Mi candido per il Gran Consiglio poiché grazie alle mie esperienze professionali e personali penso di disporre del bagaglio necessario per poter dare un contributo costruttivo ai dibattiti.
Ho 66 anni e ho due figli adulti. Sono sposato con Anne-France, operatrice socio-sanitaria attiva nelle cure a domicilio, che ha a sua volta una figlia adulta. Insieme siamo una famiglia affidataria di una bambina di 8 anni. Abitiamo a Solduno.
Sono economista di formazione e ho lavorato principalmente in ambito fiscale per varie amministrazioni pubbliche. Da dicembre 2006 a gennaio 2021 ho diretto la Divisione delle contribuzioni del Canton Ticino. Ho avuto anche un’esperienza di tre anni in Rwanda come cooperante.
Sono stato attivo in alcune associazioni sportive o che si occupano di aiuto allo sviluppo. Più recentemente collaboro con Sostare nell’ambito della formazione di giovani migranti. Sono un amante della natura e della montagna e pratico attivamente molti sport.
Scelta politica
Essere liberale per me significa innanzitutto difendere due principi fondamentali, la democrazia e il liberismo economico. Quest’ultimo deve favorire l’iniziativa individuale mirata alla produzione di beni e servizi sempre migliori e non alla speculazione a corto termine. L’osservanza di tali principi non deve però escludere un’attenzione particolare per gli aspetti ambientali e sociali e alcuni settori essenziali quali l’educazione, la sanità, l’energia e le comunicazioni che devono restare sotto il controllo almeno parziale dello Stato.
Ambiente e territorio
La sostenibilità ambientale è una questione di sopravvivenza per il nostro pianeta ed è perciò fondamentale coordinare le azioni a livello internazionale. Dobbiamo però agire anche a livello locale implementando le varie misure e preservando il nostro territorio. A tale scopo è fondamentale meglio coordinare la pianificazione territoriale tra le troppe collettività esistenti.
Economia
Le migliori opportunità di cui dispone il Ticino sono la qualità di vita e la posizione geografica strategica tra i poli di Zurigo e Milano. Un punto debole è probabilmente la difficoltà a reperire personale qualificato. Apriamoci al mondo e al resto della Svizzera. Salvaguardiamo e se possibile miglioriamo la qualità del territorio. Privilegiamo gli investimenti nella formazione e nello sviluppo delle condizioni quadro per attirare persone e aziende invece dei sussidi diretti.
Socialità
Il benessere di tutta la popolazione non è solo un dovere morale, ma è una misura economicamente opportuna poiché un clima sociale disteso e il potere d’acquisto della popolazione residente sono essenziali per lo sviluppo economico.
Garantiamo a tutte le persone salari e rendite che permettano di vivere decentemente.
L’inserimento nel mondo del lavoro deve però restare prioritario in tutte le situazioni che lo permettono.
Articolo sul tema dell'insegnamento delle lingue
Ticinonews 16 marzo 2023
Lingue, coesione nazionale ed economia
Lingue, coesione nazionale ed economia
Il Gran consiglio si è pronunciato recentemente a favore
dell’introduzione dell’insegnamento del tedesco a partire dalla prima media.
Come “locarnese” non posso che rallegrarmi della decisione poiché le relazioni
con le regioni germanofone sono essenziali, non solo per l’economia, ma anche
per la coesione sociale. Personalmente sarei addirittura favorevole alla
creazione di classi bilingui alle elementari onde stimolare i proprietari di
residenze secondarie a trasferire il loro domicilio principale nella nostra
regione.
La questione dell’insegnamento delle lingue merita tuttavia una
riflessione più globale che includa anche il francese e l’inglese. Secondo lo
schema previsto, le nostre alunne e i nostri alunni inizieranno con il francese
alle elementari, con il tedesco in prima media e con l’inglese (obbligatorio)
in terza. Di fatto l’inglese rappresenterà la quarta lingua (è stato così anche
per me).
Nel corso della mia vita professionale, svolta
essenzialmente fuori cantone prima di assumere la direzione della Divisione
delle contribuzioni a fine 2006, sono stato spesso confrontato con le questioni
linguistiche. Nei rapporti intercantonali hanno sempre prevalso le lingue
nazionali, francese e tedesco (quest’ultimo se si voleva avere la certezza di
essere capiti dalla maggioranza), mentre in quelli internazionali è indubbiamente
stato l’inglese a farla da padrone, che si trattasse sia di aziende
internazionali, sia di Stati, compresa l’Italia poiché i trattati
internazionali comportano il coinvolgimento delle autorità federali poco
familiarizzate con la nostra lingua. Per gli interlocutori l’inglese era nella
peggiore delle ipotesi la seconda lingua e questo ha spesso rappresentato un
punto di forza a loro favore.
Volenti o nolenti, in un mondo sempre più globale e grazie
anche ai nuovi modelli di telelavoro e teleconferenze assisteremo verosimilmente
a una crescente domanda e offerta di posti di lavoro legati a gruppi
internazionali, ma decentralizzati, e la lingua di comunicazione sarà
inevitabilmente l’inglese.
Nel nostro Paese tendiamo ancora a privilegiare le lingue
nazionali con l’obiettivo, senz’altro condivisibile, di mantenere la coesione
nazionale. Le iniziative di alcuni cantoni miranti a rendere l’inglese la
lingua straniera principale si sono finora tutti arenati.
Cosa fare allora? Non avendo nessuna competenza in materia di
formazione/insegnamento sarebbe presuntuoso formulare delle proposte. Mi limito
ad affermare che la questione andrebbe analizzata nel suo insieme e non lingua
dopo lingua. Prendo ad esempio il francese contro il quale non ho nessun
pregiudizio essendo la lingua che parlo in famiglia. Per quale motivo è stato
definito prioritario e viene insegnato già dalla scuola elementare? Per il
fatto che è la lingua più facile per noi da insegnare e imparare?
Se vogliamo offrire le migliori opportunità di
studio e di lavoro alle generazioni future mantenendo allo stesso tempo
identità e coesione nazionale riprendiamo l’esercizio dall’inizio rimescolando
le carte, senza tabu e senza demonizzare l’inglese. Se troviamo normale che
l’Ambri, spesso preso come simbolo di attaccamento al territorio, sia allenato
e diretto in inglese sebbene la prima squadra sia composta prevalentemente da
giocatori svizzeri, perché dovremmo offuscarci se la medesima lingua viene
utilizzata in seno a determinate aziende o nel campo della formazione?
Fisc
alità delle aziende
L’iniziativa mirante a sospendere
l’abbassamento dell’aliquota dell’imposta sull’utile delle persone giuridiche
dall’ 8% al 5.5 % a partire dal 2025 potrebbe rilevarsi un clamoroso boomerang.
Per meglio illustrarlo prendo lo spunto da un incontro risalente ad alcuni anni
fa con i rappresentanti di una multinazionale intenzionata a stabilirsi in
Svizzera quando uno di loro disse: “Entro certi limiti, non è mezzo punto in
più o in meno di aliquota che farà la differenza, ma prima di investire decine
di milioni dobbiamo avere la garanzia che tra 10-15 anni le condizioni siano
ancora le stesse”. In altri termini, “la certezza del diritto” che finora è stata
uno dei maggiori vantaggi nei confronti dei nostri vicini. Fare retromarcia
avrebbe un effetto nefasto a livello di immagine e costituirebbe un imperdonabile
sgarbo nei confronti di chi nel frattempo ha continuato ad investire in Ticino,
rinunciando magari a delocalizzare le attività proprio in vista delle misure
approvate dal parlamento nel 2019 e contro le quali gli stessi schieramenti avevano
inutilmente tentato un referendum.
Il secondo tema sul quale vorrei
esprimermi è quello della tassazione minima dei grandi gruppi internazionali
sul quale saremo chiamati a pronunciarci in giugno. Si tratta di attuare l’ingiunzione
del G20 e dell’OCSE relativa ad un’aliquota minima del 15 % per i grandi gruppi
internazionali tramite un’imposta integrativa prelevata dalla Confederazione che compensa la differenza per
i cantoni che ne praticano una inferiore.
Personalmente
sono favorevole al principio di uno standard internazionale che ponga una
soglia minima alla concorrenza fiscale e penso che la Svizzera, grazie alle
altre ottime condizioni quadro, resterà competitiva anche ad armi uguali sul
piano fiscale. La successiva ripartizione di detta imposta integrativa - la
Confederazione tratterrà il 25% e riverserà il restante 75% al Cantone nel
quale è imposta la società – suscita tuttavia alcune perplessità. Infatti i Cantoni
più toccati dalla misura, ossia quelli che hanno avuto la politica fiscale più aggressiva
e così contribuito alle reazioni internazionali, non solo continueranno ad
incassare la totalità dell’imposta prelevata in precedenza, ma anche il 75% del
relativo supplemento, ciò che permetterà loro di finanziare ulteriori misure a
favore delle altre società, siano esse svizzere o internazionali e delle
persone fisiche, inasprendo così ulteriormente la concorrenza fiscale. Il
riversamento al fondo di perequazione intercantonale sarebbe stata una
soluzione più equa.
Articolo sulla fiscalità delle aziende
cdt.ch/opinioni
del 7 marzo 2023
Vent’anni fa veniva presentato il rapporto della Commissione Bergier chiamata a far luce sul comportamento della Svizzera durante la seconda guerra mondiale, in particolare sulla questione della chiusura delle frontiere – la famosa frase “la barca è piena” – e i fondi ebrei. La prima immagine della conferenza stampa era una slide con una piccola macchia bianca circondata da un immenso spazio nero. La Svizzera interamente circondata dai territori occupati dalle truppe nazifasciste. Da questo fatto si possono trarre tre insegnamenti. Il primo è che prima o poi si fanno i conti con la storia. Se i criteri rimarranno gli stessi saremo probabilmente assolti per l’Ucraina, ma non sono sicuro che lo saremo per altre popolazioni, ad esempio per gli afgani o i siriani, soprattutto le donne che hanno subito crimini ben peggiori e su una scala ben più ampia rispetto a quelli commessi dalle truppe di Putin in Ucraina. Il secondo, che contraddice in parte il primo, è che non sempre si può giudicare il passato con i criteri odierni. Quale era il margine di manovra della Svizzera circondata e isolata dal mondo libero? Il terzo è che l’apprezzamento etico è soggettivo e evolve nel tempo. È sulla base di quest’ultima riflessione che mi dico che bisognerebbe relativizzare il giudizio morale e focalizzarsi su elementi più oggettivi e pragmatici. Ci stiamo estinguendo ed è solo grazie alle ondate migratorie degli scorsi decenni che siamo in tanti oggi. Se ci chiudiamo tra una generazione questo evento sarà fatto a San Carlo a condizione che ci siano ancora i frontalieri per tenerlo aperto. Sulla barca c’è ancora posto, ma non sale chiunque. Si deve imparare la lingua che si parla a bordo, si accettano le regole e gli ordini del capitano anche se dovesse essere una donna e tutti quelli in grado di farlo remano.
Estratto del mio intervento all'evento distrettuale PLR del 5 marzo in Piazza Grande
“Quale futuro per Locarno e la sua
regione?”
Il Rapporto della Commissione economia
della città di Locarno è lo spunto per una riflessione estesa all’insieme della
regione. Esso evidenzia il ruolo centrale che rivestono la valorizzazione del
territorio e la qualità di vita nell'ambito della promozione economica e
demografica e le difficoltà derivanti dall’attuale frammentazione
amministrativa e la conseguente necessità di riprendere il tema delle
aggregazioni.
Le iniziative congiunte di Cantone,
Comune e privati permetteranno di realizzare numerose opere che cambieranno il
volto della città rendendola più attrattiva per gli abitanti, le imprese e il
turismo: la valorizzazione del percorso Largo Zorzi-Rotonda e del comparto dell’ex-macello,
il Museo del territorio, il parco di Villa Balli in Città Vecchia, la piazza di
Solduno, il comparto Globus e il rinnovo del Grand Hotel. Allargando il raggio possiamo
aggiungere il comparto stazione a Muralto, la galleria tra Ascona e Brissago e la
ciclopista della Vallemaggia. A questa lista avrei volentieri aggiunto un
palazzo dei congressi, una passeggiata a lago da Ascona a Magadino e dei servizi
igienici nelle zone delle gole di Ponte Brolla e degli altri punti di
concentrazione di bagnanti.
Il ritardo nella realizzazione di
queste opere ha impedito di approfittare pienamente dell’enorme potenziale
pubblicitario creato dalle restrizioni di movimento durante la pandemia. Se guardiamo
al futuro dobbiamo invece chiederci se i vari attori coinvolti disporranno singolarmente
dei mezzi finanziari e delle competenze per sostenere progetti di tale portata.
Il processo aggregativo è la via da percorrere. Nel frattempo occorrerà trovare
altre forme di collaborazione tra i vari enti pubblici sul modello di quanto
annunciato recentemente dai comuni della Leventina.
Articolo sul futuro del Locarnese
LaRegione del 18 febbraio 2023
Le migrazioni sono un’opportunità
La questione delle migrazioni è da decenni al centro delle
preoccupazioni della popolazione e della politica. Fino a qualche anno fa il
dibattito verteva essenzialmente sulla qualifica di rifugiato politico, ossia
se il o la “richiedente d’asilo” fosse
realmente vittima di persecuzioni a causa del colore della pelle o gruppo di appartenenza,
della religione o delle sue opinioni politiche. In questa lista spicca
l’assenza della “miseria”, lacuna che un celebre vignettista romando aveva abilmente
riassunto nella frase: “il vero rifugiato rischia la vita perché protesta per
le sue condizioni mentre il falso rifugiato la rischia per le proprie
condizioni”. Le modalità e le condizioni d’accoglienza miravano innanzitutto alla
selezione e solo in un secondo tempo e in casi limitati ad una efficace integrazione.
Più recentemente abbiamo accolto
decine di migliaia di persone in fuga dall’Ucraina grazie allo statuto S di cui
possono beneficiare gruppi di persone esposte a un grave pericolo e che concede
un diritto di soggiorno senza espletare una procedura di asilo ordinaria e
garantisce immediatamente alcuni diritti .
La prima domanda che dovremmo porci è
probabilmente cosa differenzia gli ucraini dai siriani, dagli afgani o da altre
popolazioni fuggite da situazioni talvolta peggiori da giustificare un
atteggiamento di apertura del tutto dimenticato nel nostro Paese dai tempi
della primavera di Praga.
La seconda è cosa avverrà in futuro. È
infatti utopico pensare a una normalizzazione della situazione a breve-medio
termine e anche se ciò dovesse avvenire molti di loro preferiranno restare in
Svizzera anche nel nobile intento di meglio aiutare la famiglia o gli amici rimasti
in patria.
Dobbiamo prendere per acquisito che
le migrazioni saranno un fenomeno costante e irreversibile che sarà accentuato
dalla crisi climatica. Si tratta spesso di persone che fuggono da situazioni tutt’altro
che provvisorie e spesso intenzionate a restare a lungo, almeno fino a quando
saranno in condizione di rientrare nel loro paese garantendo un’esistenza degna
al loro clan, esattamente come succedeva nelle nostre valli fino a qualche
decennio fa. Avendo lavorato 3 anni in Rwanda per l’aiuto allo sviluppo
svizzero ho potuto costatare di persona come le condizioni di vita e soprattutto
la mancanza di prospettive per migliorarle siano un forte incentivo alla
migrazione soprattutto per i giovani meglio istruiti.
Il loro arrivo è anche una grande opportunità per il nostro
paese confrontato ormai ad un declino demografico preoccupante. Cogliamo
l’occasione per trasformare questo fenomeno in un esercizio vincente per
entrambe le parti. Generalizziamo le misure messe in atto per accogliere gli
ucraini a tutti i movimenti di popolazione indipendentemente dalla distanza
geografica o dall’etnia offrendo opportunità di formazione e di lavoro esigendo
però non solo il rispetto delle leggi formali, ma anche l’adozione di alcuni
valori imprescindibili quali il senso civico o l’uguaglianza di genere. La vera
discriminazione sarebbe quella di prestare loro una minore capacità di
comprensione rispetto a determinati valori inclusi nella Dichiarazione
universale dei diritti umani.
La recente mobilitazione popolare a favore di una famiglia
monoparentale originaria dell’Afghanistan minacciata di espulsione e la susseguente
risoluzione interpartitica che chiede al Governo di intervenire presso la
Segreteria di Stato delle migrazioni sono un segnale positivo nella giusta
direzione.
E se raddoppiassimo l’AVS?
La recente adozione da parte del Consiglio degli Stati di
una misura che in pratica condurrà al
ridimensionamento delle future
rendite della previdenza professionale e che fa seguito a quella approvata in
settembre dal popolo riguardante l’innalzamento dell’età del pensionamento per
le donne non fa che prolungare anch’essa di qualche anno la viabilità
finanziaria di un modello, quello dei 3 pilastri, che risponde sempre meno
all’evoluzione della società e del mondo del lavoro. È forse giunto il momento
di chiedersi se non sia necessario riflettere su un cambiamento più radicale
del sistema scordando il quadro esistente.
Idealmente ogni cittadino
legalmente residente nel nostro territorio dovrebbe avere il diritto ad un’esistenza
dignitosa anche se non è in grado di lavorare qualunque ne sia il motivo grazie
a una rendita sufficiente ottenibile senza sottoporsi a pratiche talvolta
svilenti.
Il modello attuale è basato sulla
complementarità con la previdenza professionale ed è proprio questo il punto
debole poiché varie categorie professionali, spesso le più fragili, ne sono
parzialmente o totalmente sprovviste e i nuovi modelli emergenti nel mondo del
lavoro rischiano di ulteriormente indebolire l’apporto del secondo pilastro.
E se aumentassimo massicciamente
l’AVS trasformandola in una rendita in grado di garantire a tutti gli aventi
diritto la copertura dei loro bisogni vitali? Bisogni che non dipendono dal
genere, dall’età, dallo stato civile, dalla provenienza o dal trascorso
professionale. Una rendita uniforme e sufficiente (indicativamente il doppio
della rendita minima attuale, semplificherebbe anche la ricerca di soluzioni in
alcune situazioni problematiche quali i pensionamenti anticipati per certe
categorie professionali, le rendite insufficienti per i percorsi professionali
meno qualificati o irregolari o le lacune legate a prelievi del capitale della
previdenza professionale.
Il costo di una tale operazione
sarebbe evidentemente enorme, ma potrebbe in gran parte essere coperto mediante
un massiccio travaso di prelievi dalla previdenza professionale, dall’abolizione
di vari sussidi e delle rendite complementari e, non da ultimo, da una gestione
amministrativa semplificata.
La previdenza professionale come
concepita attualmente manterrebbe il suo scopo ossia assicurare il livello di
vita precedente, ma avrebbe un carattere più marginale e opzionale mirato sui
beni e consumi non primari, ma non per questo meno legittimi.
L’approfondimento di un tale modello necessiterebbe
un’analisi approfondita di molteplici aspetti e la sua eventuale
implementazione non potrebbe che essere progressiva sull’arco di almeno una
generazione, ma è forse una valida alternativa all’impasse attuale.
Riforma del modello di previdenza e reddito di
cittadinanza
Le revisioni o i tentativi di revisione dell’AVS e della
previdenza professionale si susseguono ormai da decenni senza che si trovi una
soluzione stabile e duratura. Vista la facilità con cui sono state raccolte le
firme necessarie al referendum non è da escludere che anche l’attuale Riforma
AVS 21, la quale in pratica non fa altro che garantire la sostenibilità
finanziaria del sistema attuale per qualche anno, non superi l’ostacolo del
voto popolare.
Il sistema dei “3 pilastri” implementato progressivamente a
partire dagli anni 50 è stato una conquista sociale importante adattata alla
realtà del momento. La carenza iniziale di un sistema di previdenza generalizzato
è stata colmata con la creazione dell’AVS. In seguito, complici anche diversi
fattori quali la crescita economica costante, la certezza e stabilità del posto
di lavoro, la posizione dominante della nostra economia e non da ultimo una crescita
lenta ma continua del potere d’acquisto anche per le classi meno abbienti, sono
stati introdotti i vari tasselli che compongono il modello attuale.
La realtà odierna non è tuttavia più la stessa. Diversi elementi
quali l’inesorabile invecchiamento della popolazione, la mondializzazione,
l’accresciuta concorrenza internazionale, la digitalizzazione, i nuovi modelli
di lavoro, la minaccia climatica o eventi eccezionali come la recente pandemia o
la guerra alla porta di casa, hanno prodotto incertezza e discontinuità nella
crescita della nostra economia, maggiori disparità sociali e soprattutto una
crescente precarietà nel mondo del lavoro.
Il modello attuale di previdenza basato principalmente sulla
complementarità delle rendite e un’attività professionale regolare e continua non
sarà più in grado di offrire redditi decorosi a una buona parte dei nostri
giovani poiché l’apporto del secondo pilastro tenderà a diminuire se non
addirittura a svanire per i motivi sovraesposti e la sola rendita AVS non copre
più già adesso i bisogni vitali.
Tutti gli sforzi effettuati finora per riformare il sistema si
sono persi in dibattiti su disposizioni che spesso trovano la loro origine in
un passato ormai remoto. Il confronto politico tra destra e sinistra ha poi
fatto il resto. A mio avviso solo un cambiamento radicale di paradigma
permetterà di uscire dall’impasse attuale e di trovare soluzioni chiare e
sostenibili a lungo termine. Piuttosto che focalizzarci sul finanziamento di
uno dei pilastri o su contromisure legate a situazioni particolari come, ad
esempio, l’assoggettamento al secondo pilastro anche per gli redditi inferiori
alla soglia attuale occorrerebbe interessarsi a una vera riforma senza necessariamente
lasciarsi influenzare dall’esistente.
Immaginiamo per un momento di vivere in un mondo nuovo
confrontato per la prima volta con la questione della previdenza. Il primo obiettivo
sarebbe probabilmente di garantire a tutti gli aventi diritto, nel modo più
semplice possibile, una rendita che permetta di vivere degnamente coprendo
tutti i bisogni vitali, senza immaginare soluzioni basate su una moltitudine di
prestazioni e sussidi vari. L’importo dovrebbe essere univoco, senza differenziazioni
di genere, età, stato civile, regionali o altro. Se ritorniamo con i piedi sulla terra e ci
riferiamo alla Svizzera attuale, questo potrebbe essere realizzato mediante un
drastico potenziamento dell’attuale primo pilastro (a titolo indicativo, almeno
del 50 %).
Una volta coperti i bisogni primari si può riflettere sulla
soddisfazione dei bisogni meno essenziali e personali. La previdenza
professionale come concepita attualmente manterrebbe il suo scopo, assicurare integralmente
il livello di vita precedente, ma avrebbe un carattere più marginale e mirato
sui beni e consumi non primari, ma non per questo meno legittimi. Il carattere
obbligatorio potrebbe essere mantenuto, ma con una maggiore libertà per
l’assicurato (prelievi per l’acquisto di un immobile o l’inizio di un’attività
indipendente) poiché non sussisterebbe il rischio di cadere nell’indigenza. Si
potrebbe anche ipotizzare una versione puramente volontaria mettendo le casse
in concorrenza tra di loro per ottimizzare i rendimenti, ma andrebbe
approfondita la questione del mantenimento della partecipazione padronale o la
sua eventuale compensazione tramite un aumento di salario per le persone che
rinuncerebbero a questa forma di rendita.
In altri termini, una prima rendita che copra realmente
tutti i bisogni essenziali nella stessa misura per tutti e una seconda legata
ai redditi professionali precedenti e destinata a scopi più personali.
La ricerca della semplicità potrebbe essere estesa a tutti
gli aspetti. Ad esempio piuttosto che indicizzare le rendite regionalmente,
esercizio d'altronde estremamente complesso, e perdersi in infinite discussioni,
consideriamo l’effetto economico dell’accresciuto potere d’acquisto dei
residenti nelle zone periferiche e interveniamo razionalmente sulle misure a favore
di queste zone e sulla perequazione intercantonale e intercomunale.
Il finanziamento di tale modello richiederebbe in primo
luogo un importante travaso di prelievi dalla previdenza professionale. La compensazione
delle rendite complementari e altri sussidi ormai privi di oggetto sarebbe un
secondo tassello importante. La semplificazione del modello potrebbe inoltre
condurre a risparmi amministrativi e a controlli più efficaci. A lungo termine
e a causa dell’invecchiamento della popolazione saranno però necessarie altre
misure quali l’innalzamento dell’età del pensionamento (per tutti i generi), un
aumento dell’IVA, ecc., misure forse più facili da proporre nell’ambito di un
cambiamento radicale di modello con rendite identiche per tutti che in
occasione di modifiche mirate unicamente su questo aspetto.
La cerchia dei beneficiari andrebbe inevitabilmente limitata
ai “residenti legittimi” onde evitare un afflusso di migranti. I criteri
applicati in Italia per il reddito di cittadinanza, almeno 10 anni di residenza
legale, potrebbero costituire un riferimento interessante. Un maggior rigore non
sarebbe opportuno poiché una volta consolidato il diritto di residenza e
acquisito il diritto alla rendita quest’ultima deve essere integrale se si
vogliono evitare le altre forme di sussidi esistenti o il ricorso al lavoro
nero.
Definito un modello destinato alla previdenza, ci si potrebbe
chiedere se non possa essere esteso ad altre situazioni nelle quali l’accesso a
un’attività remunerata non è più totalmente o parzialmente possibile per motivi
indipendenti dalla propria volontà e divenire di fatto un reale reddito di
cittadinanza. Evito il termine “universale”
poiché almeno inizialmente non si tratterebbe di un reddito incondizionato al
quale tutti avrebbero automaticamente diritto.
Lo sviluppo di tale modello richiederebbe
naturalmente l’approfondimento di molteplici aspetti e la sua eventuale
implementazione non potrebbe che essere progressiva sull’arco di almeno una
generazione, ma vale forse la pena di valutarne seriamente la fattibilità.
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