Piero Melograni
Aiuto! Arriva il progresso. In Rifkin un'angoscia forse ingiustificata
"Mondoperaio"
Febbraio 1997, p. 16

In un libro di successo (La fine del lavoro, Baldini & Castoldi), l'americano Jeremy Rifkin si occupa del futuro del mondo. Si occupa dunque di un argomento che nessuno conosce e a proposito del quale ci risulta difficile smentirlo o dargli ragione. Dopo aver preso atto del fatto che il progresso tecnologico ha distrutto quasi tutti i posti di lavoro in agricoltura e molti posti di lavoro nelle industrie, Rifkin prevede che esso li distruggerà anche nei servizi. Intorno alla metà del prossimo XXI secolo, a suo giudizio, tutti i settori dell'economia saranno quasi interamente automatizzati. Quasi tutti i lavoratori saranno espulsi dal mercato del lavoro. Rifkin ritiene tuttavia che a questo disastro si possano forse trovare due rimedi: 1) una fortissima riduzione dell'orario di lavoro per tutti, al fine di limitare la disoccupazione; 2) un intenso sviluppo del volontariato, che potrà essere incentivato da riduzioni fiscali a favore di quanti presteranno volontariamente la loro opera.

Le previsioni sono sempre difficili. E di solito accade che la realtà superi l'immaginazione, risultando diversa da tutte le previsioni precedentemente proposte. E' quindi probabile che anche le ipotesi proposte da Rifkin non si avverino. Tuttavia egli ha più di un merito. Ci aiuta a riflettere su quanto siano potenti e sconvolgenti le novità della civiltà tecnologica. E ci fa intuire quanto possano essere grandi lo smarrimento, l'impreparazione e i ritardi culturali delle attuali classi politiche e intellettuali. Il mondo continua infatti a modificarsi al di fuori da ogni schema precostituito, ma con una velocità che nei tempi trascorsi era sconosciuta.

Il fatto che le macchine sostituiscano gli uomini non costituisce una novità. Si tratta di un fenomeno che dura da secoli e di fronte al quale la società ha sempre saputo trovare un adattamento. Da secoli è stato predetto che le macchine stavano portando a una rapidissima eliminazione dei lavoratori dal mercato del lavoro. Tuttavia questa predizione, almeno finora, non si è mai avverata. E' anzi accaduto che, nonostante la crescente invadenza delle tecnologie e il costo crescente del lavoro umano, la massa dei lavoratori, anziché diminuire, sia aumentata. Le nazioni economicamente sviluppate, Italia compresa, non hanno mai avuto nella loro storia una popolazione attiva così numerosa come oggi. Non sappiamo che cosa accadrà in futuro, ma finora è andata così.

Il libro di Rifkin è pervaso al riguardo da una certa angoscia, e non ne siamo stupiti. La modernizzazione ha sempre suscitato paure, opposizioni, inimicizie. Essa sta infatti distruggendo la civiltà agricola, durata migliaia di anni, senza delineare le forme della civiltà nuova. E in questa fase di transizione tempestosa nessuno, neppure gli individui istruiti come Rifkin, possiedono punti di riferimento che possano tranquillizzarli. Rifkin ci ricorda come Wassily Leontief, premio Nobel per l'economia, abbia scritto che il ruolo degli esseri umani nel processo produttivo sia destinato a diminuire così come in agricoltura è diminuito e perfino scomparso il ruolo dei cavalli. Può darsi. Ma questo significherà che avremo forse avviato a soluzione il problema della sovrappopolazione del mondo. Nel mondo agricolo si generavano tanti figli anche perché ai loro genitori questi figli - come i cavalli - sembravano utilissimi per lavorare la terra. Nell'attuale mondo industrializzato il tasso di natalità è spontaneamente precipitato a livelli assai bassi. Non è da escludere che nel futuro mondo tecnologico le famiglie (e le società) possano introdurre modelli demografici ancora diversi rispetto a quelli di oggi.

Nella nuova economia globalizzata incontriamo Paesi emergenti, quali ad esempio le "tigri asiatiche", capaci di conquistare mercati e capitali grazie al basso prezzo della loro manodopera e alle loro qualità organizzative. La concorrenza esercitata da questi Paesi emergenti provoca contraccolpi nelle economie dei Paesi più anticamente sviluppati e magari ne accresce la disoccupazione. Ma non era proprio questo, in certo qual modo, ciò che tanti predicatori umanitari desideravano? Dobbiamo fare sacrifici, dicevano questi predicatori, per aiutare i Paesi più poveri a diventare ricchi. E' ciò che sta avvenendo e che già è avvenuto, sia pure in forme che nessuno aveva previste, come per l'appunto accade di solito. Per capire fino a qual punto la realtà riesca a superare l'immaginazione, si legga un articolo di Fred Barbash, apparso di recente nel "Washington Post" (e riprodotto dall'"International Herald Tribune" il 1° gennaio 1997). E' una corrispondenza da Sunderland, Inghilterra. Vi si dice che fino a vent'anni or sono gli studenti di Sunderland progettavano di lavorare nei cantieri navali e nelle miniere appartenenti ai loro compatrioti. Oggi essi sperano di trovare lavoro in imprese che si chiamano Samsung, Woo One, Tatung e Sung Kwang, che gli imprenditori della Corea del Sud e di Taiwan hanno da qualche tempo istallato in territorio britannico. La globalizzazione dell'economia, nonostante tutti i suoi difetti, sta evidentemente producendo risultati superiori a quelli della "cooperazione internazionale", che per anni ha consentito ai Paesi ricchi, come l'Italia o la Francia, di sentirsi magnanimi e generosi nel soccorrere i poveri.

Rifkin è un "liberal" americano che esprime parole di apprezzamento nei confronti Marx, Engels, Marcuse e Bertrand Russell. Conclude il suo libro lasciando intendere che vorrebbe porsi in una posizione equilibrata fra i tecnofili e i neoluddisti. Ma in più di una pagina perde l'equilibrio. Ci sembra un po' superficiale allorché difende le macchine per scrivere, rispetto ai Personal computer, perché con le vecchie macchine le dattilografe almeno ogni tanto avevano agio di riposarsi allo scopo di sostituire il foglio di carta. Si è evidentemente dimenticato della terribile fatica del battere i tasti nelle vecchie Remington meccaniche e di tutti gli inconventienti che la carta carbone e la scolorina comportavano.

Neppure ci convince là dove vuole farci credere che il piacere di consumare sia un fenomeno indotto. Questa è la tesi sostenuta nei "Persuasori Occulti", il libro di Vance Packard, che ebbe tanto successo parecchi anni or sono. Ma la tesi di Packard è criticabilissima, come ha ben dimostrato il nostro Giampaolo Ceserani in un libro che si intitola "I Persuasori Disarmati", pubblicato - anch'esso molti anni or sono - da Laterza.

Rifkin ci appare infine un po' inesperto allorché dimentica che già la Prima guerra mondiale, i dirigibili Zeppelin in fiamme e mille altri incidenti, ben prima delle atomiche del 1945, avevano mostrato i lati oscuri e perfino demoniaci posseduti dalla tecnologia moderna. Ciò di cui dobbiamo convincerci è che nonostante tutti i suoi risvolti demoniaci la civiltà tecnologica è superiore alla civiltà agricola, allo stesso modo che questa civiltà agricola era superiore alla civiltà predatoria da cui era stata preceduta. Una seconda faccenda della quale faremo bene a convincerci è che gli sviluppi futuri delle società in cui viviamo sono imperscrutabili. L'unica sapienza della quale possiamo approfittare deriva dalla conoscenza di un passato che non sappiamo se si ripeterà. E questo passato ci consente di formulare, in tema di lavoro, almeno quattro considerazioni che fino ad ora si sono dimostrate valide. La prima ci dice che nel mondo tecnologico tutto costa di meno, tranne il lavoro umano, il quale tende quindi a essere sostituito da macchine meno costose. La seconda ci dice che il numero dei lavoratori è sempre aumentato. La terza considerazione riguarda la crescita della ricchezza: le collettività progrediscono solo se riescono a far crescere la produzione di ricchezza. Questo è l'obiettivo a cui tutti, anche i predicatori umanitari, debbono mirare se vogliono garantire il benessere delle società future. Le provvidenze sociali, la conservazione delle opere d'arte e tanti altri "lussi" considerati irrinunciabili, potranno sopravvivere solo se cittadini parlamenti e governi avranno come obiettivo principale la crescita della ricchezza. L'ultima considerazione riguarda l'istinto di sopravvivenza. Come gli individui, anche le collettività possiedono questo istinto, che le aiuta a superare le difficoltà, nei tempi e nei modi offerti dalle occasioni della storia e che nessuna ingegneria futuristica è stata in grado, fino a oggi, di prestabilire.

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