Piero Melograni
L'egemonia culturale della sinistra
"Prospettive nel mondo"
n. 5, maggio 1990

Si discute molto, oggi, del potere che il Partito comunista italiano riuscì a esercitare in campo culturale nei decenni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale. Non si trattò certamente di un potere dittatoriale, perché l'Italia rimase uno Stato retto da una democrazia parlamentare, ricco di voci discordanti. Molti quotidiani e molte case editrici conservarono una totale autonomia nei confronti del Partito comunista. Il partito più forte, la Democrazia Cristiana, soprattutto all'indomani della grande vittoria elettorale riportata nel 1948, esercitò una forte autorità nella scuola, nelle Università, nella RAI. Numerosi artisti conservarono sempre la capacità di sottrarsi ai dettami del "realismo socialista" di marca staliniana. Ambienti culturali di notevole rilevanza, che si riconoscevano in periodici di prestigio come "Il Mondo" di Pannunzio o "Tempo Presente" di Silone e Chiaromonte, coltivarono ideali laici e per nulla comunisti. E tuttavia, benché incontrasse molti ostacoli e non gli riuscisse mai di diventar maggioranza, il Partito comunista esercitò un potere assai esteso e consistente nel mondo della cultura.

Non è facile adottare criteri oggettivi per misurare questo potere. Si potrebbe compiere un censimento degli intellettuali e delle loro scelte politiche, analizzare la composizione politica delle redazioni dei giornali, oppure classificare la produzione delle case editrici e di quelle cinematografiche. Con questi e con altri criteri di misurazione, però, molti aspetti non quantificabili del fenomeno sfuggirebbero all'attenzione. Alcuni dizionari affermano tra l'altro che con il termine di "intellettuale" si intende definire la persona non soltanto dotata di qualità culturali, ma "per lo più destinata a rappresentare una parte direttiva o critica nell'ambito di un'organizzazione politica o di un indirizzo ideologico." Accettando una tale definizione, dovremmo senz'altro collocare attorno al PCI la grande maggioranza degli intellettuali italiani, poiché in quegli anni fu quasi esclusivamente il PCI a presentare l'immagine di un partito sempre pronto a valorizzare il ruolo degli scrittori e degli artisti. Ma accadde ancor più di questo, perché il Partito comunista cercò sempre di fare in modo che i suoi stessi dirigenti politici professionali, a partire da Togliatti, assumessero contegni e atteggiamenti propri degli intellettuali.

Discussioni e polemiche sulla presenza comunista nel mondo culturale italiano ebbero luogo già in anni lontani, e da esse potremmo ricavare conferme circa l'ampiezza di quella presenza. Restano memorabili i giudizi irritati espressi al riguardo da un uomo politico di primo piano come il democristiano Mario Scelba, ministro degli interni dal 1947 al 1953 e presidente del consiglio tra il l960 e il l962. Divenne celebre una sua frase sprezzante verso il "culturame" pronunciata il 6 giugno 1949, durante un congresso della Democrazia Cristiana svoltosi a Venezia. "Credete -chiese il ministro ai congressisti- che la DC avrebbe potuto vincere la battaglia del l8 aprile, se non avesse avuto in sé una forza morale, un'idea motrice, che vale molto più di tutto il culturame di certuni?". Nei giorni seguenti la sinistra social-comunista protestò con grande veemenza contro il neologismo diffamatorio. Ma in un' intervista pubblicata sul "Giornale d' Italia" del 10 giugno, Scelba precisò che, parlando di "culturame", intendeva riferirsi "a coloro i quali, per soddisfare la loro vanità, o la loro ambizione politica (e talvolta può darsi anche le proprie necessità economiche), mentre noi combattevamo la battaglia anticomunista del 18 aprile, che era fatta appunto in nome della cultura e della libertà, si schieravano dall'altra parte in alleanze ambigue con i negatori della cultura e della libertà. Io nego a questi uomini il diritto di parlare al popolo italiano in nome della cultura."

Secondo Nello Ajello, che ha dedicato un intero volume ai rapporti tra Intellettuali e PCI dal l944 al l958 (ed. Laterza, 1979), alle elezioni del 18 aprile 1948 circa i due terzi degli intellettuali italiani votarono per il "Fronte democratico popolare" che univa comunisti e socialisti sotto il simbolo di Garibaldi. Chi volesse conoscerne i nomi, potrebbe utilmente ricorrere al citato libro di Ajello. Aderirono al Fronte anche molte personalità della cultura che non appartenevano né al PCI né al PSI e che provenivano dalle più diverse esperienze. Basti qui ricordare che tra gli aderenti vi furono scrittori come Massimo Bontempelli, Salvatore Quasimodo, Corrado Alvaro, Libero Bigiaretti, Sibilla Aleramo, Carlo Bernari, Leonida Repaci, Giuseppe Marotta; uomini di teatro come Giorgio Strehler, Paolo Grassi, Lilla Brignone, Silvio D' Amico; pittori come Mario Mafai, Domenico Purificato e Carlo Levi.

Se qualcuno pensasse che il Fronte democratico popolare non avesse carattere comunista, poiché socialisti e indipendenti erano presenti in esso e perché un personaggio come Garibaldi era stato scelto come simbolo, si ingannerebbe. La regìa dell'intera operazione frontista restò saldamente nelle mani del gruppo dirigente comunista. I socialisti erano ferreamente legati ai comunisti da un patto di unità d'azione e avevano rinunziato alla loro autonomia. Alberto Jacometti, eletto segretario del Partito socialista nel 1948 confessò, in un intervista a Giampiero Mughini pubblicata da "Mondoperaio" nel gennaio 1978, che gli anni del frontismo furono "anni tremendi, perché il Partito socialista divenne stalinista, una reimpressione del Partito comunista". Quando Stalin morì nel marzo del '53, il gruppo senatoriale socialista diede incarico a Sandro Pertini di pronunciare in aula il discorso commemorativo. "Stalin - disse Pertini in quella occasione - è un gigante della storia e la sua memoria non conoscerà tramonto. Siamo costernati dinanzi a questa morte per il vuoto che Giuseppe Stalin lascia nel suo popolo e nell'umanità intera." Alla Camera dei deputati, Pietro Nenni celebrò il dittatore con parole non molto diverse. "Nessuno - disse Nenni - tra i reggitori di popoli ha lasciato dietro di sé, morendo, il vuoto che lascia Giuseppe Stalin." Secondo Nenni, che poco tempo prima aveva ricevuto a Mosca un premio dalle mani di Stalin, questo tiranno rappresentava la personificazione della saggezza: "Quando nell'estate scorsa ebbi occasione di incontrarlo, egli mi disse parole che mi sembrano oggi poter racchiudere la lezione della sua vita: non ammettere mai che non ci sia più niente da fare, non rompere mai il contatto con l'avversario o con il nemico, non puntare mai su una carta dubbia le sorti dello Stato, del partito, della collettività."

Oggi vari esponenti del Partito comunista tentano di far credere che negli anni 1944-1953 il loro partito non fosse stalinista, ma sarebbe molto ingenuo prestar loro fede. I comunisti, i socialisti e quasi tutti i loro compagni di strada ricevettero in quegli anni una fortissima impronta staliniana. Tra il 1944 e il 1948, il PCI diventò un partito numeroso, forte e influente, proprio perché utilizzò in modo pesante i miti di Stalin, dell'Unione Sovietica e dell'Armata Rossa vittoriosa. Esso rimase sempre un partito assai obbediente al gruppo dirigente moscovita, dato che Stalin non era uomo col quale si potesse scherzare. Tutte le scelte politiche del PCI di quegli anni, compresa la svolta di Salerno, furono decise da Stalin. Nel 1947, quando fu fondato il Cominform, gli italiani entrarono disciplinatamente a farvi parte applicandone senza discutere le decisioni. Allorché quindi si parla di penetrazione culturale comunista negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, non si deve scordare che un numero assai elevato di intellettuali italiani condivisero i più rozzi elementi di un'ideologia oggi respinta dallo stesso Partito comunista. Abbiamo detto all'inizio che il potere culturale esercitato dal PCI non fu un potere dittatoriale, e questo è vero nel senso che una parte del mondo culturale italiano si sottrasse all'influenza comunista. Ma lì dove questa influenza venne esercitata, il potere assunse connotazioni dittatoriali proprio perché ebbe caratteri stalinisti. Le discussioni, all'interno della sinistra staliniana, non erano affatto libere. Il dissenso equivaleva all'eresia, alla condanna, all'esclusione.

Un giovane storico, Loreto Di Nucci, ha dedicato di recente uno studio ai pellegrinaggi politici degli intellettuali italiani nei Paesi socialisti (lo studio è stato pubblicato in appendice al libro di Paul Hollander, Pellegrini politici, Intellettuali occidentali in Unione Sovietica, Cina e Cuba, ed. Il Mulino, 1988). Le ricerche compiute dal Di Nucci, servono a rammentarci che nel 1952 anche un intellettuale raffinato come Italo Calvino, dopo essersi recato nella Russia di Stalin, pubblicò sull' "Unità" resoconti di viaggio che oggi ci appaiono imbottiti di sciocchezze assolutamente in linea con lo stalinismo. Secondo Calvino, la vita degli abitanti di Mosca era idilliaca, il popolo russo sprizzava allegria e amore per i suoi capi, e lo stesso museo con i doni ricevuti da Stalin per il suo 70° compleanno poteva essere considerato una meraviglia.

Il 24-25 novembre 1950, l'Associazione Italia-URSS organizzava a Firenze un convegno nazionale, durante il quale prendevano la parola, per onorare la scienza e la cultura dell'URSS staliniana, autorevolissimi intellettuali come l'archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli, il filosofo Antonio Banfi, il musicologo Fedele d'Amico, il pittore Renato Guttuso, lo psicanalista Cesare Musatti. Quest'ultimo dedicava la sua relazione alla "Teoria pavloviana dei riflessi condizionati", guardandosi bene dal denunciare il fatto che la psicanalisi era bandita in URSS e nelle cosiddette "democrazie popolari". In quello stesso anno 1950, l'Associazione Italia -URSS pubblicava un volumetto dal titolo "Noi siamo stati nell'URSS", in cui una ventina di "viaggiatori", tra cui ancora una volta Guttuso e Banfi, non facevano che dir bene dello Stato staliniano. Guttuso, che avrebbe dovuto denunciare con energia lo stucchevole e arcaico conformismo della pittura ufficiale sovietica (nonché le persecuzioni esercitate contro gli artisti ribelli), scriveva invece che l'URSS "anche nel campo della cultura era il paese più avanzato del mondo", e rendeva omaggio all'insegnamento di Stalin, il quale: "contro il cosmopolitismo della forma e contro la distruzione dei contenuti ha detto per la prima volta che l'arte deve essere nazionale nella forma e socialista nel contenuto." Il filosofo Antonio Banfi, trascurando l'esistenza dei campi di concentramento, proclamava che in URSS stava nascendo finalmente una umanità nuova "liberata da ogni timore".

Le cause dei successi conseguiti dai comunisti italiani nel mondo della cultura furono certamente numerose, e una prima causa può essere trovata nell'attenzione da essi sempre mostrata nei confronti degli intellettuali. Secondo i comunisti, difatti, il proletariato industriale costituiva una classe rivoluzionaria, che da sola non era in grado di conquistare il potere. Le occorrevano la guida del partito e il soccorso degli intellettuali "organici al partito della classe operaia". Togliatti e il gruppo dirigente del PCI, di conseguenza, si impegnarono in modo consistente per allargare il numero di questi "intellettuali organici". Ma la politica culturale del PCI non avrebbe avuto il successo che ebbe se non avesse trovato un terreno favorevole.

La cultura di tipo idealistico e assai poco empirica diffusa tra gli intellettuali italiani, li predisponeva difatti a farsi sedurre da programmi - come quello comunista - aventi una forte carica utopica. Anche per questa ragioni i viaggi che quegli intellettuali compivano nei paesi del socialismo "reale" servivano a poco. Ciò che contava era soprattutto il paese del socialismo "irreale". Essi erano portati a idealizzare perfino le violenze avutesi nei Paesi dell'Est, immaginando che rispondessero a una necessità rivoluzionaria. Forse che i francesi non avevano a loro tempo adoperato la ghigliottina? Ora toccava ai bolscevichi di adoperarla. Il terrore esercitato negli Stati comunisti veniva giustificato con le stesse argomentazioni utilizzate per giustificare il terrore giacobino. Il mito di Robespierre e il mito di Stalin, in tal modo, finivano per sovrapporsi, confondersi e sorreggersi tra loro.

Gli intellettuali italiani, inoltre, vivevano in quegli anni la fase forse più acuta della crisi epocale legata al processo di modernizzazione. L'avvento del mondo industriale stava distruggendo, anche in Italia, la società fondata sull'agricoltura e con essa stava distruggendo una civiltà e una cultura antiche. Anzi, a ben vedere, stava distruggendo proprio la cultura in base alla quale gli intellettuali si erano formati nei loro studi e grazie alla quale, dunque, essi avrebbero potuto esercitare un certo potere. Avanzava il mondo del denaro, degli interessi borghesi, dei consumi crescenti. Molti videro nel comunismo una rivolta contro le trasformazioni incontrollabili della modernizzazione, la ricetta migliore per pianificare e incatenare il mondo, la soluzione più adatta per restituire potere agli intellettuali nella società futura.

Gli intellettuali, infine, potevano essere individui deboli, incerti e irrazionali come tutti gli altri uomini. Anch'essi uscivano da due catastrofiche guerre mondiali. Anch'essi intendevano reagire alle follie e alle mostruosità del mondo. Anch'essi potevano avvertire il bisogno di trovare un "salvatore" che li proteggesse nell'immediato avvenire. E anzi potevano avvertirlo più ancora degli altri individui proprio perché in essi la crisi culturale era più profonda, la sensazione dell'insuccesso era più bruciante, l'esigenza di sicurezza molto più sentita. Coloro che avevano fede in Dio potevano cercare la salvezza rifugiandosi nei valori trascendenti. Altri, che avevano fede anche in loro stessi, si adattavano al mondo sforzandosi di capirlo, di assecondarlo e di guidarlo nei limiti circoscritti in cui si può sperare di riuscirvi. Ma quanti non avevano fede né in Dio né in loro stessi si rivolgevano alle pseudo-religioni politiche tra le quali si distingueva quella del comunismo con i suoi dei, i suoi mausolei e i suoi testi sacri.

Alcuni di costoro, e forse non erano pochi, avevano poi qualche conto da regolare con il recente passato, poiché si erano fatti incantare da Mussolini, gli avevano reso omaggio nei loro scritti o nei loro affreschi, o ne erano stati beneficiati magari fino al punto di indossare la divisa di Accademici d'Italia, come era stato il caso di Massimo Bontempelli, la cui elezione al primo Senato della Repubblica, nelle liste del Fronte social-comunista, fu poi invalidata per questa sua compromissione col passato regime. Il mito del comunismo nazionale e vittorioso, che in quel momento Stalin personificava, non costringeva gli ex-fedeli del mito mussoliniano a ricostruire fin dalle fondamenta la loro personalità. Appariva come la via più breve per cancellare gli errori trascorsi e i relativi sensi di colpa.

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