Piero Melograni
Democrazia sì, ma col lavoro
"Mondo Economico"
30 novembre 1991

La sconfitta del comunismo ha prodotto in Italia una ben strana reazione, inducendo molte persone a sostenere che, se il comunismo ha perso, il capitalismo non ha vinto. Perfino Alberto Ronchey, uomo non sospetto di filo-comunismo, ha pubblicato di recente un libro di successo, I limiti del capitalismo (Rizzoli), nel quale ha lasciato intendere che la vittoria del sistema capitalistico è stata più apparente che reale, dato che questo sistema avrebbe di fronte a se' un futuro catastrofico. Prima o poi, ci avverte, la curva esponenziale dello sviluppo si spezzerà a causa dell'inquinamento generale, della paralisi urbana, della mancanza di materie prime e del rarefarsi delle fonti di energia. Chi si turbasse nel leggere queste scoraggianti previsioni, potrebbe consolarsi ricordando che già nel 1972 il Mit pubblicò un libro di successo con un titolo (I limiti dello sviluppo) assai simile a quello di Ronchey, nel quale veniva infondatamente affermato che nel giro di un ventennio, vale a dire alla data di oggi, l'umanità si sarebbe trovata senza più petrolio, gas naturale, rame, piombo, oro etc.

Il catastrofismo trova sempre un terreno culturale molto fertile grazie al quale prosperare, e non è da escludere che lo troverà ancora più fertile nell'immediato futuro, grazie alle angosce che la fine imminente del secondo millennio dell'era cristiana potrà provocare, con ipotesi apocalittiche in parte rassomiglianti a quelle che, a quanto si dice, si sarebbero drammaticamente diffuse intorno all'anno Mille.  E ci si può perfino chiedere se la fine del comunismo, dei suoi ideali e del suo grande impero, non contribuisca anch'essa a diffondere in ampi settori della società italiana, l'idea di trovarsi di fronte una drammatica conclusione epocale.  L'Unione Sovietica si sta dissolvendo nella miseria e potrebbe essere presto sconvolta da terribili sciagure. La Jugoslavia sta attraversando gli orrori di una guerra fratricida. In quasi tutto l'ex-impero sovietico il disordine è tale che Boris Eltsin e Lech Walesa non esitano a proporsi come semi-dittatori. E la grande crisi in atto nel mondo induce a temere che l'Occidente rischi di essere travolto da ondate immigratorie di immani proporzioni. Ma se accantoniamo le angosce circa il futuro e ci mettiamo a osservare con una certa freddezza quanto è accaduto e sta accadendo, possiamo meglio capire la storia di questi ultimi anni e meglio apprestare le difese contro gli sconvolgimenti futuri.

Ma ho l'impressione che, per orientarsi nelle recenti vicende del mondo, ci si debba soprattutto convincere di due dati di fatto, vale a dire che: il sistema capitalistico, provocando la sconfitta del comunismo, ha riportato una grande e incontestabile vittoria; il capitalismo e la stessa democrazia sono ricchezze che non si conquistano ne' si esportano facilmente. Cominciamo dal primo punto ed eliminiamo la tesi in base alla quale il comunismo sarebbe crollato da solo, a causa delle sue contraddizioni interne, senza un concorso attivo da parte dell'Occidente. Si tratta di una tesi completamente falsa, come ha ben dimostrato Alberto Pasolini Zanelli in un libro apparso lo scorso anno (La caduta dei profeti. Come l'Occidente ha provocato la dissoluzione del pianeta comunista, De Agostini editore). Dal 1946 in poi, l'Unione Sovietica e l'Occidente si sono combattuti in una guerra ora fredda ora un pò meno fredda, al termine della quale il sistema sovietico ha dovuto dichiararsi vinto poiché non era più in condizione di competere. Come ha scritto lo stesso Pasolini Zanelli, i problemi che stavano di fronte alle democrazie industrializzate potevano essere risolti con cambiamenti di politica, mentre quelli dell'Urss richiedevano un profondo cambiamento di sistema. Il capitalismo è sicuramente pieno di difficoltà, sperperi e imperfezioni, ma in politica contano i rapporti di forze, la superiorità relativa e non il raggiungimento di perfezioni impossibili.

Il secondo fatto è che, come già si è detto, capitalismo e democrazia non si conquistano ne' si esportano facilmente. Tutti i popoli che tra il XVIII e il XX secolo hanno potuto industrializzarsi lo hanno fatto grazie a dure fatiche, a capitali accumulati anch'essi con penosi sacrifici e infine grazie a una cultura creativa e imitativa pazientemente elaborata. I popoli dell'ex-impero comunista, come i popoli di quasi tutti i Paesi in via di sviluppo, rischiano invece di oscillare tra l'ignoranza di queste difficoltà e la disperazione di non poter mai riuscire, se non dopo un tempo lunghissimo, a raggiungere un soddisfacente livello di benessere. La Cecoslovaccchia, prima del comunismo, era fortemente permeata da una cultura capitalistica e sembra quindi trovarsi in una posizione di vantaggio nella sua attuale opera di ricostruzione economica e politica. Ma che cosa dire della Russia la quale, prima del comunismo, era assai meno moderna della Cecoslovacchia e che in settanta e più anni di comunismo, ha perduto ogni ricordo del capitalismo? Lo sviluppo della Russia esigerebbe inoltre un elevato grado di libertà. Ma occorre ammettere che in quello sterminato e anomalo Paese la libertà si è di continuo trasformata in anarchia. Due famosi giornalisti americani, Hedrick Smith del New York Times e Bob Kaiser del Washington Post, vissuti in Russia ai tempi di Breznev, scrissero che vari russi gli avevano confidato di aver bisogno di un potere forte e autoritario, pena la disintegrazione della società. Sia i capi sia i semplici cittadini si sentivano minacciati da una pericolosa e incombente instabilità. Oggi l'instabilità è arrivata e milioni di russi temono, con ragione, che essa possa trasformarsi in anarchia, caos, guerra civile, fame e carneficine, come in passato. A tutto questo bisogna aggiungere che una gran parte del popolo russo non è mai stato molto incline al lavoro. Se ne lamentò lo stesso Lenin sulla Pravda del 28 aprile 1918, quando scrisse che <In confronto ai lavoratori delle nazioni progredite, il russo è un cattivo lavoratore>.

Ai popoli che cercano di uscire dalla tragedia del collettivismo è sbagliato andare a dire che anche il capitalismo si trova in difficoltà, sia perché si tratta di un fatto scontato sia perché quei popoli si trovano di fronte a una scelta obbligata tra un sistema che non funziona più e un sistema che, nonostante i suoi "limiti", funziona ancora. Bisognerebbe invece dir loro e in maniera molto chiara che questa ricchezza, costituita dal binomio capitalismo/democrazia, potrà essere raggiunta soltanto a prezzo di un duro lavoro, come è sempre accaduto nella storia del mondo. E bisognerebbe anche aggiungere che l'emigrazione di massa di decine o centinaia di milioni di persone non costituirà affatto una scorciatoia praticabile. Il mondo occidentale, che ne verrebbe travolto, si opporrebbe a questa invasione in tutti i modi.

 

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