Piero Melograni
Oltre le ceneri di Gramsci
"Ideazione"
novembre - dicembre 1996 pp. 58-66

Antonio Gramsci fu un uomo tormentato dalle molte difficoltà in cui il movimento comunista si dibatteva. Elaborò un nuovo concetto di "egemonia politica" proprio allo scopo di aiutare i compagni a superare almeno in parte queste difficoltà. Affidò ai Quaderni del carcere un programma di azione dimostrando in qual modo, attraverso un uso sapiente della "egemonia", i comunisti avrebbero potuto correggere molte loro rozzezze e magari conseguire il successo. E' evidente, pertanto, che non siamo in grado capire il programma di Gramsci, lo spirito dei Quaderni e lo stesso concetto di "egemonia" senza rammentare, sia pure per sommi capi, la situazione in cui lo stesso Gramsci operava. (*)

Nel novembre 1917 era avvenuto un fatto straordinario e apparentemente molto positivo per il movimento comunista internazionale, quale la conquista del potere da parte dei bolscevichi. Ma Gramsci, che aveva allora ventisei anni, ebbe l' ardire di dichiarare subito, senza esitazioni e in pubblico che questa conquista non apparteneva al marxismo. Il 24 dicembre 1917, con un articolo di fondo apparso sull' "Avanti!", egli salutò la rivoluzione bolscevica scrivendo che si trattava appunto di "una rivoluzione contro il Capitale", vale a dire contro il Capitale, con la "C" maiuscola", di Karl Marx. Secondo le previsioni di Marx, infatti, la rivoluzione proletaria sarebbe dovuta scoppiare in un paese economicamente sviluppato, dotato di una consistente classe operaia e provvisto quindi di un forte movimento operaio, come era per esempio il caso della Germania. Non era previsto che dovesse scoppiare in un paese come la Russia zarista, decisamente contadina, niente affatto all' avanguardia del progresso tecnologico, e con un partito comunista che raccoglieva appena trentamila iscritti. "I bolscevichi rinnegano Carlo Marx", scrisse Gramsci con grande franchezza.

Lo stesso Lenin aveva immaginato che il suo governo, in un paese come la Russia, non avrebbe potuto durare a lungo. Il capo dei bolscevichi si era impadronito di Petrogrado approfittando di un improvviso vuoto di potere e pensando di offrire al mondo una testimonianza simile a quella che era stata offerta, mezzo secolo prima, dalla Comune di Parigi. La Comune era durata poco più di due mesi, ma era restata nel cuore del movimento socialista internazionale come un evento indimenticabile. Se i bolscevichi fossero restati al governo anche solo per qualche settimana, avrebbero conquistato un prestigio simile a quello dei comunardi.

Restarono al governo per decenni. Ma i limiti del loro potere apparvero con evidenza fin dall' inizio. Già nel marzo del 1918, contravvenendo alle regole dell' internazionalismo proletario, il governo di Lenin era costretto a concludere la pace separata di Brest-Litowsk con i capitalisti tedeschi e con quelli austriaci. Consapevoli del fatto che la pace di Brest Litowsk costituiva un grave tradimento dei principii internazionalistici, quasi tutti i bolscevichi tentarono di opporsi a essa fino all' ultimo.

Nel 1919-20, in coincidenza con il "biennio rosso" italiano, i bolscevichi riacquistarono un grande prestigio internazionale grazie alla vittoria riportata dall' Armata rossa nei confronti dei controrivoluzionari filo-zaristi. I socialisti italiani ritennero a quel punto che, anche nella gestione del potere e della economia, Lenin e i suoi compagni fossero vittoriosi. Ma il disinganno arrivò dopo che alcuni dirigenti del Partito socialista italiano, nell' autunno del 1920, fecero ritorno dal loro primo viaggio di esplorazione in Russia portando notizie di prima mano. Tutto era riultato molto diverso dalle fantasie che attorno alla Russia erano state costruite in Italia. Giacinto Menotti Serrati, in un discorso pronunciato a Trieste e pubblicato sull' "Avanti!" del 5 ottobre 1920 (ediz. piemontese) descrisse il tragico caos della società comunista. Disse che i bolscevichi, nel 1917, erano stati costretti dalle circostanze a prendere le redini della rivoluzione, ma che essi costituivano una "minoranza infima di fronte a una enorme maggioranza passiva". Serrati annunciò che il compimento della rivoluzione russa era lontano: "Lenin dice: ci vorranno cinquant' anni. Altri dicono cento".

Il disinganno fu ancora più grande nel 1921, quando arrivò notizia della terribile carestia scoppiata nella regione del Volga, in seguito alla quale morirono cinque milioni di persone. In quello stesso 1921 i marinai di Kronstadt si ribellarono con le armi contro il potere bolscevico e Lenin dovette reintrodurre, con la Nep (Nuova politica economica), alcuni elementi dell' economia capitalistico-borghese. La gigantesca crisi di immagine del comunismo russo contribuì non poco a favorire, nell' Italia del 1921-22, la vittoria di Mussolini.
Lenin, che nel 1918 era stato ferito in un attentato compiuto contro di lui da una rivoluzionaria disillusa, Fanja Kaplan, si ammalava gravemente nel 1922 e moriva nel 1924. Scoppiava in quegli anni una durissima lotta per la successione del potere destinata a concludersi con la vittoria di Stalin. E Gramsci, come è stato già documentato da numerosi storici, non ebbe affatto un buon rapporto con Stalin. Si può perfino sospettare che negli ultimissimi anni della sua vita egli preferisse restare nell' Italia mussoliniana, dove era curato in una clinica e dove stava riacquistando la libertà, sia pur vigilata, piuttosto che recarsi in Unione Sovietica da dove i dissidenti, come Trotski, erano costretti a fuggire, e dove, chiunque dissentiva, finiva facilmente imprigionato e ucciso.

E' probabile che Gramsci non avesse mai dimenticato le parole con le quali aveva indicato, fin dal 1917, i vizi di origine che la rivoluzione russa portava in sé. Gli eventi successivi al 1917 dovettero rendere ancora più severo il giudizio. Il piccolo nucleo di bolscevichi guidati da Lenin e da Trotskij, impossessandosi di Pietrogrado, sembrava aver compiuto un colpo di Stato, più che una rivoluzione. La forza di quei pochi rivoluzionari era stata sufficiente per impadronirsi del potere centrale, espropriare le imprese capitalistiche, costituire un grande esercito. Ma dov'era la civiltà nuova? Le manchevolezze dell'esperimento bolscevico indussero Gramsci a ripensare criticamente l'intera storia del cosiddetto "movimento operaio".

Certo è che Gramsci, nei suoi Quaderni, tenne a sottolineare che: "Ci può e ci deve essere una "egemonia politica" anche prima della andata al Governo e non bisogna contare solo sul potere e sulla forza materiale che esso [il governo] dà per esercitare la direzione o egemonia politica." [Quaderni del carcere, p. 41] E rileggendo questa frase potremmo scorgere una critica rivolta non soltanto a Lenin, ma anche a Marx. L'uno e l'altro, infatti, avevano individuato il fondamento del potere soprattutto nella forza, mentre Gramsci lo collocava, in modo prevalente anche se non esclusivo, nella superiorità culturale e dunque nella "egemonia politica". La parola "egemonia", derivata dal greco, era stata usata in Italia fin dai primi decenni del XIX secolo, e stava a indicare la supremazia di uno Stato o di una città su Stati o città minori. Per estensione il termine era quindi servito a definire una posizione di preminenza capace di condizionare un determinato ambiente o un'intera società. In Gramsci, come si è appena visto, tale preminenza assumeva una connotazione "politica", anziché "materiale".

In modo repentino e violento, Lenin aveva liquidato e sottomesso quanti lo avversavano. Ma le elezioni per l'Assemblea Costituente, svoltesi nell'ex-impero zarista quando il potere era già nelle mani dei bolscevichi, si erano concluse con una sconfitta degli stessi bolscevichi. E la Costituente era stata sciolta con la forza dalle Guardie Rosse. Nelle sue meditazioni carcerarie, Gramsci scrisse parole che esprimevano dissenso verso questi metodi. I bolscevichi non erano riusciti a diventare "dirigenti", oltre che "dominanti". Gli altri partiti comunisti del mondo non avrebbero dovuto quindi prenderli a modello, perché: "Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita il potere e anche se lo tiene fortemente in pugno, [quel gruppo sociale] diventa dominante ma deve continuare ad essere anche "dirigente". [Quaderni del carcere, pp. 2010-11] Gramsci doveva necessariamente esprimersi con un linguaggio criptico e allusivo dato che, in caso contrario, l'autorità carceraria avrebbe provveduto a confiscargli i quaderni. Per non suscitare sospetti evitava di scrivere il nome "Lenin" o il nome "Marx". E anche il marxismo diventava "filosofia della praxis". Egli cercava tuttavia di fare in modo che le sue allusioni potessero essere comprese, in futuro, dai lettori più smaliziati.

Alcun sostengono che Gramsci fu il primo a capire come la strategia bolscevica avesse scarse probabilità di successo in Occidente. Bisognerebbe però ricordare che Rosa Luxembrug, in uno famoso scritto del 1918 reso pubblico dopo la sua morte, aveva già posto sotto accusa i metodi dei bolscevichi, per motivi in parte simili a quelli di Gramsci, ma con energia ben maggiore di Gramsci: "Senza elezioni generali, senza libertà illimitata di stampa e di riunione, senza libera lotta di opinioni -aveva scritto Rosa Luxemburg- la vita muore in ogni istituzione pubblica, diviene vita apparente ove la burocrazia rimane l'unico elemento attivo. [...] La libertà riservata ai partigiani del governo [...] non è libertà. La libertà è sempre e soltanto di chi la pensa diversamente." Nella Luxemburg, ancor più che in Gramsci, agiva un profondo risentimento dei comunisti russi immaturi, rozzi e quasi barbari, che si stavano permettendo di sottrarre ai compagni tedeschi la guida del movimento operaio internazionale. [R. Luxemburg, La rivoluzione russa, in Scritti politici, a cura di Lelio Basso, Roma 1967, pp. 553-95.]

Le posizioni di Gramsci erano assai meno radicali. Mentre la Luxemburg invocava in termini perentori la libertà di tutti e in particolare la libertà di chi la pensava diversamente dai comunisti, Gramsci riduceva la democrazia a un meccanismo "molecolare" di mobilità sociale, a un mero rinsanguamento del gruppo dirigente con elementi provenienti dai gruppi diretti: "Tra i tanti significati di democrazia -scriveva Gramsci- quello più realistico e concreto mi pare si possa trarre in connessione col concetto di egemonia. Nel sistema egemonico, esiste democrazia tra il gruppo dirigente e i gruppi diretti, nella misura in cui [lo sviluppo dell'economia e quindi] la legislazione [che esprime tale sviluppo] favorisce il passaggio [molecolare] dai gruppi diretti al gruppo dirigente." [Quaderni del carcere, p. 1056].

Non vi son dubbi sul fatto che il pensiero di Gramsci fosse innovativo nei confronti del leninismo e dello stesso marxismo, proprio perché poneva in primo piano i valori politici della cultura. "Si può dire -scriveva infatti nei Quaderni- che non solo la filosofia della praxis non esclude la storia etico-politica, ma che anzi la fase più recente di sviluppo di essa consiste appunto nella rivendicazione del momento dell'egemonia come essenziale nella sua concezione statale e nella "valorizzazione" del fatto culturale, dell'attività culturale, di un fronte culturale come necessario accanto a quelli meramente economici e meramente politici." [Quaderni del carcere, p. 1224] Tuttavia questa valorizzazione dei fatti culturali era posta al servizio di un disegno politico molto lontano dalla democrazia liberale. Ed è sintomatico, a questo proposito, che un comunista come Luciano Gruppi, nel 1976, arrivasse ad ammettere che, restando fedeli al disegno gramsciano, non si poteva arrivare al "pluralismo". ["L'Espresso", 1976, n. 49, p. 71]. Luciano Pellicani, lo studioso che forse più di ogni altro ci ha aiutati a comprendere i limiti di Gramsci, ha sostenuto che restandogli fedeli non soltanto non si poteva arrivare al pluralismo, ma si giungeva addirittura "al totalitarismo ecclesiale, vale a dire al monolitismo politico, economico e culturale, l'esatto contrario della "società aperta" scaturita dal processo di secolarizzazione." [L. Pellicani, Il centauro comunista, Firenze 1979, p. 61]

Il comunismo è stato una dei più potenti movimenti politico-religiosi di tutti i tempi e Gramsci non si pose mai al di fuori di esso, contribuendo viceversa a irrobustirne le tendenze messianiche. Per spegarcelo dobbiamo ricorrere di nuovo a una spiegazione storica, questa volta legata alla grande crisi spirituale prodottasi nel mondo in seguito alla rivoluzione tecnologica. Stava crollando una grande civiltà, quella agricola, durata ben diecimila anni, e la nuova civiltà tecnologica appariva ancora informe, immatura, incapace di sostituirsi all'antica. Si attendeva insomma il messia dei tempi nuovi. I terribili strumenti della prima guerra mondiale, dai gas asfissianti agli aereoplani, avevano per di più svelato come anche il progresso tecnologico possedesse un volto demoniaco, rafforzando di molto le attese messianiche indirizzate verso l'istaurazione di un ordine nuovo, capace di riportare armonia nella civiltà in frantumi. Il giovane Gramsci condivise queste attese e, nella tumultuosa città di Torino, uscì dal suo isolamento di studente sardo, povero, infelice, stringendo legami di amicizia e di partito con tanti altri che, come lui, erano animati da queste eccitanti speranze. Il comunismo avrebbe interpretato la svolta epocale sostituendosi al cristianesimo: "Il Partito comunista -scrisse- è, nell'attuale periodo, la sola istituzione che possa seriamente raffrontarsi alle comunità religiose del cristianesimo primitivo", ma non certo al fine di perpetuarle. [A. Gramsci, L'Ordine Nuovo 1919-1920, Torino 1954, p. 156] A giudizio di Gramsci il comunismo era anzi "La religione che doveva ammazzare il cristianesimo. Religione nel senso che anch'esso è una fede, che ha i suoi martiri e i suoi pratici; religione perché ha sostituito nelle coscienze al Dio trascendentale dei cattolici la fiducia nell'uomo e nelle sue energie migliori come unica realté spirituale." [A. Gramsci, Sotto la mole, Torino 1960, p. 228]

In questo progetto politico-religioso del mondo, la società doveva possedere una organizzazione piramidale con il Partito comunista collocato al vertice. Nei quaderni gramsciani il partito assume il ruolo di un "Pricipe" dominatore e totalitario, quale neppure Machiavelli aveva mai disegnato: "Il moderno Principe, sviluppandosi, sconvolge tutto il sistema di rapporti intellettuali e morali -scrisse Gramsci- in quanto il suo svilupparsi significa appunto che ogni atto viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso o scellerato, solo in quanto ha come punto di riferimento il moderno Principe stesso e serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo. Il Principe prende il posto, nelle coscienze, della divinità e dell' imperativo categorico, diventa la base di un laicismo moderno e di una completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i rapporti di costume." [Quaderni del carcere, p. 1561]

Il partito-Principe si trovava al vertice della piramide sociale e politica del nuovo mondo immaginato da Gramsci. Ma il partito era costituito dagli intellettuali. Essi sarebbero stati il Principe della società rinnovata. "Che tutti i membri di un partito politico debbano essere considerati come intellettuali, ecco un'affermazione che può prestarsi allo scherzo e alla caricatura; pure, se si riflette, niente di più esatto. Sarà da fare distinzione di gradi [...] non è ciò che importa: importa la funzione che è direttiva e organizzativa, cioè educativa, cioè intellettuale." [Quaderni del carcere, p. 1523] Rifuggendo dalle individualistiche torri di avorio, gli intellettuali dovevano immergersi nella vita pratica e trasformarsi in "dirigenti organici di partito", dovevano diventare insomma "intellettuali organici" come si ripeté tanto spesso nei tempi in cui le idee di Gramsci imperavano. La classe operaia, teoricamente posta al centro della storia, non possedeva la capacità di emanciparsi da sola. Per affrancarsi dallo sfruttamento capitalistico aveva bisogno del partito e dunque degli "intellettuali organici". Da sola, sarebbe rimasta un corpo privo di testa. "L'innovazione -concluse Gramsci- non può diventare di massa, nei suoi primi stadi, se non per il tramite di una élite" [Quaderni del carcere, p. 1387]. Ecco una delle ragioni per le quali il Partito comunista ebbe sempre tanto successo fra gli intellettuali: prometteva di risolvere il problema della civiltà nuova affidando proprio a loro posizioni di prestigio e di comando di gran lunga superiori a quelle che essi avevano mai raggiunte nel passato.

Fra tutti i partiti comunisti del mondo, quello italiano subì più di ogni altro l'influsso delle idee di Gramsci, il che gli consentì di penetrare negli ambienti intellettuali, esercitando l'egemonia in primo luogo nei loro confronti. Ed ecco perché esso riuscì ad essere così presente nei giornali, nelle televisioni, nel cinema, nelle università, nelle case editrici. L'utilizzazione degli intellettuali consentì inoltre al Partito comunista di potenziare e perfezionare le tecniche di propaganda come agli altri partiti non era concesso. Tutti questi fatti contribuirono a far sì che il Pci diventasse il partito comunista più forte e numeroso di tutto l'Occidente, in grado di esercitare il suo prestigio non solo all'interno dei confini nazionali, ma pure all'estero, inclusi vari ambienti intellettuali degli Stati Uniti d'America.

Le indicazioni di Gramsci, tuttavia, se servivano a far conquistare consistenti posizione di potere, non bastavano di certo a garantire la sopravvivenza del partito nel mondo tecnologico. Erano intimamente pervase da spirito totalitario, non avrebbero condotto il Pci a una separazione dall'Unione sovietica e non gli avrebbero neppure consentito di trovare riparo dal crollo del Muro di Berlino. Erano indicazioni intelligenti ed efficaci, le quali tuttavia non coglievano l'essenza delle gigantesche trasformazioni in atto nel mondo. Apportavano un miglioramento significativo al patrimonio culturale del marxismo-leninismo, ma non comportavano un superamento di esso, come sarebbe stato necessario.

(*) Le citazioni dai Quaderni del carcere sono tratte dalla edizione curata da Velentino Gerratana, Einaudi, Torino 1975.

 

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