disegno di Umberto Taccola
L’UOMO PIÙ ANTICO DI EUROPA
Una importantissima scoperta
è stata fatta il 13 marzo di tre anni or sono, nella campagna di Ceprano,
nel Lazio, in provincia di Frosinone: un cranio fossilizzato, di oltre settecentomila
anni, à stato casualmente rinvenuto da un maestro in pensione. Detto
cranio, che si trova tuttora custodito in una cassaforte dell’istituto di anatomia
patologica dell’Università di Roma, appartiene ad un ominide di epoca
successiva a quella dell’homo erectus e anteriore a quella dell’homo sapiens.
Dotato di una fronte sfuggente e piatta, il cranio si slarga ai due lati e presenta
sulla nuca un osso ben strutturato, il torus occipitalis, sul quale si agganciavano
dei potenti muscoli.
Gli studiosi che l’hanno esaminato, assicurano di non aver mai visto
un cranio simile. Infatti quegli ominidi erano bassi e tarchiati, con un volto
caratterizzato dalla fronte sfuggente, dall’assenza di mento e da una mandibola
poderosa, oltre che da vistosi rigonfiamenti sulle orbite. Il loro cervello,
però, aveva quasi raggiunto il volume di quello dell’uomo di oggi, ed
essi erano estremamente coraggiosi.
Nel corso di oltre due milioni di anni, avevano imparato a camminare
eretti, a usare gli arti sotto gli impulsi del cervello, a riconoscere nella
materia grezza gli oggetti da poter ricavare per utilità e difesa; nonchè
a dedicarsi alla caccia con astuzia, oltre che con la forza, per sopravvivere
in un ambiente estremamente ostile e poco confortevole.
Il cranio rinvenuto a Ceprano, probabilmente non sarebbe mai ricomparso
dalla massa di argilla nella quale era sepolto, se Italo Bidittu, maestro in
pensione ed appassionato di paleontologia, non avesse avuto la felice intuizione
di scavare in quel luogo.
Ma donde veniva quell’ominide? Chi erano i suoi progenitori? Come era
giunto in Italia?
Per rispondere a queste domande, bisogna risalire all’homo erectus che,
secondo i paleontologi, cominciò a muoversi dall’Africa verso altri continenti,
un milione e mezzo-due milioni di anni fa.
L’antropologo americano John Pfeiffer, della Rutgers University, calcola
che gli siano stati necessari tre o quattromila anni per arrivare dalla gola
di Olduvay, nel Kenia, dove sono stati rinvenuti i suoi più antichi reperti,
al sud della Francia.
« Fu necessario – dice Pfeiffer – un procedere, un sostare ed
un procedere ancora, una generazione dopo l’altra, alla media di circa un chilometro
e mezzo l’anno ».
Per attraversare il mare – sempre secondo Pfeiffer – l’erectus evitò
la via più breve di Gibilterra, per lui impraticabile a causa delle maree
molto alte e della profondità dell’acqua, e si diresse verso la Palestina,
l’Egitto e la Turchia; donde alcuni procedettero verso la lontana Asia, fino
alla Cina e a Giava. Altri gruppi, invece, attraversarono i Dardanelli, che
erano formati allora da stretti brevi con maree scarse, e raggiunsero l’Europa.
In quell’epoca l’uomo non conosceva ancora la forza del fuoco; per cui
la sua diffusione si localizzò nelle zone meridionali del continente.
Ma ben presto, come è risultato dai reperti, egli imparò a servirsi
del fuoco; ad usare i colori per scopi ornamentali o, addirittura, rituali;
a perfezionare la tecnica di fabbricazione di strumenti rudimentali, che gli
erano necessari per sopravvivere e per conquistare il mondo.
Quell’ominide, infatti, comprese la necessità di emigrare per
vivere una vita migliore, e ciò dimostra la sua intelligenza; tant’è
che ancora oggi, a distanza di un milione di anni, l’emigrazione rappresenta
la sola speranza di sopravvivenza per intere popolazioni.
L’homo erectus che, a sua volta, discendeva dall’homo abilis e, prima
ancora, dall’australopiteco, rimase in Europa ed in Asia per molti millenni,
fino a centomila anni fa, allorchè gli succedette l’homo sapiens, l’uomo
dei nostri giorni.
Furono questi i progenitori dell’ominide intelligente di cui si sono
trovate tracce a Ceprano; ma che non viveva a Ceprano.
Viveva a Isernia
Nel 1978, durante i lavori per la costruzione della superstrada Napoli-Vasto,
in Isernia, nella località "La Pineta", vennero alla luce i resti di
un accampamento, con frammenti ossei e manufatti in pietra, lavorati dall’uomo
preistorico.
Dopo aver segnalato la scoperta al Sovraintendente del Molise, furono
iniziati i lavori di scavo che sono tuttora condotti, tra gli altri, da M. Cremaschi
dei civici musei di Reggio Emilia; Carlo Peretto e Benedetto Sala, dell’Istituto
di geologia dell’Università di Ferrara; e G. Gusberti dell’Istituto di
antropologia dell’Università di Bologna. Successivamente si sono uniti
a loro, nelle ricewrche, anche studiosi di paesi esteri, come McPherron
del dipartimento di antropologia dell’Università di Pittsburg ; V.A.
Schmidt, del dipartimento di geologia dell’Università di Pittsburg ;
nonchè J. Sevinki e Van Otterloo del laboratorio di geografia fisica
e scienza del suolo, dell’Università di Amsterdam.
Il giacimento ha messo in luce dei residui faunistici abbondanti ed appartenenti
a varie specie. Gli animali più frequenti sono: il rinoceronte, il bisonte
e l’elefante. Meno frequenti, ma anch’essi presenti, sono: l’orso, l’ippopotamo,
i cervidi, il daino, il megacero (cervo gigantesco), il cinghiale e il thar.
Con la setacciatura dei sedimenti, sono stati raccolti resti di invertebrati,
tra cui: pesci, anfibi, rettili, tartarughe, uccelli e varie specie di roditori.
Al cospetto di un simile quadro faunistico è possibile ricostruire,
con la massima approssimazione, l’ambiente in cui l’accampamento si trovava.
Il clima doveva constare di due cicli stagionali: uno lungo e arido, l’altro
breve, con abbondanti precipitazioni di pioggia. Ne scaturiva lo sviluppo di
una vegetazione a steppa arborata, a savana, che permetteva il pascolo a bisonti
e a pachidermi. Nelle zone più umide la vegetazione era più densa,
e costituiva un habitat ideale per cinghiali e cervidi. Lungo i corsi d’acqua,
poi, alloggiavano gli ippopotami.
Accanto a questi importanti reperti faunistici, nel giacimento di Isernia
si rinvengono, numerosissimi, gli strumenti in calcare e selce. Quelli in calcare,
sono di grandi dimensioni e tra essi sono frequenti i choppers, strumenti ricavati
scheggiando ad una estremità i ciottoli fluviali, per renderli taglienti.
I reperti in selce, invece, sono di piccole dimensioni e presentano bordi con
uno o piì incavi. Alcuni di essi, i denticolati, sono appuntiti, altri
adattati a grattare e a raschiare.
La datazione dei reperti fa risalire l’accampamento ad oltre 700mila
anni fa ; quindi alla setssa epoca alla quale si attribuisce il cranio rinvenuto
a Ceprano.
Ma come è possibile stabilire con esattezza l’età
di un reperto ?
Ce lo spiegano i proff. Cremaschi, Guberti, Sala e Peretto: « Il
giacimento di Isernia-La Pineta, è contenuto in una serie di sedimenti
fluvio-lacustri in cui sono intercalati numerosi livelli di materiali eruttivi.
I cristalli di sanidino e la biotite, raccolti in questi livelli, sono serviti
per eseguire datazioni radiometriche con il metodo potassio-argon. Questo si
basa sul fatto che il potassio radioattivo (40K), contenuto in questi minerali,
si disintegra lentamente nel tempo, dando luogo all’argon (40 Ar). Nel momento
in cui il tufo è espulso dalla bocca del vulcano e si forma il sanidino,
esso non contiene argon; questo si forma progressivamente nel ; tempo, man mano
che il potassio radioattivo si disintegra. Stimando il rapporto potassio-argon,
nel campione in oggetto, si risale all’età del minerale e, di conseguenza,
del tufo che lo contiene. Con questo metodo è stato possibile accertare
che I sedimenti tufacei, che ricoprono le ossa della paleosuperficie t. 3a del
primo settore di scavo, contemporaneo, quindi, all’accampamento stesso, risalgono
a circa 730mila anni fa.
Le argille lacustri e il travertino, su cui l’accampamento preistorico
appoggia, hanno polarità magnetica inversa rispetto al campo magnetico
terrestre attuale; appartengono, quindi, all’epoca denominata Matuyama, compresa
fra settecentomila e duemilionicinquecentomila anni fa. Grazie alla posizione
stratigrafica, il sito paleolitico si colloca verso la fine di questo periodo;
vi è quindi una perfetta corrispondenza tra la datazione ottenuta con
il metodo potassio-argon e quella deducibile dalla stratigrafia paleomagnetica.
L’accampamento risale, perciò, a più di settecentomila
anni fa ».
L’UOMO DEL FIUME
Non a caso i sedimenti fluviali
sono fondamentali nella ricerca della datazione. Fin da allora l’uomo – ma anche
oggi nelle zone ancora selvagge – costruiva il suo accampamento nei pressi di
un corso d’acqua: l’uomo di allora era l’uomo del fiume.
La conformità del paleosuolo ha rivelato che le loro capanne avevano
per pilastri delle zanne di elefante, il tetto era costituito da fogliame e
da altro materiale deperibile, il pavimemto da ossa di grandi mammiferi, incastrate
tra loro a mosaico.
Quelle ossa dimostrano che l’uomo presistorico era un formidabile cacciatore,
pur disponendo di armi poco affidabili. È prevedibile anche che, per
attendere alla caccia, egli dovesse spostarsi continuamente per seguire i branchi.
L’uomo del fiume era un nomade, e ciò spiegherebbe anche il ritrovamento
del cranio a Ceprano, lontano dal suo accampamento.
Questo era l’uomo di settecentomila anni fa che l’avv. Mario Di Nezza
– innamorato viscerale della sua terra e protagonista a suo tempo, tra l’altro,
nella battaglia per il riconoscimento della provincia di Isernia – in uno slancio
campanilistico battezzò: Homo Aeserniensis.
E con tale nome egli è conosciuto oggi in tutto il mondo. Di lui
si è parlato in congressi scientifici e in convegni di studio: nel 1980
a Firenze, nella riunione scientifica dell’Istituto italiano di Preistoria e
Protostoria; nel 1981 a Città del Messico, nel X Congresso dell’Unione
Internazionale di scienze Preistoriche e Protostoriche; nel 1982 a Nizza, nel
Congresso internazionale di Paleontologia umana; a Mosca nel Congresso INQUA
(Associazione Internazionale per lo studio del Quaternario). Inoltre tre metri
quadrati di paleosuperficie, fedelmente ricostruita con calchi e reperti, sono
stati esposti temporaneamente al Museo dell’Homme di Parigi; al Museo
Nazionale Preistorico Pigorini di Roma; al Centro Leonardo da Vinci di Torino;
al Palazzo Ducale a Venezia; mentre riviste scientifiche o di attualità,di
tutto il mondo, hanno riportato ampi servizi sull’Homo aeserniensis e sul giacimento
di Isernia.
E mentre i lavori di scavo continuano, è stato istituito in Isernia
il Museo Nazionale della Pentria, nel quale sono stati sistemati i reperti,
e che accoglie migliaia di visitatori ogni anno, provenienti da ogni parte del
mondo.
Finora la zona esplorata (con procedimenti estremamente laboriosi, sofisticati
e scrupolosi), si estende per poche centinaia di metri; mentre l’intero comprensorio
del giacimento, supera i trentamila metri quadrati: è da supporre, perciò,
che nuove importanti sorprese ci siano riservate.
IL FUOCO E L’OCRA
Intanto una scoperta importante
è già stata fatta: durante lo scavo sono state trovate chiazze
di argilla arrossata, di circa cinquanta centimetri di diametro; nonchè
ossa che, da analisi chimiche, hanno dimostrato di essere state esposte ad una
forte sorgente di calore. È facile dedurne che l’uomo di allora conoscesse
il fuoco e ne facesse uso nell’accampamento; il che strovolge le precedenti
credenze, che facevano risalire tale conoscenza ad un’epoca molto più
vicina ai nostri giorni.
Inoltre sono stati rinvenuti ciottoli di calcare e di frammenti di travertino
con la superficie chiazzata di sostanza colorante rossa (ocra). Questa scoperta,
non meno importante, è la testimonianza più antica dell’utilizzo
delle sostanze coloranti da parte dell’uomo.
Ma, come tutti gli eventi di grande portata, anche la scoperta del giacimento
di Isernia, ha richiesto il suo sacrificio di sangue.
LE VITTIME
Nel pomeriggio del 5 ottobre
1993, un piccolo aereo monomotore, pilotato da Mario Marcucci di Isernia, decollava
dall’aeroporto di Capodichino (Napoli) alla volta della Pineta, per osservare
dall’alto la zona degli scavi ed effettuare dei rilievi fotografici.
Vi erano a bordo, oltre al pilota, tre giovani valenti studiosi
di geologia e di paleontologia: Corinne Crovetto, nata nel Principato di Monaco
nel 1964; Fabio Vianello, nato a Capua nel 1961, e Martino Ferrari, nato a Rovigo
nel 1965.
Giunto sull’abitato di Isernia, il piccolo aereo puntò verso la
zona degli scavi dove – forse per un guasto al motore o forse per una errata
manovra (volava troppo basso) – precipitò.
Tutti gli occupanti – il pilota e i tre ricercatori – perirono all’istante.
L’HOMO AESERNIENSIS
Al di là delle immagini
suggestive e fantasiose, che hanno ispirato poeti, scrittori, pittori e disegnatori,
le testimonianze e le evidenze dei reperti dimostrano inconfutabilmente che
l’uomo di settecentomila anni fa, l’uomo più antico di Europa, era un
uomo intelligente, giunto allo stadio finale della evoluzione umana, capace
di organizzarsi in comunità e di sopravvivere.
Dimostrano anche che la "capanna" dell’homo aeserniensis, fatta di ossa
di bisonte e di rinoceronte, di zanne di elefante e di fogliame, è la
più antica abitazione che si conosca. Forse la più antica del
mondo, dal momento che i suoi progenitori vivevano nelle caverne.
Con il tempo l’evoluzione e il progresso hanno indubbiamente trasformato
in meglio le abitudini di vita e resa più confortevole la vita stessa.
Ma sotto altri aspetti, cosa è cambiato?
Probabilmente nulla. Almeno di questo avviso è Sabino D’Acunto,
poeta Isernino ben noto nel mondo culturale, il quale in una lirica, dedicata
appunto all’Homo aeserniensis, così conclude: «fra te e l’Homo
sapiens / di questi giorni
nostri son trascorsi / millenni su millenni inutilmente / se il diritto alla
vita / è ancora l’appannaggio del più forte ».