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Logica, teoria dell’inchiesta.
la prassi militante come soggetto
e come episteme

by Toni Negri

Attraverso il discorso sulla causalità storica e sulla genealogia ontologica del concetto di Impero si è cercato di “sussumere nel concetto” (per dirla con Hegel e con Marx) i grandi movimenti sociali, le trasformazioni delle tecniche di governo e dei dispositivi strutturali della sovranità. Abbiamo, dunque, fatto opera di scienza politica. Ma non si tratta solo di questo. Attraverso questo tipo di analisi si è cercato non solo di fissare dei passaggi funzionali, ma anche di cogliere gli spiazzamenti e le contraddizioni contenuti in questo corso degli eventi. In ogni caso, c’è da dire che il percorso sinora tracciato lascia aperta una serie di questioni metodologiche. Si tratta, allora, di approfondire i temi affrontati sinora.

Un primo punto che emerge dalla discussione e che va dunque approfondito è il passaggio fissato dalla coniugazione dell’elemento ontologico (i movimenti) e di quello istituzionale (politico). Il rapporto tra movimenti sociali e modificazioni istituzionali si dà, infatti, in concomitanza con la trasformazione della natura stessa dei movimenti. In questo senso è fondamentalmente il passaggio dall’egemonia del lavoro materiale a quello immateriale, cioè l’analisi di quei processi, interni alla forza-lavoro, che hanno trasformato, con il modo di lavorare, quello di esistere e di esprimersi. È all’interno di queste dimensioni ontologiche del lavoro che si trova la ragione dell’evoluzione storica. Non ci sarebbero lotte efficaci se queste non fossero incastonate da, legate a, prodotte con questa profonda trasformazione del lavoro. Le lotte non si sono semplicemente svolte sui problemi della divisione salariale o sulla quantificazione/distribuzione/antagonismo del rapporto fra salario e profitto, ma si sono sempre svolte anche (e soprattutto) attorno all’intenzione di liberare il lavoro. Ora, la liberazione del lavoro passa attraverso il processo che conduce all’egemonia del lavoro immateriale. Le parole d’ordine degli anni Sessanta e Settanta sul “rifiuto del lavoro” sono parole d’ordine positive, che accompagnano al rifiuto del paradigma del lavoro taylorista e fordista la volontà di trasformare il lavoro. Questa volontà produce la scoperta di forme più avanzate di produttività del lavoro umano, nel momento stesso in cui essa determina condizioni sempre più avanzate, e possibilità reali, di liberazione dalla fatica, dall’immiserimento, dalla distruzione dei corpi che il lavoro dell’operaio massa comportava. Avanzando su questo terreno di analisi, possiamo toccare dimensioni nuove del lavoro che investono l’interezza della vita. Considerato questo passaggio dal punto di vista metodologico, ci è offerta qui una chiave di lettura che va dentro questi processi e che riesce a comprendere il lavoro non semplicemente dal punto di vista dell’attività produttiva (quindi economica) ma integrandola con motivi affettivi, comunicazionali, vitali, ontologici insomma. Tutte dimensioni che rendono vita e attività produttiva un tutto unico e intrecciato, una sola realtà effettuale. (Si badi bene: l’assunzione di questa chiave interpretativa – dal lavoro al biopolitico – è estremamente importante perché ci permette di affrontare una serie di problemi centrali come quelli della riproduzione sociale, e di problemi sollevati dal femminismo, e rende possibile il portarli dentro e trattarli in una intelaiatura comune di discorso.)

Un altro punto ancora da approfondire, soprattutto dal punto di vista metodologico, è la definizione di moltitudine. Noi abbiamo definito la moltitudine non solo come concetto di classe, legato all’esperienza e alle trasformazioni del lavoro, non solo come concetto politico, cioè come proposta democratica intesa alla costruzione di nuovi rapporti tra singolarità cittadine, ma anche come dispositivo di potenza esteso su tutta la sfera della vita, capace di esprimere il comune, un aumento della potenza e una riqualificazione della vita, della produzione e della libertà. Con ciò riaffermiamo quello che abbiamo più volte sostenuto, e cioè che siamo in una fase di transizione, fase lunga e complessa della quale è difficile cogliere tutti i passaggi. Però, il concetto di moltitudine, così come l’abbiamo elaborato, ci permette di capire dove andare, e quindi di liberarci sempre di più da ogni dialettica della sublimazione e della sintesi (dunque, del metodo hegeliano della Aufhebung). Qui il metodo mostra, invece, la moltitudine come limite ontologico, dunque esso stesso si definisce come metodo sincopato, interrotto, aperto e intempestivo. Come la moltitudine, il metodo si piega all’evento, è evento.

Diviene così centrale un altro punto che ci permette di seguire la produzione di soggettività, laddove essa affianca e sviluppa la possibile convergenza tra attività del lavoro e costruzione del “comune”. Il nostro metodo, qui, parte dal basso. Ma costruzione dal basso significa anche scontrarsi con degli ostacoli enormi. Nella lezione 4, discutendo della guerra come ultimo stadio del controllo capitalistico, autore e lettori insieme hanno tutti quanti un po’ subito la vertigine dell’attuale fase storica, confrontata a queste problematiche. Ma non c’è modo di evitare il rischio, su questo come su altri punti: si tratta di andare avanti, e l’unico modo per andare avanti è ricercare, seguendo una logica che è quella dell’immersione, è quella del mettercisi dentro. Partire sempre dal basso, laddove non c’è più fuori. Ora, per consolidarci in questa prospettiva, il punto centrale è definire la cooperazione. Abbiamo detto che la cooperazione linguistica è il modello della produzione postmoderna – modello non solo per il fatto materiale che le macchine funzionano attraverso linguaggi, ma anche perché attraverso il linguaggio emergono forme sempre originali di cooperazione tra gli individui. Non ci troviamo, comunque, di fronte a degli individui, ma a delle singolarità che cooperano. Ma se la cooperazione linguistica è cooperazione produttiva, se tutto è dentro questa cooperazione, se qui dentro la moltitudine è forza costitutiva, allora qual è, per parlar chiaro, dentro questi flussi, l’articolazione della diversità, del comando, per esempio la differenza tra il manager e l’operaio, tra l’attività dell’uno e dell’altro? Posto in termini metodologici espliciti, il problema è: come possiamo valutare e, se necessario, tagliare questo sviluppo dall’interno? La forma della cooperazione non è sufficiente, di per sé, a risolvere il problema. Probabilmente, da questo punto di vista, ciò che bisogna seguire è quel filo (marxiano) che identifica il comune come unica dimensione che può permettere di rompere eventuali confusioni ed equivoche indistinzioni. Il comune distingue. È ciò che ci permette di dividere il manager dal lavoratore: infatti, è solo l’affermazione del “comune” che ci permette di orientare dall’interno i flussi della produzione e di separare quelli capitalistici, alienanti, da quelli ricompositivi del sapere e della libertà. Il problema sarà allora risolto da una rottura pratica, capace di riaffermare la centralità della prassi comune.

Solo in questa maniera possiamo orientare la ricerca complessiva, cioè far riapparire forme antagoniste, forme antagoniste che devono essere interpretate attraverso nuove figure di militanza, di convergenza del sapere e dell’azione nel processo di costruzione del comune. Uno degli elementi più importanti del discorso di metodo è, dunque, la determinazione pratica, materiale, la prassi, che rompe un orizzonte puramente critico. Linguaggio e cooperazione debbono essere attraversati da una rottura pratica, dalla continua affermazione della centralità della prassi comune, che è unione concreta del sapere e dell’azione all’interno di questi processi.

Possiamo riprendere il discorso anche da un altro punto di vista, cioè da quello della vecchia tradizione operaista della “con-ricerca” come forma esemplare di metodo. La pratica della con-ricerca non era altro che la possibilità di conoscere, attraverso l’inchiesta, i livelli di consapevolezza e di coscienza dei processi nei quali i lavoratori, come soggetti produttivi, erano implicati. Se io entro nella fabbrica e mi metto a contatto con gli operai, conducendo insieme a loro un’indagine sulle condizioni del loro lavoro, la con-ricerca consiste sì, ovviamente, nella descrizione del ciclo produttivo, nell’identificazione delle funzioni di ciascuno all’interno del ciclo; nello stesso tempo, però, è anche una valutazione in generale dei livelli di sfruttamento che ciascuno e tutti subiscono, della capacità di reazione che gli operai hanno per quanto riguarda la coscienza del loro sfruttamento nel sistema delle macchine e dinanzi alla struttura del comando; sicché, nella misura stessa in cui la ricerca va avanti, la con-ricerca costruisce orizzonti di lotta in fabbrica, definisce linee o dispositivi di cooperazione al di fuori della fabbrica, e via di questo passo. Evidentemente, c’è qui egemonia e centralità della prassi dentro la ricerca: una prassi che permette di approfondire la conoscenza del ciclo di produzione e dello sfruttamento, e che si esalta quando determinerà resistenza e agitazione, ovvero svilupperà lotte. Così, è praticamente possibile costituire un soggetto antagonista, perché di questo tratta tutta l’argomentazione. Di qui, dunque, e cioè anche da questa vecchia esperienza operaista, possiamo partire. In questa prospettiva ci chiediamo: qual è la con-ricerca che oggi si può condurre nel postmoderno, dentro la totale trasformazione degli orizzonti del lavoro e dell’organizzazione sociale? Si tratta, evidentemente, di una domanda non facile, alla quale non pretendo di poter dare qui risposta; semmai, si tratta di andare avanti, di lavorarci attorno.

In realtà, se consideriamo per un momento l’inchiesta (nella sua pregnanza pratica), così come sta andando avanti oggi, diciamo che la cosa importante è quella di riuscire a esaltarne il presupposto e la scena biopolitici: sono cioè i corpi che devono diventare elementi centrali nell’inchiesta e ciò significa che ci sono tutte le cose (che aderiscono al corpo, alla vita corporea) che vanno messe in gioco se vogliamo costituire, rappresentare, cominciare a definire delle costellazioni qualsiasi, delle composizioni. Io credo che questa sia una cosa estremamente importante, che viene fuori da quel metodo biopolitico che cominciamo a praticare, rompendo le metodologie troppo fortemente analitiche che la sociologia aveva sperimentato… Quelle che io chiamo le teorie del salame, dell’affettamento analitico del corpo sociale. Oggi noi probabilmente cominciamo, invece, ad affrontare in primo luogo la corporeità (e non è secondario che possiamo farlo avendo molta fiducia nella potenza del corpo).

Un altro elemento che è evidentemente importante assumere è il tentativo di costituire l’oggetto assumendone insieme in ogni momento, innanzitutto negativamente, non l’identità né la differenza semplicemente ma sempre, in ogni caso, la singolarità e la sua spinta al “comune”. Questo spunto metodico è davvero nuovo – originale: se prima andavamo a selezionare, a isolare analiticamente, a mostrare l’Homo oeconomicus, quello estetico, quello psicologico, ecc., oggi possiamo mettere insieme tutto questo. Mentre un tempo ci muovevamo dal punto di vista dei processi di determinazione e della specificità dei fenomeni sempre tra identità e differenza, ora, nel nostro sforzo di determinazione, è invece possibile saltare questa coppia dicotomica che spesso ci blocca e riuscire piuttosto a concepire la moltitudine come “comune” e la differenza come singolarità. Io credo che oggi noi abbiamo la possibilità di superare tali vecchie dicotomie non a parole ma in concreto, e nella singolarità arricchiamo i contenuti delle differenze e nel “comune” riusciamo a giocarli insieme, come su un nuovo orizzonte di attività. La prospettiva centrale attorno alla quale, dunque, ci muoviamo è il “comune”, ossia i corpi, le categorie logiche della singolarità, e come si possano riportare al “comune”, e poi il “comune” come presupposto ontologico. Io credo che anche la ricerca sociologica debba da questo punto di vista continuamente far apparire le condizioni di “comunanza” entro le quali la singolarità si instaura; questo è un elemento fondamentale se vogliamo costruire qualcosa; sono costellazioni che corrispondono un po’ alla disposizione degli elementi di classe nella vecchia “composizione”, eppure qui composte nuovamente nella ricchezza di un comune corporeo. (Si badi bene: noi ci muoviamo ormai interamente – da quando il biopolitico è stato colto come orizzonte della ricerca – a contatto con i corpi. Ogni singolarità è definita come corporeità. Ma la corporeità biopolitica non è quella biologica solamente; è piuttosto una corporeità sociale. Quando assumiamo, per esempio, un problema come quello della precarizzazione del lavoro, noi cogliamo, in effetti, da un lato la faticosa fisicità della condizione del precario, nella mobilità e flessibilità del lavoro, ma a questa dobbiamo aggiungere la percezione della potenza della nuova forza-lavoro. Insomma, da un lato le terribili condizioni a cui è costretto il lavoro precario, ma d’altra parte la sua nuova qualità: così riusciamo a cogliere la precarietà, ondeggiando tra identità e differenza, e cogliendo il comune come base di sfruttamento e, a un tempo, attività di resistenza).

E poi, su questa base, il passaggio pratico, l’opzione pratica: la riscoperta dell’antagonismo. Ma dove sta precisamente questo passaggio, dov’è la scelta dell’antagonismo? Una proposta teorica che mi sembra discendere dalle cose dette prima era quella che identificava lo sfruttamento nel comando sulla e nella espropriazione della cooperazione, quindi nella possibilità di blocco dell’attività della moltitudine. Lo sfruttamento, dunque, si inserisce proprio sulla ricchezza del comune e sulla produttività della moltitudine, e cerca di bloccarne l’espressione, di ammutolirla, di disincarnarla, di toglierla, di disappropriarla: dobbiamo qui ormai concedere all’alienazione una materialità forte che tocca tutti gli aspetti del corpo – è una espropriazione, una scarnificazione che va contro la singolarità, contro il “comune”, e che evidentemente si scontra con la pratica che invece sgorga dall’espressione del “comune” e dai processi della sua costruzione. A me sembra che insistere sulla configurazione singolare e comune dei nuovi soggetti della produzione e sullo sfruttamento che su di loro si approfondisce, che viene avanti all’interno di queste cose che danzano, che si muovono davanti a noi nel postmoderno, sia l’unico modo in cui possiamo cominciare a far risuonare una tonalità forte della ricerca.

Poniamoci adesso l’ultima domanda, anche questa estremamente aperta: che cos’è che vogliamo? Vogliamo evidentemente la democrazia, democrazia a livello globale, per tutti. Il termine “democrazia” non è certo tra i più felici; tuttavia, non ne abbiamo altri. Comunque, ogni volta che diciamo di volere la democrazia, abbiamo l’impressione di trovarci in trappola perché subito ci si domanda: ma allora che cosa volete di preciso? Diteci qual è la lista delle rivendicazioni democratiche che pretendete di portare su questa base! Io credo che qui non si tratti di fare una lista ma semmai di cominciare, sulla base di tutto quanto detto, a porre uno schema di quello che è il desiderio di democrazia, o meglio di “comune”, un criterio di metodo per valutare le proposte alternative che vengono continuamente fuori. Certe volte ho l’impressione che tutta una serie di proposte che sembravano del tutto utopiche fino a poco tempo fa oggi cominciano a mostrarsi sempre più reali, quasi sia maturata la coscienza che siamo entrati in un’epoca nuova. Anche noi, quindi, dobbiamo, in qualche modo, redigere qualcosa di analogo ai cahiers de doléances che furono redatti prima che scoppiasse la Rivoluzione francese: dei documenti nei quali erano presentate certo le doglianze del Terzo Stato, ma che erano tutt’altro che semplici proteste, erano insieme denuncia di ingiustizie e proposte di soluzione. Il metodo che agisce dal basso attraversa ormai la critica per darne risposta pratica.

Il problema da porsi è in che modo sia possibile pensare oggi a una democrazia a livello globale. Un primo approccio critico (come quello da noi praticato in Impero) ha messo in evidenza lo sviluppo dei meccanismi imperiali di controllo, di divisione e di gerarchizzazione. Abbiamo visto, inoltre, come questi meccanismi di controllo si implementino fino a esercitarsi attraverso un’azione continua di guerra. Il problema vero sarà, dunque, quello di far crescere il desiderio sovversivo del “comune” che attraversa la moltitudine, ponendolo contro la guerra, istituzionalizzandolo, trasformandolo in potenza costituente.

Nel corso delle precedenti lezioni abbiamo detto che esistono almeno tre elementi in grado di configurare la definizione della moltitudine in termini di “comune”. Il primo elemento riguarda l’ontologia sociale, l’affermazione cioè che il lavoro immateriale non esige comando e che sta nella capacità del lavoro immateriale e intellettuale di creare eccedenza. Eccedenza che si sviluppa in “rete”: quindi, dal punto di vista dell’ontologia del lavoro, questo significa porre il problema di garantire forme di “rete” alla democrazia futura. La “rete” è una rete di comunicazione nella quale si formano i valori cooperativi in senso pieno, sia produttivo sia politico.

Il secondo elemento è quello del “comune”, cioè quel presupposto materiale della produzione che ormai non esige per esistere né capitale né sfruttamento. In questa prospettiva, il capitalismo sta diventando sempre più parassitario rispetto all’accumulazione del “comune”. Da questo punto di vista, il comune è ciò che permette la costituzione dell’essere; e questo “comune” non può essere riappropriato da nessuno, né privatizzato da nessuno. Se allora, da un lato, le teorie del lavoro ci mostrano l’inefficacia del comando; dall’altro, le teorie del sociale ci mostrano, paradossalmente, la natura inalienabile del “comune”. Il “comune” è la materia inalienabile sulla quale noi possiamo costruire democrazia.

Il terzo elemento centrale che configura il processo della moltitudine è quello della libertà. Senza libertà non c’è lavoro creativo. Senza libertà non c’è né cooperazione, né comune.

Una volta focalizzata l’attenzione su questi elementi, la critica si sposta sulla concezioni dei diritti e della democrazia giuridica e borghese. In questo senso credo che valgano ancora gli scritti marxiani sul diritto e, in particolare, la critica alla teoria del diritto di Hegel. Naturalmente, questa critica deve essere estesa ai diritti democratici esistenti, cercando di dimostrare come l’eguaglianza formale e l’ineguaglianza sostanziale costituiscano ancora la base di questi diritti.

Tutto questo diventa molto importante quando prendiamo in considerazione i nuovi terreni della costituzione mondiale e di un sistema globale del diritto. È importante sottolineare come lo sviluppo del capitalismo tenda a rendere inefficace qualsiasi azione regolativa degli Stati-nazione. Se nella modernità lo sviluppo del capitalismo è passato attraverso lo Stato, oggi, nel postmoderno, il capitalismo si è riappropriato dell’intero tessuto sociale sul piano multinazionale, salvo poi far ricorso agli interventi dello Stato-nazione in caso di necessità. È evidente che quando noi parliamo di proprietà comune, quando parliamo di lavoro in “rete”, delle garanzie di libertà su questo terreno, dobbiamo confrontarci con il processo di mondializzazione. Questo confronto è estremamente importante perché ci permette di chiarire con forza che si è al di là di qualsiasi garanzia dello Stato-nazione e di illusione del ritorno all’equilibrio degli Stati-nazione. La democrazia, oggi, deve estendersi nei rapporti tra le moltitudini, e così costruisce nuovi rapporti sociali e nuovo diritto. Qui non si parla di distruzione del diritto, ma di nuove forme giuridiche in grado di stabilire norme orientate dai tre principi sopra descritti. Ci devono essere, d’altra parte, sanzioni contro chi vuole ristabilire il comando, contro chi vuole introdurre criteri di proprietà su o contro la “rete”, o contro chi vuole bloccarne l’accesso o controllarne i nodi; ci devono essere sanzioni contro chi inventa strumenti tecnologici e/o giuridico-politici per bloccare la circolazione del sapere e questa enorme “comunanza” che può nutrire la produzione e la vita.

 

A questo punto a voi sembrerà che non abbiamo parlato di logica. O forse, mi concederete di averne parlato in termini allusivi, in riferimento all’inchiesta, alla teoria della con-ricerca e alla sottolineatura dei comportamenti pragmatici che sul terreno della conoscenza sociale possono e debbono svilupparsi. Ma non è così. Noi, fin qui, abbiamo parlato davvero di logica. È solo perché non ne abbiamo parlato in termini accademici che il tema logico sembra essere stato evitato – ma, ripetiamo, non è così. E allora, per spiegarci anche in termini accademici, per mostrare che anche i militanti non hanno difficoltà ad attraversare le nostre regioni di retorica, ecco – qui di seguito – uno schema, meglio, un filtro “alto” di quello che siamo venuti logicamente dipanando. In realtà, si tratta di un riassunto della lezione, per un lato schematico, per l’altro integrato da alcuni spunti bibliografici.

1. Il preambolo alla discussione della logica come teoria dell’inchiesta sta nella lettura della Einleitung di Marx (come spesso finora abbiamo visto): contemporaneamente vorremmo qui rinviare alla lettura della Logica, teoria dell’indagine di John Dewey (tr. it. Einaudi, Torino 1949). Nel libro di Alan Ryan, John Dewey (Harvard University Press, Harvard 2001) si chiarisce quanto le linee della logica empirica americana possano attraversare le linee della logica marxiana. Ritornano attuali il pensiero di Rodolfo Mondolfo e quello di Sydney Hook. In sostanza, qui è assunta la centralità della prassi come elemento epistemologico e politico. Ma inoltre, in questa nostra introduzione noi abbiamo anche insistito sul rapporto fra linguaggio, retorica, dialogo e invenzione, così come essi si sono reintrecciati sulle due dimensioni che a noi piacciono: da un lato la logica spinoziana del nome comune e dall’altro la riscoperta del nome comune nella logica postmoderna (vedi, su tutto questo, il già citato Kairos, Alma Venus, Multitudo).

2. L’inchiesta come dispositivo logico. Che cosa significa? Significa che qui, nel corso del nostro sforzo di costituire una logica della ricerca, noi abbiamo sempre sviluppato un processo di pensiero che va dalla costituzione dell’oggetto (questa è l’inchiesta) all’esplicitazione dialogica della costituzione dell’oggetto (questa è la con-ricerca) fino alla definizione del soggetto costitutivo. Si assiste così a una sorta di ritorno dall’oggetto al soggetto: tale è stato sempre l’andamento di una logica rivoluzionaria, come ben spiega Ryan (nel suo John Dewey) e semplificando negli anni Venti e Trenta americani il passaggio dal liberalismo rivoluzionario al New Deal. Ma, mutatis mutandis, si potrebbe riportare questo “ritorno dell’oggetto verso il soggetto” a ogni esperienza rivoluzionaria. Nelle lezioni precedenti abbiamo mostrato come la logica del soggetto vivesse tra causalità e discontinuità dello sviluppo. L’identificazione della logica dell’evento è il punto centrale del nostro discorso. È così che si può dire che il “nome comune” (il concetto) ondeggia sempre fra identità e differenza, ma si determina fra singolarità e comune. Ma se questo è vero, ne viene che il soggetto si pone all’interno di un processo di produzione della soggettività, come produzione dunque di temporalità e spazialità determinate. Ma nello stesso tempo in cui abbiamo visto il soggetto formarsi nella produzione del comune (e cioè attraverso cooperazione), in quello stesso momento noi sottolineiamo l’insufficienza della pura dimensione logica al completamento dell’inchiesta. La cooperazione di per sé non spiega l’antagonismo, bisogna dunque ripartire dal punto di vista dell’antagonismo.

3. L’inchiesta come dispositivo etico-politico. Nella società fordista dell’operaio massa l’inchiesta come dispositivo etico-politico era interpretata dalla con-ricerca: nella con-ricerca il dispositivo epistemologico e quello della militanza/agitazione erano strettamente congiunti. Si veda in proposito G. Borio, F. Pozzi, G. Roggero, Futuro anteriore. Dai “Quaderni rossi” ai movimenti globali, DeriveApprodi, Roma 2002. Quando si parla dell’inchiesta come dispositivo etico-politico non si evitano, naturalmente, i problemi più decisamente conoscitivi e in genere epistemologici, anzi, li si comprende e li si dispone dentro un processo di apprendimento collettivo. L’inchiesta come dispositivo etico-politico è sempre, in qualche maniera, un Bildungsroman. Il tema della formazione delle élite si intreccia a quello della centralità della prassi e il processo di formazione delle élite si stringe a quello dell’organizzazione dell’antagonismo. Evidentemente qui si aprono una serie di altri problemi, accentuati in particolare dal mutamento della scena storica e dalla composizione delle classi. Che cosa significa inchiesta come dispositivo etico politico nella società postmoderna, quindi non più del fordismo dell’operaio massa, ma del precariato, della mobilità e della flessibilità del lavoro, dell’immaterialità delle prestazioni e dell’egemonia della cooperazione? Io non credo che la risposta sia molto diversa da quella che si è data attorno ai temi della con-ricerca, intendo dal punto di vista metodico e della progressione costitutiva del soggetto. Lungo tutti gli anni Novanta queste tematiche sono state seguite, per quel che mi riguarda, all’interno della rivista Futur Antérieur, che era pubblicata a Parigi dalla casa editrice L’Harmattan: si rinvia, a chi ne abbia interesse, alla sua consultazione. Per quanto riguarda il processo di con-ricerca all’interno della scena postmoderna e della cooperazione dei lavoratori immateriali si vedano A. Negri e altri, Des entreprises pas comme les autres, Publisud, Paris 1993; e A. Negri e altri, Le bassin du travail immatériel, L’Harmattan, Paris 1996.

4. L’inchiesta e la logica del linguaggio. Una volta stabilito il rapporto che ha l’inchiesta come dispositivo logico con la nuova situazione produttiva postmoderna, laddove il linguaggio si presenta come mezzo fondamentale della produzione e la cooperazione produttiva, si tratterà dunque di ridefinire l’inchiesta nell’ambito della logica del linguaggio. Paolo Virno, sia in Grammatica della moltitudine, citato, sia in Il ricordo del presente. Saggio sul tempo storico (Bollati Boringhieri, Torino 1999) ci ha offerto molteplici aperture su queste tematiche. Per quanto mi riguarda, oltre ai temi proposti da Paolo Virno, nell’approfondimento del problema del linguaggio produttivo (di cooperazione e di singolarità) mi affido alle opere di Bachtin, dove la costituzione linguistica del reale è connotata in termini materialistici molto forti.

 

È chiaro che, una volta svolto il nostro metodo in questo modo, esso ci pone dinnanzi, nuovamente, alcuni grandi temi del comunismo. Questo significa che il nostro metodo è adeguato all’alternativa epocale nella quale ci poniamo, quando la crisi del neoliberismo mostra come propria alternativa gli obiettivi del comunismo: la riappropriazione delle imprese, la distribuzione egualitaria della ricchezza, la gestione collettiva del sapere, ecc. Per anni e anni, dalla grande crisi postsessantottesca, non si è più osato parlare di queste cose. Oggi noi cominciamo a riparlarne, e ad assumere il metodo che ci porta a questa possibilità di espressione, perché sappiamo di vivere sul limite di una crisi estrema: o la restaurazione di un passato durissimo o la speranza di un nuovo mondo. Qui si tratta di decidere, ed è attorno al problema della decisione che nasce il politico.

Prima di buttare giù qualche elemento sul problema della decisione, è bene tuttavia tendere l’immaginazione su questo punto e pensare che in questo terribile e cruento periodo di transizione nel quale siamo entrati in fondo un po’ tutto è possibile. Immaginazione e decisione devono, dunque, intrecciarsi nel movimento della moltitudine, nel desiderio di espressione che la moltitudine produce. Dentro questa immaginazione la rappresentanza democratica, che ci è sempre stata proposta come elemento fondamentale di garanzia delle libertà, è, come minimo, una mostruosa mistificazione. Il problema attualmente proposto dall’immaginazione della moltitudine è quello di combinare la potenza sovrana e la capacità produttiva dei soggetti. Tutto il discorso sul biopolitico, così come l’abbiamo sviluppato fin qui, porta verso questa conclusione. Ma come si fa a organizzare questo desiderio della moltitudine? Come si fa a inventare un’altra democrazia? Ormai, a livello nazionale, la democrazia non esiste più. A livello mondiale, la democrazia è addirittura impensabile. Eppure, sono questi impensati che oggi costituiscono attualità del desiderio… Dobbiamo cominciare a parlare in termini illuministici, pensando nuovi collegi elettorali a livello mondiale che non corrispondano più alle nazioni ma che attraversino la faccia del mondo, riequilibrando zone ricche e povere, bianchi e neri, gialli e verdi, ecc., ibridando e perciò sconvolgendo confini e limiti politici, ponendo la forza al servizio della costruzione del comune. Immaginazione costituzionale, questo ci vuole… Illuminismo, questo è necessario… Ma ritorniamo alla decisione. Che cosa significa porre il problema del rapporto tra l’esperienza comune della moltitudine e il concetto etico-politico (e anche giuridico) della decisione? Io credo che di tutto questo si possa e si debba parlare in questa e in tante altre sedi, ma una risposta non potrà essere data se non a livello del linguaggio del movimento, dentro il movimento. D’altra parte, è dentro i movimenti che questi temi stanno diventando maturi; i partiti sono morti e sepolti, sono i movimenti, invece, che pongono i problemi e ne accennano la soluzione. Ora, per quanto riguarda il problema della decisione della moltitudine, c’è qualcosa che in questi movimenti è risaltato da Seattle a oggi: ed è che non si parla più di prendere il potere ma si parla di fare potere, di farne un altro di potere, e se tutti sanno che questa è una prospettiva utopica, sanno anche che essa è resa necessaria e realistica dalla vertigine del passaggio epocale che stiamo vivendo. Non possiamo aspettare due o trecento anni perché la decisione della moltitudine divenga reale!

Ma questo potrebbe pur sempre essere possibile, potrebbe essere inevitabile la sconfitta… Ma allora andiamocene! Alla radicalità del potere costituente, come alternativa corrisponde l’esodo, un esodo che è esso stesso costruttivo, che esprime forme positive del rapporto tra decisione e moltitudine, e quindi tra libertà e produzione del comune. Se non possiamo costruire un altro potere, la moltitudine può dire sciopero, diserzione, sottrazione al potere… E questi processi, tra potere costituente ed esodo, si intrecciano e si alternano. Sono come delle onde che si susseguono, queste decisioni della moltitudine, sono termini maledettamente forti, duri, prodotti di un mare in tempesta: non vi è più ottundimento, subito dalla massa da parte del potere; vi è, al contrario, un’insurrezione ontologica della moltitudine. Viviamo il biopolitico.


 

 

 

Ends

 

 

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