, Tanina Zappalà.

 

TRAMA

In un paese siciliano vengono uccisi due uomini: il farmacista Manno e il dottor Roscio. La polizia arriva alla conclusione che Manno è stato ucciso per una questione passionale e Roscio in quanto testimone dell'omicidio. Il professor Laurana scopre invece nel duplice delitto lo zampino della mafia. Laurana incomincia ad indagare, insieme alla vedova Roscio e arriva a pericolose e sorprendenti conclusioni. Laurana comprende di aver confidato i suoi sospetti proprio ai mandanti dell'omicidio e per questo suo errore viene presto eliminato. Pur senza fare un confronto tra il libro (1966) di Sciascia e l'adattamento di Ugo Pirro e Petri, c'è da dire che nel film l'ambiguità, il pessimismo di fondo, le consolazioni che vengono dal piacere amaro dell'intelligenza sono sostituiti da un linguaggio aggressivo con forzature ottiche e sonore che possono infastidire per una loro schematica violenza espressiva. Uno dei primi film italiani sulla mafia e il 1° dei 4 film di G.M. Volonté (premiato con il Nastro d'argento) tratti da L. Sciascia. Colonna sonora di Luis Bacalov. (Morando Morandini)

COMMENTI

Ero convinto che bisognava cominciare a fare dei tentativi di cinema esplicitamente politico. Per quindici anni la censura democristiana non aveva lasciato passare nemmeno un fotogramma politico. In quegli anni era sopravvenuto in me un senso di stanchezza e di inutilità delle cose che facevo. Fino ad allora in qualche modo ero stato un regista che si divertiva. Da quel momento in là mi fu chiaro che non c'era più da divertirsi perché appariva evidente sin da allora dove si sarebbe andati a finire. Il comportamento della classe dirigente, la distruzione di un'Italia contadina per creare una finta Italia industriale e americana, la trasformazione delle nostre bellissime città in agglomerati di dormitori e garage, aperti all'insaziabile avidità della speculazione edilizia, il trionfo delle filosofie del profitto, erano segni di regressione paurosa verso la barbarie. Devo dire a onor del vero che siamo stati in parecchi a prevedere come sarebbero andate a finire le cose. Che cos'è stato il cinema italiano se non un ostinato segnale di malessere? Che non era soltanto un malessere esistenziale, assoluto, ma legato alle condizioni storiche in cui eravamo costretti a vivere. Per quanto mi riguarda io avvertii il bisogno di cambiare, di sporcarmi le mani, di "trasformarmi in factotum", che è quello che qualcuno dei fans de I giorni contati mi rimprovera. Il libro di Sciascia accese la scintilla di un interesse concreto: il clima politico dell'Italia meridionale vi era dipinto con chiarezza, le forze in gioco, Chiesa e Dc, vi erano chiamate per nome. Il ruolo dell'intellettuale vi era delineato con estrema intelligenza e ironia (questo ruolo astratto e in un certo senso castrato: in una civiltà industriale gli intellettuali sono i castrati, staccati come sono dalla realtà, obbligati a vivere i problemi della società da falsari, attraverso la mediazione della cultura). Mi attirava poi anche il fatto allora abbastanza nuovo che l'assassino, proprio perché è all'interno della classe dirigente, finisce per essere il vincitore, che era il rovesciamento di uno dei tabù del codice Hays. Ma soprattutto era una verità.

In un film fatto in fretta lo zoom sostituisce gli obiettivi. E poi non mi andava di limitare Sciascia a confini provinciali, volevo che nella Sicilia si individuasse un sud più vasto, come un sud dell'anima, che poteva essere anche il Brasile, e questo richiedeva un'ottica meno incisiva e fredda della consueta. Come vede non mi interessava principalmente la mafia. La situazione mafiosa in sé, anche come persecuzione kafkiana, non mi ha mai attirato. La mafia in sé è un modo di fare gli affari in famiglia. La famiglia è già una mafia. La cosa che mi stava più a cuore nel film era il ritratto dell'intellettuale (Laurana) distaccato dalla realtà, umanamente, politicamente, e anche sessualmente isolato. Il film è una specie di autoritratto di un intellettuale. In un certo senso anche Laurana è un mafioso: anche lui diffida dello stato, come di tutto il resto, tranne che dell'assassino. (Elio Petri)

Prima dell'inizio delle riprese mandammo la sceneggiatura di A ciascuno il suo a Sciascia. Ci rispose che il film non aveva nulla di siciliano: avremmo potuto benissimo girarlo in Puglia! Quando poi, vide il film finito il suo giudizio si modificò. Questo per dire che per chi non ha molta pratica di cinema e una costante esperienza cinematografica della fabbricazione, è difficilissimo leggere una sceneggiatura e immaginare la resa. (Ugo Pirro)

 

 

LA CRITICA

Tratto dall'omonimo romanzo di Leonardo Sciascia, questo intenso, insolito thriller diretto da Elio Petri possiede un realismo da incubo che ricorda Kafka. Il professore (Gian Maria Volonté) -un uomo che è sempre stato un outsider- si trova coinvolto in un duplice omicidio nella sua città natale in Sicilia, e questo luogo, prima a lui familiare, diventa terrificante ed incomprensibile come il deserto in un racconto di Paul Bowles.

[...] Non è difficile presentare una fantasia paranoide sullo schermo, ma mostrare la vita di un uomo in termini completamente realistici e farcela provare come un illusione è arduo. Petri ci mantiene in tensione, irrequieti e diffidenti, aspettando il peggio in ogni momento. La Sicilia è descritta nella sua barbarica e sinistra vitalità. 

Volonté è un attore poderoso che ti trascina all'interno del suo personaggio ed il film ha un ritmo meravigliosamente sostenuto. Gabriele Ferzetti (il debole protagonista del L'Avventura) è il politico che sa come muoversi, e Irene Papas è efficace come sopravvissuta - alla fine, nel suo bianco vestito nuziale, con gli occhi neri che brillano, sembra così forte come la curruzione. (Pauline Kael).

 

 

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