GLI ULTIMI MEDICI

 

 

 

CON L'Italia del Seicento abbiamo lasciato la Toscana nelle mani del più coscienzioso e rovinoso dei suoi Granduchi: Cosimo III. In una galleria come quella dei Medici, fornitrice di personaggi a tutto sbalzo sia per gusto e intelligenza che per canaglieria e dissipatezza, egli fa spicco solo per il suo squallore. Due preoccupazioni lo dominavano fino all'ossessione: le fortune della casata e la salvezza dell'anima. Dell'anima, non sappiamo che sorte le toccò. Della casata, fu il liquidatore.

Forse fu anche vittima di certe situazioni domestiche. L'aria che da ragazzo respirò in famiglia non era delle più adatte alla formazione di un carattere equilibrato. Suo padre, Ferdinando II, era un sovrano amabile, colto e pieno di calore umano. Ma come marito e educatore, fu un'autentica disgrazia. La moglie Vittoria della Rovere, donna austera e autoritaria, subì un vero e proprio trauma quando, poco dopo avergli dato il primo figlio, Cosimo, lo sorprese fra le braccia di un paggio. In casa Medici i paggi erano sempre stati di moda, ma Maria Vittoria non si rassegnò a quella concorrenza, ne fece un dramma, e per anni si comportò da vedova di uno sposo vivo, che dal canto suo non si lasciò turbare dalla rappresaglia e continuò nella sua vita di gaudente. Poi gli si riavvicinò quanto bastava per dargli un secondo figlio: Francesco Maria.

Probabilmente su Cosimo influirono gli amari umori di quella madre umiliata e frustrata, cui del resto molto somigliava di dentro e di fuori. II padre poco si occupava di lui, tutto preso com'era dalle sue cacce, dalle sue feste e dalle discussioni coi dotti dell'Accademia del Cimento, di cui era l'alto protettore. E forse fu proprio in reazione a questo atteggiamento paterno che il figlio sviluppò un carattere chiuso, diffidente, formalista e conformista.

Non ebbe giovinezza perché l'ultima volta che fu visto sorridere fu quando aveva sedici anni. I cronisti dicono che fu una caduta da cavallo a dargli quell'aria eternamente seriosa e corrucciata. Ma è da escludere, visto che l'incidente non gli aveva procurato alcuna lesione. Già da prima aveva preso a frequentare solo chiese e preti. Coi coetanei non s'imbrancava prima di tutto perché non ne considerava nessuno di rango pari al suo, eppoi perché le loro scapestratezze lo riempivano di sdegno e d'orrore. A quanto pare, rimase casto fino al matrimonio.

Questo fu deciso in base ai soliti calcoli di convenienza dinastica, che indussero Ferdinando a scegliergli come sposa una principessa d'Orléans, Margherita Luisa, nipote di Luigi XIV. Cosimo non la conobbe che attraverso i rapporti inviati al Granduca dai suoi emissari a Parigi, i quali fornivano tutte le garanzie. Oltre alla parentela col più potente sovrano d'Europa, la sposa portava in dote un bel viso, un petto morbido e rotondo, un bacino da fattrice, e soprattutto un carattere allegro e docile.

Sicuro di aver trovato il paradiso, Cosimo si trovò piombato nell'inferno. Forse a fare di Margherita Luisa un'isterica aggressiva e afflitta da mania di persecuzione contribuì anche lui con la sue malaccortezza e frigidità. Incapace com'era di abbandoni, i suoi rapporti con lei furono fin dapprincipio radi e frettolosi. Invece dell'amore, fra i due nacque l'odio. E dall'odio più che dall'amore nacquero tre figli - due maschi e una femmina - che probabilmente ne portavano nel sangue il marchio degenerativo. Dopo anni di scenate intercalate da momentanee e sforzate riconciliazioni, i due coniugi si separarono definitivamente, e lei se ne tornò a Parigi, senza più curarsi neanche delle sue creature.

Questo fallimento aveva ancora più accentuato l'ipocondria di Cosimo e il suo zelo bigotto . Misogino e privo di quegl'interessi artistici e culturali ch'erano sempre stati la specialità dei Medici, si era unicamente concentrato sui suoi impegni di sovrano, ma interpretandoli a modo suo. Immerse non solo la Corte, ma Firenze e tutta la Toscana in un bagno di puritanesimo. La sue smania di bonifica si era abbattuta principalmente sulle prostitute, contro le quali aveva istituito un apposito "Ufficio del Decoro Pubblico" incaricato della persecuzione. Esse venivano fustigate in strada, costrette a portare un cartello con la scritta: "Meretrici!" e imprigionate nel carcere delle "Stinche" dove restavano finché non si decidevano a entrare in convento. Che valore potesse avere una conversione strappata con simili metodi, non si sa. Ma questo era il concetto che Cosimo aveva della pietà: essa per lui era il rosario, anche se biasciato contro voglia. Di altrettali attenzioni faceva bersaglio gli ebrei, nonostante gli enormi servigi che rendevano all'economia toscana, specie a Livorno. Li sottoponeva a ogni sorta di discriminazioni e soprusi per indurli al battesimo. Diceva di farlo per la salvezza della loro anima, e il guaio è che lo credeva veramente.

"Non so per quale accidente, tutto il Paese è sommerso da un diluvio di frati e preti" scrisse un viaggiatore capitato a Firenze in quegli anni. Ce n'erano oltre diecimila, in quella città di sessantamila abitanti, ed è naturale perché era diventato il loro regno. Essi avevano il monopolio della scuola, la usavano esclusivamente per fabbricare altri preti, e tenevano tutta la città nel terrore di uno spionaggio che si serviva sfacciatamente anche del confessionale. L'Inquisizione aveva assoluta priorità sulla polizia di Stato e mano libera contro i deviazionisti. Questo faceva sì che un assassino pronto a recitare un salmo se la cavasse più a buon mercato di un bestemmiatore che per un moccolo si vedeva affibbiati fino a cinque anni di galera. Ed è forse per questo che i toscani sono diventati tanto blasfemi. "Tutta la vita civica - scrive Acton - era ridotta a una mostruosa parodia di quella monastica: una vita comunitaria in cui la libertà di azione, di pensiero, di opinioni, di affetti, di abitudini, era proibita o regolata da editti e metodi inquisitori."

Bisogna riconoscere che il primo a dare l'esempio dell'austerità era Cosimo. La sua vita, regolata da una minuziosa etichetta, trascorreva senza calore di affetti tra le scartoffie e l'inginocchiatoio. Mai si era visto un Medici arrabattarsi tanto ai suoi doveri di ufficio. Aveva accentrato tutto nelle sue mani, e questo era il guaio perché tutto recava il sigillo del suo ottuso puntiglio. Da quando l'industria e le banche fiorentine erano state annientate dalla concorrenza dei Paesi protestanti, la Toscana era diventata un Paese quasi esclusivamente agricolo, e di un'agricoltura povera per giunta, data la sua natura collinosa. Invece di facilitare i contadini con incentivi alle migliorìe, agevolazioni fiscali e incoraggiamenti all'esportazione, Cosimo li colpì con ogni sorta di tasse e gabelle condannando la Toscana all'invecchiamento di tutte le sue strutture e estraniandola sempre di più dal mondo moderno. Uno dei motivi per cui perseguitò l'Università di Pisa era perché quello era rimasto l'unico focolare di una cultura laica e libera, ch'egli considerava portatrice d'infezione e di dissoluzione.

Cosimo non aveva il senso dello Stato, cioè lo confondeva con la dinastia. Di politica estera ne fece sempre poca. Ma quella poca era unicamente dominata dall'ambizione di trasformare il Granducato in un Regno. Era ingenuamente convinto che anche i suoi sudditi non ne vedessero l'ora, come se questo avesse potuto migliorare la loro miserabile condizione. E perciò la massima parte degl'introiti veniva devoluta a spese di rappresentanza. Di suo, Cosimo non era spendaccione. Anzi, un po' per austerità, ma un po' anche per avarizia, aveva abolito i fasti e le feste di Corte. Ma quando si trattava di ricevere un sovrano di passaggio, Palazzo Pitti veniva rimesso a nuovo per offrire all'ospite un'immagine di Firenze che giustificasse la sua ambizione a diventare la capitale di un Regno. Memorabili rimasero le accoglienze al Re di Danimarca e quelle al Re di Spagna in visita a Livorno. Luminarie, parate, cortei e tornei si sprecavano e si concludevano con larghe distribuzioni di doni. Ma questi splendori non avevano nulla di mediceo. C'era soltanto l'ossessione pacchiana della "bella figura". II carteggio di Cosimo coi suoi ambasciatori a Parigi, a Vienna, a Londra, a Madrid è dominato dal leit-motiv del "Trattamento Regio". Quando, sulla fine del Seicento, in cambio della sua alleanza con la Spagna e l'Austria, Vittorio Amedeo di Savoia, pur essendo ancora soltanto Duca, aveva ottenuto da queste due Potenze il diritto di essere trattato da Re (il che consisteva soprattutto in questo: che davanti agli altri Re, né lui né i suoi ambasciatori erano più tenuti a togliersi il cappello), Cosimo ne fece una malattia. Inondò le Corti europee di lettere di protesta, in cui diceva che nella gerarchia italiana il Granduca di Firenze era sempre venuto dopo il Doge di Venezia, ma prima del Duca di Savoia. E forse decise di dare sua figlia Ludovica in sposa al Principe Elettore del Palatinato perché costui, essendo fratello dell'Imperatrice d'Austria, la inducesse a riconoscere le sue pretese come infatti avvenne. A Cosimo parve di aver vinto una guerra quando da Vienna gli giunse l'autorizzazione a mettere una sbarra sul diadema e farsi chiamare nelle lettere ufficiali "Altezza Reale" e "Serenissimo Principe". Distribuì soldi e vino alla popolazione, convinto ch'essa partecipasse al suo tripudio. E trascorse il resto del suo lungo regno a sollevare incidenti con le Potenze che gli contestavano il "Trattamento". Nei rapporti che gli giungevano dai suoi ambasciatori, le notizie circa le guerre, le alleanze, le paci, i trattati commerciali occupano pochissimo spazio. Le uniche cose che interessavano Cosimo erano le nascite, le morti, i matrimoni, le parentele, i titoli e le "precedenze" fra i vari Principi. Non ebbe pace e non badò a spese finché non ebbe ottenuto dal Papa l'investitura a "canonico del Laterano".

L'altra sua ossessione era ovviamente la continuità della dinastia, che per il momento sembrava garantita dai due figli maschi: Ferdinando e Gian Gastone. Era, fra tanti guai, l'unica gioia che gli aveva dato la moglie. Ma i sentimenti non c'entravano. Cosimo non ebbe mai dei palpiti paterni, o per lo meno non ne mostrò. I tre ragazzi crebbero orfani, e un po' di calore d'affetto lo trovarono solo nella nonna Vittoria. Cosimo non vedeva in loro dei figli, ma soltanto dei Principi, come tali esigette che fossero allevati, e mai si curò di capire che uomini fossero. Se qualche speciale cura dedicò a Ferdinando, fu solo perché costui, come primogenito, era destinato alla successione. Ma non si accorse nemmeno che vi era il più refrattario perché lo vedeva di rado e sempre attraverso lo sbarramento dell'etichetta.

L'educazione del ragazzo era stata affidata al marchese Albizzi, scelto per la sua severità e il suo puntiglio formalistico. Erano le doti meno adatte per un allievo come quello. Ferdinando tirava più dalla madre che dal padre. Come lei era estroso, sensibile e cangevole. Miscredente e libertino odiava i preti, li chiamava "baron fottuti", e agli affari di Stato preferiva la musica, suonava il clavicembalo, e aveva per gli artisti lirici una passione che non si limitava al piano vocale. Una sera si lasciò andare a tali manifestazioni di entusiasmo verso uno di essi, suo grande favorito, Petrillo, che costui si precipitò davanti a tutti fra le sue braccia e lo baciò, non sappiamo se sulle gote o sulla bocca. Albizi intervenne con aria così severa che Ferdinando non osò prendere le difese di Petrillo, il quale abbandonò in tutta fretta la Corte, Firenze e la Toscana dove non si fece mai più vedere.Lungi dallo screditarlo, la dissolutezza giovò alla popolarità del Principe anche perché faceva da contrappunto alla bigotteria del padre, che tutti avevano in uggia. I1 frivolo giovanotto, che aveva trasformato la sua villa di Pratolino in un convegno di artisti e vi aveva anche inscenato un'opera lirica, si rivelava almeno in questo un buon Medici, e trovava un valido alleato nello zio cardinale, Francesco Maria, fratello di Cosimo, che condivideva tutti i suoi vizi e passioni. Per rompere questa alleanza fra gaudenti e porre &e ai loro scandali, Cosimo nominò Francesco Maria governatore di Siena e commissionò per Ferdinando una moglie. La prescelta fu una principessa di Baviera, Violante che, oltre a fornire buone garanzie di fecondità, avrebbe assicurato l'amicizia di uno dei più autorevoli Principi di Germania, con cui l'Imperatore doveva fare; conti.Ferdinando non la conosceva, ma per il fatto che volevano dargliela in moglie, la prese in uggia prima di vederla, e andò a passare la sua ultima stagione di celibe a Venezia, la città più gaia d'Italia. Qui trovò un altro Petrillo in un certo Cecchino De Castris, così chiamato per ragioni facilmente intuibili, e se lo portò al seguito nel ritorno a Firenze. II matrimonio ebbe luogo, come al solito, per procura. Poi Ferdinando andò incontro alla sposa che, appena lo vide, s'innamorò perdutamente di lui. Era una ragazza perbene e romantica, che si era scrupolosamente preparata ai suoi compiti di sovrana, parlava otto lingue compresa la nostra, aveva studiato a fondo la storia dell'arte fiorentina e credeva che gl'italiani fossero creature appassionate e sentimentali. Era insomma tutto quello che non avrebbe dovuto essere per piace re a Ferdinando , il quale provò subito una violenta repulsione per lei, e fin dal primo momento non fece nulla per nasconderla. Forse non si provò nemmeno a compiere il suo dovere coniugale. Comunque, fu subito chiaro che eredi non c era da aspettarne, e l'incubo di una estinzione della casata comincià a tormentare Cosimo. Nella sua costernazione, finì per dare ascolto a un certo Pizzichi, che gli consigliava di elevare su una colonna un monumento a Sant'Antonio perché facesse il miracolo. La colonna fu elevata, e i fiorentini ci scrissero sotto questo distico ribaldo: "Pizzichi mio, a ingravidar le donne - Ci vogliono cazzi, e non colonne". Violante portò con ammirevole dignità la sua disgrazia, non se ne lasciò inasprire, non ne fece mai parola con nessuno, e solo una volta, a una dama di Corte che si lamentava di un marito brutale, rispose: "Signora, provo compassione di voi. Ma sotto le mie ampie maniche nascondo ferite più profonde delle vostre".

Non contento di trascurarla, Ferdinando umiliava la moglie ostentando anche in pubblico i suoi rapporti con l'arrogante e capriccioso Cecchino. Insieme a lui decise di 1ì a un po' di tornare a Venezia per un altro buon bagno nelle giocondità di quella capitale godereccia. A quanto pare 1ì s'innamorò - finalmente! - di una signora che, per quanto ricambiasse i suoi sentimenti, dapprincipio gli resisté. Invano Cecchino, vedendo in pericolo la sua posizione, cercò di distrarlo. Ferdinando s'intestardì anche perché credette che a insidiargli la preda fosse il Duca di Mantova, cui un Medici non poteva cedere il passo. La signora lo avvertì che non si trattava di questo, ma di una malattia venerea di cui essa era contagiata e di cui non voleva a sua volta contagiarlo. Ferdinando rispose ch'era una scusa, tanto fece che ottenne ciò che voleva, e rientrò a Firenze portandosi nel sangue, come trofeo di quell'avventura, la sifilide. Poco dopo cominciò a manifestare sintomi di paralisi progressiva. Violante si vestì da infermiera e l'assisté con trepido e devoto zelo per i lunghi anni del suo decadimento.

Fu allora che Cosimo cominciò a mostrare qualche sollecitudine per GianGastone, di cui fin lì si era ben poco curato. II ragazzo era cresciuto come il cenerentolo di casa, e ne portava il segno nel carattere malinconico e abulico. L'unico che gli aveva mostrato un po' d'affetto era l'allegro zio Francesco Maria frattanto diventato Cardinale, che quando tornava da Roma lo invitava spesso nella sua villa di Lappeggi, dove ne succedevano di tutti i colori, ma specialmente "balletti verdi". Gian Gastone non aveva la gaiezza spensierata, e piuttosto grossolanotta, dello zio; ma anche lui preferiva le canaglie, di cui questi si circondava, alla società aristocratica di Palazzo Pitti, dalla quale non aveva ricevuto che umiliazioni. Quanto a sesso, era fratello di suo fratello.

Non si ribellò all'ordine paterno di sposarsi perché non si era mai ribellato a nulla. "Farò come nelle materie di fede - scrisse - che, benché non ci capacitino, si china il capo e si ubbidisce." Non volle intromettersi neanche nella scelta della sposa rimettendosi a quella del padre, che, come al solito, la sbagliò. È curioso come Cosimo, pur volendo con tutte le sue forze e sopra ogni altra cosa degli eredi, a tutto pensasse fuorché a ciò che ne rappresenta la condizione: la gradevolezza dell'amplesso. La principessa Anna Maria di Sassonia-Lauenburg era rimasta vedova del Conte Palatino, e fin qui nulla di male. Ma non aveva voglia di risposarsi, e per di più era brutta e rozza: una specie di massaia rurale con un grosso sedere e polpacci pelosi. Questo risultava abbastanza chiaramente dalle informazioni che a Cosimo aveva mandato la sua figliola sposata in Germania che di Anna Maria era anche cognata. Eppure il Granduca mise di mezzo perfino l'Imperatore perché inducesse la renitente vedova a concedere la mano a suo figlio, e mandò quest'ultimo in pellegrinaggio a Loreto per impetrare la grazia. S'impegnò anche a consentire che Gian Gastone risiedesse per un tempo indeterminato nella case di lei, a Reichstadt in Boemia. E fu qui infatti che si sposarono e si accasarono.

Reichstadt non era che un agglomerato di casupole, adagiato in una buia valle e sormontato da una montagnola in vetta alla quale s'issava la cosiddetta Reggia: una scaratterizzata fattoria, che di bello aveva solo la stalla perché il solo lusso e la sola passione di Anna Maria erano i cavalli. Insomma, il posto più adatto a trasformare l'abituale mestizia di Gian Gastone in vera e propria ipocondria. Sebbene se l'aspettasse brutta, la sposa gli parve ancora più brutta di come se l'aspettava, e per di più autoritaria e bisbetica. Odiava gl'italiani, e diffidava particolarmente dei Medici perché il suo confessore le aveva detto che in quella famiglia tutte le donne erano morte avvelenate dai loro mariti.

Anche di questo matrimonio, non sappiamo se sia mai stato consumato. Sappiamo soltanto, dalle sue lettere, che Gian Gastone sprofondò nella più nera malinconia, cui cercava rimedio nel vino e nella compagnia di Giuliano Dami, un palafreniere che si era portato da Firenze e che d'allora in poi fu sempre la sua vera moglie: un bel "fusto" mordace, insolente e rotto a qualsiasi turpitudine.

Scampato a un inverno rigidissimo che su quel desolato panorama aveva steso un funebre sudario di neve, a primavera Gian Gastone volle andare a prendere una boccata d'aria. Fece prima sosta nel Palatinato per una visita a sue sorella che non aveva avuto figli neanche lei. Poi seguitò per Parigi e chiese di vedere la madre che non gli mandò nemmeno la carrozza e lo accolse come un estraneo. Cosimo, quando lo seppe andò su tutte le furie, e gli ordinò di tornare dalla moglie. Voleva un erede, e Gian Gastone gli assicurò che stave facendo il possibile. Ma non era vero. Della moglie non aveva più voluto sapere, e nemmeno di Reichstadt. S'era istallato a Praga che non era Firenze, ma tuttavia una vita cittadina l'aveva. E lì, col suo fido Giuliano, s'era imbrancato con le peggiori canaglie e passava le notti a bere e a giocare.

Fu una lettera dell'Arcivescovo di quella città che alla fine tolse a Cosimo le ultime illusioni. La Principessa gli aveva detto che si rifiutava di seguire a Firenze un marito con cui non aveva rapporti. Cosimo dovette prendere atto del fallimento di quel matrimonio e, vista l'inutilità della permanenza di Gian Gastone in Boemia, lo richiamò.

I fiorentini stentarono a riconoscerlo. Sebbene non avesse che trentasette anni, era diventato bolso e cadente. Pur abitando a palazzo, condusse vita appartata, estraniandosi completamente dagli affari di Stato per i quali del resto non aveva mai mostrato nessuna vocazione e dalla società di Corte che seguitava a odiare.

Ingannava il suo tempo leggiucchiando opere scientifiche, specie di botanica, e raccogliendo oggetti di antiquariato di cui era buon intenditore. Unici suoi compagni erano il Dami, i furfanti che costui gli portava in casa, il vino, e la malinconia.

Sempre più ossessionato dal problema della successione e non potendo sperarla da quei due figli ridotti a rottami, Cosimo prese una decisione eroica: chiese al fratello di rinunziare alla porpora e di prender moglie. Francesco Maria non ne aveva nessuna voglia: la porpora non gli aveva mai impedito di fare i suoi comodi, anzi gliene garantiva l'impunità e per di più gli assicurava larghi introiti. Per le donne non provava trasporti, e inoltre aveva quarantotto anni, che a quei tempi era considerata vecchiaia avanzata, e nel caso specifico lo era. I vizi e le sregolatezze avevano lasciato il loro segno nel fisico dell'allegro Cardinale ridotto a un ammasso di pasta frolla e tormentato dal catarro e dalla gotta, la dannazione di casa Medici. Ma la ragion di Stato esigeva l'erede, ed egli vi si rassegnò.

Come al solito, la scelta fu fatta in base ad accertamenti che tutto attestavano fuorché la disponibilità della sposa all'amplesso di uno sposo come quello. Eleonora Gonzaga aveva tutto in ordine: i quarti di nobiltà, la dote, la salute, l'avvenenza. Le mancava una cosa sola: lo stoicismo. Gliene sarebbe occorso molto per ricambiare i trasporti di quel coniuge catarroso e prostatico, dagli occhi porcini e sbrodolosi nel faccione gonfio e rubizzo. Egli si sottomise pazientemente alle cure tonificanti che i medici gli prescrissero. Sua nipote, che aveva attivamente collaborato alla combinazione di quel matrimonio, come già a quello di Gian Gastone, gli scriveva dalla Germania per fargli coraggio: "Io credo che quando Vi togliete 1'abito, se ne vedranno delle belle in camera vostra!"

Invece si vide soltanto che la sposina non ci stava. Invano vennero convocati preti per richiamarla ai doveri coniugali e stregoni per propinarle filtri d'amore. Invano Cosimo si appellò al padre di lei con la sua eterna ottusa pretesa che tutto, anche l'amore, si potesse risolvere con l'autorità. L'unico che accettò con filosofia il fiasco senza mostrarsene poi troppo addolorato fu lo sposo che rimpianse soltanto di aver sacrificato per nulla la sua porpora, i suoi guadagni e i suoi comodi di vecchio scapolo gaudente. Morì poco dopo, e i fiorentini ne diedero annunzio con questo funebre manifesto affisso di notte sulle mura di Palazzo Pitti: "Appigionasi in quest'anno - Che i Medici se ne vanno"

Era vero. A Cosimo, che già aveva doppiato il capo della settantina, non restava più nessuno su cui investire le sue speranze dinastiche. Ferdinando, ridotto a una tremula larva, morì nel 1713. Gian Gastone seguitava a vegetare, disfatto dall'alcol e contornato di canaglie. E gli ambasciatori dislocati all'estero segnalavano che in tutte le Corti europee si era già scatenata una corsa di sciacalli per l'accaparramento dell'eredità. Parve per un momento che l'incombente catastrofe svegliasse nel vecchio Granduca un sentimento patriottico di cui non aveva mai dato segno. Egli accennò all'intenzione di nominare come suo erede il popolo, restituendogli alla propria morte i vecchi ordinamenti repubblicani: se la Toscana non poteva più essere dei Medici, meglio che restasse di se stessa.

Incaricò un suo diplomatico, il Rinuccini, di andare a parlarne agl'inglesi e agli olandesi che, un po' per le loro pregiudiziali democratiche, un po' perché non avevano diritti da accampare sul Granducato, erano i più indicati ad accogliere la proposta. II loro aiuto era necessario perché già il problema dell'investitura era sul tappeto. I Medici avevano riavuto la Toscana da Carlo V, perciò alla loro estinzione essa doveva tornare alI'Imperatore. Ma nei loro due secoli di Granducato, i Medici non avevano perso occasione per contestare questa tesi ed affermare la totale indipendenza della Toscana dall'Impero. Ora si trattava di trovare delle Potenze disposte a riconoscerla.

Inghilterra e Olanda lo fecero con entusiasmo e dissero a Rinuccini che il Granduca proclamasse apertamente le sue intenzioni: esse le avrebbero sostenute. Ma il timoroso e timorato Cosimo ci aveva già ripensato. Propose che alla morte sua e a quella di Gian Gastone, I'eredità passasse alla figlia Ludovica, e che caso mai fosse costei a ripristinare la Repubblica. Questo significava complicare ancora di più la già intricata questione facendo nascere e giustificando velleità ereditarie nella parentela tedesca dell'Elettrice. Delusi e irritati, gl'inglesi e gli olandesi lasciarono cadere le proposte di Cosimo, che così perse la grande occasione di chiudere la sua inutile vita con l'unico gesto che avrebbe potuto riscattarla.

Rimasta vedova dell'Elettore Palatino, Ludovica tornò a Firenze, convinta di essere lei a succedere al padre, ora che Ferdinando era calato nella tomba e Gian Gastone sembrava che ci avesse già un piede. Era forse l'unica creatura al mondo per cui Cosimo avesse avuto qualche palpito d'affetto e la sola che non lo avesse deluso. Ludovica condivideva il suo puntiglioso senso del dovere, il culto dell'etichetta, l'alto concetto del rango, lo zelo bigotto, ma anche la regale dignità. Sebbene non lo vedesse da ventisei anni, era sempre rimasta in stretti rapporti epistolari con suo padre, ne aveva tenacemente difeso gl'interessi presso la parentela tedesca e gli aveva prestato tutto il suo appoggio anche nella combinazione dei disgraziati matrimoni dei fratelli e dello zio. Risoluta e autoritaria, incuteva più soggezione che simpatia, ma al nome faceva onore. Padre e figlia si misero a dipanare la matassa della successione. Credevano di poterla mercanteggiare con l'imperatore Carlo VI promettendola a qualcuno dei suoi Asburgo, in cambio di Piombino e dei Presidi tuttora in mani austriache. Pur sapendo che stavano per perdere il Granducato, si preoccupavano di aggiungervi quei due palmi di terra. Carlo non gli volle dare nemmeno questa piccola soddisfazione, conscio com'era che il destino della Toscana non si decideva in Toscana. Abbiamo già visto di quali complicate transazioni esso fu la posta tra i Borbone di Madrid e gli Asburgo di Vienna. Solo a cose fatte - per il momento - Cosimo fu informato che il successore dei Medici sarebbe stato Carlo, il figlio di Filippo V di Spagna e di Elisabetta Farnese. Le sue note di protesta furono accolte con alzate di spalle.

Visto che sulla terra non trovava protettori, Cosimo ne cercò uno in cielo assegnando a Firenze un patrono oltre ai due - San Giovanni e San Zanobi - che già aveva. E voile il più autorevole di tutti, San Giuseppe, proclamandone l'investitura con solenni cerimonie. Poi, per propiziarselo ancora di più, scatenò una vera e propria crociata contro le opere d'arte che i preti consideravano scandalose, facendole togliere nottetempo dalla cattedrale e dagli Uffizi.

Fu il suo ultimo gesto, del tutto in carattere col suo carattere. In punto di morte, chiese perdono al popolo non per il cattivo governo, ma per il cattivo esempio che gli aveva dato, e gli raccomandò di andare in chiesa e di confessarsi più spesso di quanto avesse fatto lui, che non aveva fatto altro. Non avendo potuto evitare che a succedergli fosse Gian Gastone invece che Ludovica come lui avrebbe voluto, perché la legge dinastica glielo impediva, negli ultimi giorni se lo era associato come reggente, ma fino all'ultimo aveva voluto vedere e firmare tutto di persona. Per attaccamento al dovere e impavidità di fronte alla morte, fu all'altezza di un Filippo II cui in piccolo, in piccolissimo, somigliava. E finì da Re, lui che in vita aveva tanto smaniato di diventarlo senza riuscirci.

Nel salire sul trono che il padre gli aveva lasciato, Gian Gastone disse: "Mi par d'essere un attore che fa la parte del Re in una commedia". Non aveva torto. Con un'economia da area depressa, quale la Toscana si era ridotta, lo Stato aveva le casse vuote e non sapeva come fronteggiare l'endemico disavanzo e il debito pubblico che negli ultimi anni si era sempre più aggravato. Della flotta toscana non restavano che tre galere accudite da una ciurma di duecento marinai. Dell'efficienza dell'esercito, ci fornisce un'idea un catalogo di soldati riprodotto da Harold Acton: "Domenico Campana, soldato, anni 70, di servizio 34, non ci vede per 1'età e cammina con un bastone. Giovan Battista Leonardi, anni 70, di servizio 40, ha perso la vista. Michele Ricci, anni 80, di servizio 59, decrepito con bastone", e via di questo passo. Una totale mancanza di classi dirigenti per via dell'accentramento di tutto il potere nelle mani del Granduca e per una selezione operata non sui meriti di servizio ma sulla devozione in chiesa. Le scuole ridotte ad appendici del seminario, compresa l'Università di Pisa, un tempo faro del pensiero laico e moderno. E infine la mancanza di un domani: a chiunque fosse toccato, il Granducato finiva con la sua dinastia indigena, per diventare d'un'altra potenza.

Ce n'era abbastanza per spegnere gli entusiasmi anche di un Sovrano che ne avesse avuti. E Gian Gastone non ne aveva. Non covava ambizioni, il lavoro gli pesava, e mostrarsi in pubblico era per lui un tormento. Infatti vi comparve solo nei primi tempi, poi rimase confinato dapprima nei suoi appartamenti, poi nella sua camera, e infine nel suo letto, che per anni si rifiutò di abbandonare. Qui riceveva i suoi ministri e collaboratori, coi quali sbrigava alla svelta le pratiche di ufficio. Poi faceva sbarrare la porta per restarsene col suo Giuliano e le canaglie che costui gli portava. Ne aveva reclutato qualche centinaio nei bassifondi della città, e li aveva fatti assumere in regolare servizio col nome di "ruspanti" perché venivano pagati con quegli zecchini che si chiamavano "ruspi".

Tutta Firenze parlava - ma più con divertimento che con scandalo - dei baccanali che si svolgevano negli appartamenti del Granduca. Erano gli stessi protagonisti a darne i resoconti forse esagerando per vanteria. Ma che ne succedessero di tutti i colori, è accertato. Come spesso capita ai signori di grande razza e di sangue troppo raffinato, il Granduca aveva il gusto dell'abiezione, e la praticava facendosi vilipendere, insultare e spesso anche picchiare da quei furfanti. Una volta dovettero levarlo di forza dalle mani di certi saltimbanchi polacchi ch'egli aveva provocato lanciandogli in faccia i bicchieri dopo essersi ubriacato con loro. Provava un sadico piacere a lasciarsi anche derubare. II Dami faceva man bassa sui suoi oggetti di antiquariato rivendendoli a dei mercanti che poi tornavano a offrirli al Granduca. Questi, riconoscendoli, diceva: "Toh, chi non muore si rivede!", e li ricomprava. Spesso dava feste sontuose a quei parassiti e si divertiva a chiamarli coi nomi altisonanti dei suoi ministri e cortigiani.

A soffrire di questi scandali era soprattutto la sorella Ludovica, che dal padre aveva ereditato l'orgoglio del nome e del rango. Ma Gian Gastone l'odiava per la parte che aveva avuto nel suo infelice matrimonio, e forse era anche per far dispetto a lei che ostentava la propria degradazione. Una volta essa lo convinse a dare finalmente un pranzo ai nobili di Corte. Gian Gastone li convitò in massa, si ubriacò, si mise a ruttare rumorosamente, vomitò sulla tovaglia e si pulì la bocca coi riccioli del parruccone.

Non volendo alzarsi dal letto neanche per prendere un bagno, non ammetteva che nessuno glielo rifacesse. Da quella cuccia da cani si sprigionavano tali odori, che una volta sua cognata Violante per poco non svenne. Essa era l'unica persona di famiglia cui il Granduca fosse realmente affezionato e a cui consentisse di entrare nella sua camera. Ma quando essa si ammalò e in punto di morte chiese di vederlo per l'ultima volta, egli vi si rifiutò e anzi indisse un'ennesima orgia coi ruspanti. La morte lo sgomentava, voleva dimenticare di esserne incalzato anche lui. E siccome in città correva voce che stava per esserne ghermito, decise di dimostrare che non era vero lasciandosi portare in carrozza alla festa di San Giovanni. I fiorentini videro passare per le loro strade una specie di foca disfatta nel grasso con gli occhi inebetiti sotto la parrucca a sghimbescio. Per vincere il terrore che la folla gl'ispirava, aveva bevuto più del solito, e ogni tanto si sporgeva dal finestrino per vomitare. Eppure lo acclamarono ugualmente, e con un affetto di cui Cosimo non aveva mai goduto.

Perché questo del "barbone" debosciato era uno dei due volti di Gian Gastone. Ma poi ce n'era anche un altro che gli faceva da contrappunto. Incredibile a dirsi, quest'uomo ridotto a un rottame dall'alcol, dai vizi e probabilmente da una di quelle malattie psichiche ereditarie nella sua famiglia, di cui Gaetano Pieraccini ci ha lasciato un accurato e approfondito studio nel suo libro La stirpe dei Medici di Cafaggiolo, si era mostrato un Sovrano saggio, equanime e per molti versi illuminato. Aveva inaugurato la sua gestione revocando le misure discriminatorie contro gli ebrei, e ponendo fine a quelle "cacce alle streghe" di cui facevano le spese soprattutto le prostitute. In un batter d'occhio Firenze si scosse di dosso quel sudario di claustrale austerità, d'ipocrita bigotteria che Cosimo le aveva imposto, e ritrovò un costume di vita più libero, anche se più libertino, e sincero.

Gian Gastone, di cui Harold Acton ha dipinto nel suo libro Gli ultimi Medici un ritratto esemplare, non fu un grande riformatore perché non ne aveva l'energia, e forse nemmeno la possibilità. Non poté ricostituire un'amministrazione efficiente anche per mancanza di uomini, di un esercito, di una marina. Ma rimise un po' d'ordine dappertutto e specialmente nelle finanze riducendo drasticamente le spese di Corte e quei fasti di "rappresentanza", di cui suo padre aveva fatto tanto scialo per crescere nella gerarchia delle dinastie regnanti. Pur evitandola e preferendole quella dei ruspanti, egli dette alla società fiorentina un tono diverso, adeguato alla modestia di una città e di uno Stato che non erano più quelli dello splendido Rinascimento. Montesquieu, che ci capitò in quegli anni, scrisse: "Non c'è città in cui si viva più modestamente che a Firenze: con una lanterna cieca per la notte e un ombrello da pioggia, si è completamente equipaggiati. C'è un governo molto mite: nessuno conosce e si accorge del Granduca e della sua Corte. Proprio per tale ragione, questo piccolo Stato sembra grande". E cita il caso del Marchese Corsini che, avendo dovuto spendere 180.000 scudi per la canonizzazione di un suo antenato, raccomandava ai figli: "Ragazzi miei, siate virtuosi, ma non santi. I santi costano troppo".

Ma i veri grandi meriti di Gian Gastone furono altri due. II primo fu quello di liberare lo Stato dalle interferenze della Chiesa cui Cosimo lo aveva totalmente asservito. Quando l'Arcivescovo reclamò l'applicazione di certi atti di un Sinodo diocesano in contrasto col codice civile, il Granduca gli ordinò di occuparsi degli affari suoi, cioè di quelli dell'anima. E quando il Papa gl'ingiunse di licenziare il Ministro Rucellai, noto anticlericale, il Granduca non gli rispose nemmeno. Quest'uomo pigro e abulico che non amava il potere, amava però la libertà, e nel difenderla dalle prevaricazioni dei preti sapeva diventare perfino risoluto e coraggioso.

L'altro suo grande merito fu di ridare dignità ed efficienza all'Università di Pisa che suo padre aveva avversato come un focolaio d'infezione. Fece restituire la cattedra di filosofia a Pasquale Giannetti, lasciò pubblicare le opere di Gassendi condannate dalla Chiesa, e ordinò solenni onoranze a Galileo in Santa Croce. Scrisse Rucellai:

"Un solo ostacolo, l'Università di Pisa, impedì che la Toscana fosse ridotta a quello stato d'ignoranza che soffocava tutto il resto d'Italia". E questo ostacolo lo resuscitò Gian Gastone.

Sui negoziati internazionali da cui sarebbe dipeso, dopo la sua morte, il destino del Granducato, non poté influire perché il giuoco era più grande di lui. Ma ebbe il buon senso di capirlo subito e di non impegnarsi in manovre che gli sarebbero costate molto senza rendergli nulla. Si limitò a seguire con attenzione quelle delle Grandi Potenze cercando di far sì che la successione avvenisse pacificamente e fosse la meno dannosa agl'interessi della Toscana. C'è da chiedersi s'egli non avrebbe potuto compiere il gran gesto, che suo padre non aveva osato, di ripristinare gli ordinamenti repubblicani. Ma quando salì al potere, questa soluzione era già pregiudicata dalle decisioni che le Potenze avevano preso col primo trattato di Vienna. E per opporsi alla loro volontà ci sarebbe voluto non soltanto un gesto di gran coraggio da parte di Gian Gastone, ma anche una ferma volontà, da parte dei Toscani, di difendere la propria indipendenza come ai tempi di Pier Capponi. Di capponi a Firenze ce n'era ancora tanti, ma con la c minuscola. E Gian Gastone lo sapeva.

Dapprincipio aveva carezzato il sogno di lasciare il Granducato a un nipote bavarese di Violante. Ma la diplomazia europea lo mise di fronte al fatto compiuto. Senza neanche interpellarlo, stabilì che il suo successore sarebbe stato Carlo, il figlio di Filippo V di Spagna e di Elisabetta Farnese.

Come tutti i malinconici, Gian Gastone aveva un certo umorismo. Quando gli annunziarono la visita dell'erede, disse: "Vediamo di che figliolo m'hanno fatto padre a sessant'anni". Ma, appena lo vice, lungi dal prenderlo in uggia come un intruso - qual era -, ne rimase conquistato, e ne aveva di che, perché Carlo possedeva tutto per piacere a tutti. Capì al volo la disperata solitudine di quel povero vecchio confinato nel suo sudicio letto e, lungi dall'indignarsi per la sua degradazione, la compatì. Gian Gastone si sentì riscaldato dal calore umano di quel ragazzo, e in occasione della festa di San Giovanni (1732), invitò il popolo a rendergli omaggio come al suo legittimo successore. Il gesto dispiacque all'Austria, che seguitava a nutrire ambizioni sulla Toscana, e chiese che la proclamazione venisse revocata. Una nuova guerra stava per scatenarsi in Europa, e il Granduca temette di trovarcisi coinvolto a cause di quel suo avventato gesto. Tergiversò rinviando la protesta al Senato, e frattanto la guerra scoppiò davvero.

A provocarla fu la successione al trono di Polonia. Essa non riguardava direttamente l'Italia, ma rimescolava tutte le carte di un giuoco in cui anche l'Italia era coinvolta. Infatti, visto che l'Austria era impegnata in Polonia, gli spagnoli ne approfittarono per sbarcare truppe a Livorno nella speranza di accaparrarsi non soltanto la Toscana, ma tutta la penisola. Come si risolse questo ennesimo conflitto: con l'assegnazione di Napoli e della Sicilia a Carlo, e quella del Granducato a Francesco di Lorena.

Anche di questa transazione, Gian Gastone fu informato solo a cose fatte. E ne fu profondamente dispiaciuto. Preferiva gli spagnoli agli austriaci, anche perché più lontani e meno potenti, si era affezionato a Carlo e lo considerava il sovrano più adatto a governare degl'italiani anche perché era mezzo italiano anche lui per via della madre Farnese. Ma sapeva di non poterci far nulla. E quando gli dissero che a succedergli sarebbe stato il Lorena, commentò scetticamente:

"Chissà come sarà quest'altro figlio di cui le Potenze mi hanno reso padre!"

Nemmeno in quegli ultimi anni aveva cambiato vita e abitudini. Ci volle un medico per snidarlo d'autorità da quel letto "pieno di sudiciume" e trasferirlo in un altro che s'insudiciò subito anch'esso perché il Granduca non si lavava. E lì seguitò a disfarsi nell'accidia, da cui riuscivano a distrarlo solo i ruspanti. Godeva di sentirsi chiamare da loro con gli epiteti più spregiosi. I suoi vestiti erano in brandelli, la parrucca spettinata gli pendeva da tutte le parti anche perché egli ne adibiva i boccoli a tovaglioli, e "aveva" scrive un cronista "le ugne delle mani e dei piedi come un astore", cioè ripiegate in dentro ad artiglio perché rifiutava di farsele tagliare.

Tutti avevano giurato che sarebbe morto prima di suo padre, e quando gli successe, nel '23, erano convinti che non avrebbe durato più di qualche mese. Invece era rimasto sul trono quattordici anni arrivando fino ai sessantasei che a quei tempi era un'età rispettabile anche per gente sana e robusta. Nel giugno del '37 il Principe di Craon, venuto a rendergli visita per conto del Duca di Lorena, scrisse: "Ho trovato il Granduca in condizioni da far pietà: non era in grado di alzarsi dal letto, aveva la barba lunga, i lenzuoli sudici, la biancheria in disordine e senza trine, e nel complesso dava l'impressione di non avere un mese di vita".

Pochi giorni dopo l'Elettrice Ludovica forzò il divieto ch'egli le aveva fatto di comparirgli davanti, e attraverso delle porticine segrete entrò nella sua camera per indurlo al pentimento e alla comunione. II morente trovò ancora la forza per cacciarla via chiamandola "puttana". Ma poi si arrese alle insistenze di tutti, accettò la visita di un sacerdote, chiese il viatico, e invocò clemenza per i suoi peccati.

Ne aveva commessi tanti. Li aveva commessi tutti. Eppure non ci stupiremmo di sapere un giorno che è finito in paradiso e che non ci ha trovato suo padre, che di peccati non ne aveva commessi punti.

da: Storia d'Italia, Montanelli - Gervaso, Fabbri Editori

 

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