Institut de Stratégie Comparée, Commission Française d'Histoire Militaire, Institut d'Histoire des Conflits Contemporains

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TRATTATO  DI  STRATEGIA 

Traduzione italianadi Serenella CAVALLETTI

 

CAPITOLO III  

LA STRATEGIA COME SCIENZA

 

 

53. Il campo della scienza strategica

 

L’identificazione della strategia attraverso una definizione non delimita necessariamente il campo della scienza corrispondente. Lo stratega può utilizzare tutto. A priori, non si penserebbe di includere il Ritratto di Monsieur Pouget in una bibliografia strategica; il libro di Jean Guitton ha avuto invece un ruolo decisivo nel percorso intellettuale del generale Poirier. La strategia, più di ogni altra scienza, trae profitto da ogni altra disciplina: essa si serve delle scienze esatte per valutare la sua base tecnica; dell’economia per determinare i suoi mezzi; delle scienze politiche per il suo intimo rapporto con la politica; della sociologia per inquadrare i conflitti nel loro contesto globale; della storia per attingervi esempi ed insegnamenti...

 

In altre parole, tutto può entrare nella biblioteca strategica. In primo luogo la storia, e naturalmente la storia delle guerre. Le memorie dei grandi capitani o i libri dei grandi storici valgono spesso molto di più delle opere didattiche: non si può studiare la strategia antica senza conoscere Tucidide, Cesare o Tacito. Per l’epoca moderna, le memorie di Turenne sono un riferimento obbligatorio. Lo sviluppo delle teorie strategiche nell’epoca contemporanea non ha reso effimere queste fonti: le memorie del maresciallo von Manstein (Verlorene Siege 1955; traduzioni francese e inglese 1958), i quaderni del maresciallo Rommel, sono degli straordinari “manuali” di strategia. Ma i loro insegnamenti sono riservati ad una piccola élite di lettori avveduti, che devono estrarli da un racconto e fare da soli il lavoro di selezione e di generalizzazione che l’autore di un’opera teorica dovrebbe aver già fatto. Vi si trovano degli spunti, talvolta brillanti, ma sempre fuggevoli. Ogni lettore deve ripartire da zero, costruire il proprio sistema.

 

Questa sorgente della scienza strategica può essere qualificata come indiretta. Essa è immensa e gli autori sono migliaia. La maggioranza è caduta nell’oblio; sono sopravvissuti solo un pugno di grandi capitani, più per i loro atti che per i loro scritti, e un numero ancora più ristretto di storici, che sono stati giudicati degni di restare negli annali della scienza storica dagli storici stessi. Tutti gli altri sono spariti nel nulla. Chi legge ancora il Père Daniel, all’infuori di qualche antiquario e storico militare? La sua Histoire de la milice françoise (1721) ha avuto grandissima rinomanza e non è stata letta solo come un libro di storia, ma come un compendio dell’arte della guerra, da svariate generazioni di ufficiali. Tuttavia è raro che tali opere abbiano portato degli elementi teorici originali, il loro studio interessa più lo storico che lo studioso di strategia. Sembrerebbe dunque preferibile limitarsi ad un approccio più restrittivo incentrato sulle opere teoriche. Se esse non hanno sempre avuto un’influenza decisiva, è tuttavia attraverso di loro, più che per i racconti storici, che si è veramente costituita la scienza strategica, che sono stati definiti i suoi concetti e i suoi metodi.

 

54. Scienza militare e scienza strategica

 

La strategia non è una disciplina indipendente. E’ una branca di un campo molto più vasto, quello della condotta della guerra, ed oggi, più in generale, dei conflitti, che abbiamo chiamato, secondo le epoche, “scienza militare” (al tempo dei Romani), “arte della cavalleria” (nel Medioevo), “arte della milizia” (all’inizio dei tempi moderni), “arte della guerra” (definizione che s’impone nel XVIII° secolo). Possiamo separare la strategia da questo insieme che le dà un senso? Fino all’epoca contemporanea, è stata sempre inclusa nell’arte della guerra e quindi nel pensiero militare, di cui costituiva il livello più alto.

La scienza strategica ha bisogno di essere sostenuta da una scienza tattica, senza che per questo la prima derivi dalla seconda. Il XVII° e XVIII° secolo hanno sviluppato un ricco pensiero tattico, ma la quasi totalità degli autori militari non sono andati oltre, senza mai avere la minima intuizione di una dimensione superiore, mentre la dialettica della pace e della guerra è stata invece ben recepita[1]. La strategia è nata dalla tattica, ma procede in primo luogo da una comprensione del legame intrinseco tra la guerra e la politica. Il problema è che queste diverse categorie si sono definite molto lentamente, l’abbiamo visto studiando la genesi del concetto di strategia e la sua collocazione tra le categorie del conflitto. Non si può dunque pretendere di limitare il nostro campo d’esplorazione alle sole opere di “pura” strategia, come noi la intendiamo oggi. Bisogna adottare una prospettiva evolutiva che partirà dalla scienza militare per arrivare, nell’epoca contemporanea, alla scienza strategica.

 

55. Universalità della scienza strategica?

 

La guerra è un problema universale che ritroviamo nella letteratura di tutte le civiltà dotate di scrittura, ma questo non significa necessariamente che le suddette civiltà abbiano avuto una letteratura strategica, che abbiano conosciuto la strategia come scienza.

 

La tesi dell’universalità della scienza strategica è probabilmente dimostrata nella maniera più brillante nella recente Antologia mondiale della strategia elaborata da Gérard Chaliand[2]. Con un’erudizione ammirevole, egli spazia dagli Ebrei alla strategia nucleare passando per la Mesopotamia e l’Estremo Oriente, ma giunge a questo risultato solo includendo un certo numero di testi il cui rapporto con la strategia è per lo meno dubbio. Gli estratti della Bibbia o dell’epoca di Gilgamesh (Mesopotamia, circa 2000 anni a.C.) non riguardano certamente il nostro campo di studi: essi descrivono combattimenti, spesso eroici, talvolta accompagnati da stratagemmi, ma mai un’arte della guerra sufficientemente complessa da meritare il nome di strategia. Né gli Egiziani[3], né gli Assiri[4], né i Persiani hanno prodotto trattati militari, né forgiato dei concetti che potrebbero avvicinarsi, anche lontanamente, alla strategia o alla tattica. Kautilya, che si ritiene rappresenti l’India, enuncia dei precetti che si riferiscono più alla politica che alla strategia. Quanto ai Greci, sono rappresentati da storici che hanno coscienza di una dimensione superiore dell’arte della guerra e del legame intrinseco tra la politica e la guerra, che noi oggi chiameremmo strategia, ma non si tratta di veri trattati che cerchino di teorizzarla.

 

In realtà, il pensiero strategico non è universale, a meno d’indebolire il suo contenuto al punto di farvi rientrare qualsiasi scritto che si riferisca all’arte della guerra. La scienza strategica ha una storia discontinua. Tra le civiltà che hanno sviluppato un’arte della guerra sufficientemente complessa per meritare il nome di strategia, nessuna ha prodotto una letteratura strategica degna di questo nome.

 

56. I determinanti sociali della scienza strategica

 

Le cause di questa discontinuità sono evidentemente multiple e difficili da individuare. Potremmo suggerirne almeno cinque, che dovrebbero essere oggetto di approfondimenti epistemologici e storici.

 

1. Il pensiero strategico deve rispondere ad una necessità. Lo storico americano Everett L. Wheeler si è dedicato ad uno studio comparativo dell’apparizione, quasi simultanea, della teoria militare in Grecia e in Cina, nel IV° secolo a.C. La sua conclusione è chiara: “nonostante differenze culturali estreme, fattori storici simili hanno favorito lo sviluppo della teoria militare nell’ambito di queste due civiltà e le prime teorie in Occidente e in Oriente condividevano temi comuni[5]. Tra questi fattori, uno è stato essenziale: sia la Cina che la Grecia avevano una grande instabilità politica ed una intensa attività bellica: in Cina, era il periodo dei Regni Combattenti, la Grecia era infiammata dalla guerra del Peloponneso. C’era quindi una forte richiesta di ”perizia bellica” come dirà più tardi Montaigne.[6] In Grecia, professori itineranti, gli hoplomachoi[7], insegnavano l’arte del comando, mentre in Cina il re si circondava di consiglieri militari come Sun Tzu o Sun Bin. In seguito, quando le basi saranno gettate, il pensiero strategico si svilupperà piuttosto durante i periodi di inazione che seguono alla pace, ma sempre con il rischio di guerra sullo sfondo, per esempio in Europa nel XVIII° secolo. In Cina questo sfondo verrà meno: il rigetto morale della guerra considerata come ingiusta e l’assenza di un nemico degno di questo nome (l’impero è minacciato solo da barbari) porteranno alla sclerosi del pensiero strategico.[8]

 

2. Il pensiero strategico presuppone una certa apertura, poiché svela dei precetti, delle massime, delle “ricette”, che i governanti e i capi militari non amano divulgare, per non dare informazioni agli avversari. Noi conosciamo solo minime tracce delle navigazioni dei Fenici o dei Cartaginesi perché essi non volevano far conoscere le loro rotte ai propri concorrenti. Succede lo stesso in strategia dove la regola è di trasmettere i documenti di Stato maggiore solo alle persone “qualificate” per conoscerli. Molto spesso, i capi militari considerano la loro arte come una proprietà personale da trasmettere solo a discepoli accuratamente scelti: Turenne si forma alla scuola olandese di Federico e Maurizio di Nassau[9], Luxembourg a quella di Condé[10], de Saxe a contatto del maresciallo de Villars[11]. Moreau, il vincitore di Hohenlinden (1800), cura molto la formazione dei suoi luogotenenti, al contrario di Napoleone[12], che si dimostra molto negligente in questo campo: questa ignoranza delle “alte parti della guerra” da parte dei suoi luogotenenti rivelerà i suoi inconvenienti durante le campagne del 1812 e 1813. Fino all’epoca contemporanea, gli scritti dei generali sono raramente destinati alla pubblicazione. I trattati di Montecuccoli non sono stati pubblicati finché era vivo, salvo uno. Gli scritti di Federico II erano considerati documenti di Stato: l’Istruzione ai miei generali è nota perché un esemplare è caduto nel 1760 nelle mani degli Austriaci, che l’hanno subito pubblicato. Il conte di Schaumbourg-Lippe, spirito brillante le cui riflessioni strategiche non hanno equivalenti nel XVIII° secolo, sarebbe considerato allo stesso livello di Guibert o di Joly de Maizeroy se i suoi scritti fossero stati pubblicati, ma egli li ha divulgati solo ad un ristretto numero di lettori. In Cina, i classici sono riservati ad un esiguo numero di professori e di alti personaggi e i privati che li possiedono rischiano pesanti sanzioni[13] (il ridotto numero di copie spiega il motivo della scarsità di trattati che sono rimasti). Ancora oggi, alcuni scritti di Ciang Kai Shek a Taiwan sono coperti dal segreto di Stato. In molte società dotate di scrittura, l’arte del comando si trasmette soprattutto per tradizione orale.

 

3. Il pensiero strategico presuppone, nello stesso tempo, un’esperienza pratica ed una propensione alla riflessione che non s’incontrano facilmente nella stessa persona. Il capo in guerra si preoccupa prima di farla e poi di teorizzarla. Egli scrive solo quando è condannato all’inattività: Montecuccoli comincia a scrivere durante i suoi anni di prigionia, Feuquière redige le sue Mémoires quando è ridotto a fare da spettatore della guerra di Successione Spagnola, Maurice de Saxe scrive le sue Rêveries in tredici notti, durante una forte febbre, “per dissipare le sue afflizioni”; molti capi militari si trasformano in scrittori quando restano senza impiego. E’ necessaria una disponibilità, un’occasione che raramente è considerata come tale (l’inattività è spesso il risultato di una destituzione o di un fallimento) e quindi sfruttata ancora più raramente. Warnery parla delle sue “opere, che non sono tuttavia che frutto dell’ozio forzato in cui mi sono trovato, quando vivevo nelle mie terre, lontano, per così dire, da tutti e dimenticato[14]. E’ anche necessario un certo livello d’istruzione letteraria, il che non è molto comune finché il reclutamento avviene per cooptazione, con una formazione “sul campo”, invece di una selezione per concorso, con una formazione nelle scuole. Infine, ci vuole coraggio o almeno un certo distacco, da parte di chi pensa e scrive sugli onori e sulla propria carriera:

Proprio nel Militare le verità sono meno facili da dire; Folard ha pagato caro per quelle che ha pubblicato; Feuquière ha avuto lo stesso torto, di aver parlato troppo, ancora prima che si sapesse che stava scrivendo delle Memorie; anche Puységur dice che quelli che osano criticare la condotta dei Generali ne pagano le conseguenze[15].

 

4. Il pensiero strategico presuppone una forma mentis rivolta verso l’astrazione. I Greci e i Bizantini hanno prodotto una letteratura strategica perché erano appassionati di controversie filosofiche o teologiche. I Romani non ne hanno scritto perché essenzialmente pratici. Nell’epoca moderna, e anche dopo l’apertura sul mondo a metà del XIX° secolo, la letteratura strategica giapponese è rimasta povera, in contrasto con la ricchezza della produzione cinese prima del trionfo dell’ideologia confuciana.

 

5. Infine e forse soprattutto, il pensiero strategico presuppone un orientamento intellettuale basato sul principio di efficienza. Come la scienza economica, la scienza strategica ha come postulato il comportamento razionale di un attore interamente volto verso un unico obiettivo: l’homo strategicus cerca solo la vittoria sul nemico. Tutto quello che potrà contribuirvi sarà utile, senza alcuno scrupolo per qualsiasi considerazione etica: i principi che guidano la strategia si chiamano offensiva, concentrazione, libertà d’azione...nessun autore cita l’onore, il coraggio, il rispetto del nemico. L’atteggiamento di Luigi XV, che rifiuta la ritrovata formula del fuoco greco perché un mezzo così barbaro non si addice al Re Cristianissimo, è criticabile da un punto di vista strategico. Il pensiero strategico ha potuto svilupparsi solo trasformando un ideale sacro o eroico in tecnica di annientamento del nemico. Esso presuppone una laicizzazione della guerra, liberata della sua dimensione sacra: quando Sun Tzu raccomanda di guardare il cielo, non è per leggervi i segni astrologici, ma piuttosto per essere sicuro delle condizioni meteorologiche. L’età d’oro del pensiero strategico cinese coincide con l’epoca del legismo, che sostiene un approccio pragmatico al potere; il suo declino sarà la conseguenza logica del trionfo della morale confuciana. E il pensiero strategico contemporaneo partecipa di questo “disincanto del mondo” analizzato dai sociologi dopo Max Weber e fondato sulla compartimentazione e la razionalizzazione delle attività umane.

 

57. Rarità della scienza strategica

 

Si può dire che la scienza strategica è limitata alle società evolute, esposte al rischio della guerra, aperte alla discussione, rivolte verso l’astrazione e governate dalla ricerca dell’utile. Queste condizioni non si trovano riunite di frequente. Il Medioevo, per esempio, non è stato capace di produrre il benché minimo embrione di scienza strategica, mentre ha portato all’apice il pensiero teologico, con San Bonaventura, San Tommaso d’Aquino ed altri ancora. Troviamo dappertutto autori isolati o note strategiche in opere di altro genere, che non sono sufficienti a creare un pensiero strategico organico. E anche quando ne esiste uno, esso rappresenta generalmente solo una piccolissima parte del pensiero militare: il corpus tattico è molto più importante del corpus strategico.

E’ anche vero che, nei tempi antichi, gli scritti militari hanno subito molte più distruzioni di quelli di altri campi. Tuttavia si può dire che il pensiero strategico si sviluppa intorno a tre centri: il mondo cinese, di cui sopravvivono solo alcuni autori canonici; il mondo greco, con i suoi prolungamenti romano e bizantino; l’Europa moderna, dove nasce il pensiero strategico contemporaneo.

 

58. Difficoltà di conoscere la scienza strategica

 

La storia della scienza strategica[16] è molto meno conosciuta di quella del pensiero politico, economico e filosofico. Per ognuna di queste branche della conoscenza umana, si trovano senza fatica delle sintesi o una storia generale, basate su molteplici monografie. Nulla di simile esiste per la strategia, che non ha beneficiato di una istituzionalizzazione universitaria: non esistono facoltà di strategia o dottorati che potrebbero attrarre i giovani ricercatori[17]. Esclusa dall’università, la strategia è relegata all’insegnamento militare superiore, che le procura una diffusione limitata[18] e i cui scopi sono più di carattere pratico che scientifico. Per lungo tempo gli autori militari si sono preoccupati solo dei problemi della loro epoca; interessandosi alle dottrine che avevano avuto “successo” e rifiutando le altre, rileggevano la storia in funzione delle loro preoccupazioni dottrinali del momento: all’inizio del secolo, Castex citava gli autori del XVIII° secolo indignandosi per la loro mancanza di spirito offensivo[19], senza realmente comprendere le particolarità della guerra sul mare ai tempi della marina a vela.

 

Solo recentemente gli storici hanno cominciato ad esplorare la scienza strategica secondo regole scientifiche ed i teorici hanno gettato le basi di una epistemologia della strategia. Non è un’esagerazione dire che al giorno d’oggi, all’infuori di qualche abbozzo piuttosto sommario, non esiste nessuna storia convincente del pensiero strategico. Le due opere più solide sono quelle che sono state dirette, a 50 anni di distanza, da Edward Mead Earle[20] e da Peter Paret[21]. Il primo, che è una preziosa fonte di informazioni, è naturalmente superato dal progresso della ricerca. Il secondo, evidentemente più aggiornato, risente del difetto di basarsi troppo sugli autori anglosassoni o che hanno avuto risonanza nel mondo anglosassone. Bell’esempio di una concezione finalistica che non tiene conto della diversità di una storia infinitamente più ricca.

 

Questa carenza di sintesi evidenzia un ritardo generale della ricerca in questo campo. Le sintesi nazionali sono rare e spesso superate[22]. Anche gli autori più importanti possono essere oggetto di interpretazioni contrastanti per carenza di biografie o di commenti. Clausewitz, che è stato oggetto di innumerevoli esegesi, è un’eccezione. Jomini ha avuto parecchi biografi, che però non fanno altro che ripetere quello detto dal primo di essi, X. de Courville. Dopo di lui, tutti riportano l’aneddoto di un “Jomini indovino di Napoleone”, per aver previsto, dalla sola lettura di una mappa, che avrebbe incontrato Napoleone a Bamberg, mentre questa intuizione era più verosimilmente il risultato della lettura indiscreta di un ordine dell’Imperatore[23]. Autori che hanno avuto una grandissima influenza ai loro tempi non sono più che dei nomi, collegati ad una formula o a un’idea, mentre il loro contributo è stato molto più grande. Soprattutto, abbiamo completamente dimenticato quella massa di pubblicisti, privi di originalità e spesso di talento, attraverso cui si sono diffusi concetti ed idee che hanno contribuito spesso più dei teorici, meno accessibili, a divulgare ed imporre le dottrine: molti contemporanei hanno letto Folard attraverso il compendio di Chabo de la Serre, de Saxe e Puységur attraverso i mediocri testi di Pazzi de Bonneville.

 

Gli autori sono presi in considerazione principalmente attraverso lo specchio deformante della loro nazionalità. I Francesi, poi i Tedeschi, oggi gli Anglosassoni, occupano il proscenio. L’ostacolo linguistico mette ai margini tutti quelli che scrivono in lingue rare o divenute tali, o che appartengano a paesi giudicati secondari. La Danimarca è oggi un paese di second’ordine, non osiamo neppure definirlo una potenza, ma non è stato sempre così; nell’epoca moderna, aveva il suo posto nell’equilibrio europeo, il suo esercito e la sua marina avevano un peso. La lettura di una bibliografia specializzata rivela una massa di letteratura militare e navale degna di considerazione, in danese, ma talvolta anche in tedesco o francese. Possiamo valutare, grazie alle traduzioni, la diffusione degli autori delle grandi potenze, ma anche lo sforzo di adattamento nazionale da parte di pensatori locali, tutti sconosciuti, che non per questo non sono degni di attenzione sia sul piano teorico che dottrinale.

 

Bisognerebbe fare un lavoro sistematico di recensione delle edizioni (o dei manoscritti), delle traduzioni, delle citazioni per determinare la reale diffusione dei grandi autori. Poiché la strategia è una scienza basata sulla prassi, bisognerebbe inoltre determinare in qual misura i pensatori sono in contatto con la pratica, se i loro scritti anticipano o, al contrario, si accontentano di riflettere l’evoluzione dei regolamenti, delle norme, dei piani d’operazioni... Bisognerebbe ugualmente determinare con precisione l’influenza degli scrittori sui propri lettori. Il teorico si preoccupa d’introdurre delle sfumature, di sottolineare la complessità del procedimento; il dottrinario, al contrario, tende a martellare con forza delle convinzioni che devono impregnare profondamente la mente degli ascoltatori. Un ufficiale frequentatore della Scuola superiore di guerra, ascoltando i corsi di Foch alla fine degli anni 1890, era certamente più sensibile all’arringa in favore dell’offensiva, esposta con una forza di convinzione poco comune, di quanto lo fosse alle sfumature con cui il futuro maresciallo talvolta arricchiva il suo pensiero. Per tutti questi motivi, il cantiere strategico[24] è immenso. La presentazione che segue non può dunque che essere lacunosa e soggetta a considerevoli correzioni.

 

SEZIONE I - IL PENSIERO STRATEGICO ASIATICO

 

SOTTOSEZIONE I - IL PENSIERO CINESE

 

59. Una strategoteca perduta

 

La Cina ha sempre tenuto in grande considerazione i  testi scritti. Molti sono dedicati alla realtà militare. Nel V°-IV° secolo a.C., all’epoca dei Regni Combattenti, si forma il corpus strategico cinese, incredibilmente abbondante: elenchi antichi parlano di centinaia di trattati, oggi perduti, e molte opere di carattere generale sono dedicate a considerazioni sulla guerra: è il caso dei trattati del Maestro Hsun, del Maestro Kuan, di Lao Zi, di Mo Tzu, di Shang Yang[25], del più tardivo Huai nan Zi (epoca Han)... Ma non ne restano che dei frammenti, dovuti all’indifferenza dei letterati confuciani nei riguardi di questo particolare genere.

 

60. I fondatori: Sun Tzu e Sun Bin

 

Il primo (conosciuto) e il più grande di tutti gli strategisti è Sun Tzu, vissuto probabilmente nel V° secolo a.C.. La sua biografia, più o meno leggendaria, ha suscitato numerose controversie: alcuni storici lo collocano in epoca più tarda o ne negano addirittura l’esistenza, ma indizi concordi e degni di fede sono favorevoli a considerare l’antichità del testo[26]. I suoi Tredici articoli sull’arte della guerra saranno il breviario di tutti i generali cinesi.

 

Sun Tzu è seguito da Sun Bin, che dovrebbe essere suo nipote. La sua opera si è persa per circa duemila anni, e quindi non è stata inclusa nei sette trattati classici compilati nell’epoca Song. Gli storici erano arrivati a chiedersi se Sun Tzu e Sun Bin non fossero la stessa persona; ma il suo libro è stato ritrovato impresso su lamelle di bambù in una tomba nel 1972[27]. Sun Bin si mostra più attento di Sun Tzu agli aspetti operativi, e testimonia i progressi dell’arte della guerra dal secolo precedente: assegna una grande importanza alla cavalleria, di cui Sun Tzu non parlava, s’interessa agli assedi, resi possibili dal perfezionamento della poliorcetica, la sua insistenza sulla logistica nasce dall’aumento degli effettivi e dall’allungamento delle campagne militari. Ma, se il suo trattato “può sembrare meno teorico dell’Arte della guerra di Sun Tzu, nelle due opere si possono trovare riflessioni simili[28].

 

61. La formazione di una cultura strategica

 

Sun Tzu ha fondato un pensiero strategico che è essenzialmente un glossario. Si contano parecchie decine di commenti del suo libro. Le edizioni realizzate più tardi ne contano dieci o undici. I più importanti sono quelli di Cao Cao, celebre generale dell’epoca Han (II° secolo a.C.), di Li Quan sotto la dinastia dei Tang (VII°-VIII° secolo)[29], di He Yanshi e Zang Yu sotto la dinastia dei Song. Ma troviamo anche degli autori di trattati originali.

 

La maggior parte datano dell’epoca dei Regni Combattenti, prima dell’unificazione dell’Impero, nell’epoca in cui dominavano il legismo e il mohismo. La prima scuola tratta in profondità dell’articolazione tra la guerra e la politica (supra n° 10) La seconda, d’ispirazione antimilitarista, contribuisce paradossalmente allo sviluppo di una branca particolare del pensiero militare: essa respinge la guerra ma ammette invece la legittima difesa e, a questo titolo, è all’origine di parecchi trattati dedicati alle fortificazioni. Il taoismo, anche lui fondamentalmente antimilitarista, porta il suo contributo, dominato da Zhuge Liang, capo militare e politico dell’inizio del III° secolo: egli raccomanda di non ricorrere alla guerra se non è inevitabile e chiede ai generali di incarnare la virtù e l’armonia...[30].

 

Alla fine del XI° secolo, l’imperatore Shen Zong stabilisce l’elenco dei sette classici previsti in un programma di studi. Sun Bin, già perduto da parecchi secoli, non ne fa parte. Essi sono nell’ordine:

- il Sun Zi bingfa (l’Arte della guerra di Sun Tzu);

- il Wu Zi bingfa, opera di un generale del IV° secolo a.C., la cui esistenza è storicamente accertata. Così come è stato conservato, il suo libro si compone di sei capitoli piuttosto brevi nei quali l’autore cerca di conciliare la morale confuciana con i problemi militari;

- il Sima fa, breve ed enigmatico testo della stessa epoca, il cui titolo potrebbe essere tradotto con: il Libro del Maestro della cavalleria (alto dignitario dello Stato, ministro della guerra). Insiste sull’amministrazione dell’esercito;

- il Tang Li wendui (domande e risposte tra Tang Taizong e Li Weigong), dell’epoca Tang, dunque molto più tardo degli altri classici (VII° secolo d.C.) sui quali si basa;

- il Wei Liao Zi, opera di un legista della fine del IV° secolo a.C., dalla solida esperienza militare, che prosegue l’opera di Sun Tzu e Sun Bin, con osservazioni molto concrete;

- i San lue (Tre strategie di Huang Shegong, della stessa epoca, che insiste sul controllo del governo;

- il Tai Gong liutao (i Sei insegnamenti segreti di Taigong), opera esoterica, piuttosto sovversiva, che sarebbe il più antico di questi testi poiché risalirebbe al XI° secolo a.C. Il suo possesso era punito con la morte.

 

Tutti questi autori hanno creato una cultura strategica che è stata volgarizzata dalla letteratura e dal teatro popolare ad un livello che non ha paragoni in Occidente: Sun Bin è l’eroe di un romanzo dell’epoca Ming, Sun Bin contro Pang Juan, Cao Cao e Zhuge Liang sono i personaggi centrali del Romanzo dei Tre Reami; gli stratagemmi sono presentati in edizioni popolari, come il Trattato dei 36 stratagemmi, probabilmente tardivo, ma che riprende una formula dell’epoca Song...[31]. Mao Zedong, come la maggior parte dei cinesi, conoscerà bene questi testi popolari a cui si ispirerà largamente.

 

62. La sclerosi del pensiero cinese

 

Questo debutto così brillante non avrà un seguito teorico equivalente. Mentre troviamo in Sun Tzu e Sun Bin le idee di base di una teoria strategica strutturata, con la distinzione tra la vittoria dell’esercito e quella del paese, la dialettica dell’attacco e della difesa...; i successori non approfondiscono la via tracciata e si limitano a commenti ripetitivi. L’imperatore Shen Zong, della dinastia Song, è uno dei rari critici di questa decadenza:

Secondo i teorici militari, sembrerebbe necessario che, quando due eserciti s’incontrano sul campo di battaglia, si inviino messaggeri per accordarsi sul luogo e il giorno del combattimento, affinché sia possibile recarsi nel luogo stabilito per tagliare gli alberi e i cespugli e livellare il terreno in modo da creare una vasta pianura tutta uguale dove spiegare la formazione ideale. Sono sicuro che tutto ciò non può funzionare[32].

 

Bisogna, senza dubbio, darne la colpa al pensiero confuciano che ha trionfato sui suoi rivali dopo l’unificazione dell’impero: fondato sulla virtù, esso tende a squalificare la guerra, relegata tra i compiti inferiori. Alcune riflessioni originali compaiono solo in periodi eccezionali: sotto la dinastia mongola degli Yuan, nel XIV° secolo, Liu Ji compone numerose opere sulla guerra, in cui indica i diversi modi per vincere. Nel XVI° secolo, Qi Jiguang produce degli scritti innovatori basandosi sulla sua esperienza di comandante in capo contro i pirati, poi contro gl’invasori nomadi: i Nuovi scritti (1560) trattano della difesa costiera e delle operazioni anfibie; Della formazione delle truppe (1568) cerca di rinnovare la tattica e prende in considerazione l’introduzione delle armi da fuoco. Rimasto sconosciuto in Occidente, è stato tradotto in coreano e giapponese[33]. Ciang Kai Shek lo farà ristampare negli anni 1930, quando la Cina dovrà fronteggiare l’invasione giapponese.

 

63. Il pensiero strategico cinese e l’Occidente

 

Gli Occidentali tendono talvolta a trovare il pensiero inafferrabile, perché procede sempre nello stesso modo, per aforismi e massime, suggerendo più che precisando. Una tale lettura dimentica il contesto culturale in cui queste opere sono state scritte. Là dove noi cerchiamo ricette per il successo, i Cinesi cercavano principalmente un saggio comportamento. Questo carattere così allusivo spiega sia gli errori di interpretazione commessi dagli Occidentali ma anche il fascino che questi autori esercitano oggi, dopo un lungo periodo d’indifferenza.

Già dal XVIII° secolo, un gesuita francese, il padre Amyot, li diffonde in Europa. La sua Arte militare dei Cinesi o raccolta di antichi trattati sulla guerra composti prima dell’era cristiana da diversi generali cinesi (1772; traduzione tedesca 1779), elaborata partendo da traduzioni manchù con qualche libertà nei confronti del testo, avrà però un successo limitato. Nel XIX° secolo l’eclisse è totale. Solo i Russi traducono Sun Tzu nel 1860 e 1889. Bisogna attendere l’inizio del XX° secolo perché l’Europa vi trovi un reale interesse. Il comandante Calthorpe effettua la prima traduzione inglese di Sun Tzu nel 1908. Piuttosto lacunosa, sarà sostituita, due anni più tardi, da quella di Lionel Giles, che farà testo fino a quella del generale Griffith (1963). La prima traduzione tedesca appare nel 1910. In Francia, la traduzione di padre Amyot è ristampata dal tenente colonnello Cholet (1922), poi dal comandante Nachin (1948). I Russi ne fanno una nuova traduzione (1950), trascritta in tedesco (1957). Un primo tentativo di traduzione italiana è degli anni ‘50.

 

L’interesse si sviluppa realmente solo negli anni 1970, parallelamente alla nuova voga di Clausewitz, che testimonia l’attrazione per un approccio più filosofico alla strategia. L’esotismo, l’antichità ed anche la brevità dell’opera (che rende la lettura rapida e la traduzione poco costosa, soprattutto se si parte da quella inglese) ne assicurano il successo. La traduzione inglese di Griffith è trasposta in francese (1972), in tedesco (1972), in spagnolo (1973), in portoghese (1974), in rumeno (1976), in finlandese (1982), in olandese (1986), in italiano (1988), in greco (1989)....L’originale cinese è tradotto in spagnolo (1974), in francese (1988), in tedesco (1989), in italiano (1990), in svedese (1991)...I lettori francesi, spagnoli o italiani hanno ormai la scelta tra quattro o cinque diverse edizioni. In inglese ci sono almeno sette traduzioni in due decenni. Parecchi saggi applicano i suoi insegnamenti alla strategia d’impresa. L’edizione del corpus dei sette autori canonici e di Sun Bin è dovuta a Ralph Sawyer negli Stati Uniti e a Valérie Niquet in Francia. Sun Tzu è oggi, con Clausewitz, lo strategista più conosciuto e più letto.

 

SOTTOSEZIONE II - I PENSIERI PERIFERICI

 

64. Il pensiero strategico vietnamita

 

Il pensiero vietnamita deriva in gran parte dal modello cinese, anche se l’identità del paese si è costituita proprio nelle guerre contro l’invasore cinese.

 

Tran Quoc Tuan, che respinge le invasioni mongole nel 1285 e 1287, compone un Riassunto dell’arte militare in quattro tomi che copre tutta l’arte della guerra, dalla selezione dei generali al combattimento in pianura, nella foresta, in montagna, sull’acqua e all’attacco e alla difesa delle postazioni.

Nguyen Trai, anche lui vincitore dei Cinesi all’inizio del XV° secolo, lascia numerosi scritti, in particolare una Raccolta di note e ordini militari; egli propugna la resistenza popolare contro l’invasore cinese[34].

Nel XVIII° secolo, Dao Duy Tu redige un  Manuale dell’arte militare riservato ai generali, secondo un progetto tripartito d’ispirazione confuciana: il Cielo (l’essenziale dell’arte militare), la Terra (il combattimento), l’uomo (i generali, i soldati, il terreno)[35].

 

65. Un trattato siamese

 

Il Siam è rappresentato dal re d’Ayodhya Ramathibodi II (inizio del XVI° secolo) che fa compilare un Trattato della guerra vittoriosa, il cui testo è andato parzialmente perduto in seguito alle invasioni birmane. I Birmani peraltro lo fanno tradurre.

 

66. Il pensiero strategico giapponese

 

Il pensiero giapponese è poco conosciuto. A dire il vero, il suo contenuto strategico sembrerebbe povero. Esso è dominato da scritti sull’arte della sciabola e le arti marziali, ispirati dal buddismo zen e dal codice del Bushido, miscuglio di scintoismo e confucianesimo. I maestri sono due guerrieri divenuti mitici, Miyamoto Musashi e Yagyu Munenori. Il primo ha lasciato scritti centrati sulla ricerca della vittoria, con degli esempi di tattica, il secondo si dedica piuttosto ad una riflessione etica sull’arte della guerra, che mescola influenze zen e taoiste e privilegia la dimensione psicologica della strategia. Quest’ultima è rappresentata da un concetto, che si traduce letteralmente con “fuori e dentro”, che un commentatore contemporaneo considera l’equivalente della strategia[36]. Esso mette in primo piano l’arte dell’inganno: “Bisogna servirsi del falso per vincere il vero”. Musashi, nel Libro delle cinque sfere, insiste sulla conoscenza del nemico.

 

Il riflesso dell’influenza cinese è stato determinante. Sun Tzu è introdotto nell’arcipelago nel VII° secolo, probabilmente da un’ambasceria cinese che ha portato in omaggio dei libri, ed è tradotto non appena adottata la scrittura. L’opera incontra immediatamente un grande successo, insieme agli altri classici cinesi. Ma bisogna attendere il XVII° secolo per vedere comparire dei commentatori giapponesi di Sun Tzu: Hayashi Razan, ideologo ufficiale del governo di Shogun (Sonshu Genkai, spiegazione delle massime di Sun Tzu, 1626), Yamaga Soko (Sonshi Genji, i principi delle massime di Sun Tzu, verso il 1670), Arai Hakuseki (O Sonshi Heiho Shaku, interpretazione dell’Arte della guerra di Sun Tzu, verso il 1710), Ogyu Sorai (O Sonshi Kokujikai, spiegazione di Sun Tzu in giapponese, verso il 1720)[37]. Nell’era Meiji questa passione non viene meno: le edizioni di Sun Tzu si succedono, fino agli anni 1940, in attesa di conoscere una nuova moda a partire dagli anni 1970, con Sun Tzu trasferito in campo economico.

 

67. Il pensiero strategico indiano

 

La produzione indiana è sconosciuta, ma ciò non significa che sia inesistente. L’opera più importante è l’Arthasâstra, attribuita a Kautilya (III° secolo a.C.), trattato politico che contiene parecchie sezioni sull’arte della guerra, in cui sono passate in rassegna l’organizzazione dell’esercito, i preparativi e la condotta di una campagna, le tattiche e gli stratagemmi. Esso “è notevole per la cura riservata alla preparazione di una campagna, alla logistica ed a tutti gli aspetti organizzativi... Arthasâstra non si accontenta di enunciare una serie di stratagemmi, ma considera la guerra sotto tutti gli aspetti, senza mai dimenticare l’articolazione tra i mezzi e i fini[38]. Malgrado ciò, non ha esercitato la stessa influenza del trattato di Sun Tzu: “Sembra in ogni caso non aver avuto nessun ruolo a partire dall’invasione dell’India del Nord da parte dei mussulmani nel X° secolo[39] e la sua scoperta è passata inosservata in Occidente: ritrovato all’inizio di questo secolo, non è stato tradotto che in inglese e si attende ancora una traduzione francese dall’originale[40]. Esistono altri testi, in particolare il Dhanurveda, il Veda dell’Arco, che è un vero e proprio trattato sull’arte della guerra e l’Atharvaveda, che raccomanda di usare esche e trappole per sorprendere il nemico. Troviamo ugualmente varie informazioni in testi più tardivi, come il Nitisara di Kamandaka (VIII° secolo), lo Yukti-Kalpataru del re Bhoja di Dhara (XI° secolo), o il Manasollasa del re Somesvara III (XII° secolo)[41]. Tutta questa letteratura deve essere ancora studiata.

Per molti aspetti il pensiero indiano si avvicina a quello cinese, ma non ha lo stesso valore teorico: per la scelta del campo di battaglia, le procedure tattiche devono coesistere con riti divinatori.

 

SEZIONE II : IL PENSIERO STRATEGICO OCCIDENTALE ANTICO

 

68. Tattici e strategisti greci

 

Dell’Antichità greca non ci restano, in campo militare, che dei frammenti[42]. Non possiamo nemmeno dire con certezza che i Greci dell’epoca classica abbiano composto dei trattati di tattica e di strategia. Secondo Vegezio, gli Spartiati “furono i primi a scrivere, basandosi sulla loro esperienza e sul risultato delle battaglie, un trattato dei combattimenti... Furono i primi a far apprendere ai giovani, con dei maestri d’armi che chiamavano tattici, la pratica della guerra e le peripezie dei combattimenti[43]. La filologia (studio critico dei testi) rivela che gli studi successivi (bizantini) derivano da prototipi oggi perduti[44].

 

Enea è il più antico e probabilmente il più importante di questi tattici-strategisti. Visse nel IV° secolo a.C. e non sappiamo altro della sua vita. Compose una enciclopedia militare in parecchi volumi (sui preparativi della guerra, sull’intendenza, sull’arte di disporre gli accampamenti) di cui ci è giunto solo quello dedicato alla poliorcetica. Il suo trattato è stato molto letto, spesso nel compendio (perduto) di Cineo. Come in Cina nella stessa epoca “la guerra, come la dipinge Enea, è meno una prova di forza che di inganno: non si cercano in generale gli stermini, né le lentezze di una guerra d’usura, ma ci si sforza di trionfare col minimo sforzo; se si può intimidire il nemico con delle «sortite» giudiziosamente organizzate, è ancora meglio; in ogni caso, si fa affidamento su ciascun combattente per trarre profitto spontaneamente, al momento opportuno, dalla situazione[45]. Questa concezione si traduce nella preoccupazione di non dimenticare nulla dei “ numerosi e svariati lavori” che devono assolvere gli assediati “affinché il fallimento non sia mai attribuito a loro”. Questa descrizione dettagliata di segnali e controsegnali, di parole d’ordine, di guardie, di sortite, anche di modi per segare una sbarra, dà al libro l’aspetto di un catalogo di ricette.

 

Dopo Enea, bisogna saltare tre secoli per trovare un trattato. Asclepiodoto - I° secolo a.C. - “non è un militare di mestiere; s’interessa più alla nomenclatura e all’ordine logico che alle realtà del combattimento[46]; egli teorizza la falange e l’ordine di battaglia[47] macedoni nel momento in cui spariranno davanti alle legioni che serviranno da modello ai teorici successivi. Onosandro –I° secolo- “simpatico greco, per nulla versato nell’arte militare, ci ha lasciato un trattatello sul mestiere di generale d’armata” che “si riduce a considerazioni morali e a oscuri consigli di prudenza, validi in tutte le circostanze di guerra[48]. Eliano - I° secolo - compone un’opera, dedicata a Traiano, con lo scopo di facilitare la comprensione degli autori antichi, che avrà un grande successo, come nel secolo seguente gli otto libri degli Strategemata di Poliano, personaggio di cui non si sa molto: egli elenca 356 stratagemmi, classificandoli non per temi, ma per personaggi (mitologici o storici) a cui sono attribuiti; secondo Joly de Maizeroy, è solo uno “studioso, che ha messo insieme delle massime senza ordine né discernimento[49].

 

Ce ne sono altri, di cui non restano tracce: sappiamo così che Pirro, il celebre re dell’Epiro (quello delle vittorie pagate a caro prezzo), scrisse un trattato citato da Frontino; che Filopomene, “l’ultimo dei Greci”, avversario dei Romani, aveva letto la Taktika di Evangelos; che Asclepiodoto s’ispira a Posidonio, se non lo copia pedissequamente; che Eliano e Arriano riproducono una fonte comune, che Alphonse Dain chiama la Techné perduta...

 

Questo pensiero pratico, rivolto all’azione, spesso dovuto a dei tecnici, completa la riflessione storica e strategica di Senofonte, Tucidide...che tratta abbondantemente della guerra. I discorsi di Pericle e d’altri, riferiti da Tucidide nella sua Storia della guerra del Peloponneso, mostrano, senza nessuna ambiguità, che la dimensione strategica era perfettamente recepita. Senofonte è il primo autore ad aggiungere ai suoi studi storici con una riflessione teorica, a dominante tattica nel suo Trattato della cavalleria, a carattere nettamente strategico nella Ciropedia[50], ritratto del conquistatore ideale, incarnato da Ciro.

 

69. L’approccio pragmatico dei Romani

 

I Romani non hanno prodotto, salvo qualche eccezione, opere equivalenti. Il colonnello Reichel ritiene che avessero un “pensiero militare originale, molto profondo, come provano alcuni testi di Tacito[51]. Certamente, la superiorità tattica e strategica delle legioni romane nel corso di secoli non sarebbe stata possibile senza una dottrina militare strutturata.

Essa però è prima di tutto frutto della pratica: Polibio racconta che i candidati a funzioni pubbliche dovevano aver partecipato a dieci campagne prima di sollecitare i suffragi dei loro concittadini[52]. Ma l’esperienza così acquistata è rimasta del tutto informale e non sembra aver dato luogo ad una ricca letteratura specializzata.

 

Esistono tuttavia alcuni trattati di tattica e di strategia. Nel II° secolo a.C. Catone, il celebre censore, ha scritto un De Re militari, di cui nulla è rimasto. Polibio ha scritto una Taktika, oggi perduta. L’autore più importante dell’Alto Impero è Frontino, governatore di Bretagna, autore di un commento militare di Omero e di un trattato militare, perduti ma utilizzati da Vegezio nel IV° secolo. E’ rimasta, invece una raccolta di Strategemata, redatta tra l’84 e l’88, che costituivano un’appendice al trattato perduto: 583 stratagemmi rigorosamente ordinati in sette libri, con uno scopo pedagogico e pratico, con una chiara distinzione tra gli stratagemmi e la strategia; la loro diffusione sarà durevole[53]. Arriano è l’erede dei tattici greci, ma anche console verso il 130: la sua Ars Tactica oppone la tattica greca e macedone alla tattica romana[54], da lui messa in pratica con successo in una campagna contro gli Alani.

 

Dopo Frontino, Arriano, Polieno e, un po’ più tardi, Giulio l’Africano (autore di un’opera contenitore in cui si discetta tanto di medicina che di tattica), questa tradizione greco-romana s’interrompe: passeranno tre secoli “di cui non conosciamo né nomi né opere di strategisti. C’è da stupirsi di questa mancanza totale di curiosità nei confronti della letteratura militare (soprattutto in un periodo di guerre e invasioni ricorrenti!). A meno che, in assenza di progressi della tecnica, o di cambiamenti delle usanze militari, la letteratura antica sia stata sufficiente ai lettori[55]. Brian Campbell ne dà la colpa alla struttura del comando che ostacolava la costituzione di una casta di ufficiali generali ben preparata: “I Romani non avevano accademia militare, nè un processo istituzionalizzato di preparazione alla disciplina, alla tattica e alla strategia, né mezzi sistematici di valutazione dei candidati agli alti gradi[56]. La questione non ha una spiegazione sicura.

 

In Occidente appare comparire, alla fine del IV° secolo[57], un vero saggio militare, il De Re militari, detto anche Epitoma Rei militaris (riassunto di questioni militari), di Flavio Vegezio Renato, compendio coscienzioso di tutti i suoi predecessori, che si propone di rimediare a una evidente decadenza militare. Il primo libro è una iniziativa dell’autore, ma corrisponde a un tale bisogno (l’arte delle legioni è largamente perduta) che l’imperatore gliene ordina il seguito. Anche se ci sembra piuttosto insignificante paragonato agli autori cinesi, Vegezio è l’autore militare più importante che ci abbia tramandato l’antichità occidentale[58]. Le “regole generali di guerra“ che figurano nel III° libro, “inaugurano un genere che spiega il loro successo per  dei secoli: in poche righe, forniscono all’uomo d’azione un insieme di regole semplici, suscettibili di assicurargli la vittoria. Vegezio ha fondato la tradizione occidentale dei «principi della guerra»[59].

 

La seconda branca della teoria militare romana è costituita dagli storici. E’ di gran lunga la più abbondante di volumi, è anche quella che si legge più spesso. Il modello è Polibio, compagno di Scipione l’Emiliano, vincitore di Cartagine nella Terza guerra punica. Ha composto delle Historie di cui ci è giunta solo una piccola parte e che costituiscono uno dei capolavori della produzione storica occidentale. Le operazioni militari vi sono descritte con notevole precisione che testimonia una profonda comprensione della tattica e della strategia[60]. Ma Polibio, anche se totalmente acquisito alla causa romana, è innanzitutto di cultura greca.

 

Dopo di lui viene Cesare, uno dei rari maestri dell’arte della guerra ad essere contemporaneamente stratega e strategista. Egli raggiunge la gloria e la potenza con la sua vittoria nella guerra gallica e ne trae un’opera capitale che incontra un successo immediato, al punto da suscitare un gran numero di apocrifi (Guerra alessandrina, Guerra Ispanica, Guerra Africana). I suoi commentari sulla Guerra Gallica e sulla Guerra Civile descrivono sia le operazioni militari che il contesto politico (con un’arte consumata della deformazione storica) e la società gallica in una prospettiva quasi etnologica. La precisione delle sue descrizioni è tale da alimentare ancora la controversia a proposito di Alesia, poiché il sito ufficiale di Alise Sainte-Reine sembra ad alcuni non concordare con il racconto di Cesare. L’opera è interessante soprattutto per la comprensione della grande strategia, cioè dell’articolazione tra la politica e il militare. Cesare, sarà in Occidente, il modello del generale.

 

Dopo Cesare, vengono gli storici dell’impero, di cui il più importante è Tacito, a lungo denigrato dalla storiografia tedesca al seguito di Mommsen come impreciso e spesso inesatto nei suoi racconti. Una rivalutazione recente ha contestato questo punto di vista e mostrato che Tacito era un autore militare del tutto degno di stima: la sua Germania fornisce delle informazioni preziosissime sulla strategia imperiale[61]. All’infuori di lui, possiamo spigolare altre informazioni, in cui la mitologia e la storia possono talvolta confondersi, in Tito Livio, per esempio, e qualche altro.

 

70. Il pensiero bizantino

 

I Bizantini, invece, hanno scritto numerosi trattati sulle istituzioni militari, in cui la dimensione strategica è talvolta sfiorata, anche se la condotta del combattimento resta la preoccupazione predominante. Le prime raccolte degne di nota risalgono al VI° secolo. Il Peri strategikes (De re strategica), anonimo, “offre un piano completo, anche se molto schematico, della scienza militare. Se il primo scritto incontrato si riallaccia alla tradizione dei tattici precedenti, le opere seguenti presentano qualche novità, mostrano un lavoro che non si limita a copiare o ad adattare[62]. Sfortunatamente le perdite sono considerevoli. In mezzo a molteplici riferimenti troviamo trattati di ingegneria e innumerevoli parafrasi e adattamenti. Il genere è abbastanza nobile perché vi si dedichino anche imperatori, o piuttosto che venga loro attribuita la paternità di celebri trattati: l’imperatore Maurizio patrocina lo Strategicon (che copia largamente Onosandro) all’inizio del VII° secolo[63], l’imperatore Leone il Filosofo le Costituzioni tattiche (che comprendono una Naumachia) all’inizio del X° secolo, l’imperatore Niceforo Foca ispira un trattato di tattica (De Re militari) e un trattato sulla guerriglia (De Velitatione).

 

In quest’epoca si interrompe la stirpe dei tattici “nel momento in cui appare una aristocrazia militare, come se i problemi della guerra fossero divenuti problemi familiari, morali, da trattare nel proprio ambito[64]. I lavori che seguono saranno solo dei compendi. La principale sarà quella di Niceforo Urano, la cui Tattica comprende 178 capitoli.

 

Tutta questa letteratura è studiata oggi solo dai filologi, unicamente preoccupati della ricostruzione dei testi, di cui resta da fare l’esegesi. La collezione di stratagemmi resta il genere predominante[65]. La Tattica di Niceforo Urano insiste sull’uso delle spie, la scelta del terreno, gli ordini di marcia e di combattimento[66]... Gli autori raccomandano di adattarsi al nemico, su cui i commenti non sono sempre lusinghieri. Niceforo Foca si prende gioco degli Occidentali, e particolarmente dei Franchi: “Il loro dio è il loro ventre, la loro audacia l’ingordigia, il loro coraggio l’ubriachezza[67].

 

71. Frammenti mussulmani

 

Gli autori bizantini hanno ugualmente esercitato una notevole influenza sulla strategia araba e iraniana. Ma l’ambiente vincolante della teologia coranica ha ostacolato l’emergere di un vero pensiero strategico arabo organizzato. Jean-Paul Charnay ha decifrato i principi della strategia araba, ma si tratta di un lavoro di ricostruzione eseguito partendo da frammenti sconnessi ed eterocliti[68]. Gli autori così riuniti sono degli storici, solo eccezionalmente qualcuno di essi formula degli insegnamenti generali. E’ anche vero che il lavoro di recensione dei manoscritti è ben lungi dall’essere concluso: il professor Christides ha esumato un autore del X° secolo, Qudama, del cui trattato sono noti solo dei frammenti[69]. Ce ne sono di certo degli altri che dormono negli archivi. Si attende una traduzione del Riassunto della politica delle guerre di al-Harthami, altro autore del X° secolo, che aveva composto un grande trattato sugli stratagemmi, apparentemente disperso nella conquista di Baghdad dai Mongoli.

 

Nel XIV° secolo, il grande storico Ibn Khaldun descrive, nei suoi Discorsi sulla storia universale, le guerre e i metodi di combattimento praticati dai diversi paesi. Egli nota che “non c’è certezza di vittoria in guerra, anche se c’è superiorità di armamento e di effettivi. La vittoria e la superiorità nella guerra sono dovute alla fortuna e al caso[70]. Insiste sull’uso dell’inganno e sui fattori psicologici: le vittorie iniziali dei mussulmani erano dovute alla loro coesione e al terrore che ispiravano.

 

Dal XIII° al XVI° secolo, l’Egitto dei Mammalucchi produce numerosi trattati sulle armi, che talvolta riguardano la tattica e la strategia, come le Istruzioni ufficiali per la mobilitazione militare di Ibn al-Manquali (XIV° secolo), che tratta di tutti gli aspetti della campagna terrestre e, brevemente, la guerra navale[71]. Il regno di Granada produce, prima di crollare, una letteratura militare che tenta di comprendere i meccanismi dell’arte della guerra dei cristiani: nel XVIII° secolo, uno scrittore raccoglie parecchie decine di manoscritti dai titoli significativi: Dell’Arte militare di Mohammed Ben Abdallah, Dell’Arte militare ed equestre di Ali Ben Abdalshaman Ben Hazil, un Trattato della battaglia anonimo...[72]. Ibn Hodeil el-Andalusy compone, nel XIV° secolo, una raccolta sull’arte della guerra, da cui emergono dei principi per la condotta della guerra e della battaglia; i suoi aforismi raccomandano di “preferire la paura alla cieca speranza”, di non sottovalutare il nemico, di evitare il combattimento il più possibile, di cercare piuttosto di dividere il nemico, di ricorrere agli stratagemmi piuttosto che al coraggio....[73]

 

Non ci sorprende che i Persiani, eredi degli Achemenidi e dei Sassanidi, sembrino aver sviluppato un pensiero strategico, ma mancano le informazioni in merito. Nel XIX° secolo, Qabus Ibn Iskandar scrive il “libro dei consigli”, Qabus nameh, che detta veri e propri principi di guerra[74]. Nel XIII° secolo, Mohammad Ibn Mansur Fakhr al-Dîn Moubaraksha compila le regole della guerra e del coraggio, Abab al-Harb wa al-Shodjâa, partendo da fonti molto varie, mussulmane, indiane, ma anche cinesi[75], per il sultano di Dihli: raccomanda l’uso dell’inganno, ma descrive anche delle formazioni tattiche[76].

 

72. Tracce armene

 

L’Armenia, nonostante le sue ricche tradizioni letterarie e militari, non ha prodotto alcun trattato di tattica o di strategia. Al massimo, si trova qualche riflessione generale nei resoconti di battaglie degli storici, specialmente sul tiro con l’arco, considerato più nobile e più intelligente del corpo a corpo. Un medico del XII° secolo, Faradj, ha lasciato un trattato di medicina veterinaria, orientato verso i problemi militari.

 

73. L’eredità degli Antichi

 

L’impronta del pensiero greco-romano su quello moderno è molto forte. Alla fine del XII° secolo, in Italia, si sviluppano “la ricerca sistematica dei manoscritti antichi, lo studio degli autori classici e la loro imitazione”[77], da cui nascerà quello che più tardi sarà chiamato l’umanesimo. Vegezio è il riferimento universale[78]: Christine de Pisan ne copia interi passaggi, Machiavelli, Egidio Colonna ed il marchese di Vellena se ne ispirano abbondantemente. “Ci sono tra 11 e 14 edizioni o riedizioni di Vegezio nel XV° secolo e 25 nel XVI°: 14 sono traduzioni[79]. Vegezio è tradotto in francese anglo-normanno (1272), in francese da Jean de Meun (1284), poi da Nicolas Volcyr (1536), in inglese (1408 e 1539), in spagnolo (XV° secolo), in scozzese (1494), in tedesco (1475), in svedese (verso il 1510), in italiano (1524), probabilmente in portoghese (nel XV° secolo)[80]. Frontino è tradotto in francese (verso il 1435), in spagnolo (1516), in tedesco (1527), in italiano (1543)[81].

 

Nel XVI° secolo, si moltiplicano le edizioni del corpus dei veteres scriptores de re militari, che comprendono Vegezio, Frontino, Eliano e Modesto[82], inizialmente in Italia (1487, 1494, 1496, 1505), poi in Francia (1515, 1523, 1532, 1535, 1536, 1553) e in Germania (1524, 1527), arricchiti alla fine del secolo da commentari (di Modius 1580, di Stewechius 1585, 1592). L’Inghilterra produce parecchie antologie (1578, 1587). L’olandese Pietro Schryver, detto Scriverius, realizza una raccolta di tutti i tattici antichi conosciuti (1606-1607). Tucidide è tradotto in latino dal celebre umanista Lorenzo Valla, in francese da Claude de Seyssel (1527), in italiano dal condottiero Francesco di Soldo Strozzi. Le Elleniche di Senofonte sono tradotte in latino (1555), in italiano da Francesco di Soldo Stozzi (1550). Polibio, riscoperto all’inizio del XV° secolo, pubblicato dal grande umanista bizantino Giovanni Lascaris, è messo in auge da Machiavelli, con numerose traduzioni in francese (1545-1546), in italiano (1546), in inglese (1568), in tedesco (1574), in latino (1609)[83]. Egli costituisce la base, con Vegezio, del compendio dell’Arte militare degli Antichi scritto da Claude Saumaise (De Re Militari Romanorum, 1657) su richiesta di Frédéric-Henri d’Orange. Cesare gode di molteplici edizioni, Montaigne gli dedica un saggio in cui proclama che “dovrebbe essere il breviario di ogni uomo di guerra, come se fosse il vero e sovrano signore dell’arte militare[84], idea condivisa dal condottiero italiano Piero Strozzi e dall’inglese Clement Edmonds (Observations upon the Five First Bookes of Caesar’s Commentaries, 1600, 1604, 1609). Fra i protestanti, la Storia degli Ebrei  di Giuseppe Flavio esercita una profonda influenza come manuale di tattica.

 

Nonostante l’ostacolo della lingua, che li esclude dalle edizioni collettive del XV° e XVI° secolo, gli autori greci riscuotono un certo favore. Enea il Tattico è pubblicato e tradotto in latino da Isaac Casaubon (1609, 1670, 1673-1674); Onosandro è pubblicato a più riprese (1598, 1604, 1610) e tradotto in latino (1493), in spagnolo (1567 e 1649), in tedesco (1524), in francese (1546 e 1605), in italiano (1546), in inglese (1563). Eliano è associato agli autori latini e tradotto in inglese (1616-1629), Arriano è curiosamente trascurato, con solo delle traduzioni latine (1664 e 1683), Polieno riscuote una relativa attenzione, con due traduzioni italiane contemporanee (1551 e 1552) e una traduzione latina di Casaubon (1589), ma la traduzione francese dovrà aspettare il XVIII° secolo. Le Costituzioni tattiche di Leone VI sono tradotte in latino (1554, 1612), in italiano (1541, 1586, 1602, 1612), in spagnolo[85], in tedesco e in ungherese.

 

Nel XVIII° secolo, la moda degli Antichi, lungi dall’attenuarsi, raggiunge l’acme: il cavalier de Folard mette Polibio al centro del dibattito tattico; Andreu di Bilistein intitola il suo saggio Istituzioni militari per la Francia o il Vegezio francese (1762) mentre Lancelot Turpin de Crissé pubblica un ponderoso Commentario sulle Istituzioni militari di Vegezio (1769), poi un Commentario  di Cesare (1785). Carlet de la Rozière compila gli Stratagemmi di guerra (1756). Il generale prussiano Carl-Gottlieb Guischardt si basa sugli Antichi per stabilire i suoi Principi dell’arte militare (1763), tanto da essere soprannominato da Federico II, grande lettore di Cesare e Vegezio, “Quintus Icilius”, dal nome di un luogotenente di Cesare. Dom Lobineau traduce gli Strategemata di Polieno (1739)[86], Bourdon de Sigrais e il cavalier di Bongars le Istituzioni militari di Vegezio (1743 e 1772), il barone di Zur-Lauben e Guischardt lo Strategicus di Onosandro (1754 e 1758), Jean-Jacques de Beausobre la Poliorcetica di Enea (1757), Bourchaud de Bussy la Tattica di Eliano (1757), Joly de Maizeroy traduce il Comandante della cavalleria di Senofonte e le Costituzioni di Leone il Filosofo (1771) e commenta gli stratagemmi di Frontino e di Polieno (Trattato sugli stratagemmi permessi in guerra, 1765), un ufficiale anonimo traduce gli Stratagemmi di Frontino (1772)[87]. Il maresciallo di Puységur s’ispira apertamente a Vegezio ed a Frontino. In campo militare come nelle arti o in filosofia, l’Antichità è un riferimento costante[88], la disputa sugli Antichi e sui Moderni occupa il primo posto del dibattito intellettuale. Ancora nel 1805, il principe de Ligne qualifica il De Re Militari come “libro d’oro...Un dio, dice Vegezio, ispirò la legione ed io dico che un dio ispirò Vegezio[89].

 

Solo dopo le guerre napoleoniche, in seguito agli straordinari sconvolgimenti politici generati dalla Rivoluzione e dall’accelerazione del progresso tecnico, il riferimento degli Antichi cessa di essere, se non valido, almeno abituale. Wilhelm Rüstow, uno degli autori più prolifici del XIX° secolo, produce tuttavia un’antologia dei griechischen Kriegschrifteller (1855). Frontino, Vegezio e anche Polibio sono letti, al giorno d’oggi, solo dagli storici. Se Raymond Aron s’ispira a Tucidide per la sua visione dell’ordine internazionale, è in Clausewitz che cercherà il punto di partenza della sua sintesi strategica. Oggi, uno storico constata tristemente che “questa letteratura tattica dell’Antichità è stata relegata nella pattumiera della storia[90]

 

SEZIONE III - IL PENSIERO STRATEGICO EUROPEO MODERN

74. L’eclisse medievale

 

Il pensiero militare medievale è estremamente povero, anche se dobbiamo modificare questo giudizio sommario sull’arte della guerra di questo periodo, emesso dalla ricerca erudita del XIX° secolo. Nessun trattato fece concorrenza a Vegezio prima del XV° secolo: “I pochi trattati d’arte militare anteriori al 1400 non erano altro che raccolte di autori classici[91]. Il re di Castiglia Alfonso X il Saggio, verso il 1280, dispone persino di rendere obbligatorie le regole raccomandate da Vegezio! I primi saggi sulla guerra, nel XIV° secolo, lo ricopiano, spesso servilmente, come fece Egidio Colonna, che pubblica verso il 1280 il De Regimine Principium, che avrà un grandissimo successo. Honoré Bonet, monaco benedettino, scrive L’Arbre des batailles (1386-1387), che riscuote un grande successo, ma tratta soprattutto di morale; vi attinge largamente Christine de Pisan nel suo Livre des faits d’armes et de chevalerie (1406-1407; traduzione inglese 1489). Jean de Bueil, ammiraglio di Francia caduto in disgrazia, fa pubblicare, verso il 1466, Le Jouvencel, “petict traicté narratif” sugli avvenimenti della guerra raccomandando una tattica più prudente di quella della cavalleria, che ha avuto l’esito disastroso di Poitiers e di Azincourt. Il comandante dell’armata non deve cedere all’impulsività, ma riflettere soprattutto su fatti che recano così gravi conseguenze come una battaglia[92]; la strategia è assente, salvo che per qualche fugace annotazione. Essa appare più chiaramente a partire dalla seconda metà del XIII° secolo, in particolare in parecchi progetti di crociate che mostrano dei piani ben strutturati[93].

 

La vera riflessione si sviluppa solo a partire dalla seconda metà del XV° secolo, quando l’impatto dell’artiglieria si fa sentire più nettamente. Il pensiero militare si risveglia molto presto in Spagna con il Libro de la guerra (verso il 1420) del marchese di Vellena, il Tratado de la perfecciòn del triunfo militar (1459) di Alfonso Hernandez di Palencia, ma anche in Francia, con La Nef des Princes et des batailles de noblesse (1502) di Robert de Balsac, e in Inghilterra, con il Traité sur l’art de la guerre di Béraud Stuart[94] e in Germania con il Kriegsbuch di Philipp von Seldeneck (fine del XV° secolo). In Italia, Roberto Valturio, segretario del celebre condottiero Sigismondo Malatesta, compone un De Re militari (1472, 1531, 1532, 1534; traduzione italiana 1483, francese 1555) su richiesta del suo signore: si tratta del primo trattato militare fatto stampare.

SOTTOSEZIONE I - LA MATURAZIONE DEL XVI° SECOLO

75. Pensatori spagnoli e italiani

 

L’esperienza acquisita nelle guerre d’Italia (da cui il nome di scuola ispano-italiana[95]) fa della Spagna la potenza militare dominante, con un nuovo modello di esercito che prende forma negli anni 1534-1536: il tercio, che segna la fine della preponderanza della cavalleria. Un’intensa riflessione accompagna questa fondamentale trasformazione. Fin dagli anni 1520, il movimento è innescato dal Tratado del Esfuerzo Bellico (1524) di Juan Lopez de Palacios Rubios, il De Re militari (1536, 1590; traduzione spagnola Dialogo del arte de la guerra ,1590) di Diego de Salazar, che fa parlare il più grande capitano del suo tempo, Gonzalo di Cordoba. Esso si intensifica nella seconda metà del secolo. Diego Gracian de Alderete (De Re militari, 1566), Geronymo Ximenez de Urrea (De la Verdadera honrra militar, Venezia 1566; traduzione italiana 1569), Luis Gutierrez de la Vega (Nuevo Tratado i compendio de re militari, 1569), Francisco de Valdés (Espejo y Disciplina militar, 1578, 1588, 1589, 1590, 1595, 1598; traduzione inglese 1596 e italiana 1598), Diego de Alava y Viamont (El Perfecto Capitàn instruido en la Disciplina Militar y nueva ciencia de la Artilleria, 1590), Martin de Eguiluz (Milicia, discurso y regla militar, 1590), Marcos de Isaba (Cuerpo enfermo de la milicia espanola, 1594), Bernardino de Escalante (Dialogos del arte militar, 1595), Sancho de Londono (El Discurso sobre la forma de reduzir la disciplina militar, 1596; traduzione inglese 1596), teorizzano le regole che fanno del tercio la migliore fanteria d’Europa[96]. L’opera più importante è quella di Bernardino di Mendoza, ambasciatore di Spagna in Francia e comandante dell’armata delle Fiandre: Theorica y practica de la guerra (1577, 1595, 1596; traduzione inglese 1597, italiana 1596, tedesca 1667) che tratta di tutto lo svolgimento di una campagna, sia per terra che per mare, e propone una tipologia delle guerre difensive.

 

All’ombra della Spagna, il Portogallo sembra assente. Vi troviamo tuttavia l’avvio di una letteratura militare e, in particolare, una riflessione elaborata sulla condotta delle guerre coloniali, dominata dal Soldado Prático di Diogo do Couto, scritto alla fine del secolo, che resterà a lungo manoscritto[97].

 

La letteratura abbonda particolarmente in Italia, teatro privilegiato della rivalità delle potenze europee, ma anche esposta verso l’Adriatico agli attacchi a cui deve far fronte Venezia. Secondo John R. Hale, Venezia produce più libri militari, tra il 1492 e il 1570, di tutto il resto d’Europa[98]: 145 edizioni, riedizioni e traduzioni, di cui 54 titoli originali; risalta il Dell’arte militare (1493, ristampato almeno otto volte; traduzione spagnola 1558) di Antonio Cornazzano.

 

Nella seconda metà del XVI° secolo, Bernardino Rocca continua la tradizione veneziana con Imprese, stratagemmi ed errori (1566, 1567, 1570, 1582; traduzione francese 1571) importante volume che tratta veramente di strategia, partendo da esempi antichi e moderni. Girolamo Cattaneo (Modo di formare con prestezza le moderne battaglie, 1571; traduzione inglese 1574) e Girolamo Ruscelli (Precetti della milizia moderna, 1564, 1568, 1572, 1583, 1595) espongono i diversi ordini tattici che il tercio può adottare. Francesco Maria della Rovere, duca di Urbino, trae, dalla sua esperienza di condottiero, alcuni Discorsi militari (1583). Il capitano Francesco Ferretti di Ancona compila due trattati militari, Dell’Osservanza militare (1568; traduzione francese 1587) e Dialoghi notturni (1604). Mario Savorgnano scrive un’Arte militare terrestre e marittima (1595; traduzione tedesca 1618). Francesco Marchi rivoluziona la teoria delle fortificazioni con il Dell’Architettura militare (1599).

 

76. Machiavelli tattico e strategista

 

L’opera più conosciuta del XVI° secolo è quella di Machiavelli, L’arte della guerra (1521), completata da un saggio storico, i Discorsi sopra la prima decade di Tito Livio. Come Il Principe, gli scritti militari di Machiavelli “sono essenzialmente di natura negativa: sono critiche delle istituzioni militari dell’epoca[99]: le armate italiane sono state incapaci di tener testa a quelle francesi, poiché i mercenari si preoccupano anzitutto di salvaguardare la propria vita e non hanno fretta di concludere una campagna. Come i suoi predecessori fiorentini del secolo precedente, Leonardo Bruni (De Militia, 1422) in particolare[100], chiede il ritorno ad un esercito di cittadini. Contro le guerre irrisolte, insiste sulla necessità della battaglia e della ricerca dell’attacco dal forte al debole.

 

L’influenza dell’Arte della guerra sarà grande e duratura: “Essa divenne un classico della letteratura militare. Non ebbe meno di sette edizioni nel XVI° secolo (infatti ne ebbe ventuno) e fu tradotta nella maggior parte delle lingue europee (in francese 1546; in spagnolo da Diego di Salazar, con un commento 1536; in inglese 1560; in tedesco 1623; in latino 1610; in olandese). Montaigne metteva Machiavelli accanto a Cesare, Polibio e Commino....nel XVII° secolo era ancora frequentemente citato. Nel XVIII° secolo, il maresciallo de Saxe vi si ispirò per comporre le sue Rêveries ...Jefferson possedeva le opere di Machiavelli e quando la guerra del 1812 ebbe accresciuto l’interesse dell’America per i problemi  militari, L’Arte della guerra divenne oggetto di un’edizione americana speciale[101]. Bisogna però constatare che L’Arte della guerra non ha l’attualità del Principe e che la sua lettura presenta un interesse soltanto storico; lo strategista non lo troverà molto utile.

 

Il genio di Machiavelli è molto più evidente nei Discorsi sopra la prima decade di Tito Livio. Qui si tratta veramente di strategia, e in modo lampante: sull’inutilità della sorveglianza dei passaggi (libro I, cap. XXIII), sull’interesse di una guerra “breve e violenta“ (libro II, cap. VI), sui rapporti tra il denaro e la guerra (libro II, cap. X), sui vantaggi rispettivi dell’attacco e dell’attesa (libro II, cap. XII), sul valore delle fortezze (libro II, cap. XXIV), sulle informazioni (libro III, cap. XVIII), sui piccoli combattimenti (libro III, cap. XXXVII)... Bisognerà aspettare Montecuccoli, più di un secolo e mezzo dopo, per ritrovare dei ragionamenti così ben strutturati su un tale insieme di argomenti. Tuttavia, i Discorsi non hanno avuto la rinomanza dell’Arte della guerra, forse per il titolo, poco suggestivo, senza dubbio anche perché sono prolissi e ridondanti: considerazioni politiche e militari vi si alternano senza alcun ordine. Un saggio più conciso avrebbe potuto avere la fortuna del Principe e accelerare l’emergere di un pensiero strategico organico.

 

77. Pensatori inglesi e francesi

 

Al contrario, il pensiero inglese testimonia la regressione che segue la fine della guerra dei Cento Anni e l’interruzione dei rapporti con il continente. Logicamente, l’arte della guerra non si evolve più e gli Inglesi si aggrappano al loro grande passato: “La teoria militare inglese del XVI° secolo sarà dominata ufficialmente dal dogma dell’arco, considerato come l’arma provvidenziale della nazione. Molti autori si rifugiano in un rassicurante attaccamento al passato e vantano «le famose vittorie dei nostri Edoardo ed Enrico»[102]. E’ il caso dello scrittore più importante del periodo, John Smythe (Certain Discourses military, 1590), ma ugualmente di Roger Ascham (Toxophilus, 1545, 1571, 1589) e di Matthew Sutcliffe (The Practice, Proceedings and Laws of Arms, 1593), per non citare che qualche esempio di una abbondante letteratura[103]. I sostenitori dell’arma da fuoco, come Roger William (A Briefe Discourse of Warre, 1590) o Humphrey Barwick (A Briefe Discourse, concerning the Force and Effect of all manual Weapons of Fire, 1594), sono in minoranza, così come sono rari i commentatori dei progressi tattici sul continente (William Garrard, The Art of Warre, 1591 e Robert Barret, The Theorike and Practike of Modern Warres, 1598). Questa stagnazione del pensiero militare spiega largamente la grande mediocrità delle armate dei due schieramenti che caratterizza la guerra civile del secolo seguente.

 

La Francia non ha questo problema: le guerre d’Italia offrono un vasto campo di esperienze e di meditazione che ispira il Rosier des guerres (1502), scritto su richiesta del re Luigi XI per istruire il Delfino e che avrebbe ispirato Machiavelli; L’Arbre des batailles (verso il 1510) di Claude de Seyssel, vescovo di Marsiglia; Les Ruses et cautelles de guerre (1514) di Rémy Rousseau, raccolta di stratagemmi antichi e moderni; e soprattutto, l’Instruction sur le faict de guerre di Raymond de Fourquevaux (pubblicato parecchie volte tra il 1548 e il 1592, tradotto in italiano nel 1550 e in inglese nel 1589, con una falsa attribuzione a Guillaume du Bellay, signore di Langey, uno dei migliori generali di Francesco I, autore di una Discipline militaire, 1592) e che chiama in causa Polibio, Frontino, Vegezio, Cornazzano e Machiavelli[104]. Accanto a queste opere generiche, la crescita dell’importanza della fanteria suscita, come in Spagna, una letteratura specializzata, con il commento anonimo del decreto del 1534 (Familière instruction pour les légionnaires, 1537), il manoscritto inedito di Jacques Chantareau (Miroir des armes militaires et instruction des gens de pied, verso il 1545), aspettando, alla fine del secolo, la Mémoire sur l’infanterie (1595), di Jean de Gontaut-Salignac, ugualmente inedito, ma da cui l’autore trarrà in seguito un Discours au Roy pour le reiglement de l’infanterie françoise (1614)[105].

 

Liquidate le guerre d’Italia, è il turno delle guerre di Religione: il maresciallo de Saulx-Tavannes scrive delle Mémoires molto lette e da cui suo nipote Charles de Neufchaises trae un riassunto (Instruction et devis d’un vray chef de guerre, 1574). Un capo del partito protestante, François de la Noue, scrive dei Discours politiques et militaires (1587, parecchie riedizioni; traduzione inglese 1587, tedesca 1592, adattamento olandese 1613), invito per una solida formazione teorica e pratica dei capi e delle truppe. Ugualmente molto letti, i Commentaires di Blaise de Monluc (1592; traduzioni italiane, inglese 1674)[106] insistono anch’essi sull’organizzazione e la disciplina e forniscono riflessioni sulla esecuzione di una campagna.

 

78. Pensatori tedeschi

 

La Germania presenta anch’essa un ricco pensiero militare, favorito dal proliferare dei principati, in conflitto frequente se non perenne tra loro o con l’Imperatore. Filippo, duca di Clèves, fiammingo al servizio degli Asburgo, pubblica tra il 1508 e il 1516 le sue Instructions sur toutes manières de guerroyer tant par mer que par terre: egli tenta di liberarsi dell’influenza di Vegezio per integrare gli sconvolgimenti introdotti dalle armi da fuoco. Seguono una serie di lavori di cui i più conosciuti sono quelli di Reinhard, conte di Solm, che scrive otto libri senza titolo tra il 1544 e il 1549, e di L. Fronsberger, i cui “cinque libri” (Funff Bucher von Kriegsregiment und Ordnung, 1555-1556) avranno un grandissimo successo. Il mangravio Albrecht di Brandeburgo è uno dei primi a battersi per l’ordine obliquo, che illustra nelle numerose tavole del suo Kriegsordnung (1555).

 

L’autore più importante è Lazarus von Schwendi, comandante in capo dell’armata imperiale, che nei suoi scritti si ispira a Machiavelli, soprattutto nel Kriegsdiskurs (tra il 1571 e il 1577), difesa di un’armata permanente, organizzata e liberata dai mercenari. Il conte Jean VII di Nassau, cugino di Maurizio d’Orange, e suo cognato, il langravio Maurizio di Hesse, pubblicano, alla fine del secolo, delle arringhe a favore della milizia, che annunciano le grandi riforme che saranno realizzate, nei decenni seguenti, dalla casa d’Orange-Nassau[107]. La guerra dei Trent’anni vedrà la realizzazione degli strumenti e delle tattiche concepite nel corso di questo lungo fermento intellettuale che si è anche ampiamente servito dell’apporto degli Svizzeri, principali inventori della tattica moderna.

 

79. Bilancio del XVI° secolo

 

Si è solo sommariamente sorvolato sulla produzione del XVI° secolo, molto più ricca di quanto non si pensi, a parte qualche rara eccezione; uno studio sistematico rivelerebbe probabilmente degli spunti più vasti e più interessanti di quanto non si possa supporre. Le opere della seconda metà del secolo, almeno, adottano spesso una prospettiva molto allargata: Mendoza, Rocca, Ruscelli, Sutcliffe trattano contemporaneamente della guerra sia a terra che per mare. Molti autori s’innalzano al livello della strategia, con riflessioni sul comando, sulla conoscenza del nemico, sullo sfruttamento del successo: Monluc come Rocca sottolineano che la vittoria in battaglia non basta, perché è quella nella guerra che si deve ottenere; entrambi portano ad esempio Annibale dopo la vittoria di Canne. In Spagna, si parla di Milicia, “arte di fare la guerra offensiva e difensiva e di  prepararvi i soldati“ secondo la definizione che ne darà il dizionario dell’Accademia spagnola nel 1803; altrove ci si limita agli stratagemmi, ma si comincia anche a parlare d’arte militare[108].

 

Gli aspetti non militari, sia politici che economici, sono ugualmente citati. E’ l’epoca in cui il mercantilismo pone il problema delle relazioni tra la guerra e l’economia, insistendo sull’importanza del commercio estero e sugli scontri che ne derivano. La guerra è un mezzo per rimpinguare le casse dello Stato, il grande economista e filosofo Jean Bodin non esita a raccomandarla e a descrivere, ne La République (1576), l’esercito che sarebbe opportuno per la Francia. Il grande uomo di mare Walter Raleigh (infra n°251) dedica lunghi ragionamenti a una difesa del mercantilismo[109]. Mendoza lancia una frase destinata ad avere un clamoroso seguito: “La vittoria andrà a colui che sarà in possesso dell’ultimo scudo[110].

 

Manca poco per trovarci di fronte ad un pensiero strategico finalmente organico. Tuttavia nel secolo che segue esso non sboccerà ancora. Senza parlare di regressione, perché lo impedisce lo stato ancora embrionale della ricerca (il XVII° secolo è forse ancora meno conosciuto del XVI°), si deve tuttavia constatare che nel XVII° secolo sembra dominare un approccio più tecnico, più strettamente tattico.

SOTTOSEZIONE II - IL XVII° SECOLO

 

80. Un secolo da scoprire

 

La produzione del XVII° secolo è quasi esclusivamente tattica; il problema centrale, al di là delle fortificazioni, è quello della disciplina degli automatismi resi necessari dai nuovi ordini di combattimento.

 

In Olanda, le innovazioni di Maurizio di Nassau (accrescimento della potenza di fuoco attraverso la generalizzazione dei moschetti, il fuoco a salva e l’assottigliamento delle linee, il miglioramento dell’artiglieria, l’aumento della mobilità....[111]) danno origine ad una ricca letteratura: Juste Lipse, una delle grandi figure dell’Umanesimo, si batte per “un’approccio più scientifico dell’arte della guerra e dell’organizzazione militare sotto la tutela degli Antichi[112], in Politica (1589, parecchie riedizioni; traduzione spagnola di Bernardino di Mendoza 1598, francese 1606, italiana 1618, tedesca, polacca), De Militia romana. Commentarium ad Polybium (1595, 1598, 1601...) e Poliorceticôn (1596, 1599, 1605, 1625); i Maniements d’armes di Jacob de Gheyn sono pubblicati quasi simultaneamente, in inglese (1607), in danese (1607), in francese (1608), in tedesco (1608), in olandese (1607) e beneficiano di un’edizione quadrilingue (1619); Simon Stevin scrive una Castramétazion (1617, edizione francese 1618), Johan Jacobi una Art de la guerre (1617). Johan Jakob von Wallhausen, primo direttore dell’Accademia militare creata da Giovanni di Nassau, lascia una ricca opera sull’impiego delle diverse armi, dove predomina il suo Corpus militare (1617).

 

In Inghilterra[113], negli anni precedenti la guerra civile, numerosi trattati di disciplina militare preparano la strada alla New Model Army di Cromwell, ispirata dalle riforme svedesi e olandesi: Military Discipline di William Barriffe avrà sei edizioni dal 1635 al 1661; ma il conservatorismo resiste tenacemente, come testimonia il persistere dei sostenitori dell’arco, per esempio in The Art of Archerie del 1634 di Gervase Markham. La Danimarca, che era allora un paese importante, è ugualmente attiva: bisognerebbe studiare le raccolte di stratagemmi di Henrik Ranzovius (Commentarius bellicus, 1595) e di Elias Winstrup (Manipulus stratagematum, 1632) o il trattato di Fromhold von Elerdt (Ein newes Kriges-Tractalein, 1644, parecchie riedizioni; versione tedesca 1646). In compenso, la Germania, devastata dalla guerra dei Trent’Anni, non sembra pubblicare molto. Il Kriegsbuch (1607, 1689) di Wilhelm Dilich fa la sintesi degli Antichi e delle innovazioni olandesi. Il conte Miklós Zrínyi fonda un pensiero strategico ungherese con Il Prode Capitano (1650-1653), fortemente ispirato da Machiavelli. La Polonia si segnala solo per i trattati di artiglieria di Kazimierz Siemenowicz, Artis Magnae artilleriae (1650), la cui influenza sarà considerevole, (traduzione francese1651, tedesca 1676, inglese 1729) e di numerosi continuatori[114].

 

Le innovazioni provenienti dall’Europa del Nord non implicano una decadenza del pensiero nei paesi dell’Europa meridionale. Certo, la Spagna inizia un declino, largamente esagerato dalla storiografia anglosassone, che comincia ora a tornare ad una visione più equilibrata[115]. Solo alla metà del secolo l’invincibilità del tercio avrà fine sul campo di battaglia di Rocroi (1643). Il pensiero militare resta importante anche se, come spesso accade, sconosciuto. La bibliografia curata da Francisco Barado conta parecchie decine di titoli che coprono tutto il campo dell’arte della guerra. La tattica è trattata da Cristóbal Lechuga (Discurso en que trata del cargo de maestro de campo general, 1603); Fernando Alvia de Castro (Aforismos y ejemplos militares, 1604); Cristobal de Rojas (Cinco discursos militares, 1607); Luis Mendes de Vasconcellos (Arte militar, 1612); Alfonso Cano Urreta (Días del jardín o arte de la guerra, 1619); Miguel Pérez de Ejea (Preceptos militares, 1632); Carlos Bonieres (Arte militare, 1644); Francisco Murago (Prácticas y máximas de la guerra, 1676)....Ma troviamo ancora opere di concezione più vasta che trattano dell’organizzazione dell’esercito e della disciplina, di cui alcune arrivano alla strategia. E’ il caso di Francisco Melo (Política militar y avisos de generales, 1638), di Francisco Lanario de Aragón (Tratado del Principe i de la guerra, 1624; riedizione El Principe en la guerra y en la paz, 1640) di Bernardino Rebolledo (Silva militar y politica, 1652)...Bisognerebbe citarne molti altri, e anche numerose opere specializzate dedicate all’artiglieria, (in particolare il Tratado de la Artilleria di Diego Ufano, 1613; traduzione tedesca 1614, francese 1615, polacca 1643), alla cavalleria, alla fanteria e alle fortificazioni. Quella che più tardi è stata chiamata la decadenza del XVII° secolo spagnolo non è un fenomeno lineare di rallentamento: la Spagna perde la sua posizione preminente a causa delle debolezze strutturali e per l’avanzata di potenze concorrenti, ma compie ancora uno sforzo militare impressionante. Il Portogallo produce qualche opera: la più importante è quella di Luis Mendes de Vasconcelos, capitano generale delle armate d’Oriente e governatore dell’Angola, Arte militar (1612).

 

La produzione italiana è meno abbondante del secolo precedente, il che sembra logico, poiché l’Italia non è più il teatro delle guerre europee e la nobiltà italiana si disinteressa del mestiere delle armi[116]. Ma questa impressione proviene senza dubbio anche dalla carenza della ricerca. L’autore più importante dell’inizio secolo è Giorgio Basta (Il maestro di campo generale, 1606; traduzione francese e tedesca 1617, Del governo dell’artiglieria, 1610, Il governo della cavalleria leggera, 1612; traduzione tedesca 1614, francese 1616, spagnola 1642). Dopo di lui troviamo solo opere tecniche sulla cavalleria, l’artiglieria e, soprattutto, sulle fortificazioni.

 

In Francia, Louis de Montgomery, signore di Corbuson, analizza le riforme di Maurizio di Nassau (Les Évolutions et les exercices qui se font en la milice de Hollande, 1603), Jérémie de Billon, anche lui discepolo di Maurizio di Nassau, presenta i diversi ordini di combattimento ne Les Principes de l’art militaire (1612, 1622, 1636, 1641; traduzione tedesca 1613), senza mai trattare del livello superiore. Lo stesso vale anche per i Discours militaires del signore di Praissac (1618, 1623, 1625; traduzione olandese 1623, inglese 1639) che sono molto letti. Il duca di Rohan, uno dei capi del partito protestante, pubblica nel 1636 Le Parfaict capitaine (traduzione inglese 1640, spagnola 1652, tedesca 1673, adattamento italiano di Majolino Bisaccioni, 1660), il cui modello è Cesare, e in cui troviamo una traccia dei principi della guerra; la sua esperienza della diplomazia gli dà una visione globale che gli permette di superare la tattica per abbozzare una riflessione strategica, almeno nel capitolo sulla battaglia. E’ seguito da Le Mareschal de bataille (1647) di Lostelnau. Il Livre de guerre (1663) del signore di Aurignac, che descrive “le cinque principali azioni militari, che sono l’accamparsi, marciare e combattere, attaccare e difendere le postazioni“ resterà manoscritto (il che non significa che non sia stato in circolazione). Al contrario, la Pratique et maximes de la guerre (1667; traduzione spagnola 1676, tedesca 1676) del cavalier de La Vallière avrà una grande diffusione. Il Traité de la guerre ou Politique militaire (1668) di Paul Hay du Chatelet s’innalza ad un livello superiore, ma in modo puramente letterario.

 

Bisognerebbe ancora aggiungere i libri dei tecnici: Jean Errard de Bar-le-Duc (La Fortification réduite en art et démonstrée, 1594, sei edizioni; traduzione tedesca 1604), Antoine de Ville (Traité de fortification, 1628, almeno undici edizioni fino alla fine del secolo; traduzione latina 1637, tedesca 1758), il conte di Pagan (Les Fortifications, 1645, sette edizioni; traduzione tedesca 1725, olandese 1738), Manesson-Mallet (Les Travaux de Mars, 1671, 1684; traduzione tedesca 1672, olandese 1695), Vauban (Traité de l’attaque des places, 1701; Traité de défense des places, 1706), non trattano direttamente di strategia, ma la influenzano in modo decisivo, dal momento che gli assedi divengono la sequenza centrale delle operazioni. La gloria, del tutto meritata, di Vauban eclissa i suoi concorrenti stranieri, tra cui per primo bisogna citare l’olandese Menno van Coehoorn (Nieuwe Vestingbouw, 1685, otto edizioni; traduzione francese 1706, tedesca 1709). Ma c’è anche lo spagnolo Sebastian Fernandez de Medrano (El Ingeniero, 1687; traduzione francese 1696; El Arquitecto perfecto en el Arte militar,1700, 1708, 1735) e gli italiani Guarino Guarini (Trattato di fortificattione 1676), Girolamo Portigiani (Prospettiva di fortificattioni, 1684).

 

81. Montecuccoli, primo strategista

 

La seconda metà del secolo è dominata dall’austriaco Montecuccoli[117], l’avversario di Turenne[118]. I suoi saggi sulla condotta degli eserciti si riferiscono realmente alla strategia, con una classificazione delle guerre (civile o estera, offensiva o difensiva, marittima o terrestre), un paragone della guerra con il gioco degli scacchi o delle considerazioni sulla preparazione delle forze e la condotta delle operazioni, certamente ancora sommarie, ma che si pongono nettamente al di sopra degli argomenti dei suoi contemporanei. “La loro ricchezza deriva anche dal fatto che Montecuccoli ha conosciuto i due tipi di guerra che si praticavano in Europa nel XVII° secolo: la guerra all’occidentale, dove si stabiliscono un certo numero di regole tendenti a limitarne la violenza, e la guerra all’orientale che ignora questa evoluzione[119]. Raimondo Luraghi, che ha pubblicato le sue opere complete, lo ha collegato a Sun Tzu [120].

 

I suoi scritti avranno larga diffusione solo dopo la sua morte: se la sua Arte militar è apparsa in italiano fin dal 1653, in spagnolo nel 1697, le altre opere saranno pubblicate solo nel XVIII° secolo (dopo essere state in circolazione sotto forma di manoscritti). Le sue Mémoires appaiono in francese (1712, 1746 e con un voluminoso commento di Turpin de Crissé, 1769), e in tedesco (1736). Il suo libro più celebre, Della guerra col Turco in Ungheria, ugualmente conosciuto con il titolo di Aforismi dell’arte bellica, conosce un successo prestigioso con sette edizioni italiane, sei francesi, due latine, due spagnole, due tedesche ed una russa. Per l’ampiezza delle sue vedute e del suo uditorio, Montecuccoli merita d’essere considerato il fondatore della scienza strategica moderna.

82. La stagnazione del pensiero alla fine del XVII° secolo

 

Purtroppo l’esempio di Montecuccoli resta isolato. Le guerre di Luigi XIV non suscitano analisi immediate, forse perché sarebbe stato imprudente fare della critica durante il regno del grande Re: all’apogeo del regno, non troviamo altro che l’Art de la guerre (1673, 1677, 1689, 1692; traduzioni inglese, italiana e spagnola 1684) di Louis de Gaia, la Conduite de Mars (1685) di Courtilz de Sandras; il commissario dell’artiglieria Vaultier pubblica, subito dopo la fine della guerra di Successione Spagnola, delle Observatios sur l’art de faire la guerre suivant les maximes des plus grands généraux (1714, 1744, 1748, 1768); solo nel 1740 il marchese de Quincy pubblicherà L’Art de la guerre ou maximes et instructions sur l’art militaire (traduzione tedesca 1745), sintesi della tattica di Luigi XIV, di cui Carrion-Nisas, nel secolo che segue, dirà che “egli non s’innalza mai al di sopra del livello di un quartiermastro o di un sergente[121].

 

Il resto d’Europa non brilla maggiormente. In Inghilterra, il conte d’Orrerey Boyle (A Treatise of the Art of War, 1677), annuncia i cambiamenti di Luigi XIV; James Turner procede ad un confronto tra gli Antichi e i Moderni (Pallas Armata. Military Essays on the Ancient Graecian, Roman and Modern Art of War, 1683). L’Italia produce un solo autore degno di nota, Annibale Porroni (Trattato universale militare moderno, 1670, 1676). Al contrario, la produzione spagnola continua, sia in tattica, con il marchese di Gastanana (Tratado y reglas militares, 1689), e l’anonimo dell’Escuela de Palas (1693)...sia in strategia, con Juan Banos de Velasco (Política militar de Principes, 1680), ma resta comunque confinata all’interno delle proprie frontiere. All’inizio del XVIII° secolo, Puységur osserva tristemente che: “Oggi questa teoria (della condotta degli eserciti) è caduta nell’oblio, è sconosciuta e non c’è alcun maestro che la insegni, a meno delle fortificazioni...Non c’è nessuna teoria, né regola, né principio costituito, né qualcosa di scritto; non s’insegna nulla, si fa ciò che si è visto fare senza saperne di più[122]”.

 

SOTTOSEZIONE III - IL XVIII° SECOLO

 

83. Il dibattito tattico in Francia: dalla colonna all’ordine obliquo

 

Il vero pensiero militare nasce nel XVIII° secolo. Il suo sviluppo dipende, l’abbiamo già detto (supra n° 12), dalla crescente complessità dell’arte della guerra, dal consolidarsi degli Stati, da un lungo periodo di pace inframmezzato da guerre di breve durata, così come da fattori d’ordine più intellettuale: lo sviluppo dell’editoria, l’apparizione di un lettorato militare, l’interesse del pubblico civile per le questioni militari[123]. Il dibattito è inizialmente tattico: si cercano soluzioni nuove per superare il blocco originato dal dispositivo in linea, che si è imposto con la generalizzazione del fucile.

 

Contro la linea, il cavalier de Folard[124] propaganda abilmente la colonna, ritenuto il solo dispositivo che può assicurare risultati decisivi, nelle sue Nouvelles Découvertes sur l’art de la guerre (1724), seguite dalla Histoire de Polybe, di cui sei tomi appaiono dal 1727 al 1730 (riedizioni 1753 e 1774, compendi 1754 e 1761). Per parecchi decenni, la sua opera sarà al  centro del dibattito militare. Folard, in relazione con il maresciallo de Saxe, è letto e commentato dovunque. Sostenitori e avversari si affrontano in tutta Europa. Il tedesco Quintus Icilius (Guischardt) sottolinea “gli errori del cavalier de Folard” nelle sue Mémoires militaires sur les Grecs et les Romains (1758), che sono confutate dal cavaliere fiammingo de Lo-Looz nelle sue Recherches d’antiquités militaires (1770). In Olanda, è criticato dal generale de Savornin e dal colonnello Terson (francese al servizio dell’Olanda). In Portogallo, il suo sistema è diffuso da André Ribeiro Coutinho (O Capitao de Infantaria Portuguez, 1751). Il grande Federico parla di “diamanti sepolti in mezzo al letame” e pubblica, anonimamente, un saggio su L’Esprit du Chevalier Folard (1740). Ancora nel 1772, il conte de Brézé pubblicherà a Torino delle Observations sur les Commentaires de Folard et sur la cavalerie. Il suo discepolo Mesnil-Durand spingerà il suo sistema fino alle estreme conseguenze, e anche fino all’assurdo: del suo Projet d’un ordre français en tactique ou traité des plésions (1777) si farà beffe il conte de Guibert, che teorizza l’ordine obliquo immaginato da Federico II in Essai général de tactique (1772), seguito da una Défense du système de guerre moderne (1779), che si orienta “verso una tattica mista, che si sforzerebbe di combinare i vantaggi di ogni ordine in funzione del terreno, delle truppe e delle circostanze[125].

 

A metà del secolo, il Maresciallo Maurice de Saxe scrisse le sue Rêveries, che saranno pubblicate (1756) dopo la sua morte in una raccolta apocrifa: Esprit des lois de la tactique (1762). Le Rêveries iniziano con una frase che si trova citata dappertutto, da Jomini come da Raymond Aron: “La guerra è una scienza coperta di tenebre, in mezzo a cui non si avanza con passo sicuro; la routine ed i pregiudizi ne sono la base, conseguenze naturali dell’ignoranza. Tutte le scienze hanno dei principi, solo la guerra non ne ha ancora; i grandi capitani che ne hanno scritto non ne danno alcuno; bisogna essere esperti per comprenderli[126]. Jomini lo accusa, non senza ragione, di non contribuire affatto a dissipare quelle tenebre: non dice nulla sulle grandi parti della guerra, nemmeno nel capitolo finale sul generale dell’armata, ricordato soprattutto per la condanna delle battaglie arrischiate. Ma la sua difesa di un metodo di guerra indiretto ha sedotto T. E. Lawrence, che lo considerò uno dei suoi maestri.

 

Il brigadiere Lancelot Turpin de Crissé pubblica un Essai sur l’art de la guerre (1754), che avrà poco successo in Francia, ma grande all’estero: si distingue dallo stile della manovra sapiente, che è ancora quello del Maresciallo de Saxe, per mettere l’accento sulla ricerca della battaglia. Pubblica in seguito dei Commentari su Montecuccoli (1769), su Vegezio (1770) e su Cesare (1785), che hanno anch’essi un largo pubblico. Senza essere un teorico di primo piano[127], ha avuto un grande ruolo di divulgatore.

 

Negli anni 1770-1780 il dibattito sulla tattica resta intenso, sia nel campo navale, con d’Amblimont e Grenier (infra n° 252), che nel campo terrestre, con il cavalier de Berny, le cui Observations sur la tactique moderne (1771-1773) sono dedicate al duca di Brunswick, Joly de Maizeroy[128], che pubblica numerosi commentari tattici tratti dall’antichità e da Folard, e Guibert. Si produce così un transfert notevole: è la Francia, grazie soprattutto a Guibert, che coglie meglio lo spirito del sistema federiciano[129], basato innanzitutto sull’adattamento alle circostanze. Il risultato finale sarà il Règlement concernat l’exercice et les manœuvres de l’infanterie (1791), che sarà imitato dappertutto, in Europa e negli Stati Uniti[130]. I successi delle armate della Rivoluzione non si spiegano solo con l’entusiasmo dei volontari dell’Anno II.

 

84. La comparsa della dimensione strategica in Francia

 

Queste riflessioni, ancora fondamentalmente tattiche, s’innalzano progressivamente verso la strategia. La crescita degli effettivi impone il frazionamento degli eserciti, permettendo di allargare il teatro delle operazioni. La prima metà del secolo è dominata dai tre nomi di Folard, Feuquière e Puységur, situati su piani diversi: Jomini diceva che “Feuquière aveva l’istinto della strategia, Folard quello della tattica e Puységur quello della logistica[131].

 

Il cavalier di Folard è raramente considerato come un precursore della teoria strategica. La formidabile controversia sulla colonna ha abusivamente ridotto la sua reputazione a quella di un tattico. Ma, nella confusione dei suoi commenti su Polibio, sono  tracciate le grandi linee di una concezione strategica fondata sull’offensiva e sulla ricerca della battaglia decisiva. La colonna non è che un mezzo tattico al servizio di questo scopo. Molto prima di Guibert, egli annuncia l’evoluzione verso una strategia di annientamento.

 

Il Tenente generale Antoine de Pas, marchese di Feuquière[132], morto nel 1711, scrive, terminato il servizio attivo, delle Mémoires (pubblicate nel 1736 dopo tre edizioni clandestine e inesatte; riedizioni nel 1737, 1740, 1741, 1750, 1775), in cui teorizza l’arte della manovra sapiente, caratteristica dell’Ancien Régime. Non esclude tuttavia le battaglie, ma esse “poiché decidono spesso il successo di tutta la guerra, o almeno e quasi sempre della campagna, non devono essere date che per necessità, e per delle ragioni importanti[133]. Il suo metodo è storico: conosciuto per il carattere difficile, si abbandona ad una critica severa degli errori commessi dai comandanti durante le guerre più recenti. Carrion-Nisas gli rimprovera di “risalire raramente ai grandi, ai veri principi; si ferma quasi sempre alle sue opinioni personali, fa lunghe digressioni su fatti e dettagli  particolari[134]. Ma è uno dei rarissimi autori, se non il solo, ad affrancarsi dal problema delle evoluzioni tattiche per dedicarsi alla condotta generale delle operazioni.

 

Il maresciallo Jacques-François de Chastenet, marchese di Puységur, scrive, terminato il servizio attivo, l’Art de la guerre par principes et par règles, pubblicata dopo la sua morte dal figlio nel 1748. Il suo metodo è razionale: definisce ordini di battaglia e di marcia, i tipi di assedio, e li applica poi alle campagne di Turenne e ad una presunta guerra tra la Senna e la Loira, insistendo sull’adattamento al terreno. A lui s’ispirerà molto Federico II di Prussia.

 

La seconda ondata appare verso la fine dell’Ancien Régime. Comprende numerosi autori, di cui i più importanti sono Le Roy de Bosroger (Principes de l’art de la guerre, 1770; Élémens de la guerre, 1773), il cui modello resta Turenne, il conte di Grimoard (Essai théorique sur les batailles, 1775) e Paul-Gédéon Joly de Maizeroy, tenente colonnello di fanteria e membro dell’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres, che introduce nel vocabolario militare il concetto di strategia. La sua Théorie de la guerre (1777) propone dei principi saldamente costituiti: “Senza una teoria  fondata su regole fisse, non si farà il minimo progresso nella scienza delle armi[135]. La terza parte è dedicata alla strategia o dialettica delle operazioni di guerra. Dimostra che “la scienza della dialettica è sempre fondata su un calcolo di tempo e distanza”. Ma la sua opera sarà eclissata da quella di Guibert.

 

85. Guibert

 

Il primo libro di Jacques-Hippolyte de Guibert (1743-1790)[136], che gli assicura la celebrità, l’Essai général de tactique (1772), è ancora un testo da Ancien Régime che porta alla perfezione un modello di guerra in declino: l’arte della manovra sottile e sapiente cederà presto il posto alle guerre combattute con molti effettivi. Il suo ultimo libro, il Traité de la force publique, apparso dopo la sua morte, nel 1790, prende atto di questo cambiamento in termini profetici.

 

Il destino di quest’opera è singolare. Adulato a suo tempo, (il grande Federico pubblica delle Remarques sur l’Essai...., imitato dallo svizzero Warnery; il principe de Ligne gli rende “l’Eloge qui est du a sa supériorité sur tous les autres[137]), ma anche criticato (il piemontese de Silva, nelle sue Remarques sur quelques articles de l’Essai général de Tactique, 1773, dice che “l’ordinamento attuale, preconizzato dall’autore, è il più complicato di tutti, quello meno logico,....in una parola  il peggiore che si potesse immaginare”), molto apprezzato da Napoleone (che non è poco), Guibert è caduto in seguito in un relativo oblio. Jomini gli riconosce il merito di aver fatto “fare dei progressi alla tattica”, ma sottovalutava il suo apporto alla strategia: “Guibert, in un eccellente capitolo sulle marce, sfiorò la strategia, ma non mantenne quello che il capitolo stesso prometteva[138]. Al contrario, il generale Poirier lo considera il fondatore della scienza strategica moderna, “con cui abbiamo un debito immenso[139]. Non c’è nessuna contraddizione, tutto dipende dal piano sul quale ci si pone: Guibert si è interessato alle due estremità dello spettro: la tattica, ossessione del suo tempo, e l’articolazione tra la politica e la guerra, che ci interessa oggi; ha meno da dire sulla strategia operativa, che attrae gli autori del XIX° secolo.

 

86. L’influenza francese

 

Il pensiero tattico e strategico del XVIII° secolo, sia militare che navale, è dominato dagli autori francesi. L’imperialismo dell’intelletto francese si estende alla scienza della guerra. Le traduzioni sono numerose: i Commentaires sur Polybe di Folard sono tradotti in tedesco (1759-1760); le Mémoires di Feuquière sono tradotte in tedesco (1738) e in inglese (1736); le Rêveries del maresciallo de Saxe sono tradotte in inglese (a Londra, 1757 e a Edimburgo, 1759, 1776) e in tedesco (1757, 1767); l’Art de la guerre di Puységur beneficia di edizioni tedesca (1753), italiana (1755) e danese (1810-1811); l’Essai di Turpin de Crissé è letto in tutta Europa, con traduzioni tedesca (1756-1757, 1785), russa (1758-1759) e inglese (1761); il Cours de tactique di Joly de Maizeroy è tradotto in tedesco (1771-1772) e in inglese (1781); i Principes di Le Roy de Bosroger in inglese (1771); l’Essai di Guibert è tradotto in tedesco (1774) e in inglese (1781). Ma spesso le traduzioni non sono necessarie: gli autori francesi sono letti in originale. E parecchi autori stranieri scrivono direttamente in francese.

 

87. Gli scrittori tedeschi e austriaci

 

Il miglior analista del sistema federiciano è lo stesso Federico II. La sua opera, scritta quasi interamente in francese[140], è ricca: i Principes généraux de la guerre (1746), l’Instruction pour mes généraux (1747), il Testament militaire (1768) e gli Éléments de castramétrie e de tactique (1771). Tra le opere di gioventù e quelle della maturità, “egli conservò sempre le stesse idee sull’organizzazione di un esercito e sulla tattica ma, in materia di strategia e di politica della guerra, passò da una violenta aggressività, manifesta nel 1740, ad una filosofia di relativa passività”[141]. La sua diffusione è stata immensa: l’Instruction pour mes généraux fu pubblicata, dopo la sua scoperta da parte degli austriaci, in francese e in tedesco (1761), in inglese, in spagnolo e in svedese (1762), in russo (1801), in portoghese (1803).

 

L’altro grande autore tedesco, praticamente sconosciuto, è il conte Wilhelm di Schaumbourg-Lippe, curioso personaggio che abbandonò il suo piccolo principato per mettersi al servizio del re del Portogallo, che lo nominò maresciallo. Scrive, molto spesso in francese, numerosi promemoria, alcuni con finalità molto pratiche (sulla disciplina e la tattica; propone un dispositivo a croce di quattro quadrati per superare la controversia tra la colonna e la linea...), altri di “meditazione militare”, spesso sotto forma di aforismi, tanto eleganti quanto pertinenti. E’ stato il maestro di Scharnhorst. Da un punto di vista strategico, bisogna soprattutto mettere in rilievo la sua teorizzazione della difensiva e l’importanza che attribuisce al fattore psicologico. Certi passaggi anticipano Clausewitz[142].

 

Ancor meno conosciuto è il colonnello del Wurtemberg François Nockern di Schorn[143], che cerca di riassumere gli insegnamenti di Federico di Prussia nelle Idées raisonnées sur le système général et suivi de toutes les connaissances militaires et sur une méthode lumineuse pour étudier la science de la guerre, pubblicato in francese (a Norimberga) nel 1783 e tradotto in tedesco nel 1785 e in italiano nel 1825; è il primo, dopo Joly de Maizeroy, a teorizzare la strategia, a cui dedica un capitolo.

 

Oltre a questi autori, la produzione tedesca è piuttosto ricca. Bisognerebbe cominciarne una recensione sistematica[144]. Jomini registra “tra la guerra dei Sette Anni e la Rivoluzione, una moltitudine di scritti più o meno vasti su diverse branche secondarie dell’arte, su cui gettano una debole luce”: quelli dei sassoni Thielke (sulla costituzione degli accampamenti) e Faesch (sugli aspetti secondari delle operazioni belliche), del prussiano Holzendorf (sulle manovre), di Scharnhorst, di Hannover, che farà più tardi parlare di sé, ai quali si deve ancora aggiungere Friedrich von Nicolai, del Wurtemberg, (sulla tattica) ed altri. Friedrich-Wilhelm von Zanthier insiste per un insegnamento scientifico dell’arte della guerra (Versuch über die Kunst den Krieg zu studieren, 1775; Versuch uber die Märsche der Armeen, die Läger, Schlachten und den Operations Plan, 1778). Il peggio si alterna al meglio. I successori del Grande Re trasformeranno le sue idee in un dispositivo rigido, il cui campione è il generale von Saldern, ispettore generale di fanteria, che espone anonimamente il suo sistema in Taktische Grundsätze und Anweisung zu militärischen Evolutionen (1781; traduzione francese 1783, inglese 1787). Lo spirito che domina la sua relazione è ben espresso da questa forte riflessione: “E’ vero che è prescritto fare settantasei passi al minuto, ma dopo serie osservazioni e riflessioni, sono giunto alla conclusione che sarebbe meglio farne solo settantacinque[145]. Gli anni 1780-1790 producono una grande effervescenza intellettuale, con l’Aufklarung militare (supra, n. 13), che non produce però nessuna riforma strutturale.

 

La produzione dell’Austria appare scialba: il conte V.D.S.G.(che non è stato mai identificato) pubblica un Abrégé de la théorie militaire (1776; traduzione tedesca 1777) in cui cerca di esaltare l’azione del maresciallo Daun, avversario di Federico II; oltre le marce e gli accampamenti, sfiora il concetto di strategia con il paragone tra l’offensiva, “la parte della guerra più brillante, ma la più facile quando ci sia tutto il necessario per sostenerla” e la difensiva, “la parte più complicata e difficile della guerra” e l’analisi della battaglia e delle sue conseguenze. Il maresciallo conte di Khevenhuller (nipote di Montecuccoli) dedica una raccolta di massime alla guerra di campagna e a quella di assedio (Kurzer Begriff aller militärischen Operationen, 1738; traduzione francese 1771, spagnola 1793). Il principe di Ligne, belga (quindi suddito austriaco) compone delle Mémoires militaires, littéraires et sentimentaires in 34 volumi che gli assicureranno una durevole gloria postuma, ma non in campo militare. Eppure aveva una reale esperienza (fu maresciallo in Austria e in Russia) e le sue osservazioni sono spesso perspicaci. Nel 1780 pubblica, anonimamente, due raccolte dal titolo significativo, Préjugés militaires e Fantaisies militaires (traduzione tedesca 1783), in cui coesistono le riflessioni più svariate in un gradevole disordine. Non vi si tratta affatto di strategia.

 

88. La scuola italiana

 

In Italia appaiono numerose opere. Il marchese piemontese de Silva è l’autore di Pensées sur la tactique et quelques autres parties de la guerre (1768), riediti dieci anni dopo con il titolo di Pensées sur la tactique et la stratégique (traduzione tedesca 1780). Gioacchino Bonaventura Argentero di Bersezio, chiamato conte di Brézé, aiutante generale di cavalleria al servizio del re di Sardegna, pubblica a Torino delle Réflexions sur les préjugés militaires (1779; traduzione tedesca 1787), una serie di articoli, da A -aquila- a T -tattica-, talvolta con l’aggiunta di dialoghi immaginari tra il sovrano e il filosofo, tra un ufficiale moderno e Mario. Il poligrafo veneziano F. Algarotti pubblica delle Lettres militaires (1765, 1772, 1791, 1794) e un commento su Machiavelli, Scienza militare del Segretario Fiorentino (1791). Il regno di Napoli è presente con il marchese Palmieri, oggi completamente dimenticato, ma molto conosciuto ai suoi tempi: le sue Riflessioni critiche sull’arte della guerra (1761, 1788, 1816) trattano solo di tattica. A Venezia, il romano Casimiro Waquier de la Barthe conclude il periodo con un Saggio elementare di tattica pratica (1794).

 

89. La scuola spagnola

 

La Spagna del XVIII° secolo non è più una potenza di primaria importanza, perché si fa piuttosto rimorchiare dalla politica francese. Tuttavia essa non toccherà il fondo che con l’invasione napoleonica. C’è , invece, una vera rinascita borbonica al tempo di Carlo III. L’esercito e la marina non fanno più tremare l’Europa, ma perseguono nondimeno un reale sforzo di modernizzazione. Il pensiero militare rimane vivace.

 

Esso è dominato dal marchese di Santa Cruz de Marcedano (verso il 1687-1732, da non confondere con l’illustre marinaio del XVI° secolo) che pubblica dal 1724 al 1730, a Torino dov’era ambasciatore, delle Reflexiones militares. Questa enorme summa in undici volumi, stampata molto fitta, tratta tutti gli argomenti militari, con molti esempi: nel I tomo, le qualità del generale e le disposizioni da prendere prima della guerra; nel II tomo, gli attacchi di sorpresa, le imboscate, le spie, ma anche il guado dei fiumi; nel III, marce, accampamenti e mezzi per indurre il nemico al combattimento; nel IV tratta della guerra offensiva; nel V e VI della battaglia; nel VII delle rivolte; nell’VIII e IX degli assedi, nel X della guerra difensiva; nell’XI ed ultimo ritorna sul combattimento. Nella seconda edizione, un dodicesimo volume tratta dei “motivi che devono determinare la guerra o la pace”. Troviamo anche qualche considerazione navale. La morte dell’autore in combattimento, durante una campagna in Africa del Nord, gli ha impedito di dar corso al suo progetto di continuare il suo libro fiume, che avrebbe dovuto intitolarsi Calculs militaires, di cui ha lasciato solo una breve traccia. La sua fama sarà grande e durevole in tutta Europa: le Reflexiones sono tradotte in francese (1738), in italiano (1756), in tedesco (1753); denigrate dal principe di Ligne, saranno raccomandate sia da Federico II che da Napoleone.

 

Anche se inferiori a Santa Cruz, esiste un gran numero di altri autori, non tutti trascurabili. Il più noto è il marchese di La Mina, di cui le Máximas para la guerra (1784) hanno un grande successo. Ma ci sono anche Juan Antonio Pozuelo y Espinosa (Empresas militares, 1732), Pablo Minguet (Arte general de la guerra, 1752), Manuel Centurion Guerrero de Torres (Ciencia de militares, 1757), Raimundo Sanz (Principios militares, 1776)... Le opere tecniche sono sempre altrettanto numerose. Non è certo l’immagine di un pensiero fossilizzato e decadente, ma esso subisce ormai le influenze straniere, francese in primo luogo, ma anche prussiana dopo il successo di Federico II, più di quanto non si diffonda verso l’estero.

 

90. La produzione britannica

 

Il gallese Henry Lloyd, la cui vita è stata molto movimentata[146], lascia un’opera abbondante, dominata da A Political and Military Rhapsody on the Invasion and Defence of Great Britain and Ireland (1790, sei edizioni; traduzione francese 1801, tedesca 1803; italiana 1804), che denuncia il “timor panico” di una invasione e, soprattutto, una storia della Guerra dei Sette Anni, The History of the late War between the King of Prussia and the Empress of Germany and her Allies, (1763, continuata nel 1781 e 1790). Questo libro fiume avrà una grandissima influenza. Una traduzione francese appare nel 1784 ed un adattamento tedesco è realizzato da Tempelhoff dal 1783 al 1787; servirà da punto di partenza a Jomini. Lloyd formula un certo numero di concetti, in particolare quello delle linee d’operazioni, che rende sistematici nel secondo volume[147] (1781, traduzione francese Mémoire militaire et politique, 1794, tedesca nell’edizione di Tempelhoff, 1783, 1784, 1790, spagnola parziale 1813). Napoleone ne trarrà profitto.

 

Oltre Lloyd, troviamo un A Military Essay (1761) e Tactics (1780) del cavalier C. Dalrymple e A Treatise on the Military Science (1780) di T. Simes, che non hanno lasciato tracce profonde. Il dizionario di Bardin segnala qualche altro autore ormai completamente dimenticato, come John Muller, la cui The Science of War si dilunga per sette volumi. Il pragmatismo inglese non è un mito.

 

Ciò che i Britannici chiameranno più tardi la grande strategia è certamente intuito, ma solo dai civili. Charles Davenant pubblica, in piena guerra della Lega di Augusta, un Essay upon Ways and Means of Supplying the War (1695) che ottiene un grande successo, nonostante le misure proposte (riscossione di nuove tasse), che saranno parzialmente prese in considerazione dal governo. Viene esposta molto chiaramente la via britannica della guerra teorizzata due secoli e mezzo più tardi da Liddell Hart: “Ormai l’arte della guerra, in certo modo, si riduce ad una questione di denaro e il principe che si assicura il miglior successo e la conquista non è colui che ha le truppe più valorose, ma quello che dispone della maggior quantità di denaro per nutrirle, vestirle ed equipaggiarle”. Egli preferisce la guerra navale a quella terrestre e raccomanda la costituzione di una marina forte per saccheggiare i porti francesi, “distruggere le loro basi navali ed anche la loro forza navale[148]. Ma si tratta di considerazioni economiche, presentate e percepite come tali, non c’è un nuovo Raleigh per unificare i due argomenti di riflessione.

 

91. E gli altri

 

Il generale svizzero Warnery, che sembra aver avuto una vita molto movimentata, con la partecipazione a numerose campagne al servizio del Piemonte, dell’Austria, della Prussia[149] e infine della Polonia, è autore di un’abbondante opera, con commenti su Turpin de Crissé, Guibert, Cesare, un saggio sull’arte militare dei Russi e dei Turchi e un trattato di cavalleria (ancora riedito nel 1828). La sua fama è stata grande, Scharnhorst l’ha fatto tradurre in tedesco (1785-1791). La Svizzera è anche rappresentata dal tattico Gabriel Pictet (Essai sur la tactique de l’infanterie,1761), ufficiale al servizio del Piemonte.

 

Il Portogallo ha una produzione abbastanza modesta, ma non del tutto inesistente. Troviamo una Milicia pratica (1740) di Benito Coelho e degli Elementos de arte militar (1785) del marchese Cardoso. Il conte di Schaumbourg-Lippe, durante il suo soggiorno in Portogallo, ha incoraggiato gli studi militari ed ha permesso la pubblicazione di un’edizione portoghese dei suoi Exercicios de Meditacaõ Militar (1782)[150].

 

La Svezia produce almeno un autore d’origine finlandese, il colonnello G. M. Sprengtporten, che pubblica un regolamento per le truppe leggere (Exercitiereglemente för Savolax lätta troupe till foth, 1789). Fortemente influenzato da Guibert, si evidenzia per un adattamento alle condizioni geografiche particolari della Finlandia, con una teorizzazione, certamente la prima, del combattimento nei boschi[151]. Un giornale militare, Militaerisk Bibliothek, è creato nel 1765.

 

Il pensiero militare russo segue le tracce di Pietro il Grande, che ha lasciato numerosi scritti, in particolare un Réglement militaire (1716), che è un vero trattato di tattica. Il suo figlio naturale, il maresciallo Rumiantzov, riorganizzatore dell’esercito sotto Caterina II, scrive numerose istruzioni. Il suo discepolo Suvorov (1729-1800), il più grande dei generali russi, è anch’egli uno scrittore prolisso. Alla fine della sua vita, scrive L’art de vaincre, breve raccolta di aforismi e massime, destinati ai suoi soldati, che si avvicina più ad un manuale di disciplina che a una riflessione strategica o anche tattica. Accanto alle caratteristiche specifiche nazionali, questa scuola russa si fonda largamente su dei teorici stranieri, soprattutto Turpin de Crissé e Lloyd.

 

La Turchia, definitivamente superata, cerca di capire l’arte militare dei cristiani. Ibrahim Effendi sostiene l’ammodernamento dell’esercito in un Traité de tactique tradotto in francese da un erudito ungherese (1769) e in tedesco. Ma si tratta di iniziative isolate che non portano a riforme profonde.

 

92. La vittoria del razionalismo

 

Quasi tutti questi autori sono militari. L’autore navale scozzese Clerk of Eldin, che è un civile, mercante per di più, è un’eccezione. Si assiste tuttavia ad un fenomeno nuovo. Non ci sono più soltanto capi militari con la pratica del comando, che s’ispirano alle proprie esperienze. Vediamo apparire giovani autori come Folard o Guibert in Francia, i seguaci dell’Aufklarung in Germania, che si basano sul ragionamento più che sull’esperienza. S’innesca così una dissociazione tra l’arte strategica e la scienza strategica, che darà a quest’ultima un carattere critico, talvolta giudicato sovversivo dalla gerarchia militare. Il conte di Schaumbourg-Lippe ritiene che “ il tenente non deve assolutamente leggere quello che riguarda la funzione dei generali. Sarebbe più nocivo che utile[152].

 

Il pensiero militare del XVIII° secolo, che partecipa ai fermenti dell’Illuminismo, è dominato dal razionalismo, dalla ricerca di leggi. Il metodo geometrico, di cui parleremo più avanti, è talmente di moda da portare all’invenzione di una disciplina molto particolare, la strataritmetica: “arte di disporre in battaglia un battaglione secondo una figura geometrica data e di trovare il numero d’uomini in essa contenuto mentre sono in battaglia”. Solo la Russia sfugge a questa infatuazione che sfocia nella mal posta questione della colonna e della linea. Al di là di questa sterile controversia, l’abbondanza della produzione, presente in tutti i paesi europei, testimonia la fine della strategia istintiva che caratterizzava il XVII° secolo, condannata dalla crescita degli effettivi e dal perfezionamento dell’arte della guerra: la nascente riflessione sulle “alte parti della guerra” suggerisce l’insufficienza delle sapienti manovre di Turenne e di Montecuccoli. La teoria abbozza il paradigma della battaglia prima che la Rivoluzione francese la imponga nella pratica[153].

 

Contro questo razionalismo d’ispirazione francese nascerà l’idealismo tedesco, la cui prima trasposizione militare sarà l’opera di Georg-Heinrich von Berenhorst: le sue Betrachtungen über die Kriegskunst (1777-1779), che avranno una grandissima influenza, assegnano al caso un ruolo decisivo in guerra. Bülow, poi Clausewitz, su piani diversi, si dedicheranno a ristabilire la legittimità della scienza strategica.

 

SEZIONE IV - IL PENSIERO STRATEGICO CONTEMPORANEO

 

93. La transizione 1789 – 1815

 

Dal 1789 al 1815 l’Europa è quasi sempre in guerra, salvo qualche piccola tregua. L’arte della guerra subisce una profonda trasformazione, ma i testimoni hanno altro da fare che teorizzarla. Lazare Carnot concepisce una nuova strategia, ma espone la teoria solo in alcune note di circostanza. Il suo unico libro importante ha un obiettivo più limitato: De la défense des places fortes (1809) ha numerose edizioni e traduzioni tedesca (di Ruhle von Lilienstern, 1811) e inglese (1811). La produzione francese è insignificante: l’Introduction à l’étude de l’art de la guerre di La Roche-Aymon (1802-1804; traduzione tedesca 1804) è limitata alla tattica; il Traité élémentaire d’art militaire et de fortification di Simon-François Gay de Vernon (1805; traduzioni portoghese – in Brasile – 1813, inglese – negli Stati Uniti – 1817) è un corso impartito al Politecnico, quasi interamente dedicato alle fortificazioni; l’abbondante opera di Reveroni de Saint-Cyr, dominata dal Essai sur le mécanisme de la guerre (1808), rimaneggiato più tardi con il titolo Statique de la guerre ou Principes de stratégie et de tactique (1826), è giustamente finito nell’oblio. In Italia, Ugo Foscolo, editore delle opere di Montecuccoli, abbozza un pensiero strategico che sarà conosciuto solo più tardi. In Prussia, il pensiero originato dall’Illuminismo militare è rilanciato dalla catastrofe del 1806 e dall’intenso fermento intellettuale dell’idealismo tedesco. Gerhard von Scharnhorst, che aveva analizzato molto presto le cause dei successi della guerra rivoluzionaria dei Francesi (Entwicklung der allgemeinen Ursachen des Glücks der Franzosen in den Revolutionskriegen, 1797), accompagna la sua opera riformatrice con uno studio sulla condotta della guerra, che non avrà il tempo di terminare. I suoi discepoli Rühle von Lilienstern (Aufsätze über Gegenstände und Ereignisse aus dem Gebiete des Kriegswesen, 1818) e von Lossau (Der Krieg, 1815; traduzione francese 1819) preannunciano in maniera frammentaria la filosofia della guerra di Clausewitz, affermando il primato della politica, l’importanza delle forze morali e la necessità della vittoria attraverso la battaglia. In Russia, Chatov abbozza una teoria della tattica (Obscij opyt taktiki, 1807). Questo periodo produce solo un esiguo numero di autori importanti: Jomini, di cui parleremo più avanti, von Bülow e l’arciduca Carlo, capofila di una scuola austriaca che è stata molto attiva[154].

 

L’approccio geometrico culmina con l’opera del prussiano Dietrich von Bülow, che pubblica, ad Amburgo, Geist des neuern Kriegs Systems (Lo spirito del sistema della guerra moderna) nel 1799, con cui intende proporre degli assiomi tratti dal ragionamento e dimostrati poi dall’esperienza. Rivendicherà, con notevole faccia tosta, la paternità intellettuale dei successi di Bonaparte nel suo secondo libro Lehrsätze des neuen Krieges, oder reine und angewandte Strategie (Teoremi della guerra moderna o strategia pura e applicata, 1805). Clausewitz lo criticherà duramente in uno dei cinque scritti che pubblicherà, anonimamente, mentre lui era ancora vivo, ma il Geist  sarà tradotto in francese (1801), in spagnolo (1806) e in inglese (1806) e avrà un grande successo in tutta Europa, ma non impedirà al suo autore di essere gettato in prigione, dove morirà nel 1807.

 

Il metodo si avverte ancora nell’arciduca Carlo, il maggior avversario di Napoleone, vittorioso nella campagna del 1796 in Germania, vinto onorevolmente nel 1809 a Wagram. E’ autore di numerose opere[155]: Grundsätze der Grosse Kriege (1808; traduzione italiana di Francesco Sponzilli 1844, francese Principes de la Grande Guerre del capitano de La Barre Duparcq, 1851), Grundsätze der Strategie erläutert durch die Darstellung des Feldzugs von 1796 in Deutschland (1813; traduzioni francese di Jomini: Principes de la Stratégie développés par la relation de la campagne de 1796 en Allemagne, 1818, italiana 1819, inglese, spagnola 1830), Geschichte des Feldzuges von 1799 in Deutschland und in der Schweiz (1819, traduzione francese Histoire de la campagne de 1799 en Allemagne et en Suisse, 1820), tutti dominati dalla stessa geometrica presentazione. Contemporaneamente, l’arciduca annette un’importanza determinante al terreno che impone degli obiettivi geografici. Ne consegue un approccio molto prudente, se non timoroso, dominato dalla ricerca dei punti decisivi.

 

Bülow e l’arciduca Carlo rappresentano la transizione tra l’Ancien Régime militare e la strategia moderna. Del primo essi conservano l’avversione per le battaglie. Bülow ripete: “I combattimenti, ai giorni nostri, non decidono più nulla....Non si da più battaglia...Bisogna aver commesso un errore per trovarsi nella necessità di dar battaglia[156]. Della seconda, definiscono il concetto di base ed i suoi primi trattati sistematici; per questo, hanno avuto un ruolo importante ed esercitato una grande influenza. Quella di von Bülow è stata relativamente breve, benché abbia avuto discepoli importanti fino agli anni 1830, specialmente il generale bavarese Xylander e il generale russo Okunieff. Quella dell’arciduca Carlo sarà più duratura. In Prussia il generale von Valentini ne trae ispirazione per il suo Die Lehre vom Kriege (1820). La sua influenza è assoluta in Austria fino alla disfatta di Sadowa nel 1866 ed è costantemente ripubblicato fino alla fine del XIX° secolo. In Italia, sarà molto letto fino agli anni 1850. Ma, nella seconda metà del secolo, sarà messo in ombra da Jomini e da Clausewitz al punto da essere conosciuto solo dagli storici.

 

SOTTOSEZIONE  I - I PADRI FONDATORI

 

94. Jomini

 

Il colonnello svizzero Henry-Antoine Jomini sintetizzerà l’eredità degli autori del XVIII° secolo con gli insegnamenti del modello napoleonico. Con lui inizia veramente la scienza strategica contemporanea[157].

Nato nel 1779, presta servizio nell’esercito francese ed è destinato nel 1805 allo Stato maggiore del maresciallo Ney. In quello stesso anno pubblica il suo primo libro, il Traité de grande tactique ou relation de la guerre de Sept Ans extraite de Tempelhof.... avec le recueil des maximes les plus importantes de l’histoire militaire. Come indica il titolo, si tratta di una traduzione, interamente riscritta ed arricchita di nuovi sviluppi, dell’opera del generale prussiano Tempelhof, apparsa nel 1783, che aveva  a sua volta tradotto e continuato la storia della guerra dei Sette Anni del generale Lloyd. Ma Jomini ne approfitta per introdurre dei paragoni con le operazioni delle campagne alle quali ha assistito. Si racconta che Napoleone avrebbe voluto far sequestrare l’opera, che rivelava troppo il suo sistema di guerra, e vi avrebbe invece rinunciato per non attirare troppo l’attenzione. Negli anni successivi, Jomini pubblica svariati volumi sulla guerra di Successione austriaca, poi sulle guerre della Rivoluzione e dell’Impero, fino ad ottenere un’opera di otto volumi, di cui gli ultimi appaiono nel 1816, dopo che egli era passato nel 1813 al servizio dello zar, amareggiato dalle vessazioni del maresciallo Berthier. Ricolmo di onori, precettore del futuro Alessandro II, ritornerà più tardi in Francia per morirvi nel 1869, a 90 anni[158].

 

Nella sua forma “definitiva”, a partire dal 1818, questa monumentale opera storica sarà divisa in due: da una parte il Traité des grandes opérations militaires dedicato alle guerre di Federico II, dall’altra la Histoire critique et militaire des guerres de la révolution in otto o quindici volumi secondo le edizioni! La serie si ferma al 1803 ma Jomini aveva pensato di aggiungervi sei volumi per arrivare fino al 1815; poi vi aveva rinunciato e si era accontentato di una Vie politique et militaire de Napoléon, racontée par lui-même in quattro volumi, completata da un Précis politique et militaire de la campagne de 1815. Il colonnello Reichel sottolinea a ragione che la focalizzazione sull’opera teorica di Jomini oscura la sua immensa produzione storica[159], ricca di sviluppi che sono ancora utilizzabili e che dimostrano quanto ogni campagna, ogni guerra, costituisca un caso particolare riducibile a dei principi generali solo al prezzo di una semplificazione spesso abusiva.

 

Questa grandiosa costruzione storica è stata superata da un’opera teorica, a dire il vero molto più accessibile, apparsa inizialmente con il titolo di Tableau analytique des principales combinaisons de la guerre nel 1830, e di cui si succedono quattro edizioni prima di cedere il posto al Précis de l’art de la guerre nel 1837-1838; quest’ultimo sarà ancora rimaneggiato nel 1855, poi arricchito di tre appendici successive, di cui l’ultima raccoglie gli insegnamenti della guerra di Boemia del 1866. E’ un’opera la cui preoccupazione dominante è di presentare delle definizioni e classificazioni il più precise possibile per poter dare un contenuto scientifico alla strategia, senza per altro cadere negli eccessi di von Bülow. Bruno Colson nota la contraddizione, o almeno il divario, tra le opere storiche di Jomini e il Précis: “Gli insegnamenti della guerra napoleonica vi sono parzialmente annegati in un insieme di considerazioni che possono far credere ad una volontà di tornare ad una strategia più prudente, dove l'obiettivo è l’occupazione di territori piuttosto che la distruzione dell’esercito nemico. Mentre le sue prime opere riflettevano la sua ammirazione per Napoleone, Jomini sembra aver finalmente raggiunto una concezione più territoriale della strategia”[160]. Bruno Colson vi vede una “preoccupazione di equilibrio e di giusto mezzo”; il generale Duffour, nel 1930, vi vedeva piuttosto “un’indicibile accozzaglia[161]. E’ vero che l’ossessione di essere esauriente e preciso porta Jomini a moltiplicare le nomenclature, al punto di sostituire talvolta la spiegazione alla classificazione: egli definisce dodici ordini di battaglia, cinque ordini di ritirata, cinque metodi per valutare le operazioni del nemico....Mentre Clausewitz vorrà fare la filosofia della strategia, Jomini ne stabilisce la tassonomia[162].

 

95. La gloria di Jomini

 

Jomini è attualmente piuttosto dimenticato, anche se sembra che questo lungo purgatorio stia per finire. Nel periodo tra le due guerre è stato vittima del declino del modello napoleonico; si è ritenuto che “se aveva un metodo, non aveva la dottrina...La composizione è faticosa e lo stile pesante, sprovvisto di chiarezza e di carattere...Laborioso sforzo d’analisi, di critica, di controllo, di raggruppamento, di sintesi[163]. Fatichiamo ad immaginare quanto sia stata grande la sua influenza nel XIX° secolo. Il Traité des grandes opérations militaires e la Histoire critique appaiono in russo dal 1809 al 1817, seguiti dalla Vie politique et militaire de Napoléon dal 1838 al 1844. In inglese, il Traité è riassunto da James Anthony Gilbert nel 1825, poi tradotto nel 1827, insieme alla Vie de Napoléon nel 1864 e il Précis de la campagne de 1815 nel 1853. Un’edizione bulgara della Vie de Napoléon apparirà nel 1895. Il Précis de l’art de la guerre è il più grande successo del secolo in letteratura militare: il suo “prototipo”, il Tableau analytique, è tradotto in spagnolo nel 1833, in polacco nel 1835, in russo nel 1836; la prima edizione del Précis è tradotta in tedesco nel 1839, in spagnolo nel 1840, in inglese nel 1854, in italiano nel 1855; la seconda edizione è tradotta in spagnolo nel 1857, in inglese nel 1862 (con cinque riedizioni), in italiano nel 1864, in tedesco nel 1891 (da Boguslawski), e ancora una volta in russo nel 1939[164]. In Gran Bretagna, Jomini influenza il generale Napier, autore di una celebre storia della guerra di Spagna, ed Edward-Bruce Hamley. In Italia, ispira numerosi autori, fino a Nicola Marselli, uno dei più importanti della seconda metà del XIX° secolo, che prima ne prende ispirazione poi se ne allontana criticando duramente il suo dottrinarismo”. In Germania, surclassa Clausewitz fino agli anni 1850: Willisen (Theorie des Grossen Krieges, 1840; traduzione spagnola 1850), il concorrente dell’autore del Vom Kriege, lo chiama in causa, come pure il colonnello Wilhelm Rüstow, prussiano passato al servizio della Svizzera dopo la rivoluzione del 1848[165], le cui opere (Die Feldherrnkunst des neuzehnten Jahrhunderts, 1867; traduzione francese L’Art militaire au XIXe siècle. Stratégie, histoire militaire, 1869; traduzione spagnola 1872. L’Art militaire au XIXe siècle. Études stratégiques, 3 vol. 1875-1880; traduzione spagnola 1877-1879; traduzione svedese 1882-1886) avranno una grande diffusione in tutta Europa. In Russia, Jomini influenza i maggiori pensatori militari del XIX° secolo, da Bogdanovich negli anni 1840 a Leer alla fine del secolo, e anche, in modo decisivo, i primi scrittori militari americani, William Duane e John Armstrong Jr., e dopo di essi, Dennis Hart Mahan, professore di tattica a West Point e i futuri capi della guerra di Secessione, McClellan e Henry Wager Halleck direttamente, Lee e Grant in modo più sottile. Alfred Thayer Mahan (figlio di Denis), l’apostolo della potenza marittima, trasferirà i suoi insegnamenti alla strategia marittima. Nessun autore ha contribuito maggiormente a formare la cultura strategica americana[166].

 

96. Clausewitz

 

Clausewitz è oggi il più conosciuto di tutti i pensatori militari. La sua opera maggiore Vom Kriege è paragonabile al Principe di Machiavelli: è un riferimento costante e inevitabile, una sorgente inesauribile di citazioni. Non è invece altrettanto sicuro che sia lo strategista più letto. Già negli anni 1860, Rüstow constatava che “Clausewitz è spesso citato, ma pochissimo letto, e abbiamo anche incontrato alcuni suoi ferventi ammiratori che non si erano accorti che la sua opera era incompleta e che non sapevano neppure che ci è rimasta solo la parte strategica del Vom Kriege”[167].

Carl von Clausewitz è nato nel 1780[168]. E’ stato arruolato in un reggimento all’età di 12 anni. Nel 1806, partecipa alla battaglia di Auerstaedt come aiutante di campo del principe Augusto di Prussia. Fatto prigioniero, ritorna dalla prigionia con un odio selvaggio per i Francesi. Partecipa in seguito all’opera di ricostruzione militare condotta dal suo amico Scharnhorst. Nel 1812, contrasta la politica di collaborazione del re, che ha accettato di partecipare alla campagna di Russia. Ottiene un congedo e serve nello Stato maggiore russo. Assiste alla battaglia di Borodino ma la sua ignoranza della lingua russa gli impedisce di avere un ruolo effettivo, salvo al momento dell’armistizio, deciso di testa propria dal comandante prussiano, il generale Yorck von Wartenburg. Ottiene con difficoltà di essere reintegrato nell’esercito prussiano e1 partecipa alle ultime campagne dell’Impero, specialmente a quella del 1815. Il suo ruolo dopo la battaglia di Waterloo è discusso. Dirige in seguito la Kriegsakademie dal 1818 al 1830. Nel 1831, in occasione di una minaccia di guerra con la Francia, è chiamato ad un incarico di Stato maggiore durante il quale muore di colera, all’età di 51 anni.

 

Clausewitz è quindi un uomo con una lunga esperienza di vita militare e di guerra, ma non ha mai avuto grandi comandi. Ha studiato molto, fin dalla giovinezza. Uno dei suoi primi scritti è una tagliente critica del sistema di guerra di von Bülow. Dopo la disfatta del 1806, comincia a pensare alla grande opera a cui dedicherà ogni sua energia dopo il 1815, quando vedrà bloccata la sua carriera militare. Scrive un gran numero di lavori storici sulle campagne di Turenne, di Federico II, della Rivoluzione e dell’Impero. Partendo da questa base storica, che gli permette di mettere alla prova le sue idee, si lancia nella redazione del suo opus magnum. Questo avrebbe dovuto comprendere tre libri: un trattato della grande guerra, cioè della strategia; un trattato della piccola guerra, ispirato dagli esempi della Spagna e del Tirolo e dai progetti di leva in massa di una riserva territoriale (Landwehr) destinata a non dare tregua ai Francesi; un trattato di tattica.

A causa della sua morte prematura, questo immenso programma sarà realizzato solo in parte. Del trattato di tattica, non resta che un abbozzo che finora non ha suscitato molto interesse[169]. Il trattato della piccola guerra manca del tutto: dobbiamo accontentarci del corso tenuto alla Kriegsakademie nel 1810, di annotazioni sparse nella corrispondenza e negli studi di campagne, specialmente quella del 1812, e di un capitolo del VI libro del Vom Kriege. Il trattato sulla grande guerra è scritto quasi per intero, ma il suo procedere è molto disuguale secondo i libri che lo compongono: Clausewitz, nella nota che ha lasciato all’inizio del manoscritto, indica molto chiaramente che solo il primo capitolo del primo libro può essere considerato come concluso e capace di dare un’idea di quello che sarebbe stata l’intera opera, una volta terminata. Se i primi sei libri sono più o meno coerenti (ma scritti in epoche diverse, il che spiega le contraddizioni, di cui molte sono solo apparenti), gli ultimi due, il VII sull’attacco e l’VIII sui piani di guerra, sono solo abbozzati. Secondo una nota del 10 luglio 1827, Clausewitz aveva appena raggiunto una nuova tappa del suo pensiero, fondata sulla guerra come seguito della politica con altri mezzi e sulla distinzione tra le due forme di guerra. L’VIII libro indica le grandi linee di quella che avrebbe dovuto costituire una revisione dell’insieme dell’opera. Paradossalmente, questo stato di incompiutezza ha contribuito alla gloria postuma di Clausewitz, lasciando i commentatori liberi di trarre le conclusioni più svariate. La lettura dogmatica, militarista, tenderà a prevalere sull’analisi raffinata di una teoria molto complessa.

 

97. Clausewitziani e neoclausewitziani

 

Questa gloria postuma non è stata però spontanea. Clausewitz non aveva praticamente pubblicato nulla da vivo, sia perché le sue idee non erano state perfezionate, sia perché temeva che, pubblicandole, si rinforzasse la sua immagine di militare intellettuale. Prima di partire per la sua ultima campagna, ha accuratamente sistemato dentro un baule i suoi manoscritti, che sua moglie ha provveduto a pubblicare in dieci volumi dal 1832 al 1837. L’accoglienza è stata piuttosto indifferente. La tiratura di 1500 esemplari non era ancora esaurita dopo quindici anni. Clausewitz non poteva rivaleggiare con il successo di Jomini e persino, nel suo paese, con la moda, breve ma grande, di Willisen. In Francia, fino agli anni 1880, pochi lo conosceranno e, spesso, solo attraverso il riassunto pubblicato nel 1845 in Le Spectateur militaire da un ufficiale d’origine polacca, Louis de Bystrzonowski, e i Commentaires sur le traité de la guerre de Clausewitz del capitano de la Barre-Duparcq (1853), anche se un ufficiale belga, il maggiore Neuens, ha tradotto Vom Kriege fin dal 1849. Come dirà più tardi il tenente colonnello Grouard, “un esercito che aveva a disposizione i Commentari di Napoleone, le opere di Jomini e dell’arciduca Carlo, le Memorie di Gouvion-Saint-Cyr e di Marmont, non aveva bisogno di leggere le opere di questo generale prussiano per imparare l’arte della guerra”[170]. L’unico paese che manifesta un interesse immediato è l’Olanda, dove E. H. Brouwer traduce Vom Kriege e le campagne del 1796, 1799, 1812, 1813, 1814 e 1815 (1839-1843).

 

Solo all’inizio degli anni 1870 la sua reputazione comincia ad affermarsi, più per ragioni nazionaliste che puramente intellettuali. La Prussia, vittoriosa a Sadowa (1866) e a Sédan (1870), ha cercato una legittimazione teorica della sua superiorità sul terreno e non poteva accontentarsi di Jomini, che era svizzero e aveva soprattutto teorizzato gli insegnamenti di Napoleone criticando, talora duramente, Federico II. Clausewitz era un vero prussiano e, in alternativa a colui che chiamava il “dio della guerra” detestandolo (Napoleone), offriva come modello il grande Federico, accontentando così i lettori tedeschi. Moltke, che univa ai suoi talenti di stratega una reale levatura intellettuale, era un grande lettore di Clausewitz e gli garantì la gloria.

 

Si è quindi assistito, alla fine del XIX° secolo, ad una nuova manifestazione della sindrome di Polibio: tutti i paesi si sono rivolti verso il modello tedesco, in quel momento alle stelle, e hanno iniziato a studiare il nuovo maestro della teoria: anche il Giappone ha tradotto Vom Kriege (1903-1908). Ciò nonostante, questa voga, contrariamente a quanto talvolta si dice, è stata piuttosto disuguale.

 

Anche in Germania, Clausewitz diviene il riferimento canonico; la prefazione del Vom Kriege è affidata al grande capo del momento, Schlieffen (5a edizione, 1905), poi, dopo il 1918, a von Seeckt. Ma la mistica di Clausewitz è accompagnata dall’incomprensione quasi generale di un pensiero che contrasta con le preoccupazioni della casta degli ufficiali. Il primato della politica, la superiorità della difensiva sono o respinte o semplicemente ignorate. I lettori cercano nel Vom Kriege[171] argomenti che appoggino le loro idee sull’offensiva e la battaglia decisiva[172]. La rilettura di Hans Delbrück, che si fonda sulla nota del 1827 per porre la distinzione tra strategia di annientamento e strategia d’usura, scatena una furiosa polemica, “la disputa degli strateghi”[173] (infra n°178).

 

La Francia[174], vittima della Germania e avversaria designata in caso di una nuova guerra, ha manifestato il maggior interesse, dopo la sconfitta del 1870/71. Dal 1880 al 1905, assistiamo ad una vera moda clausewitziana: certamente lanciata dalle conferenze del comandante Cardot all’École supérieure de guerre nel 1884 e dallo studio del capitano Georges Gilbert nel 1887[175]. Vom Kriege è oggetto di una nuova traduzione in due volte (spesso imperfetta) del colonnello de Vatry, l’École supérieure de guerre fa tradurre la maggior parte delle sue campagne. Autori francesi e tedeschi avviano una polemica sull’interpretazione di Napoleone di Clausewitz, i primi affermando che il maestro prussiano non l’aveva analizzato correttamente, i secondi rallegrandosi che “le fonti della nostra forza continuino ad essere vietate ai Francesi[176]. L’interesse comincia a declinare già dagli anni 1905-1910 per poi quasi svanire.

 

Il mondo anglosassone si è dimostrato più reticente[177]. Se alcuni estratti del Vom Kriege sono stati tradotti fin dal 1834[178] in una rivista inglese e ripresi in una rivista americana l’anno seguente, non comprendono che una ventina di pagine. L’opera completa sarà tradotta, con un certo numero di errori, dal colonnello Graham, solo nel 1874, e rivista da F. N. Maude nel 1908. La sua forma filosofica contrasta con il pragmatismo britannico. Corbett, che trasferisce alla strategia marittima l’approccio di Clausewitz, è una eccezione. Gli stessi Fuller e Liddell Hart, che pur l’hanno letto, non si sono ispirati a Vom Kriege per gli elementi delle loro teorie[179]. Negli Stati Uniti, l’influenza di Jomini è stata totale fino alla seconda metà del XX° secolo, oscurando completamente il suo concorrente prussiano. Raymond Aron notava, nel 1976, che tra i grandi nomi della comunità strategica americana, solo Bernard Brodie sembrava aver studiato in profondità l’opera di Clausewitz[180].

 

In Italia, Clausewitz è studiato molto poco nel XIX° secolo, salvo, eccezione importante, da Nicola Marselli. La sua scoperta inizia con il saggio di Emilio Canevari, Clausewitz e la guerra odierna (1930). Una selezione di pagine scelte è pubblicata nello stesso anno, in attesa di una traduzione integrale del Vom Kriege, da parte di Canevari e del generale Bollati, che uscirà solo nel 1942. Il ricchissimo pensiero militare italiano si è maggiormente ispirato a Jomini ed agli autori francesi (senza dimenticare le proprie tradizioni) che al maestro prussiano.

 

La Spagna si mostra totalmente refrattaria al XIX° secolo. Il traduttore di Willisen sembra riflettere un sentimento diffuso quando tratta Clausewitz da “insolvente”. Non è citato quasi mai. Il colonnello Bañus y Comas (Estrategia,1887) è uno dei rari autori ad averlo studiato, ma solo per contrapporlo a Lewal, archetipo dell’approccio positivista allora dominante. Bisogna aspettare il 1908 per l’apparizione della prima traduzione, parziale (i primi tre libri) del Vom Kriege. La traduzione integrale in spagnolo si avrà subito dopo la Seconda Guerra mondiale, in Perù (1948). La Spagna scoprirà veramente l’opera di Clausewitz solo negli anni 1970. Possiamo dire altrettanto del mondo portoghese.

 

L’influenza di Clausewitz è stata più grande in Russia, dove si dispone di una notevole monografia[181] Vi è introdotto fin dal 1836, specialmente dai generali Medem e Bogdanovich, professori all’Accademia militare di San Pietroburgo, ma dovrà a lungo sopportare la concorrenza di Jomini. La prima edizione russa del Vom Kriege si avrà solo nel 1902, probabilmente causata dal riassunto (molto orientato verso l’aspetto operativo) effettuato dal generale Dragomirov negli anni 1880 (traduzione tedesca, francese 1889). La reale scoperta si avrà dopo la rivoluzione bolscevica. Lenin l’aveva letto e annotato minuziosamente. Negli anni 1930, la voga di Clausewitz raggiunge una risonanza strabiliante: O Vojne (Della guerra) è oggetto di una nuova traduzione nel 1932-1933, ripubblicata nel 1934, 1936, 1937, 1941, e completata da edizioni bielorussa nel 1934 e ucraina nel 1936; anche parecchie campagne (1796, 1799, 1606, 1812) sono tradotte tra il 1937 e il 1939. Il generale Svechin prende spunto da lui nella sua riabilitazione della difensiva e gli dedica un saggio (Klausevits,1935). Dopo la Grande Guerra patriottica il capovolgimento è brutale. Stalin lancia un attacco virulento contro “gl’ideologi militari tedeschi”[182]. La sua morte permetterà di tornare progressivamente ad una sua migliore valutazione. Ma passeranno quasi cinquanta anni tra la quinta (1941) e la sesta (1990) edizione di O Vojne.

 

In generale, all’infatuazione prevalente degli anni dal 1870 al 1914 succede un lungo periodo di stasi: tra le due guerre ci sono pochissime traduzioni o edizioni al di fuori della Russia: traduzioni finlandese parziale (1924), polacca (1928), rumena (1932); nessuna riedizione delle traduzioni inglese o francese. Clausewitz è accusato spesso di aver favorito i massacri della guerra mondiale: Liddell Hart si lancia in un’implacabile requisitoria[183]. Dopo un breve ritorno d’interesse provocato dalla Seconda Guerra mondiale (una nuova edizione russa, 1941; una traduzione svedese parziale, 1942; un’edizione americana, 1943), l’indifferenza prevale fino agli anni ’70, con solo nuove traduzioni francese (di Denise Naville, 1955), giapponese (1965), ceca (1959), greca (1960), ungherese (1961-1962) e un’edizione americana parziale, con prefazione di Anatol Rapoport (1960).

 

Dopo gli anni ’70, al contrario, dilagano le traduzioni: spagnole (1972, 1978 - cubana - e 1984), norvegese (1972), portoghese (1976), nuova inglese (1976), israeliana (1977), cinese (1980, 1985), nuova rumena (1982), nuova olandese (1982), danese (parziale, 1986), svedese (1991), nuova greca (1991), indonesiana (?), araba parziale (1998), finlandese parziale (1998, tre volte più completa di quella del 1924). Le Forze Armate americane si gettano sulla traduzione di Paret e Howard, che diventano una lettura obbligatoria al Naval War College nel 1976, all’Air University nel 1978, al Army War College nel 1981[184].

 

Attualmente gli studi su Clausewitz possono ormai fondarsi, malgrado la sorprendente mancanza di una edizione completa delle opere, su basi solide, con l’edizione della quasi totalità degli scritti del maestro[185], di parecchie traduzioni, utili nonostante i difetti[186], e di parecchi saggi e commenti, di cui il più importante è quello di Raymond Aron (Penser la guerre. Clausewitz, 1976, traduzioni inglese, tedesca, spagnola, portoghese, greca e giapponese). La condanna della dottrina ufficiale del militarismo tedesco è accompagnata da una rilettura del teorico[187], da cui scopriamo che si è interessato ad armare il popolo ed alla guerriglia e che il suo pensiero è infinitamente più complesso di quello che hanno detto gli autori della fine del XIX° secolo; ci si può interrogare sul significato che avrebbe avuto un rifacimento completo del Vom Kriege... Le resistenze, poco numerose, mostrano un’incomprensione della ricchezza teorica del maestro prussiano: la più degna di nota viene da una scuola israeliana diretta da Azar Gat (The Developement of Military Thought, 1992) e da Martin Van Creveld (The Transformation of War, 1991[188]; traduzione francese 1998), così come dal britannico John Keegan, che rende attuale la critica di Liddel Hart e identifica Clausewitz con Hitler (A History of Warfare, 1993, traduzione francese 1996). Questa moda neo-clausewitziana è logicamente accompagnata dal declino del successo di Jomini.

 

SOTTOSEZIONE II – LA PRIMA PARTE DEL XIX° SECOLO

 

98. Una copiosa produzione secondaria

 

Jomini, Clausewitz e, in via subordinata, l’arciduca Carlo, dominano la scienza strategica del loro tempo a tal punto che tutti coloro che hanno avuto la sventura di scrivere nello stesso periodo sono immediatamente squalificati, non hanno neppure il diritto di esistere. Nel migliore dei casi, compaiono di sfuggita nelle opere di storia come degli autori di secondaria importanza e senza avvenire. Senza avvenire sul piano teorico, forse. Senza importanza, è un’altra questione. Questi autori sono stati molto letti ed alcuni di essi hanno potuto esercitare una grande influenza. Grazie allo sforzo congiunto di una moltitudine di pensatori oggi dimenticati è precisato il vocabolario, hanno preso forma i concetti che qualche soggetto elitario, formatosi individualmente, trasformerà progressivamente in elaborate dottrine.

Come per il XVIII° secolo, il censimento sistematico di tutta questa letteratura è ancora da fare. Jomini segnala brevemente che “la caduta di Napoleone, rendendo molti ufficiali studiosi in tempo di pace, divenne il segnale dell’apparizione di una folla di scritti militari di tutti i generi[189]. Più spesso, si tratta di lavori limitati alla tattica. Quelli che si elevano al livello della strategia uniscono, generalmente, l’influenza dell’arciduca Carlo a quella di Jomini.

 

99. La scuola tedesca

 

Jomini cita il bavarese Xylander, i wurtemburghesi Theobald e Müller, i prussiani Valentini, Wagner, Decker e Hoyer, tutti generali. Curiosamente, non cita i due grandi predecessori di Clausewitz, i generali von Lossau e Rühle von Lilienstern, già citati (supra n° 92), senza dubbio rifiutati per la loro “inclinazione dilettantesca per la filosofia (che) li condusse sia verso un eccessivo scetticismo, sia verso aberrazioni speculative senza valore né teorico né pratico[190]. Toccherà a Clausewitz liberare il pensiero tedesco dal suo involucro speculativo. La sua lezione sarà assimilata molto lentamente, come testimonia la Theorie des grossen Krieges (1840; traduzione spagnola 1850) del generale Willisen (austriaco al servizio della Prussia), il cui fallimento teorico sarà seguito da una disfatta clamorosa sul campo di battaglia contro le milizie danesi.

 

La tradizione austriaca, ingiustamente trascurata, prosegue con una figura fuori del comune, il maresciallo Radetzki, proconsole nel Lombardo-Veneto, autore di parecchi scritti che rimarranno quasi tutti inediti. Si assiste ad uno sforzo di rinnovamento dopo il disastro del 1866, con il barone von Gallina, autore di notevoli lavori sulla condotta delle grandi unità, che susciteranno all’estero un vivo interesse.

 

100. La scuola italiana

 

L’Italia è stata oggetto di una esauriente monografia[191] che ha rivelato un’abbondante produzione intorno a due poli, piemontese e napoletano. Il primo è il più produttivo, con Joseph Pougni-Guillet de Monthoux (Eléments de stratégie et de tactique, 1832), Paul Racchia (Précis analytique sur l’art de la guerre, 1832), Enrico Giustiniani (Essai sur la tactique des trois armes isolées et réunies, 1848; Nozioni elementari di strategia, 1851); la riflessione più politica di Giuseppe Cridis (Della Politica militare,1824) e soprattutto Luigi Blanch (Della Scienza militare considerata nei suoi rapporti colle altre scienze e col sistema, 1832; traduzione spagnola 1851), l’autore italiano più importante della prima metà del secolo, ma più un filosofo della guerra che uno strategista. La scuola napoletana è rappresentata da Donato Ricci (La Scienza della guerra, 1824), Francesco Sponzilli (Sunto di alquante lezioni di strategia, 1837) e Girolamo Ulloa (Sunto della tattica delle tre Armi, 1838)... a cui bisogna aggiungere numerosi autori minori.

 

Accanto a questi pensatori, che Ferruccio Botti qualifica come “scolastici”, cioè vicini agli ambienti ufficiali, ci sono dei teorici “laici”, intellettuali indipendenti dai toni più critici: la scuola lombarda del Politecnico, i cui principali esponenti sono Andrea Zambelli e Carlo Cattaneo, e il piemontese Cesare Cantù (Sulla guerra, 1846), che s’interessano, come Blanch, più alla guerra come fenomeno sociale che alla strategia propriamente detta. Altri autori si focalizzano sul problema immediato, la guerra con l’Austria, in vista della realizzazione dell’unità italiana: Cesare Balbo e Vincenzo Gioberti.

 

101. La decadenza spagnola

 

Dopo la “guerra d’indipendenza” contro i Francesi, la Spagna non riesce a ritrovare un equilibrio. Il XIX° secolo vedrà un alternarsi di guerre civili e di pronunciamenti, fino alla logica conclusione della disfatta con gli Stati Uniti nella guerra del 1898. Il pensiero militare riflette questo avvilimento. Certamente ci sono ancora autori numerosi[192] ma di secondaria importanza nella storia della scienza strategica, comunque non trascurabili. Il brigadiere Juan Sanchez Cisneros introduce in Spagna lo studio della strategia (Ideas sueltas sobre la Ciencia militar, 1814; Principios elementales de estrategia, 1817), che trova resistenza: si preferisce restare al vecchio concetto di Milicia, quello di strategia non compare nell’opera più importante di Evaristo San Miguel, Elementos del Arte de la Guerra (1826), la cui prospettiva è tuttavia molto aperta. Rientrato dall’esilio, San Miguel lancia la Revista militar ( 1838), che avrà un’esistenza caotica, con numerose interruzioni di pubblicazione. Bisogna aspettare la metà del secolo per ritrovare opere importanti di tattica, come il Proyecto de táctica de las tres armas (1852) del marchese del Duero, e di strategia, con le Nociones del Arte militar (1863) del comandante Francisco Villamartin, la cui importanza sarà riconosciuta solo dopo la sua morte prematura, a 39 anni, nel 1872[193].

 

102. La sconosciuta scuola portoghese

 

La scuola portoghese è molto discreta. Un solo autore sembra aver avuto una certa reputazione, Luis da Camara Leme (Elementos da Arte Militar, 1864). Egli presenta il suo libro come un primo tentativo di sintesi[194], il che ci fa pensare che non ci siano stati predecessori. Bisognerebbe sapere cosa contengono le Noçoes geraes da guerra (verso il 1850), di Antonio José da Cunha Salgado o le Meditaçoes militares (1871) di José da Cunha Vianna. Una Revista Militar appare senza interruzione dal 1849, ma non si apre alla strategia che molto timidamente e solo alla fine del secolo.

 

103. La scuola russa

 

La scuola russa continua ad oscillare tra una via strettamente nazionalista e i prestiti stranieri[195]. Il generale di artiglieria Nicolas Medem, in Obozrenie isvestnjchich pravil i sistem strategii (Saggio sulle regole e i sistemi conosciuti di strategia, 1836) analizza gli scritti di Lloyd, di Bülow, di Jomini e di Clausewitz; poi, in Taktika (1837), annuncia il ritorno a Suvorov che si svilupperà negli ultimi decenni del secolo Il colonnello M. I. Bogdanovich dedica i suoi Zapiski strategii (Saggi di strategia, 1847) a Napoleone, all’arciduca Carlo e a Jomini. Il generale Astafev analizza “l’arte della guerra moderna” dopo la guerra di Crimea (O sovremennom voennom iskusstve, 2 vol., 1856-1861); il suo libro si colloca nella corrente riformatrice suscitata dalla disfatta e diretta da Dimitri Miliutine, noto storico militare e ministro della Guerra dal 1861 al 1881. Il colonnello, poi generale, Okunieff pubblica numerosi lavori, tra cui una Mémoire sur les principes de la stratégie (1831) e un commento sotto il profilo strategico della campagna del 1812 (traduzioni francese 1841, tedesca 1876); alla fine del secolo Lewal lo pone allo stesso livello di Jomini e Clausewitz, giudizio forse un po’ eccessivo.

 

104. L’assenza britannica

 

La produzione britannica rimane modesta[196]. James Anthony Gilbert, discepolo di Jomini, diffonde le idee del maestro (Exposition of Principal Military Combinations, 1852). George Twemlow tenta di spiegare i cambiamenti in corso (Considerations of Tactics and Strategy, 2 ed. 1855), con un successo non maggiore della sua confutazione delle teorie di Darwin o della dimostrazione della storicità del Diluvio Universale. L’autore più degno di nota è sir Edward Bruce Hamley, la cui opera principale The Operations of War avrà otto edizioni dal 1866 al 1914 (le ultime tre, 1907, 1909 e 1914, revisionate dal generale Kiggell). Grande fu la sua fama negli Stati Uniti e in Spagna (traduzione spagnola 1876). In Francia è invece del tutto sconosciuto.

 

105. La scuola francese

 

La produzione francese è dominata da L’Esprit des institutions militaires del maresciallo Marmont, apparso nel 1845 e continuamente ripubblicato fino al 1865. Oggi dimenticato, è stato molto letto, poiché esponeva la teoria generale dell’arte militare, l’organizzazione e la cura degli eserciti, le diverse operazioni di guerra (marce, battaglie, ritirate, difesa delle piazzeforti...) e infine la filosofia della guerra (costumi dei soldati, ritratto del generale) in modo chiaro e vivace. Tra gli altri marescialli dell’Impero, Gouvion Saint-Cyr pubblicò delle Mémoires pour servir à l’histoire militaire sous le Directoire, le Consulat et l’Empire[197],da cui furono tratte delle Maximes de guerre che ebbero grande diffusione. Il generale Rogniat pubblicò delle Considérations sur l’art de la guerre (1816; traduzione tedesca 1823, spagnola 1826) che suggerivano un sistema di legioni ad imitazione degli Antichi e criticavano Napoleone. L’Imperatore ne venne a conoscenza e rispose con delle Observations[198] che gli studiosi di strategia oggi trascurano e gli storici considerano a torto con sufficienza[199], poiché troviamo, nei numerosi sommari delle campagne dettate a San’Elena, massime e commenti di grande profondità[200]. Ma bisognerà attendere il Secondo Impero perché l’insieme di questi testi siano pubblicati; saranno superati dall’edizione della Correspondance, che diventerà uno dei riferimenti preferiti degli autori della Belle Époque.

Gli anni 1815-1870 sono, per la Francia, un periodo d’instabilità politica. Il dibattito sull’esercito non può che rispecchiare la situazione del paese. A destra alcuni invocano un ritorno alla tradizione interrotta nel 1789; è il senso delle Réflexions militaires (1818) del principe Louis de Hohenlohe Bartenstein, della Philosophie de la guerre (1827, 3a ed. aumentata di due capitoli 1838; traduzione spagnola 1847) del generale di Chambray, del Essai sur l’organisation défensive militaire de la France (1835) del generale Guillaume de Vaudroncourt. Essi suscitano l’opposizione dei liberali, i cui principali rappresentanti sono i generali Lamarque e Foy. Il colonnello Marbot (De la nécessité d’augmenter les forces militaires de la France, 1825), il generale Morand (De l’Armée selon la Charte, 1829), il tenente colonnello Paixhans (Force et faiblesse militaires de la France, 1830) propongono delle riforme militari che non avranno alcun seguito. Ma si tratta di un dibattito soprattutto politico che non riguarda affatto la strategia.

 

Esistono anche degli studi più tecnici, per esempio il Traité de tactique del marchese de Ternay (1832)[201], i Cours d’art et d’histoire militaire di Jacquinot de Presle (1829; traduzione spagnola 1833) e di Rocquancourt (1831; traduzione spagnola 1849) o i lavori storici dei generali Carrion-Nisas e Pelet; il maresciallo Bugeaud trae dalla sua esperienza degli Aperçus sur quelques détails de la guerre, che avranno un grandissimo successo (24 edizioni fino al 1873; traduzione spagnola 1874). Ma, in tutte queste opere, non si tratta che di tattica. Stessa cosa per gli Etudes sur le combat del colonnello Charles Ardant du Picq, l’opera militare francese più importante del XIX° secolo, che sarà conosciuta solo dopo la morte del suo autore, ucciso alla testa del suo reggimento nel 1870[202].

 

All’inizio del XX° secolo, il comandante Mordacq ha dato un giudizio molto severo su questo periodo: “Dopo il maresciallo Marmont fino alla guerra del 1870, cercheremmo invano, nelle opere militari francesi apparse in tale periodo, un libro che abbia per oggetto la condotta degli eserciti che sia veramente interessante, veramente originale”. L’epoca sarebbe stata dominata dalla “scuola degli Inneisti - scuola originata sfortunatamente dalle guerre d’Africa, di Crimea e d’Italia e che aveva dalla sua parte l’avallo della vittoria. Perché lavorare, perché cercare nell’accozzaglia dei libri una scienza inutile, quando bastava avanzare per ottenere il successo?[203]. Questa immagine, largamente accettata, è stata recentemente corretta, in particolare da un universitario britannico, che ha sottolineato l’abbondanza della produzione libraria, la diffusione della stampa militare (il Journal des sciences militaires, creato nel 1825, Le Spectateur militaire l’anno seguente, il Journal de l’Armée, pubblicato nel 1833, Le Moniteur de l’Armée, creato dal ministero nel 1840 per contrapporsi al precedente, raggiungono parecchie migliaia di copie) e la preoccupazione di rinnovarsi....[204]. Il periodo non è un deserto intellettuale. Ma è anche vero che questi dibattiti si sono piuttosto riferiti all’organizzazione dell’esercito e accessoriamente alla tattica, per cui non sono sfociati nella formazione di una dottrina strategica francese: ci si affidava soprattutto alla vitalità della massa degli ufficiali e della truppa e al colpo d’occhio del generale. La gran parte degli ufficiali resta indifferente a questa riflessione. Sotto il Secondo Impero la sclerosi diviene manifesta: l’anti-intellettualismo è così forte che una destinazione come professore a Saint Cyr diviene penalizzante per la carriera di un ufficiale[205]. La disfatta del 1870 punirà duramente questa ricaduta negli antichi errori e mostrerà la necessità di una solida dottrina.

 

106. Un movimento policentrico

 

Gli autori francesi conservano una grande influenza. Jomini è letto prima di tutto in francese, Marmont è tradotto in inglese (1862 per l’edizione americana e 1865 per quella britannica), in italiano (1866, 1939!) e in spagnolo (1845); costituisce il principale riferimento degli italiani Carlo De Cristoforis e Nicola Marselli e dello spagnolo Francisco Villamartin. Gouvion Saint-Cyr è tradotto in tedesco (1823). Bugeaud è uno degli autori preferiti del russo Dragomirov. La loro influenza è ancora abbastanza forte da provocare una reazione nazionalista in Italia: gli anni 1815-1845 sono segnati da una violenta controversia tra i “puristi”, che sostengono un vocabolario privo di influenze straniere, e gli “antipuristi”[206]. Ma, se il francese resta la lingua internazionale (ciò è molto evidente in Italia e in Spagna, dove gli autori tedeschi, in particolare Clausewitz, sono conosciuti nella traduzione francese, e dove inoltre molti autori continuano a pubblicare i loro saggi in francese), la Francia non esercita più quell’egemonia intellettuale caratteristica del XVIII° secolo. La Germania si è affrancata, senza per altro essere divenuta un polo d’attrazione: Willisen è tradotto solo in spagnolo, Clausewitz ha un uditorio ancora limitato. Il pensiero strategico non si diffonde più partendo da una unica fonte.

 

SOTTOSEZIONE III - LA BELLE ĒPOQUE

107. L’istituzionalizzazione della scienza strategica

 

Dopo il 1870, il pensiero strategico cambia dimensione, sotto tutti i punti di vista. Si generalizza e si istituzionalizza. Mentre prima riguardava un’infima minoranza di ufficiali, salvo in Germania, ed era estraneo alla grande maggioranza, esso diviene ormai un elemento essenziale della formazione degli ufficiali superiori, che devono permearsi della dottrina in vigore. Dopo il 1870, le scuole di guerra e le biblioteche di reggimento si diffondono in tutto il paese, favorendo la diffusione del pensiero e la nascita di un pubblico interessato. Logica conseguenza il moltiplicarsi delle pubblicazioni, sia di libri che di riviste[207]. Mentre queste ultime non avevano trattato altro che argomenti d’amministrazione o di storia, ora si aprono alla geografia militare, alla tattica, lentamente alla strategia.

La principale caratteristica di questa letteratura è di mettere da parte la dimensione superiore, che oggi chiameremmo politico-strategica, per rivolgersi prima di tutto verso gli aspetti tattici. Dopo un lungo periodo di lenti progressi, le trasformazioni tecniche si accelerano e la tattica entra in un periodo di continuo rinnovamento: bisogna definire le nuove regole, adatte ai nuovi materiali (in Francia, la fanteria passa dal fucile mod. 1866 - lo Chassepot - al mod. 1874 - il Gras - poi al mod. 1886 - il Lebel; l’artiglieria adotta i materiali di Bange, poi il celebre “75” mod. 1897 e il “155” -Rimailho-...Mentre i regolamenti della fanteria francese del 1831, del 1862 e del 1869 conservano l’impronta del loro illustre predecessore del 1791, i regolamenti che si susseguono dopo la guerra con la Germania (1875, 1894, 1901-1902, 1913) rivelano dei forti tentennamenti tra due tendenze, quella che raccomanda un’offensiva basata sullo scontro violento, secondo il modello napoleonico, e quella che sfrutta le nuove potenzialità del fuoco, che condannano l’assalto in massa[208]. Questo dibattito tattico è prioritario. Constatiamo un analogo fenomeno in campo navale, dove i marinai devono prima di tutto impadronirsi dei nuovi strumenti disponibili: il vapore, le mine, i siluri, il sommergibile..., prima di cercare di definire una dottrina generale d’uso. Esiste un’altra spiegazione, secondaria ma non del tutto trascurabile: l’esercito afferma la sua specificità per proteggersi dalle pressioni del potere civile; in compenso si disinteressa della politica.

 

La Germania è d’ora in avanti il paese guida, osservato e imitato dal mondo intero. Moltke il Vecchio, che ha scritto molto ma in modo dispersivo, senza lasciare una sintesi didattica[209], è oggetto di innumerevoli chiose, da parte del generale Julius von Verdy di Vernois, suo antico capo di Stato maggiore, divenuto ministro della Guerra (le sue numerose opere sono interamente dedicate alla formazione pratica degli ufficiali, partendo dallo studio delle guerre del 1866 e 1870-1871 o da situazioni immaginarie); dal colonnello Wilhelm von Blume (Die Strategie,1882; traduzione francese 1884, svedese 1886-1887, russa 1889); dal principe Kraft von Hohenlohe-Ingelfingen, volgarizzatore della nuova ortodossia in opere presentate sotto forma di lettere (Stategische Briefe, 1887; traduzione francese 1895, inglese 1897; Lettere sulla fanteria, 1884, traduzione inglese 1892, francese 1895; Lettere sulla cavalleria, 1884; traduzione francese, 1885, inglese 1889; Lettere sull’artiglieria, 1885; traduzione francese 1886, inglese 1890) e dal generale Sigismund von Schlichting[210] (Taktische und strategische Grundsätze der Gegenwart, 3 vol. 1897-1899; traduzione francese 1897-1898, russa 1910; Moltke Vermächtnis, 1901; traduzione francese 1903).

 

Nel caso francese, si aggiunge una ragione specifica: il livello di formazione degli ufficiali era talmente basso alla fine del Secondo Impero che la Scuola Superiore di Guerra, fin dalla sua creazione, deve abbandonare gli studi strategici per sviluppare una dottrina tattica: è l’opera del generale Lewal, organizzatore della Scuola, che definisce il programma da seguire fin dal giorno seguente alla disfatta (La Réforme de l’armée, 1871) e lo sviluppa in una serie di Études de guerre (1873, 1875, 1879, 1881-1883, 1889-1890, 1893, 1895) che passano metodicamente in rassegna tutte le branche della tattica, in un’ottica rigorosamente razionale (Introduction à la tactique positive, 1878; traduzione spagnola 1883). La sua influenza sarà profonda e duratura, non solo in Francia, ma anche in Spagna, in Portogallo[211], in Italia e anche in Russia. Il suo insegnamento sarà prolungato da quelli del colonnello Derrécagaix (La Guerre moderne, 1885; traduzione inglese 1888), del colonnello Maillard (Eléments de la guerre, 1991) e del generale Hubert Bonnal (L’Esprit de la guerre moderne, 1902-1904).

Solo dopo la nascita di questa tattica preliminare, alla fine del secolo, può essere veramente affrontata la dimensione strategica. In Germania, i precursori sono il maresciallo barone Colmar von der Goltz, uno degli autori più influenti del periodo (Das Volk in Waffen, 1883; traduzione francese 1884, inglese 1887, russa 1887, spagnola 188..., turca 188..., Kriegfuhrung, 1895; traduzione francese 1895, spagnola 1897, inglese 1898) e, dopo di lui, il generale Friedrich von Bernhardi, l’autore più noto alla vigilia della Grande Guerra[212]: Vom heutigen Kriege (1912) ha traduzioni russa (1912), inglese (1912), italiana (1912), francese (1913) e giapponese (1914). In Francia, dopo il primo saggio del generale Berthaut (Principes de stratégie ,1881), appare l’opera misconosciuta del tenente colonnello Antoine Grouard (Stratégie: objet, enseignement, tactique, 1895)[213] e quella, celebre, del generale Ferdinand Foch (Des principes de la guerre, 1903; traduzione inglese 1818, spagnola 1920, rumena 1975; La conduite de la guerre, 1904; traduzione spagnola s.d.).

 

Il tema strategico si diffonde in tutti i paesi: in Gran Bretagna, con W.H. James (Modern Strategy, 1904), H. Tovey (Elements of Strategy, 1904), F.N. Maude (The Evolution of Modern Strategy from the XVIIIth Century, 1905)...; negli Stati Uniti, con John Bigelow (Principles of Strategy, 1891); in Russia, con il generale Genrich A. Leer (Strategija, 1898; Metod voennych nauk strategii, taktiki i voennoj istorii - Metodo delle scienze militari della strategia, della tattica e della storia militare - , 1894; Korennye voprosy, 1897), il generale N. P. Michnevich, capo di Stato maggiore generale dal 1911 al 1917 (Strategija, 1899-1901), e il colonnello A. Neznamov, che si lancia in una durissima critica degli errori commessi durante la guerra contro il Giappone e chiede riforme radicali (Oboronitel’naja vojna. Teorija voprosa. 1. Strategija, 1909; Sovremennaia voina, 1911). In Italia la recente unità nazionale, e quindi la novità delle istituzioni, impediscono di dissociare troppo rigorosamente politica e guerra, cosicché il pensiero esclusivamente strategico è ricco e precoce[214], con il generale Nicola Marselli, che considera la guerra globalmente (La guerra e la sua storia, 1875-1877; traduzione spagnola 1884), ma anche con Eustache Chaurand de Saint Pierre e Giuseppe Perruchetti (La Difesa di stato, 1884)...In compenso, la produzione spagnola sembra modesta, nonostante Carlos Banus y Comas (Política de la guerra, 1881. El Arte de la guerra al principio del siglo XX, 1909)... Dappertutto, le pubblicazioni divengono così numerose che è impossibile darne anche solo un cenno sommario.

 

108. Un impoverimento teorico

 

Questa focalizzazione sugli aspetti operativi provoca un indiscutibile impoverimento teorico, denunciato vigorosamente da Herbert Rosinski:

Malgrado i voluminosi trattati che ancora ingombrano gli scaffali delle nostre biblioteche, i Verdy du Vernois, Blume, Schlichting, Scherff[215], Bronsart von Schellendorff[216], Meckel[217], Bernhardi (padre e figlio), von der Goltz, Boguslawski[218], Falkenhausen[219], erano, in verità, dei compilatori e dei commentatori di second’ordine e di seconda mano, incredibilmente pomposi e ridondanti, quasi sempre sprovvisti d’ispirazione personale e soprattutto ossessionati da controversie bizantine sulle finezze della strategia di Moltke e della sua differenza (o no) con quella di Napoleone[220].

 

Una tale condanna suonerebbe sospetta se non provenisse da uno degli strategisti più penetranti del nostro secolo; anche se secondo qualche autore dovremmo correggerla (Denis Sholwater propone una visione meno negativa di von der Goltz e Bernhardi, dimostrando che non si limitavano solo ad esaltare la battaglia di annientamento[221]) e sottolineare l’apparizione di nuove direzioni di ricerca, per esempio sulla strategia combinata[222], tuttavia essa resta globalmente giustificata. Ne abbiamo un’ulteriore conferma dall’implacabile requisitoria di Raymond Aron contro la “mediocrità” di Foch, sintesi e sbocco del pensiero francese dell’epoca[223]. Ritroviamo questa mediocrità soprattutto nei piani di guerra preparati da tutti gli Stati Maggiori delle grandi potenze: la minuzia delle disposizioni operative è accompagnata da presupposti politico-strategici di una leggerezza che confina talvolta col grottesco: il piano Schlieffen non si preoccupa minimamente delle conseguenze della violazione della neutralità belga (e olandese nella sua versione iniziale) che Moltke il Vecchio aveva, al contrario, categoricamente respinto; l’Ammiragliato tedesco studia seriamente uno sbarco negli Stati Uniti, mentre il suo omologo britannico considera ancora, nel 1908, l’eventualità (riconosciuta “poco probabile”) di una coalizione franco-tedesca contro la Gran Bretagna![224]

 

E’ significativo constatare che gli autori del periodo, compresi Rüstow e Lewal, la cui diffusione supera quella dello stesso Clausewitz negli anni 1870-1880, sono molto meno citati nelle ricerche contemporanee dei fondatori Jomini o Clausewitz, o anche degli autori del XVIII° secolo, in cui ci si accanisce a trovare una dimensione strategica, che esiste solo in trasparenza. Sia gli autori tedeschi citati da Rosinski, a cui bisognerebbe anche aggiungere Caemmerer[225], Freytag-Loringhoven[226] e qualche altro, che i francesi Lewal, Maillard e lo stesso Foch sono oggi conosciuti solo da un manipolo di specialisti. Foch è stato spesso citato, ma solo per il suo ruolo successivo, mentre i suoi libri non sono più pubblicati[227]. Tutti questi autori[228] hanno in comune la volontà di asservire gli insegnamenti dei loro predecessori alle finalità pratiche della loro dottrina.

 

109. La ricerca di strategie nazionali

 

Si giunge così ad un’altra caratteristica di questo periodo: la tradizione incorporea delle precedenti generazioni si trasforma a vantaggio di strategie cosiddette nazionali. Guibert aveva dedicato la sua prima opera alla sua patria, Clausewitz non dissimulava affatto il suo odio per i Francesi o il suo disprezzo per i Polacchi; essi tuttavia s’inserivano in un contesto europeo e potevano essere letti da lettori di tutti i paesi senza suscitare reazioni spontanee di rigetto. Nella seconda metà del secolo, le passioni nazionaliste sono esacerbate, la paura dell’invasione o la sete di rivincita sono tenute vive da romanzi sulla guerra futura che incontrano un immenso successo[229]. Non è più il momento della riflessione accademica, si diffonde, invece, l’idea che

       colui che scrive a proposito di  strategia e di tattica dovrebbe assoggettarsi ad insegnare solo una strategia e una tattica nazionali, le sole suscettibili di essere utili alla nazione per cui scrive[230].

 

In Germania, Colmar von der Goltz e Friedrich von Bernhardi impongono questa concezione. In Russia, se il generale Leer continua la tradizione di Jomini, è in concorrenza con la moda del generale Dragomirov, capofila della “scuola nazionale”, la cui opera è un’apologia della via russa alla guerra[231], incarnata da Suvorov[232]. Ci si mette anche la Spagna: nel 1883, vengono ripubblicate in gran pompa le Nociones del Arte militar di Villamartin per “españolizar en España” gli studi militari[233]. Il cartesianesimo francese si sforza di preservare tono di neutralità, ma la volontà di rivincita è troppo forte e gli scritti del generale Bonnal, in particolare, prendono una piega dichiaratamente polemica.

 

110. L’egemonia della scienza strategica tedesca

 

Ma questo periodo è anche quello in cui Clausewitz s’impone decisamente a svantaggio di Jomini. Quest’ultimo conserva ancora dei discepoli: il generale Genrich Leer in Russia, il generale von Scherff e il colonnello von Boguslawski in Germania, il capitano M. M. Fisch in Belgio (il suo Cours d’art militaire, 1881-1882, tratta soprattutto di tattica), il colonnello Derrécagaix e il tenente colonnello Antoine Grouard in Francia, il capitano John Bigelow negli Stati Uniti, dove contemporaneamente il suo insegnamento è trasferito in campo navale da Mahan. Ma, almeno in campo terrestre, non sono più di moda: Scherff è superato da von der Goltz e Bernhardi, Grouard passa inosservato. Clausewitz è ormai divenuto il solo riferimento, positivo o negativo, a prezzo però di una riduzione del suo pensiero, di cui sono ormai privilegiati gli aspetti operativi deformandone o negandone le idee guida del primato della politica e della superiorità intrinseca della difensiva. Già dalla seconda edizione (1853), una modifica fraudolenta del testo, permette di “correggere“ la frase sulla precedenza del Gabinetto sul Comandante in capo.

 

Questa voga di Clausewitz è soprattutto la conseguenza dell’egemonia tedesca , quasi altrettanto forte di quella francese nel XVIII° secolo. La Germania è ormai il punto di riferimento, il modello per tutti gli eserciti del mondo e i suoi pensatori sono esaltati dopo le vittorie del 1866 e del 1870.

Ciò è particolarmente vero in Francia, dove la strategia partecipa a quello che uno storico delle idee ha definito “la crisi tedesca del pensiero francese[234]. Tutti gli autori tedeschi importanti sono tradotti e studiati, ma anche sempre più contestati, mano a mano che la dottrina strategica francese si afferma e si perfeziona. Dopo il 1905, essa si libera del suo complesso d’inferiorità e si allontana dal suo modello d’oltre Reno per sostituirgli una rinnovata interpretazione del modello napoleonico, dominata dalle opere di Colin[235] e di Camon[236], che fanno concorrenza con successo ad una scuola storica tedesca per niente in declino, come è testimoniato dalle opere monumentali di Emil Daniels[237] (Geschichte der Kriegswesen, 6 vol., 1910-1913) e Hans Delbrück (Geschichte der Kriegskunst im Rahmen der politischen Geschichte, 4 vol., 1900-1920, continuata da Emil Daniels; traduzione russa 1930-1936, inglese 1975). Tuttavia è giocoforza constatare che, a differenza di quello che avviene in Germania, questa influenza rimane superficiale.

 

111. L’ideologia dell’offensiva

 

Ma il culto dell’offensiva, che sfocerà nell’ecatombe del 1914, non è una specificità francese. L’esaltazione del modello napoleonico, l’instaurarsi dei nazionalismi ed una lettura incompleta e partigiana di Clausewitz si uniscono per dare vita a questa “ideologia dell’offensiva”, sottilmente ma unilateralmente analizzata da Jack Snyder[238], che si sviluppa all’inizio del 1900: i piani tedeschi contro la Francia divengono offensivi dal 1890, quelli francesi dal 1911. E’ in quest’epoca che il primato della dimensione operativa viene parzialmente corretto dal ritorno in auge della dimensione propriamente strategica. Un indizio in tal senso è il marcato declino della geografia militare, che ha occupato un posto molto importante negli insegnamenti dagli anni 1880 al 1900, ma che ha finito per stancare a causa di uno studio degli aspetti geologici spinto all’assurdo.

 

L’ideologia dell’offensiva si inserisce perfettamente nel clima dell’epoca dominato da una volontà espansionistica che, secondo i paesi, riveste le forme dell’imperialismo, del pangermanismo, del panslavismo...[239] e da un’esaltazione dello spirito di sacrificio e della selezione attraverso la guerra[240]. Essa è rinforzata dall’incomprensione degli insegnamenti delle guerre periferiche: la guerra di Secessione aveva già messo in luce l’impatto dei nuovi mezzi difensivi (filo spinato) e delle ferrovie[241]. L’avvertimento è reiterato durante la guerra russo-turca del 1877-1878, quando gli attacchi russi contro le trincee turche di Plevna si concludono con enormi perdite, e confermato dalla guerra russo-giapponese del 1904-1905: le perdite giapponesi ammontano a 50.000 uomini a Port-Arthur, a 70.000 uomini a Mukden. Ma i commentatori vogliono ricordare solo il risultato finale: l’offensiva giapponese è costata cara, ma è stata vittoriosa. Il rafforzamento della potenza di fuoco impone dei cambiamenti tattici, ma non rimette in discussione il primato del morale; le perdite saranno pesanti, ma l’offensiva darà la vittoria. E’ il senso degli insegnamenti di Foch, del generale Langlois (Enseignements de deux guerres récentes, 1903) e del generale Bonnal (L’Art nouveau en tactique, 1904[242]) in Francia; di Bernhardi e del colonnello Balck (Taktik, 1911; traduzione inglese 1912) in Germania; del colonnello G. F. R. Henderson (The Science of War, 1905), del brigadiere generale Ian Hamilton (Compulsory Service, 1909), del maggior generale E. A. Altham (The Principles of War Historically Illustrated, 1914), malgrado gli insegnamenti della guerra dei Boeri, in Gran Bretagna; del generale Kuropatkine (uno degli esponenti della scuola nazionale, ma anche uno dei vinti della guerra contro il Giappone) in Russia[243].

Sono rari coloro che afferrano l’ampiezza del cambiamento in corso e che comprendono come l’aumento della potenza di fuoco condanni l’offensiva ad ogni costo. L’esponente più noto di quest’eretica tesi è un imprenditore ebreo d’origine polacca, Ian Block, che pubblica in russo un compendio sulla guerra moderna (1898) largamente tradotto (in polacco; in francese 1898; in tedesco 1899; parzialmente in inglese 1899), ma troppo impregnato di ideologie pacifiste per convincere i militari. Ma troviamo anche scrittori militari che giungono a conclusioni analoghe pagandone il prezzo: in Francia il colonnello Pétain, nel suo corso di Fanteria all’École supérieure de guerre, che resterà inedito, sottolinea l’importanza del fuoco; il tenente colonnello Antoine Grouard, ne La Guerre éventuelle (1913), persiste nel caldeggiare una strategia difensiva sacrificandovi la carriera; in Russia, il colonnello Nezmanov subisce anche lui i fulmini delle autorità, al punto di vedersi proibire di scrivere. Nessuno di costoro immagina che i progressi degli armamenti possono condurre all’immobilizzazione dei fronti: la sola vera eccezione è il comandante Emile Mayer , in un articolo della Revue militaire Suisse (1902), che passa però inosservato[244]. Le guerre balcaniche, nel 1912-1913, arrivano troppo tardi per poter essere sfruttate. Nel 1914, tutte le grandi potenze prendono l’offensiva, e tutte falliscono con enormi perdite: la Francia in Lorena, la Germania sulla Marna, la Russia in Prussia orientale, l’Austria-Ungheria in Serbia e in Galizia. Tutto questo non impedirà loro di ricominciare, tanto è profondamente radicata la fiducia nell’offensiva.

 

SOTTOSEZIONE IV: IL XX° SECOLO

 

112. Polemiche e riflessioni critiche negli anni ‘20

 

Dopo il 1918, sul piano teorico tutto è da ricostruire. Le certezze di prima del 1914 sono crollate, l’offensiva ad ogni costo è responsabile delle spaventose perdite subite nel ‘14 e durante gli anni d’immobilizzazione dei fronti. Il dibattito si svolge ormai tra i sostenitori della nuova ortodossia del fronte continuo e della superiorità della difensiva e gli innovatori che esplorano le potenzialità offerte dalle nuove armi comparse durante la guerra, il carro armato e l’aereo. Come spesso succede, la disfatta suscita un intenso fermento intellettuale: le arringhe pro domo sua (Ludendorff) e le infiammate requisitorie sono affiancate da vere e proprie analisi critiche (H. Ritter, Die Kritik des Weltkrieges, 1920; W. Balck, Die Entwicklung der Taktik im Weltkriege, 1922; traduzione inglese 1922). Tuttavia sarebbe sbagliato opporre dei vincitori fossilizzati a dei vinti inventivi[245]. Negli anni ‘30, le tesi innovatrici del colonnello Guderian incontrano con un certo scetticismo: lui stesso racconta che dopo le prime manovre di carri armati, un generale gli aveva detto che nessuno dei partecipanti avrebbe mai visto eseguire azioni simili in guerra[246]. Dall’altra parte, presso le potenze vittoriose, appaiono alcuni innovatori. In primo luogo in Gran Bretagna, dove si cercano delle soluzioni per evitare la ripetizione di uno scontro massiccio sul continente, con le tesi del maggior generale J. F. C. Fuller[247] a favore di una armata blindata (Armoured Warfare, 1928, 1943; traduzione tedesca..., svedese 1945) e di Basil Liddell Hart in favore dell’approccio indiretto[248]. La Gran Bretagna nasce anche molto presto una dottrina aerea, grazie all’indipendenza della Royal Air Force e alla levatura del suo primo comandante, il generale Trenchard. In Francia gli innovatori sono in minoranza, ma tuttavia esistono: fin dal 1920, il capitano Mérat apre la strada con uno studio folgorante e profetico (“Extrapolations”); il generale Estienne caldeggia la causa dell’arma blindata; nel 1926, il generale Camon, campione della scuola storica, pubblica un libro sulla motorizzazione dell’esercito, non certo conservatore: “Il cavallo deve sparire sia dal campo strategico che da quello tattico. Così s’impone la soppressione della cavalleria e la motorizzazione dell’artiglieria e dei convogli[249]; il generale Alléhaut si orienta nello stesso senso (Motorisation et Armées de demain, 1929) e vi aggiunge un concetto di manovra aeroterrestre (Être prets. Puissance aérienne, forces de terre, 1935)[250]. Gli scritti del colonnello De Gaulle sulla guerra dei carri non nasceranno dal nulla[251].

 

Ma il ricordo degli orribili massacri provocati dalle ripetute offensive dal 1914 al 1916 ha suscitato una reazione simile ad una vera e propria “ideologia della difensiva”, particolarmente sentita in Francia. Il fronte continuo sembra esser stato confermato dall’esperienza; inoltre, gode del favore di un potere politico ossessionato dalla volontà di evitare la ripetizione di perdite massicce e la cui politica estera è, essa stessa, principalmente difensiva. Dopo le esitazioni dell’inizio degli anni ‘20, assistiamo, dalla seconda metà di quel decennio, al trionfo della nuova ortodossia che riscuote successi quasi dappertutto, sia nella strategia terrestre che marittima. Gli innovatori dell’arma aerea , che si oppongono troppo violentemente alle gerarchie militari, sono relegati ad incarichi secondari od onorifici, ma anche costretti a lasciare l’esercito: è il caso del generale Douhet, figura emblematica de “l’aeronautica integrale” in Italia, del generale Mitchell negli Stati Uniti. In linea di massima, le novità trionferanno con il sostegno del potere politico contro gli Stati maggiori. Contrariamente all’immagine troppo spesso divulgata, l’ortodossia non è sempre sinonimo di mediocrità intellettuale, almeno negli anni ‘20. La geografia militare si sbarazza del suo sovraccarico geologico per allargare i propri orizzonti. In Italia, il colonnello (futuro maresciallo) Ettore Bastico elabora un vasto affresco storico sull’arte della guerra (L’Evoluzione dell’arte della guerra, 1923). In Francia la Revue militaire française, poi la Revue militaire générale che le succede, sono di alto spessore intellettuale, come le analisi della strategia tedesca del generale Buat (Hindenburg et Ludendorff stratèges, 1923) o le lezioni di strategia del generale Duffour e del colonnello Culmann (Stratégie, 1924) alla École supérieure de guerre. La prospettiva è classica, le potenzialità dei nuovi apparati sono generalmente sottovalutate, ma l’insieme non manca né di coerenza né di logica. Dopo tutto, l’armata francese è stata vincente dopo il 1918 e le prestazioni dei carri sono ancora limitate: hanno collaborato alla vittoria senza determinarla.

 

113. Sclerosi e innovazione negli anni ‘30

 

Negli anni ‘30, l’ortodossia si fossilizza: in Italia il generale Visconti Prasca, in un libro molto letto (La Guerra decisiva, 1934; traduzione francese 1935), caldeggia un ritorno all’offensiva e l’organizzazione di “nuclei autonomi di combattimento” capaci di ottenere la rottura del fronte, ma riafferma che “il primato della fanteria è un diritto sacro” e fa del mezzo blindato “una forza supplementare” che non deve intervenire prima che la rottura sia stata già ottenuta[252]; in Francia, l’inviolabilità del fronte continuo diviene un dogma, come lo era stato l’offensiva ad ogni costo prima del 1914. Il celebre libro del generale Chauvineau, con prefazione del maresciallo Pétain[253], è un buon esempio di questo conservatorismo assoluto e, per la verità, ottuso: l’autore, vecchio professore alla École supérieure de guerre, non è certo uno sciocco, ma è incapace di capire gli sconvolgimenti tecnici che stanno avvenendo sotto i suoi occhi; egli accumula obiezioni, non tutte infondate, ma che non sono mai decisive. Se ne avrà la prova nel 1939.

 

Al contrario, in Germania, la produzione è di alto valore, con i generali Alfred Krauss (Theorie und Praxis in der Kriegskunst, 1936), Waldemar von Erfurth (Der Vernichtungsieg, 1938; traduzione inglese 1943), Herman Foertsch (Kriegskunst heute und morgen, 1939; traduzione inglese 1940); il futuro maresciallo von Leeb propone una versione rinnovata della difensiva (Die Abwehr, 1938; traduzione inglese Defense, 1943). Nel campo dell’offensiva, i Tedeschi sono naturalmente all’avanguardia dell’innovazione e, soprattutto, la mettono in pratica con la coppia aereo-carro armato: il colonnello Guderian, molto influenzato dai teorici britannici[254], ne è il teorico più celebre, con Achtung Panzer! (1937), ma non il solo. Egli fa parte di una corrente caratterizzata dai libri di M. Borchert (Der Kampf Gegen Tanks, 1931), K. Justrow (Feldherr und Kriegstechnik, 1933), W. Nehring (Panzerabwehr, 1936), G. P. Von Zezschwitz (Der Panzerkampf, 1938), W. Spannenkrebs (Angriff mit Kampfwagen, 1939)... Curiosamente, questa produzione tedesca non riceve una grande attenzione all’estero, dove viene eclissata da un concorrente austriaco, il generale Ludwig Eimannsberger (Der Kampfwagenkrieg, 1934, traduzione francese 1936). Karl Pintschovius propone la prima teorizzazione della guerra psicologica (Die Seelische Winderstandkraft im Modern Krieg, 1936).

 

Isolata dalla comunità internazionale, la Russia sovietica cerca di sviluppare un pensiero originale. L’autore più importante è il generale Alexandr Svechin, la cui abbondante produzione[255] è dominata da una sintesi (Strategjia, 1926, 1927; traduzione inglese 1992), riconosciuta oggi come un classico; parecchi autori definiscono il concetto di arte operativa (supra n° 45) e sviluppano la teoria delle operazioni in profondità, che sarà attentamente studiata dai Tedeschi negli anni ‘30[256]. Questa scuola “realista” è sostenuta da Trotski, che ritiene che “non si può costruire un regolamento di campagna col marxismo”, ma è contrastata da Mihail Frunze, appoggiato dal futuro maresciallo Tukhachevski, che predica una “dottrina militare unica” che deve essere “l’espressione della volontà unica della classe sociale al potere[257]. Tukhachevski non esita ad attaccare i suoi avversari sul piano ideologico accusandoli di deviazionismo, il che non lo salverà dall’essere liquidato come Svechin. Ne consegue un impoverimento del dibattito militare a partire dagli anni ’30. I ricchi frutti degli anni ’20 saranno riscoperti solo molto più tardi, negli anni ’80 e ....negli Stati Uniti.

Si giunge così, alla vigilia del 1939, ad una situazione molto diversa da quella esistente prima del 1914: non c’è più l’unanimità dottrinale, ma, al contrario, una netta separazione tra i conservatori ed i modernisti: la prova della guerra si incaricherà di porre fine al dibattito, a favore dei secondi. Il prezzo pagato sarà spesso doloroso, specialmente per la Francia.

 

114. Il pensiero strategico durante la Seconda Guerra mondiale

 

La guerra che scoppia nel settembre del 1939 provoca dei cambiamenti di ogni genere che incrinano tutte le dottrine elaborate tra le due guerre. Il Blitzkrieg supera le speranze dei suoi promotori; il coordinamento strategico si sviluppa ormai su scala continentale; la mobilizzazione è ancora più forte che durante la Prima Guerra mondiale e le innovazioni tecniche si succedono ad una cadenza mai vista prima. I materiali del 1945, carri, aereo o sommergibili, non hanno molto in comune con quelli in servizio all’inizio della guerra.

 

Durante tale periodo, l’azione impone la sua legge, i materiali e le dottrine sono sperimentati sul campo di battaglia. Tuttavia, la riflessione appena iniziata non è scomparsa completamente. In molti paesi continuano ad uscire le riviste e i commentatori militari, ufficiali in pensione o civili, scrivono in abbondanza. Nonostante le costrizioni della censura, si assiste ancora a discussioni anche di un certo livello, ed è deplorevole che nessuno si sia seriamente dedicato a studiare questo immenso materiale. Liddell Hart e Fuller non producono molti libri durante la guerra, ma scrivono parecchi articoli di cui qualcuno è riprodotto in riviste tedesche. Il “critico militare della Francia libera”, pseudonimo comune di un ufficiale polacco e di un giovane professore di filosofia chiamato Raymond Aron, sviluppa, nella rivista La France libre, delle analisi geostrategiche perspicaci[258], mentre Herbert C. O’Neill, sotto lo pseudonimo di Strategicus, riunisce le sue cronache in una serie che finirà per raggiungere gli 8 volumi (da The War for World Power, 1940, a The Victory Campaign, 1947). Un ufficiale ceco rifugiato in Gran Bretagna, il colonnello Ferdinand-Otto Miksche analizza correttamente le innovazioni tattiche e operative, sia in materia di guerra di carri armati (Blitzkrieg, 1942; traduzione francese 1943) che di operazioni aviotrasportate (Paratroops, 1942; traduzione francese 1946) o di bombardamenti aerei (Is Strategic Bombing Decisive?, 1944). Herbert Rosinski scrive qualcuna delle più brillanti analisi della strategia navale nel Brassey’s Naval Annual. Anche nella Francia occupata il dibattito rimane vivo: La Revue universelle traduce articoli americani fino alla Liberazione, Camille Rougeron prosegue le sue cronache in Science et Vie come in tempo di pace, parecchie analisi della disfatta appaiono “a caldo” ed alcune non mancano di perspicacia.

 

L’avvenimento che segna il periodo è senza dubbio l’aumento della potenza degli Stati Uniti. Essa si manifesta ugualmente in campo teorico. Gli Americani non avevano ancora prodotto opere strategiche veramente notevoli, ad eccezione di quelle di Mahan. Lo sviluppo della loro potenza militare è accompagnato da una riflessione che sorprende per la sua ampiezza. Le università sono mobilitate in programmi di ricerca che mirano ad assimilare la letteratura strategica europea. Edward Mead Earle inizia la sua vasta inchiesta sui maestri della strategia (Makers of Strategy, 1943; traduzione francese 1982) che resta, più di mezzo secolo dopo, un riferimento obbligatorio. Stephen Possony dirige un vasto programma di traduzione dei classici della strategia. Bernard Brodie, fattosi notare nel 1941 per un saggio sulla strategia navale, lavora direttamente sui rapporti ufficiali dell’U.S. Navy. Una corrente molto attiva getta le basi di quella che più tardi sarà chiamata geostrategia. La potenza mondiale degli Stati Uniti non è dovuta solo alle circostanze, ma è il risultato di un programma attentamente studiato prima di essere attuato. La teoria orienta e arricchisce la pratica.

SEZIONE V - STRATEGIA ALTERNATIVA: DALLA PICCOLA GUERRA ALLA GUERRA RIVOLUZIONARIA

 

115. Persistenza di una corrente alternativa

 

La “piccola guerra”, le operazioni irregolari, sono vecchie come la stessa guerra [259].Gli autori antichi vi alludono spesso. Sallustio, con la sua Guerra Giugurtina, offre il primo trattato di guerriglia. Nel X° secolo, l’imperatore bizantino Niceforo Foca le dedica un trattato: di fronte alle frequenti incursioni dei Barbari, raccomanda una difesa mobile basata sulla combinazione di una rete d’informazioni e di osservazione, di milizie che rallentino gli assalitori e di cavalleria che non dia loro tregua al ritorno quando saranno appesantiti dal bottino[260].

 

Al di là di questa eccezione, la piccola guerra è conosciuta solo attraverso le memorie di capi partigiani o di relazioni storiche che privilegiano spesso l’aneddoto. Le analisi sistematiche compaiono solo nella seconda metà del XVIII° secolo. Esse proliferano e non è escluso che abbiano potuto creare un clima favorevole almeno a qualcuna delle operazioni irregolari condotte in gran numero durante le guerre della Rivoluzione e dell’Impero e che saranno chiamate “guerriglia” dopo la guerra di Spagna[261].

 

116. I teorici della piccola guerra nel XVIII° secolo

 

Nel XVIII° secolo, si parla di piccola guerra (Klein Krieg, petite guerre, small war) e di guerra partigiana, senza che le due nozioni siano chiaramente distinte: la piccola guerra corrisponde piuttosto all’impiego autonomo di piccoli distaccamenti, mentre la guerra partigiana “designa, contemporaneamente, i metodi di combattimento dei soldati distaccati in dei partiti di guerra che corrono la campagna davanti agli eserciti, e le forme speciali  delle guerre civili in cui è implicata la popolazione. Il partigiano dell’Ancien Régime è dunque, secondo i casi, il franco-tiratore incorporato alla truppe regolari, o il partigiano senza formazione militare[262].

 

Questa forma di guerra è, secondo Bernard Peschot, “all’incrocio di due scuole: la tradizione cavalleresca erede dei fronti orientali europei e l’esperienza  montanara derivata dai combattimenti contro dei partigiani civili.”[263] I Francesi scoprono la prima quando si scontrano con l’armata austriaca, che non da loro tregua con l’apporto dei cavalieri croati o degli ussari ungheresi; essi si confrontano anche in parecchie guerre partigiane sulle montagne, quelle dei Camisards delle Cevenne o dei Barbets di Savoia. Saranno i primi ad iniziarne la teorizzazione[264].

 

Il pioniere è il cavalier de Folard, che inizia la sua carriera di scrittore con un saggio su L’art des partis à la guerre che non sarà pubblicato. Nel 1752, il cavaliere de la Croix pubblica un Traité de la petite guerre pour les compagnies franches che è tradotto in tedesco tre anni dopo nella Krieges Bibliotek di Breslavia. Il capitano Le Roy de Grandmaison pubblica nel 1756, un libro di più di 400 pagine: La Petite guerre ou Traité de service des troupes légères en campagne, che sarà la prima opera sull’argomento ad avere una larga e durevole diffusione[265]: Federico II se ne servirà per la formazione dei suoi ufficiali e sarà tradotto in tedesco (1760 e 1785), in inglese (1777), in spagnolo (1780 e 1794), in danese (1810) e in polacco (1812). E’ seguito da due saggi apparsi nel 1759: il capitano ungherese[266] di Jeney scrive Le Partisan ou l’Art de faire la petite guerre avec succès selon le génie de nos Jours (traduzione inglese 1760, tedesca 1765 e 1785) e il capitano ugonotto Jean-Louis Lecointe propone La Science des postes militaires[267] (traduzione spagnola 1770, danese 1781). Nel 1766, Ray de Saint Génie pubblica L’Officier partisan (traduzione tedesca 1772). Il conte de la Roche pubblica nel 1770, un Essai sur la petite guerre. Le opere generali dedicano degli sviluppi sostanziali alle truppe leggere, in particolare quelle di Mesnil-Durand, Joly de Maizeroy, Lloyd[268]...In Olanda il barone de Wust, che ha comandato degli ussari in Europa ed una brigata nelle Indie orientali, pubblica L’Art militaire du partisan (1768).

 

La guerra americana mostra, con ancora maggior forza, l’interesse per le truppe leggere. Senza sparire in Francia[269], la riflessione si trasferisce in Germania, con The Partisan in war or the use of a Corps of Light Troops in an Army (1789, edizione tedesca 1791) del colonnello Andreas Emmerich, che ha combattuto in America (sarà giustiziato dai Francesi per il suo ruolo nell’insurrezione di Marburg), e l’Abhandlung von dem Dienst der leichten Truppen del colonnello Johann von Ewald (1790; traduzione danese[270] 1802 e norvegese 1811) che, secondo Scharnhorst, copia Jeney e Grandmaison.

La piccola guerra non è dunque ignorata. Ma resta poco considerata dagli Stati maggiori. Bernard Peschot nota che “i trattati didattici relativi al combattimento di piccole unità di fanteria, alla teoria degli avamposti e a quella della piccola guerra si sviluppano, ma senza molto influenzare i regolamenti ufficiali[271].

 

117. Dalla piccola guerra alla guerriglia

 

La produzione degli anni 1790 si situa nel prolungamento di quella dell’Ancien Régime, con il Versuch einer Theorie des Dienstes der leichten Truppen, del maggiore Friedrich-Leopold Klipstein, (1799) e il Abhandlung über den Kleinen Krieg und über den Gebrauch der leichten Truppen, del prussiano Georg-Wilhelm von Valentini (1799). Quest’ultimo rimaneggerà ulteriormente il suo libro, che sarà integrato nel suo grande trattato Die Lehre vom Kriege (6 ed. 1833) tenendo conto degli insegnamenti delle guerre della Rivoluzione e dell’Impero.

 

In effetti queste ultime sono contraddistinte da molteplici campagne di guerriglia: le guerre della Vandea e le numerose insurrezioni degli Chouans[272], l’insurrezione di Andreas Hofer in Tirolo, l’assillo della Grande Armée da parte dei Cosacchi, durante la campagna di Russia e soprattutto la guerra dei contadini in Spagna che ha bloccato e logorato l’esercito francese, impedendogli di concentrarsi contro gli Inglesi. Ogni volta, le conseguenze strategiche sono state così notevoli da attirare l’attenzione dei praticanti e dei teorici[273] della grande guerra, particolarmente in Germania[274] dove la tradizione della piccola guerra è stata vivace: nel 1804, Wilhelm von Reiche pubblica Der kleine Partheiganger und Krieger. Nel 1808, La Roche Aymon, emigrato che serve nell’armata prussiana, scrive un manuale per le truppe leggere, Über den Dienst der leichten Truppen (la versione francese, Des Troupes légères, apparirà nel 1817; traduzione olandese parziale 1825). Il trattato di Grandmaison è ritradotto in tedesco nel 1809. Nel 1810, il principe di Hesse-Rheinfels pubblica un saggio su Le Partisan, rivisto e aumentato nel 1815. Clausewitz tiene una lezione sulla piccola guerra alla Kriegsakademie nel 1810[275] e lancia il progetto di un trattato che non avrà il tempo di scrivere. Egli dedicherà il XXVI° capitolo del Vom Kriege all’armamento del popolo, arringa per “una guerra popolare che sia sempre combinata con una guerra condotta da un esercito permanente, entrambe concepite secondo un unico piano d’insieme[276]. Jomini presta ugualmente una grande attenzione alla guerriglia nei suoi studi storici e nel Précis.

 

Il generale Duhesme trae gli insegnamenti della “rivoluzione tattica” degli anni 1790, dal 1814, in un Essai historique sur l’infantérie légère che sarà ripubblicato per mezzo secolo e tradotto in italiano nel 1823. Ancora nel 1814, il maggiore tedesco von Schels fa la stessa cosa in Leichte Truppen: Kleiner Krieg. In Spagna, Felipe di San Juan (Instuccion de guerrilla, 1823) teorizza le lezioni della guerra contro i Francesi. Il tenente napoletano Pompeo Quarto preferisce riferirsi a Federico II ne L’Istruzione per le truppe leggere in campagna (1831). Il generale prussiano Carl von Decker, in Der kleine Krieg im Geiste der neueren Kriegsfuhrung (1822, 1844; traduzione francese La Petite guerre ou Traité des opérations secondaires de la guerre, 1827, ritradotto De la Petite guerre selon l’esprit de la stratégie moderne, 1845; traduzione spagnola 1850), precisa la distinzione tra la piccola guerra e quella partigiana. Egli s’interessa soprattutto alla prima, come fanno anche il maggiore prussiano Hans von Brandt (Der kleine Krieg in seinen verschiedenen Beziehungen, 1837), poi il colonnello francese Antoine-Fortuné de Brack di cui gli Avant-Postes de cavalerie légère (1831, 6 ed. 1880; traduzione inglese 1850) costituiscono il solo contributo francese degno di nota della metà del XIX° secolo, e Wilhelm Rüstow (Die Lehre vom kleinen  Kriege, 1864; traduzione francese 1875, spagnola 1877), che è stato capo di Stato maggiore di Garibaldi.

 

Jean-Frédéric-Auguste Le Mière de Corvey, che ha partecipato alle guerre di Vandea e di Spagna, è il primo, in Des Partisans et des corps irréguliers (1823), a non fare della guerriglia un accessorio della grande guerra e a proclamare che “lo scopo principale di questo genere di guerra è di ottenere la distruzione insensibile del nemico”. Il partigiano deve avere tre qualità: “essere sobrio, marciare bene e saper tirare un colpo di fucile[277].

 

Il generale russo Denis Davidoff, che ha comandato un corpo di cosacchi durante la campagna del 1812, trae dalla sua esperienza un saggio sulla guerra dei partigiani scritto nel 1821 e tradotto in francese nel 1841, notevole per il suo sforzo di teorizzazione. Egli lega lo sviluppo della guerra dei partigiani all’aumento degli effettivi delle armate che “ha introdotto nell’arte militare l’obbligo di mantenere una linea ininterrotta tra l’armata coinvolta e il punto centrale delle sue risorse e approvvigionamenti. La guerra dei partigiani consiste nel “occupare tutto lo spazio che separa il nemico dalla sua base d’operazioni, tagliare tutte le sue linee di comunicazione, annientare tutti i distaccamenti e convogli che cerchino di raggiungerlo, sottoporlo ai colpi del nemico senza viveri, senza cartucce, e sbarrargli contemporaneamente la strada per la ritirata[278]. Oltrepassando il racconto della campagna del 1812, egli si ripropone di stabilire i principi fondamentali sul modo di dirigere un partito” che “non si trovano ancora da nessuna parte”. Il suo sistema; fondato su una base di operazioni, di rifornimenti e di battaglia, richiama fortemente quello di Jomini. Il suo uditorio sembra sia stato considerevole.

 

La Svizzera, con la sua tradizione di milizie, è rappresentata da Aymon de Gingins-La-Sarraz, militare e uomo politico con vasti interessi: in La Guerre défensive en Suisse (1860) e Les Partisans et la défense de la Suisse (1862), raccomanda una difesa popolare, ma chiedendo che l’invasore rispetti le leggi della guerra che proteggono le popolazioni civili. Nel suo paese passa per un originale.

 

Non si tratta solo di riflessioni teoriche. In Francia , l’ordinanza del 1832 sul servizio delle armate in campagna, redatta da ufficiali di cui alcuni avevano partecipato alla guerra di Spagna, comporta, nel suo titolo XI, numerosi articoli relativi all’attuazione dei partigiani e ai mezzi per combatterli. Ma la carica sovversiva di questa forma di guerra causerà la sua progressiva eliminazione, sotto l’effetto combinato del sospetto del potere politico e del disprezzo dei militari.

 

118. Guerriglia e guerre di liberazione nazionale

 

Gli autori italiani, molto colpiti dall’esempio spagnolo, considerano la guerriglia come una strategia per la realizzazione dell’unità nazionale. Il primo saggio a favore “Della Guerra di Partigiani” apparve anonimo, in una rivista napoletana nel 1821. Il conte Balbo, futuro Primo ministro del Piemonte-Sardegna, si pronuncia per la guerra di partigiani in una storia della guerra di Spagna redatta in seguito ad un soggiorno in Spagna nel 1816-1817, ma che sarà pubblicata solo nel 1847. Esiliato in Francia, il generale napoletano Guglielmo Pepe, pubblica in italiano e in francese, una Mémoire sur les moyens qui peuvent conduire à l’indépendance italienne (1833), poi L’Italia militare e la guerra di sollevazione (1836), in cui insiste sul sostegno che le bande di partigiani possono dare alle armate regolari. Esiliato a Malta, il piemontese Carlo Bianco di Saint Jorioz, che ha partecipato alle guerre carliste, pubblica, anonimamente, un voluminoso saggio, Della guerra nazionale d’insurrezione per bande (1830, riedizione abbreviata 1833), che ispirerà l’azione militare di Mazzini. Negli anni 1850, due ufficiali Carlo Pisacane, di Napoli, e Carlo de Cristoforis di Milano, danno un giudizio più negativo, fondato su considerazioni strettamente militari[279]. Garibaldi darà loro una seria smentita.

 

Altri insorti permanenti, del resto in stretta relazione con gli Italiani, i Polacchi s’interessano molto alla guerriglia che praticano durante le loro insurrezioni del 1830-1831, 1848 e 1863-1864. Negli anni 1830-1840, parecchi autori scrivono saggi sui partigiani: Aleksander Jelowicki; Wincenty Nieszokoc; Ludwig von Mieroslowski; Wojciech Chrzanowski, capo di Stato maggiore dell’insurrezione del 1831, trae dalla sua esperienza un libro pubblicato a Parigi, O Wojnie partyzanckiey (1835; traduzione tedesca 1846) e diviene generale nell’armata italiana; Karol Bogumir Stolzmann, ex ufficiale dell’armata russa riunitosi all’insurrezione del 1830-1831, pubblica Partyzanka czyli wojna dla ludow powstajacych najwlasciwza (1844) e aderisce alla “Giovane Europa” di Mazzini. Scritti in una lingua inaccessibile da degli uomini in esilio, hanno una diffusione solo confidenziale. Alcuni preferiscono scrivere in tedesco. W. Wilczynski pubblica Theorie des grossen Krieges mit Hilfe des kleinen oder Partisanen-Krieges bei theilweiser Verwendung der Landwehr (1869). Lo svizzero F. von Erlach, in Die Freiheitskriege kleiner Volker gegen grosse Heere (1867), cerca di teorizzare le guerre di liberazione.

 

Anche i Rumeni si sono sollevati nel 1848 e la loro guerriglia nei Carpazi si è prolungata fino al 1849. George Adrian,che ha partecipato a questa lotta, ne trae un “breve cenno della guerra dei partigiani” (Idee rapede derpe resbelul de partizani, 1853), che riprende in parte il libro del generale von Decker.

 

In senso inverso, ci sorprendiamo per l’estrema rarità degli scritti sulla lotta anti-guerriglia. Chiaramente, le armate disprezzano questa missione. In più, non hanno intenzione di ripubblicare esperienze così difficili come l’assedio di Saragozza, considerando che si debba ricorrere al combattimento nelle strade solo nel caso della lotta contro l’insurrezione, non di una campagna stabilita. E’ lo spettacolo delle rivolte del 1848 che ispira al maresciallo Bugeaud un opuscolo sulla guerra di strada[280] che resterà inedito e al generale Roguet L’avenir des armées européennes (1849). Forse una ricerca sistematica farebbe spuntare altri testi.

 

119.  1870 - 1939: il ritorno alla marginalità

 

Dopo questi brillanti sviluppi, la riflessione sulla guerriglia diviene marginale. La guerra irregolare è praticata soprattutto in luoghi lontani, in occasione di guerre coloniali; in Europa, nondimeno si manifesta a varie riprese: in Danimarca nel 1864, in Francia nel 1871, in Bosnia-Erzegovina dal 1878 al 1882. Numerosi autori si dedicano a trarre insegnamenti da queste operazioni in Francia (Anne-Albert Devaureix, De la guerre de partisans, son passé, son avenir, 1881; comandante Gustave Desroziers, Combats de partisans, 1883; capitano A. Quinteau, La Guerre de surprises et d’embuscades, 1884; V. Chareton, Les Corps francs dans la guerre moderne. Les moyens à leur opposer, 1900), in Germania (colonnello Albrecht von Boguslawski, Der kleine krieg und seine Bedeutung fur die Gegenwart, 1881; capitano G. Cardinal von Widdern, Der kleine Krieg und der Etappndienst, 1892; traduzione francese s.d.), in Spagna (J.I. Chacon, Guerras irregulares, 1883-1884) e in Austria (Karl Hron, Der Parteiganger Krieg, 1885; Kasimir von Lutgendorf, 1904). Ma essi non trattengono affatto l’attenzione: la voga dell’offensiva, alla fine del secolo, condanna la piccola guerra, che sparisce dai regolamenti ufficiali francesi dopo il 1895.

 

Alla fine del secolo, l’interesse si sposta in Gran Bretagna con dei saggi sulla small war, suscitata dalle numerose campagne imperiali in India, in Africa, in Afganistan e in Birmania e, soprattutto, dalla guerra dei Boeri. Tra gli autori che ne traggono insegnamenti[281], se ne evidenziano due: T. Miller Maguire è un dilettante (avvocato, come Corbett) che scrive su tutti gli aspetti dell’arte militare (strategia, geografia militare, monografie di campagne...) e dedica due opere alla guerriglia: Small War (1899) e Guerrilla or Partisan Warfare (1904); il colonnello Charles E. Callwell[282], che trae dalla sua esperienza in India un compendio, costantemente ripubblicato, che resta ancora oggi il maggior riferimento storico: Small Wars (1896; traduzione francese verso il 1900). L’autore vi enuncia la legge della superiorità tattica e dell’inferiorità strategica delle armate regolari di fronte a dei combattenti irregolari più mobili, che non si devono preoccupare delle proprie linee di comunicazione[283].

 

Dopo il 1918, gli esempi di guerriglia del colonnello T. E. Lawrence nella Penisola arabica (1916-1918), di Makhno in Ucraina (1918) o del colonnello von Lettow-Vorbeck in Africa orientale (1916, fine della guerra regolare-1818) non attirano affatto l’attenzione degli Stati maggiori nonostante il successo del capolavoro di Lawrence, The Seven Pillars of Wisdom, ampiamente tradotto. I regolamenti la prevedono solo nelle colonie contro i “selvaggi” o i “semi-civilizzati”. L’armata britannica delle Indie produce dei notevoli manuali[284], ma non ne viene tratto nessun insegnamento per l’Europa[285]. Tutti ignorano che, nel suo lontano rifugio del Chensi, un oscuro capo del Partito comunista cinese sta per definire una strategia di guerra rivoluzionaria in una serie di testi di un impressionante rigore (Problèmes stratégiques de la guerre révolutionnaire, 1936; Problèmes stratégiques de la guerre des partisans contre le Japon, 1938; De la guerre prolongée, 1938)[286]. Prima di tramutarsi in dittatore megalomane e sanguinario, Mao è un maestro della strategia che trasformerà una banda d’insorti in armata vittoriosa, grazie ad una giusta strategia. Perfetta dimostrazione della forza delle idee.

 


[1] Cfr. Jean-Pierre Bois,”L’art de la paix à l’époque moderne”, Bulletin de la Société archéologique et historique de Nantes et de Loire-Atlantique, 1977.

[2] Gérard Chaliand, Anthologie mondiale de la stratégie, Parigi, Laffont, 1990.

[3] Cfr. Colonnello Cheverau, “L’art et la science militaire des anciens Égyptiens”, Stratégique, 73, 1999-1.

[4] Questi grandi conquistatori hanno lasciato solo qualche frammento sulla poliorcetica. Cfr. Dominique Charpin, “Données nouvelles sur la poliorcétique à l’époque néo-babylonienne”, Mari, 7, 1993.

[5] Everett L. Wheeler, “The Origins of Military Theory in Ancient Greece and China”, Actes des colloques de la Commission internationale d’histoire militaire, n° 5, Bucarest, 1980, p. 75.

[6] Montaigne, Essais, II, 65.

[7] Letteralmente, i combattenti con armi pesanti. Cfr. Everett L. Wheeler, “The Hoplomachoi and Vegetius’ Spartan Drillmasters”, Chiron, 13, 1983.

[8] Valérie Niquet, Les Fondements de la stratégie chinoise, Parigi, ISC-Économica, 1997, pp. 38-39.

[9] C.M. Schulten, “Le séjour de Turenne aux Pays-Bas, années de formation”, in Turenne et l’art militaire. Actes du colloque international, Parigi, Les Belles Lettres, 1978.

[10] Generale Camon, Le Maréchal de Luxembourg 1628-1695, Parigi, Berger-Levrault, 1936, p. 119.

[11] Il fatto risulta dalle Rêveries dove Maurice de Saxe narra un aneddoto raccontato da Villars (supra n. 41)

[12] Lort de Lérignan, Napoléon et les grandes généraux de la Révolution et de l’Empire, Parigi, Fontemoing, 1914, presenta un ritratto di Moreau che contrasta con il sommario giudizio di Napoleone a Sant’Elena.

[13] Ralph D. Sawyer, The Seven Military Classics of Ancient China, Boulder, Westview, 1993, p. 16.

[14] Generale de W......Y, Remarques sur l’Éssai général de tactique de Guibert, con dedica.

[15] Generale de W......Y, Remarques sur l’Éssai général de tactique de Guibert, p. 51, che riprende Puységur, Art de la guerre, vol. I, p. 104: “Il riguardo dovuto a persone di merito e di alto grado impongono il silenzio; coloro che vorrebbero romperlo non si troveranno bene; questo è ciò che molti hanno provato e che dissuade altri dall’esporre idee che potrebbero essere utili”.

[16] L’osservazione vale anche per l’immensa letteratura tattica.

[17] La Russia sembra essere il solo paese che abbia un dottorato in Scienze militari. Gli Stati Uniti possiedono delle cattedre di studi strategici in diverse università.

[18] Economics. An Introductory Analysis, di Paul Samuelson, ha avuto 15 edizioni, raggiungendo 4 milioni di esemplari venduti. Non è certo che una sola opera di strategia abbia superato il milione di esemplari, eccetto Victory through Air Power, di Alexander de Seversky, apparso negli Stati Uniti nel 1942, che ha approfittato dell’entrata in guerra degli U.S.A. (Sun Tzu e Clausewitz sono “milionari” se si sommano tutte le traduzioni).

[19] Raoul Castex, Les Idées militaires de la marine au XVIIIe siècle, Parigi, Fournier, 1911.

[20] Edward Meade Earle, Makers of Strategy, 1943, trad. francese Les Maîtres de la stratégie, Parigi, Berger-Levrault, 2 voll., 1982-83.

[21] Peter Paret, Makers of Modern Strategy, Princeton, Princeton University Press, 1985.

[22] Per limitarsi alla Francia, la sintesi del colonnello Eugène Carrias, La Pensée militaire française, Parigi, Presses universitaires de France, 1960, non è stata rimpiazzata. E molti altri autori sono conosciuti solo attraverso il libro, molto ricco ma ormai centenario, di E. Guillon, Les écrivains militaires, Parigi, Plon, 1898-99.

[23] Si tratta della versione di Emile Mayer, “Grandeur et décadence de Jomini”, Revue militaire française, XIV, 1924, p. 261.

[24] Per riprendere l’espressione del generale Poirier. L. Poirier, con la collaborazione di Gérard Chaliand, Le chantier stratégique, Parigi, Hachette, Pluriel, 1997.

[25] Shang Yang, Le livre du Prince Shang, Parigi, Flammarion, 1981.

[26] Cfr. la presentazione di Valérie Niquet in Sun Tzu, L’Art de la guerre, pp. 44-47.

[27] Cfr. la descrizione di Valérie Niquet in Sun Bin, Le Traité militaire, della ricostruzione del testo.

[28] Valérie Niquet in Sun Bin, Le Traité militaire, p. XXVI.

[29] Valérie Niquet, Deux Commentaires de Sun Zu, Parigi, ISC-Économica, Bibliothèque stratégique, 1994.

[30] Thomas Cleary, Mastering the Art of War. Zhuge Liang’s and Liu Ji’s Commentaires on the Classic by Sun Tzu, Boston-Londra, Shambala, 1989.

[31] Les 36 Stratagèmes, tradotti e commentati da François Kircher, Parigi, Lattès, 1991.

[32] Citato in Valérie Niquet, Les fondements de la stratégie chinoise, Parigi, ISC-Économica, 1997, pp. 40-41.

[33] Valérie Niquet, Les fondements de la stratégie chinoise, pp. 39-40.

[34] Su Nguyen Trai si veda il numero di maggio 1980 di Europe, che gli è interamente dedicato.

[35] Cfr. Le Dinh Tong, “Stratégie et science du combat sur l’eau au Vietnam avant l’arrivée des Français” in H. Coutau-Bégarie (dir.), L’Évolution de la pensée navale, II, Parigi, FEDN, 1992.

[36] Thomas Cleary, The Japanese Art of War. Understanding the Culture of Strategy, Boston-Londra, Shambala, 1992, p. 72.

[37] Pedro Cardoso, “A Influência de Sun Tzu no pensamento militar japonês”, Estrategia, II, 1991.

[38] Gérard Chaliand e Arnaud Bluin, Dictionnaire de stratégie militaire, p. 393.

[39] Idem.

[40] Gérard Chaliand ha appena pubblicato una traduzione francese della traduzione inglese: L’Arthasâstra, Parigi, Éditions du Félin, 1998.

[41] Questi autori sono citati in Bimal Kanti Majumdar, The Military System in Ancient India, Calcutta, K.L. Mukhopadhyay, 2a ed. 1951.

[42] Solo parzialmente accessibili in francese. Spesso bisogna fare riferimento a traduzioni inglesi.

[43] Flavio Vegezio, L’Art militaire, Bordeaux, Ulysse, 1998, p. 57.

[44] Alphonse Dain, “Les stratégistes byzantins”, Travaux et Mémoires, 2, 1967.

[45] Introduzione di Anne-Marie Bon a Énée le Tacticien, Poliorcétique, edito da Alphonse Dain, Parigi, Les Belles Lettres, 1967, p. XXI.

[46] Alphonse Dain, “Les stratégistes byzantins”, p. 326.

[47] Con argomentazioni “più matematiche, teoriche, che strategiche” dice il suo recente editore, che parla di “falange filosofica”. Asclepiodoto, Traité de tactique, trad. L. Poznanski, Parigi, Les Belles Lettres, Collection des Univerités de France, 1992, p. 41.

[48] Alphonse Dain, “Les stratégistes byzantins”, pp. 327-329.

[49] Joly de Maizeroy, prefazione a “Istitutions militaires” dell’imperatore Leone il Filosofo, Parigi, Chez Claude-Antoine Jombert, 1771, p. VII.

[50] Senofonte, Cyropédie, trad. M. Bizos e E. Delebecque, Parigi, Les Belles Lettre, Collection des Universités de France, 1971-1978.

[51] Daniel Reichel, Le Choc, Esercito svizzero, Servizio storico, 1984, p. 84.

[52] William W. Harris, War and Imperialism in Republican Rome 327-70 B.C., Oxford, Clarendon Press, 1985, p. 11.

[53] Cfr. l’introduzione di Pierre Laederich a Stratagèmes, Parigi, ISC-Économica, Bibliothèque stratégique, 1999.

[54] P. A. Stadter, “The Ars Tactica of Arrian: Tradition and Originality”, Classical Philology, 1978.

[55] Alphonse Dain, “Les stratégistes byzantins”, pp. 336.

[56] Brian Campbell, “Teach Yourself to Be a General”, The Journal of Roman Studies, 1987, p. 22. Solo nel III° secolo gli alti gradi furono proibiti alla classe senatoriale.

[57] Probabilmente verso il 386-388. La controversia sulla datazione del libro di Vegezio è senza fine. L’ultima parola in Philippe Richardot, “La datation du De Re militari de Végèce”, Latomus, gennaio-marzo 1998.

[58] La traduzione francese più recente è quella di Renée Tebib: Flavius Végèce, L’Art militaire, Bordeaux, Editions Ulysse, 1988.

[59] B. Colson, L’Art de la guerre de Machiavel à Clausewitz, Namur, Presses universitaires de Namur, 1999, p. 24.

[60] Lucien Poznanski, “La polémologie pragmatique de Polybe”, Journal des savants, gennaio-giugno 1994.

[61] Pierre Laederich, Proferre Imperium. Les questions stratégiques dans l’œuvre de Tacite, tesi, Parigi IV, 1998.

[62] Alphonse Dain, “Les stratégistes byzantins”, pp. 340 e 343.

[63] Comme spesso accade in filologia, si discute furiosamente della sua attribuzione e della sua datazione, che può andare dal VI all’inizio del IX° secolo. E’ stata anche attribuita ad Urbikios, ma si tratta di una corruzione di Maurizio fatta da copisti negligenti.

[64] Gilbert Dagron, “«Ceux d’en face». Les peuples étrangers dans les traités militaires byzantins”, Travaux et mémoires, 15, 1980, p. 226.

[65] Cfr. Walter E. Kaegi, Some Thoughts on Bizantine Military Strategy, Brooklin, The Hellenic Study Lecture, 1983, e J.A. de Foucault, Strategemata, Parigi, 1947.

[66] J.A. de Foucault, “Douze chapitres inédits de la Tactique de Nicéphore Ouranos”, Travaux et mémoires, 5, 1970.

[67] Gilbert Dagron, “«Ceux d’en face»...”, p. 218.

[68] Jean-Paul Charnay, Principes de stratégie arabe, Parigi, L’Herne, 1984.

[69] Vassilios Christides, “Two Parallel Guides of the 10 Century; Qudama’s Document and Leo VI’s Naumachica”, Graeco-Arabica, 1, 1982.

[70] Gérard Chaliand, Antologie mondiale de la stratégie, p. 449.

[71] Vassilios Christides, “Ibn al-Manqali (Mangli) and Leo VI: New Evidence on Arabo-Byzantine Ship Construction and Naval Warfare”, Byzantino-Slavica, LVI, 1955.

[72] Vicente Garcia de la Huerta, Biblioteca militar espanola, Madrid, Antonio Perez y Soto, 1760.

[73] Gérard Chaliand, Antologie mondiale de la stratégie, pp. 484-486.

[74] Gérard Chaliand, Antologie mondiale de la stratégie, pp. 519-522.

[75] Come non collegare a Sun Tzu questa massima; “Sottomettere il nemico invece di annientarlo, ecco il migliore dei bottini”.

[76] Gérard Chaliand, Antologie mondiale de la stratégie, pp. 532-535. e David Nicolle, “Medieval Warfare: the Unfriendly Interface”, Journal of Military History, 63, luglio 1999, pp. 594-597.

[77] Bruno Colson, L’Art de la guerre, de Machiavel à Clausewitz.

[78] Philippe Richardot, Végèce et la culture militaire au Moyen Âge, Parigi, Économica, Bibliothèque stratégique, 1987; “L’influence du De re militari de Végèce sur la pensée militaire du XVIe siècle” Stratégique, 60, 1995-4.

[79] Philippe Richardot, “Les éditions d’auteurs militaires antiques aux XVe-XVIe siècles”, Stratégique, 68, 1997-4, p. 78.

[80] Il cronachista Ruiz de Pina menziona questa traduzione, ma non se ne è trovata alcuna traccia.

[81] Per una traduzione inglese bisogna attendere il 1816.

[82] “Il testo di Modesto non è che un estratto di Vegezio, come ce n’erano nel Medio Evo. Modesto non è mai esistito, si tratta di una mistificazione letteraria rivelata dall’umanista Francois de Maulde nel 1580, riscoperto nel XIX° secolo”; Philippe Richardot, “Les éditions d’auteurs militaires antiques aux XVe-XVIe siècle”, p. 90.

[83] Arnaldo Momigliano, “La redécouverte de Polybe en Europe occidentale”, nella sua raccolta Problèmes d’historiographie ancienne et moderne, Parigi, Gallimard, 1983.

[84] Citato in Bruno Colson, L’Art de la guerre, de Machiavel à Clausewitz p. 22.

[85] Traduzione, rimasta allo stato di manoscritto, di Joseph Pellicer de Tobar, alla fine del XVI° o all’inizio del XVII° secolo.

[86] Alcuni estratti in Revue militaire générale,1936, pp. 360-376.

[87] Bisognerebbe fare lo stesso censimento delle traduzioni negli altri paesi europei.

[88] Cfr. Thierry Wideman, “L’histoire de l’histoire de la guerre: l’exemple de la référence antique”, Revue historique des armées, 1997-2.

[89] Philippe Richardot, Végèce et la culture militaire au Moyen Âge, p. 13.

[90] E. Van’t Dack, “La littérature tactique de l’Antiquité et les sources documentaires”, nella sua raccolta Ptolemaica selecta. Études sur l’armée et l’administration lagides, p. 50.

[91] Philippe Richardot, Végèce et la culture militaire au Moyen Âge, p. 86.

[92] Philippe Contamine, “Le Jouvencel de Jean de Bueil”, Revue de la Société des amis du Musée de l’armée, 1997-II, n° 114, p. 50

[93] Philippe Contamine, La Guerre au Moyen Âge, Parigi, Presses universitaires de France, Nouvelle Clio, 1980, pp. 367-357.

[94] Philippe Contamine, “The War Litterature of the late Middle Ages: the Treatises of Robert de Balsac and Beraud Stuart, Lord of Aubigny”, in Ch. T. Allmand (ed.), War, Literature and Politics in the Late Middle Ages, Liverpool, Liverpool University Press, 1976.

[95] Proposto dal generale Miguel Alonso Baquer, El Pensamiento militar en la historia de la infanteria española, Madrid, in corso di pubblicazione.

[96] Cfr. René Quatrefages, Los Tercios, Madrid, Ediciones Ejercito, 1983.

[97] Cfr. Rui Bebiano, A Pena di Marte. Escrita da guerra em Portugal e na Europa (Sécs XVI-XVIII), Coimbra, Minerva, 2000, che cita vari autori.

[98] John R. Hale, “Industria del libro e cultura militare a Venezia nel Rinascimento”, in Storia della cultura veneta dal Primo Quattrocento al concilio di Trento, II, Venezia, Neri Pozza, s.d., p. 245 (forse sottostima il resto dell’Europa).

[99] Félix Gilbert, ”Machiavel: la renaissance de l’art de la guerre” in Edward Mead Earle, Les Maîtres de la stratégie, vol. I, p. 23.

[100] C.C. Bayley, War and Society in Renaissance Florence. The De Militia of Leonardo Bruni, Toronto, Toronto University Press, 1961.

[101] Félix Gilbert, “Machiavel...”, p. 30-31.

[102] Claude Gaier, “L’invincibilité anglaise et le grand arc après la guerre de Cent Ans: un mythe tenace”, nella sua raccolta Armes et combats dans l’univers médiéval, Bruxelles, De Boeck Université, 1995, p. 331.

[103] Cfr. Anthony Bruce, A Bibliography of British Military History from Roman Invasion to the Restoration 1660, Londra, Saur, 1981.

[104] Francois d’Espinay de Saint-Luc compone un trattato simile, che resterà inedito. Si attende una edizione moderna.

[105] Questi autori sono citati in Hèléne Michaud, “Les institutions militaires des guerres d’Italie aux guerres de religion”, Revue historique, 523, luglio-settembre 1977, che osserva sobriamente che “la  letteratura militare del XVI° secolo è poco conosciuta”.

[106] Cfr. l’antologia presentata da Lucien Nachin, Blaise de Monluc, Parigi, Berger-Levrault, Les Classiques de l’art militaire, 1949.

[107] Tutti questi autori sono sconosciuti. Eugéne Carrias, La Pensée militaire allemande, Parigi, Presses universitaires de France, 1948, non ne cita alcuno. Sono stati esumati da Jean-Jacques Langendorff, di cui si attende con impazienza la annunciata sintesi sui pensatori tedeschi.

[108] Philippe Contamine, La Guerre au Moyen Âge, p. 364.

[109] Cfr. Edmond Silberner, La Guerre dans la penséeéeconomique du XVe au XVIIIe siècle, Parigi, Sirey, 1939.

[110] Bernardino de Mendoza, Teórica y práctica de la guerra, Madrid, Ministerio de Defensa, 1998, p. 52.

[111] Cfr. Jean-Pierre Poussou, Les Îles Britanniques, les Provinces Unies, la guerre et la paix au XVIIe siècle, Parigi, Économica, 1991, p. 190-191.

[112] Bruno Colson, L’Art de la guerre, de Machiavel à Clausewitz p. 50. Juste Lipse è stato l’insegnante di Maurizio di Nassau; Gustavo Adolfo di Svezia e Turenne hanno letto i suoi libri.

[113] Cfr. Henry J. Webb, Elizabethan Military Science. The Books and the Practice, Madison-Milwaukee-Londra, Wisconsin Press, 1965.

[114] Cfr. Tadeuz Marian Nowak, “Polish Warfare Technique in the 17th Century, Theoretical Conception and their Practical Applications”, in Military Technique, Policy and Strategy, Varsavia, Ministry of National Defense Publishing House, 1976.

[115] Cfr. J.H. Elliott, Richelieu et Olivarès, Parigi, Presses universitaires de France, 1991.

[116] Cfr. Gregory Hanlon, The Twilight of a Military tradition: Italian Aristocrats and European Conflicts 1560-1800, Londra, UCL, Press-Taylor and Francis, 1997.

[117] Jean-Michel Thiriet, “La redécouverte d’un homme de guerre et de lettres: Montecuccoli” Stratégique, 60, 1995-4. (In realtà Raimondo Montecuccoli era italiano, essendo nato nel 1609 a Frignano da antica famiglia modenese e da madre ferrarese (N.d.T.)).

[118] Questi ha lasciato delle Mémoires, che si arrestano al 1660. Molto lette nel XVIII° secolo, non hanno la stessa ricchezza teorica dei libri di Montecuccoli.

[119] Bruno Colson, L’Art de la guerre, de Machiavel à Clausewitz p. 103.

[120] Raimondo Luraghi, “Sun Tzu e il pensiero militare occidentale”, in Su Tzu, L’arte della guerra, Roma, Stato maggiore Esercito - Ufficio Storico, 1990, p. 11 e 17.

[121] Carrion-Nisas, Essai sur l’histoire générale de l’art militaire, II, p. 252.

[122] Puységur, Art de la guerre, pp. 26 e 37.

[123] L’Enciclopedia dedica all’arte militare parecchie centinaia di articoli; la maggior parte sono scritti da Guillaume Leblond, professore di matematica ed autore di parecchie opere sulle fortificazioni, l’assedio e la tattica. Cfr. Fréderic Chauvuré, “Guillaume Leblond, encyclopédiste de la Guerre”, Enquêtes et documents, 25, 1998.

[124] Jean Chagniot, La Stratégie de l’incertitude. Le chevalier de Folard, Editions du Rocher, 1997.

[125] Bruno Colson, L’Art de la guerre, de Machiavel à Clausewitz p. 215.

[126] Maresciallo de Saxe, Mes Rêveries, p. 13. Gli insegnamenti del Maresciallo sono ugualmente divulgati dal barone d’Espagnac, che sarà il suo storico, in un “Recueil d’observations de différents auteurs”, inizialmente intitolato Essai sur la science de la guerre (1753), poi Essai sur les grandes opérations de la guerre (1775).

[127] “Parla di tutto, a proposito di tutto, senza idee, senza un piano, senza un metodo che coordini le parti. Ciò che dice a proposito di Vegezio, lo diceva ugualmente a proposito di Cesare o di Montecuccoli: se le trasposizioni fossero senza conseguenze, non si noterebbero”. Carrion-Nisas, Essai sur l’histoire générale de l’art militaire, II, p. 225.

[128] Cours de tactique, 1776; Traité de tactique, 1767; La Tactique discutée et réduite à ses véritables lois, 1773... L’insieme è ripreso in una edizione postuma dei Cours de tactique, 1785.

[129] Non senza incontrare vive resistenze. Nell’Esercito, i discepoli di Guibert erano chiamati i “maneggioni”.

[130] Cfr. il colloquio sulla tattica nel XVIII° secolo, Actes des colloques de la Commission internationale d’histoire militaire, n° 13, 1991.

[131] Antoine-Henri Jomini, Précis de l’art de la guerre, p. 5.  La logistica è qui considerata come scienza di Stato maggiore.

[132] Generalmente scritto, a torto, Feuquières.

[133] Mémoires del marchese di Feuquière, Londra, Chez Pierre Dunoyer, 1736, p. 282.

[134] Carrion-Nisas, Essai sur l’histoire générale de l’art militaire, II, p. 198.

[135] Joly de Maizeroy, Théorie de la guerre, Nancy, Chez la Veuve Leclerc, 1777, p. XVIII.

[136] Matti Lauerma, Jacques-Antoine-Hippolyte de Guibert (1743-1790), Helsinki, Annales Academiae scientiarum Finnicae, 1989.

[137] Préjugés militaires, di un ufficiale austriaco, a Kralovelhota, 1780, p. 34.

[138] Antoine-Henri Jomini, Précis de l’art de la guerre, p. 6.

[139] Lucien Poirier, Les Voix de la stratégie, p. 309.

[140] L’Instruction pour mes généraux, detta anche Directive pour mes généraux, redatta in tedesco, venne tradotta in francese dal Principe de Ligne.

[141] R. R. Palmer, “Fréderic le Grand, Guibert, Bülow: de la guerre dynastique à la guerre nationale”, in Edward Mead Earle, Les Maîtres de la stratégie, Vol. I, p. 71.

[142] Totalmente assente dalla storia del pensiero strategico, è stato riscoperto dal professor Curd Ochwaldt, che ha curato una edizione dei suoi scritti.

[143] Su cui non si ha alcuna informazione.

[144] Che non si trova nel libro, peraltro molto ricco, di Azar Gat, The Origins of Military Thought, from the Enlightenment to Clausewitz, Oxford, Clarendon Press, 1989, che si limita agli autori conosciuti.

[145] Citato in Eugène Carrias, La Pensée militaire allemande, p. 112.

[146] Franco Venturi, “Le Avventure del generale Henry Lloyd”, Rivista storica italiana, 1979-2/3.

[147] La Philosophie de la guerre, spesso pubblicata o tradotta separatamente, è un capitolo di quest’opera.

[148] Edmond Silberner, La Guerre dans la pensée économique du XVIe au XVIIIe siècles, pp. 69-72.

[149] Jomini, anche lui svizzero, lo credeva prussiano! Qualche informazione in Michel Chabloz, “Le Général de Warnery (1720-1786). «Cenni sulla cavalleria»”, Histoire et défense, 18, 1988-2.

[150] Cfr. Rui Bebiano, A Pena de Marte. Escrita da guerra em Portugal e na Europa, pp. 424-438.

[151] Ilmari Hakala, “G. M. Sprengtporten – a Tactician. Some Aspects about the Swedish-Finnish Tactics in the Latter Part of the 18th Century”, Actes des colloques de la Commission internationale d’histoire militaire, n° 13, 1991.

[152] Schaumbourg-Lippe, Schriften und Briefe, p. 127.

[153] Il generale Poirier riassume tutto ciò nella formula: “teoria fondatrice, pratica creatrice”, L. Poirier, Des Stratégies nucléaires, Paris, Hachette, 1977, p. 12.

[154] Con il maggiore August Wagner (Grundzüge der reinen strategie, 1809), che Jomini elogia, e il generale Zach, che pubblica una Tattica della fanteria (1812-1830). Bisognerebbe ugualmente recensire gli autori di Paesi secondari, per esempio il danese Jens Kragh Höst.

[155] Oltre a numerosi manoscritti perduti nel 1956 durante l’insurrezione di Budapest.

[156] Citato in “Remarques sur la Stratégie pure et appliquée de Monsieur von Bülov” pubblicato anonimamente da Clausewitz nel 1805 nella Neue Bellona, riprese in Carl von Clausewitz, De la Révolution à la Restauration, Parigi, Gallimard, 1976, p. 79.

[157] Cfr. la biografia critica di Bruno Colson, in Antoine de Jomini, Les Guerres de la Révolution (1792-1797), Parigi, Hachette, Pluriel, 1998.

[158] La biografia di riferimento è ora quella di Jean-Jacques Lagendorf, Faire la guerre. Jomini, Ginevra, Georg, 2001.

[159] Daniel Reichel, ”La guerre en montagne dans l’œuvre historique de Jomini. Analyse sommaire de quelques cas concrets”, Revue internationale d’histoire militaire, 65, 1988, p. 159. Jomini faceva la stessa riflessione a proposito di Lloyd.

[160] Bruno Colson, "Lire Jomini", Stratégique, 49, 1991-1, p. 70.

[161] Generale Duffour, “L’élément terrain en stratégie” (1930), Stratégique, 58, 1995-2, p. 67.

[162] Questa è almeno l’interpretazione comune. Ma il generale Poirier ha dimostrato che ne era possibile una lettura molto più complessa. Cfr. le sue “Variations sur Jomini” in Les Voix de la Stratégie.

[163] Émile Mayer, “Grandeur et décadence de Jomini”, pp. 362-363.

[164] John I. Alger, Antoine-Henri Jomini: A Bibliographical Survey, West Point, US Military Academy, 1974, che non menziona le traduzioni italiana e russa del Précis...

[165] Deluso per non aver ottenuto la Cattedra di strategia e tattica al Politecnico federale, si suicidò nel 1878.

[166] Cfr. Bruno Colson, La culture stratégique américaine. L’influence de Jomini, Parigi, Économica, Bibliothèque stratégique, 1993.

[167] Wilhelm Rüstow, L’Art de la guerre au XIXe siècle, vol. II, p. 72.

[168] La biografia migliore è quella di Peter Paret, Clausewitz and the State, Princeton, Princeton University Press, 1976; traduzione tedesca 1993.

[169] Bystrzonowski ne ha pubblicato un riassunto in francese nel 1845. Una traduzione francese integrale appare solo nel 1998 e sembra essere l’unica.

[170] Antoine Grouard, Stratégie, p. 5.

[171] 2a ed. 1853; 3a ed. 1867-1869; 4a ed. 1880; 5a ed. 1905; 6a ed. 1911; 7a ed. 1912; 8a ed. 1914; 9a, 10a, 11a ed. 1915; 12a ed. 1917; 13a ed. 1918; 14a ed. 1933; 15a ed. 1937; 16a ed. 1952; 17a ed. 1966; 18a ed. 1972; 19a ed. 1980...

[172] Cfr. Michael I. Handel (ed), Clausewitz and Modern Strategy, Londra, Frank Cass, 1986, con tre contributi sull’argomento, e, più documentato e più dettagliato, A. J. Echevarria, “Borwing from the Master: Use of Clausewitz in German Military Literature before the Great War”, War and History, luglio 1996.

[173] Peter Paret, “Hans Delbrück on Military Critics and Military Historians”, Military Affairs, 1996-3.

[174] Il riferimento fondamentale è costituito qui da Raymond Aron, Penser la guerre, completato da Bruno Colson, “La première traduction française de Vom Kriege de Clausewitz et sa diffusion dans les milieux militaires français et belges avant 1914”.

[175] Ripresa e completata negli Essais de critique militaire, Parigi, Librairie de la Nouvelle Revue, 1890. Gilbert cerca di dimostrare la superiorità di Napoleone sui suoi successori tedeschi.

[176] Generale von Caemmerer, L’Évolution de la stratégie au XIX° siècle, p. 121.

[177] Cfr. Christopher Bassford, Clausewitz in English: The Reception of Clausewitz in Britain and America 1815-1945, New York, Oxford University Press, 1994.

[178] E la Campagne de 1812 nel 1843. Ancora oggi, è la sola che sia stata tradotta.

[179] Jay Luvaas, “Clausewitz, Fuller and Liddel Hart”, in Michael I. Handel, Clausewitz and Modern Strategy, pp. 197-212.

[180] Raymond Aron, Penser la guerre. Clausewitz, vol. II, p. 347. Bernard Brodie ha scritto la prefazione di una nuova traduzione di Vom Kriege, realizzata da Michael Howard e Peter Paret, On War, Princeton University Press, 1976. Il progetto di Œuvres choisies, in 6 volumi, non ha avuto esito. E’ comparso un solo volume, Historical and Political Writings, 1992.

[181] Olaf Rose, Carl von Clausewitz. Wirkungsgeschichte seines Werke in Russland und der Sowjetunion 1836-1995, Monaco, Oldenbourg Verlag, 1995.

[182] Jean-Christophe Romer, ”Quand l’Armée rouge critiquait Clausewitz”, Stratégique, 33, 1987-1.

[183] In particolare in The Ghost of Napoleon, 1937.

[184] Christophe Wasinski, Clausewitz et le discours stratégique américain (de la fin de la Seconde Guerre mondiale à nos jours), tesi di Scienze politiche, Facoltà universitaria di Namur, 1999.

[185] Bisogna sempre riferirsi all’edizione in 10 volumi pubblicata dalla sua vedova dal 1832 al 1837, che è molto incompleta. Molti testi sono stati pubblicati un po’ dappertutto. Troviamo ancora degli inediti (per esempio, una lettera al principe Augusto di Prussia sulle campagne del 1796 e 1797 in Italia; Peter Paret (ed.), “An Unknown Letter by Clausewitz”, The Journal of Military History, aprile 1991). Il Terzo Reich aveva lanciato un progetto di una nuova edizione, che non aveva avuto seguito. Il professor Werner Hahlweg ha pubblicato una edizione critica del Vom Kriege che fa testo (19a ed.) e pubblicato due grossi volumi di scritti vari, nel 1966 e 1992, che comprendono in particolare il corso sulla Piccola guerra.

[186] Raymond Aron concorda con il generale Poirier nel ritenere che la traduzione di Denise Naville non permette uno studio scientifico del Vom Kriege. Quanto alla traduzione inglese di Michael Howard e Peter Paret, pur rappresentando un considerevole progresso rispetto a quella del colonnello Graham e di Maude, un commentatore ha notato che essa ”corrects a lot of errors but adds others”. Si veda un buon esempio di differenza di traduzione in Jan Willem Honig, “Interpreting Clausewitz”, Security Studies, primavera 1994, pp. 575-576.

[187] S. J. Cimbala, Clausewitz and Escalation. Classical Perspective on Nuclear Strategy, Londra, Frank Cass, 1991.

[188] Sottotitolato semplicemente The Most Radical Reinterpretation of Armed Conflict Since Clausewitz. Il risultato non è completamente convincente. La presentazione semplifica le tesi di Clausewitz fino alla caricatura.

[189] Antoine-Henri Jomini, Précis de l’art de la guerre, p. 9.

[190] Herbert Rosinski, “Scharnhorst to Schlieffen: the Rise and Decline of German Military Thought”, Naval War College Review, estate 1976, p. 83. Jomini era inizialmente molto legato a Rühle, ma i loro rapporti si erano deteriorati, al punto che polemizzarono aspramente tra loro.

[191] Ferruccio Botti, Il pensiero militare e navale italiano dalla Rivoluzione francese alla Prima Guerra Mondiale, vol. I, 1789-1815, Roma, Stato Maggiore dell’Esercito, Ufficio Storico, 1995.

[192] Cf. la impressionante bibliografia di José Ignacio Muro Morales, El pensamiento militar sobre el territorio en la España contemporanea, Madrid, Ministerio de Defensa, 1992.

[193] Cfr. la Revista de historia militar, 1983, numero speciale dedicato a Villamartin.

[194] Luis da Camara Leme, Elementos da arte militar, Lisbona, Impresa nacional 2a ed. 1874, p. 13.

[195] Carl Van Dyke, Russian Imperial Military Doctrine and Education, Westport, Greenwood Press, 1990 e Walter Pinter, “Russian Military Thougt: the Western Model and the Shadow of Suvorov”, in Peter Paret (ed.), Makers of Modern Strategy.

[196] Cfr. Jay Luvaas, The Education of an Army, Chicago, Chicago University Press, 1964.

[197] Di cui i quattro volumi, apparsi nel 1831 dopo la morte del maresciallo, non coprono che gli anni 1798-1800 (I e II) e 1812-1813 (II e IV).

[198] Rogniat replicò con delle Nouvelles considerations (1823). Rogniat fu ugualmente contestato dal colonnello Marbot, Remarques critiques sur l’ouvrages de M. le général Rogniat, 1820.

[199] Tendenza ben giudicata dal generale Poirier quando parla della gelosia dei critici.

[200] Gli scritti di Sant’Elena hanno avuto molteplici edizioni, anche in inglese (dal 1831, Chandler pubblicava The Military Maxims of Napoleon). La più sicura è quella ordinata da Napoleone III, Commentaires de Napoléon I, 6 vol., Parigi, Imprimérie impériale, 1867. Bisogna diffidare di alcune edizioni, come quella di Le Vasseur, Commentaires de Napoléon, Parigi, Corréard, 1851, che cerca di “completare le parti incomplete del monumento che Napoleone costruiva nel suo esilio”.

[201] Redatto mentre era emigrato in Portogallo dal 1797 al 1813 e revisionato dal tenente colonnello Koch, professore d’arte e di storia militare alla Scuola d’applicazione di Stato Maggiore, che era stato aiutante di campo di Jomini.

[202] Apparsi sotto forma di articoli nel 1876-1877, gli Études sur le combat. Combat antique et combat moderne sono riuniti in volume nel 1880 e ripubblicati nel 1903, 1942 e 1978; traduzione inglese 1921, spagnola.

[203] Comandante Mordacq, La stratégie, p. 63.

[204] Paddy Griffith, Military Thought in the French Army, 1815-1851, Manchester-New York, Manchester University Press, 1989.

[205] William Serman, La vie professionelle des officiers français au milieu du XIXe siècle, p. 128.

[206] Cfr. Ferruccio Botti, Il pensiero militare e navale italiano...., vol. I, pp. 231-297.

[207] In Francia, il Journal des Sciences militaires e Le Spectateur militaire sono affiancati da una rivista d’informazione, la Revue militaire de l’étranger (o Revue militaire des armées étrangères) nel 1871, poi dalla Revue d’histoire appliquée à l’État-major de l’Armée nel 1899, e dalla Revue militaire générale nel 1907.

[208] Cfr. il Cours d’infanterie del colonnello Pétain, tenuto all’École supérieure de guerre nel 1911.

[209] Gli scritti di Moltke sono stati oggetto di numerose edizioni e traduzioni, di cui la più abbondante è quella prodotta dal Grande Stato maggiore dal 1892 al 1912, Militärische Werke, 14 vol. L’introduzione migliore è l’antologia riunita da Daniel J. Hughes, Moltke on the Art of War. Selected Writings, Novato, Presidio Press, 1993.

[210] Il generale von Schlichting ha comandato la missione militare tedesca in Giappone durante la guerra russo-giapponese del 1904-1905.

[211] Sebastião Telles, Introduçao ao estudio dos conhecimentos militares, Lisbona, Imprensa nacional, 1887, costituisce una delle due referenze più importanti (l’altra è quella di Rüstow).

[212] Sarà ancora attivo dopo il 1918 (Vom Kriege der Zukunft, 1920; traduzione inglese 1920, spagnola 1920, italiana 1923). Propagandista del pangermanesimo, Friedrich von Bernhardi è anche un autore perspicace. Castex lo cita spesso.

[213] Antoine Grouard è stato salvato da un oblio quasi completo da Raymond Aron, che considera il suo libro come “superiore alla maggior parte delle opere dell’epoca, inclusa quella del maresciallo Foch”.

[214] Cfr. Piero Pieri, Guerra e politica negli scrittori italiani, Milano, Mondadori, 1975.

[215] Generale Wilhelm von Scherff, Von der Kriegführung, 1883; traduzione francese non pubblicata (dalla Scuola superiore di guerra - ESG) s.d. Die Lehre von Kriege, 1897.

[216] Il generale Paul Bronsart von Schellendorff scrive un trattato di Stato maggiore, Der Dienst des Generalstabes, 1875-76; traduzione francese 1876, inglese 1905.

[217] J. Meckel, Taktik, 1878; traduzione francese 1887.

[218] Il generale Albrecht von Boguslawski effettua una nuova traduzione del Précis di Jomini e di numerose opere, tra cui Betrachtungen über Heerwesen und Krieg führung, 1897.

[219] Ludwig von Falkenhausen, Flankenbewegung und Massenheer, 1898; traduzione francese non pubblicata (dalla ESG) s.d.; Ausbildung für den Krieg, 1902. Der Grosse Krieg der Jetztzeit, 1909; traduzione russa 1911 e francese non pubblicata (dalla ESG) s.d.; Kriegführung und Wissenschaft, 1913.

[220] Herbert Rosinski, “Scharnhorst to Schlieffen”, p. 103.

[221] Denis Sholwater, “Goltz and Bernhardi; The Institutionalization of Originality in Imperial German Army” Defense Analysis, dicembre 1987.

[222] Charles E. Calwell, Military Operations and Maritime Preponderance. Their Relations and Interdipendence, 1905, riediz. Annapolis, Naval Institute Press, 1996.

[223] Raymond Aron, Penser la guerre. Clausewitz, vol. II, p. 34. Stesso giudizio in Bernard Brodie, La Guerre nucléaire, Parigi, Stock, 1965, p. 11.

[224]Cfr. Paul M. Kennedy (ed.), The War Plans of the Great Powers 1880-1914, passim.

[225] Rudolf von Caemmerer, Die Entwicklung der strategischen Wissenschaft im 19 Jahrhundert, 1904; traduzione inglese 1905, francese 1907, russa 1938.

[226] H. von Freytag-Loringhoven, Die Macht der Persönlichkeit im Kriege, 1905; traduzione russa 1906, francese 1913, inglese 1938. Krieg und Politik in der Neuzeit, 1911 (opera particolarmente ricca).

[227] Des Principes de la guerre è stato riedito da André Martel nel 1996.

[228] E molti altri, caduti nella dimenticanza più totale. Chi legge ancora gli autori britannici di questo periodo? E per essi, al contrario degli autori italiani o spagnoli, non si può invocare l’ostacolo linguistico.

[229] In Gran Bretagna, The Battle of Dorking  (1871) di George Chesney, The Riddle of the Sands (1903) di Erskine Childers...; in Germania Banzaï (1908) di Parabellum, Männer (1913) di Georg Heidenmarket; in Francia, i numerosi libri del capitano Danrit (il deputato di Nancy Emile Driant). Questa letteratura a buon mercato ha contribuito, più che le opere “serie”, a mantenere un clima agitato ed ha pesato, talvolta, sulla definizione delle politiche militari.

[230] Colmar von der Goltz, La Nation Armée, p. 137, citato da Foch, Des Principes de la guerre, p. 111 (le due traduzioni differiscono leggermente).

[231] L’opera di Leer è molto tradotta in tedesco, quella di Dragomirov in francese. N. P. Michnevich, che succede a Leer come autore di riferimento, si ricollega piuttosto alla Scuola nazionale.

[232] Le Manuel pratique pour vaincre di Suvorov non è che un opuscolo di una decina di pagine che tratta solo di disciplina e di ardore nel combattimento. Non tratta né di strategia né di tattica, ma fonda una corrente di pensiero che proclama la superiorità del fattore morale in guerra.

[233] Prefazione di Luis Vidart alle Obras selectas di don Francisco Villamartin, Madrid, Tipografia de los sucesores de Rivadeneyra, 1883, p. XIX.

[234] Claude Digeon, La Crise allemande de la pensée française, Parigi, Presses universitaires de France, 1962.

[235] La ricca opera di Jean Colin (una ventina di lavori, sulle campagne del maresciallo de Saxe, della Rivoluzione e dell’Impero) è dominata dalle sue due sintesi Les grandes batailles de l’histoire (de l’Antiquité à 1913), Parigi, Flammarion, 1913 e Les Transformations de la guerre, 1911, riedizioni 1937 e 1989; l’edizione americana, 1912, è stata ripubblicata  costantemente.

[236] Bruno Colson, “Camon ou l’exégète de Napoleon”, Stratégique, 60, 1995-4.

[237] Cfr. Arden Bucholz, Hans Delbrück and the German Military Establishment, Iowa City, University of Iowa Press, 1985.

[238] Jack Snyder, The Ideology of the Offensive. Military Decision Making and the Disasters of 1914, Ithaca, Cornell University Press, 1984 e Stephen Van Evera, “The Cult of the Offensive and the Origins of the First World War”, International Security, IX-1, estate 1984, da completare con la rilettura di Scott D. Sagan, “1914 Revisited. Allies, Offense and Instability”, International Security XI-2, autunno 1986.

[239] Philip Gollwitzer, L’Impérialisme de 1880 à 1914, Parigi, Flammarion, 1975.

[240] Cfr. Thomas Lindemann, Les doctrines darwiniennes et la guerre de 1914, Parigi, ISC-Économica, Hautes Études militaires, 2001.

[241] Cfr. Jay Luvaas, The Military legacy ofthe Civil War. The European Inheritance, Chicago, Chicago University Press, 1959.

[242] Dove si trova (p. 54) questa frase, tipica dello stato d’animo generale: “Non sono le poche batterie di mitragliatrici Maxim da poco in servizio nell’esercito tedesco che cambieranno sensibilmente la fisionomia delle future battaglie”.

[243] Michael Howard, “Men against Fire: the Doctrine of the Offensive in 1914”, in Peter Paret (ed.), Makers of Modern Strategy.

[244] Lo svilupperà in Comment on pouvait prévoir l’immobilisation des fronts dans la guerre moderne (1916). In Gran Bretagna, Lord Kitchener giunge alla stessa conclusione, ma non pubblica niente.

[245] Barry R. Posen, The Sources of Military Doctrine. France, Britain and Germany bertween the World Wars, Ithaca, Cornell University Press, 1984.

[246] Heinz Guderian, Souvenirs d’un soldat, Parigi, Plon, 1961, p. 8.

[247] La sua opera è sovrabbondante: più di 40 libri tra il 1907 e il 1965. Cfr. Brian Holden Reid, J.F.C. Fuller: Military Thinker, Londra, Macmillan, 1987.

[248] Anch’egli autore prolisso, con una ventina di libri. Come cronista militare del Times e ascoltato consigliere del ministro della Difesa Hore Belisha, esercita una grande influenza. Cfr. Brian Bond, Liddel Hart, A Study of his Military Thought, New Brunswick, Rutgers University Press, 1977 (piuttosto favorevole) e John J. Mearsheimer, Liddel Hart and the Weight of History, Ithaca-Londra, Cornell University Press, 1988 (molto critico, se non ostile).

[249] Gen. Camon, La Motorisation de l’Armée et la manœuvre stratégique, Parigi, Berger-Levrault, 1926, p. VI.

[250] Bruno Chaix, “Le général Alléhaut: un théoricien militaire ignoré de l’entre-deux-guerres”, Guerres mondiales et conflits contemporaines, 184, ottobre 1996.

[251] E’ molto difficile determinare la sua influenza, tanto è stata deformata dalla sua azione successiva; tutti in Francia dopo il 1945 si sono ricordati di averlo letto, rari erano coloro che all’epoca lo hanno citato; il suo libro più celebre Vers l’Armée de métier (1934) è tradotto in tedesco nel 1935, la traduzione inglese dovrà aspettare il 1941.

[252] Gen. Visconti Prasca, La Guerre décisive, Parigi, Berger-Levrault, 1935, pp. 50 e 145.

[253] Gen. Chauvineau, Une Invasion est-elle encore possible? Parigi, Berger-Levrault, 1939

[254] Cfr. Azar Gat,”British Influence and Evolution of the Panzer Arm: Myth or Reality? I & II, War in History, 1997-2 e 3. Non meno di sei libri di Liddel Hart sono tradotti in tedesco prima del 1939, tre in francese; ma la traduzione (completa) della sua iconoclasta biografia di Foch non apparirà mai.

[255] Cfr. V. N. Lobov, “Le général Svechin et l’évolution de l’art militaire: ses idées face à l’épreuve du temps”, Stratégique, 56, 1992-4 e l’introduzione di Jacob Kipp a Alexandr Svechin, Strategy, Minneapolis, East View Pubblications, 1992.

[256] Azar Gat, “British Influence...II”, p. 322.

[257] Jean-Christophe Romer, La Pensée stratégique russe au XXe siècle, Parigi, ISC-Économica, 1997, pp. 17-19.

[258] Riprese in due volumi: L’Année cruciale, 1944 e La Guerre des cinq continents, 1944

[259] Manca ancora una storia sistematica della piccola guerra. La sintesi più riuscita è quella di Werner Hahlweg, Guerilla. Krieg ohne Fronten, Stoccarda, Holhammer, 1968. Si può sempre leggere Gustave Desroziers, Combats de partisans. Récits des petites opérations de la guerre depuis le XIVe siècle jusqu’à nos jours, Parigi, Librairie militaire Baudoin, 1883, che offre numerosi esempi. E naturalmente l’antologia di Walter Laqueur, The Guerilla Reader. A Historical Anthology, New York-Londra, Meridian Books, 1977.

[260] Gilbert Dargon e Haralambie Milhaescu, Le traité sur la guérilla de l’empereur Nicéphore Phokas, Parigi, Éditions du CNRS, 1986.

[261] Il termine “piccola guerra” sarà correntemente impiegato fino alla fine del XIX° secolo.

[262] Bernard Peschot, “La notion de petite guerre en France” (XVIIIe siècle)”, Les Cahiers de Montpellier, 28, 1983 II, p. 147.

[263] Bernard Peschot, “La notion de petite guerre en France”, p. 148.

[264] Il riferimento fondamentale è ora Bernard Peschot, La guerre buissonière, Parigi, ISC-Économica, Bibliothèque stratégique, 2001; da completare con Werner Hahlweg, Guerilla. Krieg ohne Fronten; Peter Paret, Yorck...; Pierre Carles, “L’influence exercée sur la pensée militaire par des esprits individualistes jusq’en 1815”, Actes du symposium 1989, Pully (Svizzera), Centre d’histoire et de prospectives militaires, 1990.

[265] Almeno all’estero; non sarà riedito in Francia

[266] Al servizio dell’Austria, poi della Francia e della Prussia, prima di ritornare in Austria dove finirà generale! József Zachar, “Ein ungarischer Klassiker über den Kleinkrieg: Das Werk «Le partisan» von L.M. v. Jeney, erschienen 1759 im Haag”, Acta de la Commission internationale d’histoire militaire, n° 13, Helsinki, 1991.

[267] Il libro di Lecointe suscita un certo allarme a Versailles, che vi vede “una istruzione per la ripresa della guerra dei Camisards”. Emile G. Léonard, L’Armée et ses problèmes au XVIIIe siècle, Parigi, Plon, 1958, p. 209.

[268] Ma Guibert stima che i corpi di truppe leggere “possono formare qualche buon comandante d’avanguardia, ma mai degli uomini di primo rango, come i Turenne, i Luxembourg...” Warnery gli oppone qualche esempio ilustre: “...Luxembourg, quando era ancora Boutteville e al servizio del Gran Condé, faceva il Partigiano.. Villars diceva che aveva appreso l’arte della guerra andando alla guerra con i Partigiani più abili”. (Remarques sur l’Essai général de tactique de Guibert, p. 140).

[269] Anonimo (conte di Grimoard), Traité sur la constitution des troupes légères et sur leur emploi à la guerre (1782, traduzione tedesca 1785); Jean Girard de Cessac-Lacuée, Guide des officiers particuliers en campagne (1782, 1805, 1816, 1823; traduzione spagnola 1806); Charles-Louis de Fossé, Idées d’un militaire pour la disposition des troupes confiées aux jeunes officiers dans la défense et l’attaque des petits postes, (1783; traduzione tedesca 1789).

[270] Ewald diventerà tenente generale nell’esercito danese.

[271] Bernard Peschot, “La question des niveaux de la guerre dans les pacifications de l’Ouest: l’exemple du général Hoche”, Impacts,1991-2, p. 45.

[272] Circa la differenza tra Vandeani e Chouans, che spesso vengono confusi, cfr. Simone Lodreau, “Vendéens et Chouans”, Revue du Souvenir vendéen, 211 e 212, giugno e settembre 2000.

[273] Il generale Hoche compila nel 1795 le Instructions pour les troupes employées à combattre les Chouans.

[274] Resta da fare un censimento per gli altri paesi d’Europa. Nel 1804, compaiono a Napoli, anonimi, gli Opuscoli militari sulla piccola guerra. Ce ne sono senza dubbio altri.

[275] La sua vedova non lo comprenderà nelle sue opere postume e sarà pubblicato solo nel 1966 da Werner Hahlweg.

[276] Carl von Clausewitz, De la Guerre, p. 552.

[277] Gérard Chaliand, Anthologie mondiale de la stratégie, pp. 803-804.

[278] Denis Davidoff, Essai sur la guerre de partisans, Parigi, Corréard, 1841, pp. 19-23.

[279] Vittorio Scotti Douglas, “The Influence of the Spanish Anti-Napoleonic Guerilla Experience on the Italian Risorgimento’s: Treaties on Partisan Warfare”, XXe International Colloquium of Military History 1994, Varsavia, 1995.

[280] Maresciallo Bugeaud, La Guerre des rues et des maisons, Parigi, Jean-Paul Rocher Éditeur, 1997.

[281] A. W. Taylor, Jungle Warfare,1902; C.B. Wallis, West African Warfare, 1906; ten. Col. W.C.G. Heneker, Bush Warfare, 1907; G. Casserly, Manual of Training for jungle and River Warfare, 1915.

[282] Autore prolifico e pioniere delle operazioni combinate (infra n°226).

[283] C.E.Calwell, Petits guerre, Parigi, ISC-Économica, Bibliothèque stratégique, 1998, p. 77.

[284] T. R. Moreman, “«Small wars» and «Imperial Policing»: The British Army and the Theory and Practice of Colonial Warfare in the British Empire 1919-1939”, The Journal of Strategic Studies, dicembre 1996. Il Manual of operations on the North-West Frontier of India, 1925, è pubblicato in 35.000 esemplari. E’ sostituito, nel 1939, da un nuovo manuale comune per l’esercito e l’aviazione, Frontier Warfare.

[285] Dopo il 1945, l’esperienza della resistenza, poi delle guerre di decolonizzazione, obbligherà gli Stati maggiori a integrare in permanenza la guerriglia nei loro piani. Ma la riflessione teorica resta molto limitata, indice di una reticenza che rimane molto forte. Tra i saggi che le sono stati dedicati, segnaliamo, almeno, quello di Ferdinand-Otto Miksche (Secret Forces, 1950).

[286] Tutti questi testi sono ripresi dagli Écrits militaires tradotti in innumerevoli lingue.

 

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