L’epopea di Gilgamesh

L’epopea di Gilgamesh è uno dei più antichi poemi conosciuti. Fu composto in alcune sue parti presso i Sumeri, intorno al 2200 a.C. e fu poi completato e sistemato dai Babilonesi e dagli Assiri, tra il 1500 e il 600 a.C.

L’epopea di Gilgamesh ha un doppio, straordinario interesse. Per un lato ci dà notizie sul mondo dell’antica Mesopotamia: parla di città, santuari, templi, lavori dell’uomo per controllare fiumi ed acque, guerre, popoli. Per un altro lato si fa ammirare come una delle più alte opere poetiche di ogni tempo.

Essa si fonda su sentimenti universali, sempre presenti nella storia dell’umanità: l’amicizia, lo sgomento di fronte alla morte delle persone care, il desiderio di gloria, la ricerca impossibile della vita eterna, la paura dell’oltretomba.

Questa in sintesi la vicenda. Gilgamesh per due terzi Dio e per un terzo uomo, ha costruito con le proprie mani la città di Uruk. Ma è crudele, e opprime a tal punto con la sua ferocia la popolazione che i sudditi si rivolgono alla dea Aruru, per chiedere aiuto.

Gli dei accolgono la richiesta, e modellano con l’argilla l’eroe Enkidu, che dovrà punire quel re crudele. Enkidu sfida Gilgamesh, lo vince ma non lo uccide: anzi, i due divengono grandissimi amici, e compiono insieme gesta straordinarie.Ma dopo tante prodezze Enkidu si ammala e muore.

Gilgamesh è disperato e non si rassegna, e si mette in cerca di Untnapishtim, l’unico uomo a cui gli dei abbiano donato l’immortalità. Ma questa ricerca non da i risultati sperati: Gilgamesh supera ogni sorta di disagi e avventure, ma il viaggio è inutile, perché gli dei non daranno a nessuno il privilegio di <non morire >, e tutto sarà vano.

Gilgamesh torna a Uruk. Riesce unicamente a richiamare dall’oltretomba, per pochi attimi, lo spirito dell’amico morto Enkidu, il quale narra con parole piene di disperazione lo squallore e l’orrore del mondo dei morti.

Tuttavia il fallimento dell’impresa ha insegnato a Gilgamesh la saggezza: accettare la vita, coi suoi limiti e le sue responsabilità.

Il poema non è dunque uno sfiduciato invito alla rinuncia, alla fuga dalla vita e dalle proprie responsabilità, ma, al contrario, un’esortazione al compimento del proprio dovere, con la responsabilità che dà un’oggettiva e sicura visione della verità.

L’uomo non è un dio, non è destinato all’immortalità, non è invulnerabile al dolore; mortalità e dolore devono essere accolti e trasformati poiché la conoscenza è sempre una conquista e una virtù piena e consapevole di sé.

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