Autonomia, potere, minorita'

Considerazioni a margine della conferenza tenuta dal professor Alfonso M. Iacono il giorno 25 marzo 2003 presso il Liceo Ginnasio "G. Carducci" di Piombino  nell'ambito del progetto "Intercultura". Il prof Iacono ha presentato agli alunni delle ultime classi i temi qualificanti del suo ultimo saggio, "Autonomia, potere, minorita'",  edito da Feltrinelli

 

Strapazzare il modello classico della “storia della filosofia”

Proprio così: Iacono, nel descrivere le premesse metodologiche che lo hanno spinto a strutturare in un certo modo il suo libro, senza tener conto della cronologia,  ha usato il termine “strapazzare”.  Strapazzare l’usuale modello epistemologico, in uso nelle scuole superiori e nelle universita’, che presenta la Filosofia secondo un ordine temporale che parte da Talete per arrivare a noi. Come dire: la cosiddetta Storia della Filosofia, che in Italia, peraltro, ha alle spalle una degnissima tradizione accademica ( e che quindi non va gettata via sic e simpliciter)  è comunque una costruzione filosofica. Di questo bisogna essere consapevoli: ovvero non dobbiamo accettare per via d’autorita’ modelli che comunque possono essere alterati, discussi, “strapazzati” appunto. Insomma nel suo libro Iacono applica una diversa modalita’ di fare filosofia. 

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A questo punto mi e’ venuto in mente un librettino di qualche anno fa, Giochiamo con la filosofia, di Ermanno Bencivenga (1990). Cito dall’introduzione: “Anche la filosofia e’ una pratica, ma una pratica che non serve affatto (anzi, spesso e’ controproducente) per stare al mondo. E’ una pratica che non tratta del mondo, di questo mondo almeno, del mondo delle cose che esistono davvero: e’ un gioco irriverente e perverso che parte dalle cose  che esistono davvero ma poi le sconvolge, le critica, ne dichiara l’illegittimita’, apre le porte al dubbio, all’incertezza, alle domande piu’ inopportune, disegnando allo stesso tempo altri mondi, mondi puramente possibili, corsi che la stori aavrebbe potuto prendere (e, se li avesse presi, la filosofia contesterebbe anche quelli)”. Giocare con la filosofia: ovvero procedere per temi, per problemi, confrontando le risposte, sperimentando le soluzioni, immaginando alternative. La consapevolezza storica certo e’ importante per comprendere. Ma se fosse necessaria, per comprendere davvero cio’ che i filosofi (e non solo loro) possono ancora dirci, una certa dose di voluto anacronismo? Se costringere le loro parole entro i limiti rigorosi dell’interpretazione storica non fosse, almeno qualche volta, un alibi per anestetizzare il potere ancora spiazzante di certe affermazioni?

 

“ Che cos’e’ l’Illuminismo?”

Il libro di Iacono prende spunto dal celebre articolo di Kant (1784). Sara’ bene citare con precisione le parole del filosofo settecentesco: “L’Illuminismo e’ l’uscita dell’uomo dallo stato di minorita’ che egli deve imputare a se stesso. Minorita’ e’ l’incapacita’ di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stesso e’ questa minorita’, se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere giudicati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! E’ questo il motto dell’Illuminismo.

Questa definizione dell’Illuminismo e’ piuttosto desueta, secondo Iacono. Non si presenta l’Illuminismo come una corrente filosofica o un movimento genericamente intellettuale (come normalmente accade a scuola). Lo si descrive usando una metafora, quella dell’ uscita (uscita da e per dove?) e facendo riferimento ad uno stato di minorita’. Iacono, a questo proposito, si pone alcune domande (cito dal libro):

a)      in che senso l’Illuminismo e’, per Kant, un’ uscita dalla minorita’;

b)      che cos’e’ la minorita’;

c)      perche’ il suo superamento e’ definito metaforicamente nei termini di un’uscita.

 

In realta’ la domanda sottintesa a queste tre questioni e’ un’altra. Che senso puo’ avere oggi, per noi, il monito kantiano riguardo all’Illuminismo? La nostra societa’ (occidentale, minoritaria e privilegiata) apparentemente vive in una condizione di liberta’. Ma siamo certi che questa liberta’ equivalga ad una reale autonomia? Uscire dallo stato di minorita’ implica la conquista dell’autonomia: autonomia, ovvero darsi da se’ le proprie regole, le proprie leggi, senza ricorrere alla guida di un altro.  Ma l’attuale eccesso di informazione che si traduce spesso in disinformazione, il disimpegno crescente, l’utilizzazione acritica di metafore economicistiche (ad esempio l’ospedale come azienda, le competenze scolastiche come faticoso bilancio di crediti  e debiti formativi, il cittadino come utente o cliente) … perche’ accettiamo tutto questo come se fosse un dato naturale? Non abdichiamo in questo modo al nostro ruolo di individui realmente autonomi (e non solo nominalmente liberi)?

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Stanno ammazzando la cultura classica e, allo stesso tempo, il rigore del metodo scientifico. Dicono che sono cose difficili, inattuali, poco significative. Nel nostro frammentario orizzonte postmoderno quello che conta e’ l’acquisizione di competenze immediatamente spendibili sul mercato del lavoro che peraltro si modifica e si ristruttura  continuamente in nome della flessibilita’ da un lato e della massimizzazione dei profitti dall’altro: le competenze si bruciano rapidamente, e l’importante e’ riciclarsi di continuo, riciclare persino la propria identita’, rinunciando all’autonomia della scelta e al riconoscimento delle proprie responsabilita’ individuali e collettive. La verita’ e’ che la cultura fa paura: e’ preferibile mantenere la  gente in una sorta di semianalfabetismo (intellettuale ed emotivo) perche’ le gerarchie all’opera oggi non hanno bisogno di sudditi (come nell’epoca di Kant) ma di consumatori sudditi che siano pronto a piegarsi ai diktat dell’ultima moda e dell’ultimissimo stupido gadget. Hanno bisogno di bambini cresciuti che alimentino il mercato del divertimento da un lato e l’industria farmaceutica dall’altro (merce’ il massiccio consumo di antidepressivi). Siccome io non ci sto, cito, in risposta, Seneca, ovvero quanto di piu’ inattuale ci possa essere: “Da nulla bisogna infatti guardarsi di piu’ che dal seguire il flusso della folla, perche’ tale scelta ci porta ad andare non dove bisogna, ma dove vanno gli altri, pensando che le cose accettate dai piu’ siano le migliori. Accade infatti nella vita cio’ che accade quando una grande folla di persone e’ travolta dal panico e gli uni cadono sugli altri; chi sbaglia non sbaglia solo per se’ e il suo errore ricade sugli altri, cosicche’ credendo all’opinione dei piu’, rinunciamo a esprimere la nostra capacita’ di giudizio e siamo travolti. Pertanto faremmo bene a staccarci dalla folla e a esprimere valutazioni e scelte autonome e indipendenti. I giudizi si devono dare non secondo quello che dicono i piu’, ma usando la propria testa”. (De Vita Beata I  trad. Roberto Centi)

 

La Paura

Secondo Kant pigrizia e vilta’ determinano la passivita’ nei confronti delle “guide” (da notare la possibile degenerazione della “guida”: dux (Duce) in origine vuole dire appunto guida). Ma per Iacono, oggi, c’e’ qualcosa di piu’: siamo indotti ad affidarci ad altri (i politici, i tecnici, gli esperti di marketing…) e quindi a rinunciare alla nostra autonomia dalla paura, la paura oscura, primordiale  di abbandonare la nostra “tana” (non a caso nel libro viene citato il racconto di Kafka La tana), di ritrovarci soli, abbandonati, in un universo oscuro e fitto di pericoli. Uscire dallo stato di minorita’ implica necessariamente un abbandono delle certezze e e delle sicurezze prima date per scontate. E l’uomo non ama aver paura. Lo sanno bene i filosofi che sin dai tempi di Democrito ed Epicuro erano consapevoli che, ad esempio, la superstizione nasce appunto dall’incapacita’ di spiegarsi i fenomeni irregolari della natura. E persino la filosofia, in questo senso, puo’ fare paura: perche’ la filosofia, secondo Iacono, è lo scandalo dell’ovvio, l’esercizio “malsano” del pensiero che sconvolge schemi e pregiudizi, che ci allontana violentemente dalle certezze suggerite da altri, prima naturalizzate e alla fine banalizzate, come se fossero fatti acquisiti e immodificabili. Ma se la paura (o la meraviglia) suggerita dalla filosofia puo’ essere salutare, perche’ finisce per abbattere ben piu’ dannosi terrori, altre paure ci costringono a rimanere “minori”, a delegare ad un’autorita’ (laica o religiosa non conta) le nostre responsabilita’.

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A chi faceva paura il romanzo “ I Versi Satanici” di Salman Rushdie? Ricordate? Komheini lancio’ la fatwa contro lo scrittore angloindiano, condannandolo in pratica a morte (qualunque buon musulmano si sarebbe guadagnato il paradiso di Allah, uccidendolo).Nessuno, in Occidente, alzo’ piu’ di tanto la voce per difendero, forse per un nefasto e malinteso sentimento di “relativismo culturale”.A meno che non ricordi male, il nostro italianissimo Belzebu’, ovvero Andreotti, commento’: “Non ho letto il libro, ma insomma, se davvero ha offeso il Profeta Maometto, se l’e’ cercata”. Se non fosse stato per la fatwa, probabilmente  quel libro sarebbe rimasto ignoto ai piu’(come del resto er ed e’, ignoto a moltissimi lettori italiani il bellissimo “I figli della mezzanotte” forse la prova migliore di Rushdie),  e del tutto sconosciuto alle masse di straccioni analfabeti che distrussero e saccheggiarono le librerie e le pubblche biblioteche in Oriente (un traduttore, in Giappone mi sembra, fu persino accoltellato).Insomma a chi faceva paura un semplice libro?Risposta: in condizioni normali  non avrebbe fatto paura a nessuno, ma lo spettro della blasfemia fu agitato di fronte a masse derelitte per distoglierle da ben altri problemi e da drammi assai piu’ gravi. In  pratica un pretesto, per garantire e rafforzare, in Iran come altrove, una condizione appunto di minorita’Erano i tempi in cui la politica americana era ben deiversa da quella di oggi, i tempi in cui uno sciagurato, machiavellico tatticismo induceva la piu’ grande democrazia del mondo ad allearsi e a foraggiare quelle stesse mostruosita’ che poi si e’ trovata costretta a combattere (i talibani, Saddam, Bin Laden). Io credo che molti guai odierni nascano appunto da questa doppia faccia della democrazia che spesso si fa garante, a parole e ipocritamente, delle liberta’ fondamentali ma, se le conviene (oppure se semplicemente crede che le convenga), calpesta allegramente queste stesse liberta’ sulla pelle degli altri. Sono un’ingenua? Puo’ darsi. Ma vediamo tutti, oggi, dove certe “furbizie” ci hanno condotto. Allora, che fare? Il mondo e’ complicato e coloro che stanno nella stanza dei bottoni ci invitano a “lasciar lavorare il manovratore”. Ma questo manovratore, a dire il vero, sembra piuttosto incompetente.

 

Riti di passaggio

Nelle societa’ preindustriali e primitive esistono ancora particolari cerimonie simboliche che segnano il passaggio da una fase all’altra della vita (dall’infanzia all’eta’ adulta). Colui che si sottopone ai riti di passaggio, spesso difficili e fisicamente dolorosi, deve simbolicamente dimostrare di essere capace di gettarsi il vecchio “io” alle spalle, per acquisire una nuova identita’ e un nuovo ruolo all’interno dell’organismo sociale cui appartiene. Tracce di questi riti le ritroviamo fin nelle fiabe, ogni volta che l’eroe deve superare prove pericolose e complicate allo scopo di evidenziare  le qualita’ di coraggio, astuzia, intelligenza, lealta’, eccetera, indispensabili per ben competere con gli altri nella vita adulta. Ma anche se la prova non coinvolge direttamente le capacita’ fisiche e morali del soggetto, essa comunque segna ritualmente l’uscita dalla condizione protetta e felice dell’infanzia in direzione dell’universo sconosciuto e potenzialmente pericoloso della maturita’: ovvero l’abbandono di uno stato di minorita’ a favore dell’autonomia adulta (certo piu’ stimolante ma assai meno rassicurante). Nella nostra societa’ i riti di passaggio sono scomparsi, almeno apparentemente. Forse da questo dipende il fatto, fra l’altro, che attualmente i cosiddetti giovani (fino a trent’anni e oltre) considerino, in rapporto all’eta’ adulta, la loro condizione, appunto, giovanile, come uno status privilegiato, dal quale non conviene allontanarsi; al contrario, fino a pochi anni fa, l’ambizione piu’ evidente in un adolescente era quella di essere considerato “grande”, in grado cioe’ di fare scelte anche in netto contrasto con quelle dei genitori,  assumendosene tuttavia  la piena  responsabilita’. Oggi in famiglia i contrasti sono molto smussati, almeno da questo punto di vista, ma siamo sicuri che sia un bene? Non e’ che i giovani vogliono restare tali, al riparo della benevola comprensione degli “adulti” (eh si sa, signora mia, sono ragazzi…) e dimostrano in questo modo la loro paura  di uscire dallo stato di minorita’?

 

D’altra parte gia’ Foucault aveva individuato nei moderni esami e concorsi le forme, non riconosciute come tali, assunte dai riti di passaggio nella nostra societa’. Ma in essi e’ andato perso il criterio della relazione. Ovvero vengono presentati come semplici procedure di controllo della quantita’ di informazione che uno studente ha accumulato, come se la conoscenza  e l’istruzione fossero appunto solo l’esito di un passaggio di nozioni da A (il docente) a B (l’allievo) e in esse non fosse assolutamente implicato alcun tipo di relazione educativa (in prospettiva umanistica, ovvero, in senso etimologico,  tenendo al centro l’uomo). In questo modo si istillano sin dai banchi delle elementari elementi subliminali di autorita’ (le risposte suggerite non possono essere messe in discussione) e, alla fine, si costruiscono dei perversi riti di passaggio dopo i quali, paradossalmente, si resta minori. Puo’ darsi che tutto questo sia funzionale alla creazione di una societa’ apparentemente egalitaria, in realta’ strutturata  secondo un modello fortemente gerarchico, dove a un élite arroccata gelosamente nei propri privilegi di casta fa riscontro una massa di persone comuni, scarsamente o per niente autonome, alle quali, con la scusa della flessibilita’, si chiede in realta’ di rispondere, ogni volta che ce ne sia bisogno: “Si’, buana”.

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Sapete che cos’e’ la docimologia? La scienza della valutazione scolastica. Lo scopo di tale disciplina sarebbe quello di spogliare la valutazione di ogni possibile contaminazione soggettiva e soggettivistica, ovvero di giungere all’ oggettivita’ assoluta nell’accertamento delle competenze e delle conoscenze raggiunte dall’allievo. Da qualche anno a questa parte la docimologia impazza nelle scuole italiane. Peccato che la maggior parte dei docenti ne ignori i principi (peraltro complicatissimi dal punto di vista matematico), il corretto funzionamento e anche le implicazioni pesantemente negative che si sono manifestate in quei paesi (come gli Stati Uniti, ad esempio), dove l’utilizzo di batterie standard di test per verificare l’apprendimento scolastico e’ prassi comune. In Italia in genere si procede cosi’. Ci si inventano dei test (item a risposta multipla, si’/no, vero/falso, risposta aperta…), la cui difficolta’ relativa e/o assoluta nessun singolo insegnante puo’ saggiare perche’ occorrerebbero precise rilevazioni statistiche effettuate sulla base di criteri matematici che nessuno conosce, forse nemmeno i cosiddetti esperti), si attribuisce un punteggio a ciascuna risposta (calibrato in modo che da ultimo i conti tornino “a prescindere”) e poi si trasforma con una semplice proporzione il punteggio grezzo in un voto in decimi.In questo modo ci si illude di aver raggiunto l’oggettivita’. In realta’ si confondono surrettiziamente i piani della misurazione (neutrale) e della valutazione (necessariamente soggettiva perche’ legata appunto ad una modalita’ relazionale di concepire l’insegnamento) e si mettono a tacere le eventuali rimostranze degli allievi e dei genitori sbandierando la pretesa asetticita’ dell’operazione (io non c’entro, carta canta, i risultati parlano da soli). In questo modo l’insegnante delega le proprie responsabilita’ ad un improbabile tecnicismo oggettivo che, alla fine, tiene in poco o nessun conto fattori come:

a)      la qualita’ reale dell’insegnamento;

b)      la problematicita’ della cultura (chiedere di dare in due righe una definizione esauriente del materialismo dialettico, come mi e’ capitato di leggere, secondo me rappresenta l’esaltazione aberrante della cultura dei Bignami);

c)      l’effettiva corrispondenza degli item alla presenza di competenze e conoscenze ragionevolmente prevedibili in una data situazione (insomma, in genere, le domande o sono troppo facili o sono troppo difficili);

d)      la presenza di fattori esterni che possono influenzare in un modo o nell’altro la prova (ad esempio la provenienza sociale: in America, ovviamente, il raggiungimento del criterio di sufficienza e’ piu’ difficile per coloro che partono economicamente e socialmente svantaggiati. Alla fine la pretesa scientificita’ dei risultati viene utilizzata per ribadire l’esclusione sociale)

e)      la tendenza dei docenti a costruire il proprio iter didattico non in relazione alle vere esigenze culturali ed educative dei ragazzi ma in rapporto alle prove finali di verifica, che diventano cosi’ autoreferenziali e poco significative;

f)       l’impossibilita’ di valutare e riconoscere l’entita’ dei miglioramenti individuali , nonche’ di incentivare la motivazione sulla base di risultati gradualmente piu’ positivi. Insomma secondo me e’ deleterio dire a un ragazzo: “ Si’, lo vedo che sei migliorato, e che hai fatto tanti sforzi,  ma d’altra parte il punteggio e’ questo e io la sufficienza non te la posso dare…”

g)      la tentazione da parte degli insegnanti  di affidarsi ad altri (tecnici, libri di testo, manuali) per organizzare e costruire le prove, in quanto non si ritengono capaci ( e magari non hanno voglia) di fare da soli; in questo modo si fa solo la gioia della case editrici che, non a caso, sfornano di continuo nuove edizioni di libri di testo scritte da docenti e specialisti che in genee  non mettono piede in un’aula vera da una ventina d’anni.

 

Insomma: aridateci il vecchio  prof che magari ti appioppava tre  perche’ gli stavi sul c… Almeno lo sapevi, e anche se non era vero potevi comunque  illuderti che il tre non te lo meritavi, e lo potevi pure mandare a quel paese,  e nessuno ti prendeva per il naso con la storia delle prove oggettive e con questa manfrina di nozionismo maldigerito che ti propinano a scuola con la scusa dell’accertamento di  (usare un tono pomposo nel leggere ad alta voce) conoscenze, competenze, capacita’ 

 

Autori Vari

Il compito di latino. Nove racconti e una modesta proposta

Sellerio

 

Da leggere: sono nove racconti che non parlano solo della scuola com’e’ ma di come, nel bene e nel male, potrebbe diventare e di come potrebbe diventare (o forse e’ gia’?) la nostra societa’.
                                                                                                                                                        

 

Relazione di potere vs Stati di dominio

Si tratta di una distinzione risalente a Foucault. Cito direttamente dal filosofo francese: “Le analisi che ho cercato di fare vertono essenzialmente sulle relazioni di potere. Con queste intendo qualcosa di diverso dagli stati di dominio. Le relazioni di potere pervadono profondamente le relazioni umane. Questo non significa che il potere politico sia dappertutto, ma che, nelle relazioni umane, vi e’ tutto un fascio di relazioni di potere, che possono esercitarsi fra individui, in seno a una famiglia, in una relazione pedagogica, nel corpo politico. L’analisi delle relazioni di potere costituisce un campo estremamente complesso; essa si imbatte talvolta in quelli che possono essere definiti i fatti o gli stati di dominio, dove le relazioni di potere, invece di essere mobili e di permettere ai diversi partner una strategia che li modifica, si trovano bloccate e fisse. Quando un individuo o un gruppo sociale giungono a bloccare un campo di relazioni di potere, a renderle immobili e fisse e a impedire ogni reversibilita’ del movimento – con strumenti che possono essere economici, politici, militari – ci si trova di fronte a quello che puo’ essere definito uno stato di dominio”. (M. Foucault, L’éthique du souci de soi comme pratique de libertè)

In pratica. Non e’ possibile prescindere (se non a prezzo di pericolose e utopiche assolutizzazioni) dalle relazioni di potere all’interno della struttura sociale (esempi: fra genitori e figli; fra docente e studente; fra terapeuta e paziente). Le asimmetrie sono necessarie: ma altrettanto indispensabile che esse siano dinamiche, ovvero si basino sul riconoscimento dell’altro, e, una volta svolta la loro funzione, si esauriscano. Quando esse si cristallizzano al punto che l’elemento “piu’ debole” non e’ piu’ in grado di svincolarsi dalla dipendenza e non puo’ piu’ fare a meno della “guida”, si trasformano in stati di dominio. Gli stati di dominio rappresentano l’antitesi netta rispetto alla richiesta di autonomia. Si basano sulla paura e sono assimilabili a vere e proprie patologie. Le patologie, infatti, si reggono sulla fissita’ (basti citare, nelle nevrosi, per esempio il sintomo della “coazione a ripetere”). Lo stato di dominio mira a cristallizzarsi e perpetuarsi, cosi’ come tende a cristallizzarsi e a perpetuarsi il suo corrispettivo simmetrico, ovvero la condizione di minorita’, che di fatto si identifica con la paura del mutamento. Ma la Storia, personale e collettiva, e’ mutamento. La Storia e’ il teatro dove si attua l’accadimento di cio’ che e’ contingente: cio’ che e’ potrebbe anche non essere, cio’ che e ‘stato sarebbe potuto essere diverso, cio’ che sara’ non e’ ancora scritto. E allora entra in ballo la questione della responsabilita’: drammatica questione, legata a doppio filo a quella dell’autonomia. Dunque e’soprattutto importante ricordare che l’autonomia e’ condizione dinamica, non solo perche’ e’ il frutto di un “movimento” (un’ “uscita”, per riprendere la metafora kantiana, o un passaggio, un attraversamento) ma anche perche’ essa non si acquisisce una volta per tutte ma puo’ essere rimessa drammaticamente in gioco nelle varie fasi della Storia (sempre intesa nella duplice accezione di storia personale e di storia collettiva).

Suggestione kafkiana: Grigor Samsa si trasforma in insetto perche’ il suo insopprimibile desiderio di diventare altro, e di allontanarsi dalla opprimente tutela familiare, si traduce in un corpo ripugnante: diventare autonomi e’ comunque drammatico, se non addirittura tragico.

Contaminazioni

Nel libro di Iacono si trovano piu’ o meno ampiamente citati:  Kant, Platone, Omero, Pascal, Foucault, Pirandello, Kafka, Sterling, Vernant, Bettelheim, Tucidide…e molti altri. Esempio lampante di quella “lettura impura” che forse dovremmo tutti cominciare ad esercitare. Lettura impura: ovvero una lettura che, pur mantenendo il rigore argomentativo, infrange gli steccati che separano le discipline fra loro. Lettura impura: ovvero lo sforzo di far dialogare i testi fra loro, il desiderio di trovare i nessi e le coincidenze nascoste, di attivare correnti di senso comune in ambiti apparentemente molto diversi. Ho trovato la nozione di “lettore impuro” in un bel saggio di Piero Boitani, L’ombra di Ulisse (Il Mulino1992) Scrive Boitani: “L’interpretazione e’ allo stesso tempo “infinita” e “limitata”. Essa cresce con la comprensione che ciascuno acquista nella vita e nella lettura meditando – in un processo di ri-conoscimento – il proprio desiderio nella coscienza. Poiche’ tale crescita e’ potenzialmente senza fine nell’esistenza individuale e in quella storica dell’umanita’, l’interpretazione non ha, in potenza, alcun termine. Essa ha tuttavia dei limiti: nel testo e nella sua trama linguistica, nel contesto che la circonda, nell’”intenzione dell’opera”. Vedremo infatti che una delle possibili conclusioni di questo libro sar’ il silenzio dell’interprete. Ad indicare tuttavia l’infinita potenzialita’ della lettura si suggeriscono altri quattro esiti: il riso, l’orrore, la parola e l’enigma”. Qualche pagina oltre precisa: Dopo aver  prestato attenzione alla retorica nel capitolo precedente, viriamo di nuovo (con un passaggio, come si vedra’ intermedio) verso la poesia. Ed e’ qui che il lettore si accorge di essere non solamente obliquo, ma anche impuro. Non solo egli scavalca con disinvoltura e leggerezza i canoni stabiliti dalla tradizione, balzando da un ramo all’altro degli alberi genealogici, ma coscientemente insidia  con imprevedibili intuizioni estetiche la confortevole sicurezza dell’indagine storicistica. Attraversa lo spazio e il tempo con un desiderio inquieto e impaziente, abbandonando in parte il rigore faticoso della filologia, consapevolmente sbirciando avanti e dietro le proprie spalle verso le ombre che sente attorno a se’”.

 

Conclusioni (Contaminazioni)

Il saggio di Iacono e’ molto piu’ di questo, ovviamente. Mi limito solo a citare le bellissime pagine di commento alla sconvolgente affermazione di Trasimaco nella Repubblica di Platone: “La giustizia e’ l’utile del piu’ forte”. Spinta dalla lettura del capitolo  “La giustizia di Trasimaco”, ma anche, ahime’, dalla guerra in corso, dall’ analisi delle motivazioni, vere o presunte, del conflitto USA- Iraq, dalla sempre piu’ frequente equiparazione fra l’egemonia statunitense nel mondo e una sorta di vocazione imperiale che sembra intercciarsi fin con le radici della storia americana, sono andata a rileggere un passo di Tucidide, il cosiddetto Dialogo dei Melii e degli Ateniesi (La guerra nel Peloponneso V, 84 – 116) Nietzsche defini’ questo passo il “terribile dialogo” (Umano, troppo umano, I, fr.92). Melo era una piccola isola i cui abitanti volevano mantenere la propria neutralita’. Atene era una potenza democratica che non poteva tollerare nemmeno il benche’ minimo tentativo di sottrarsi alla sua egemonia, nemmeno in virtu’ di una pretesa neutralita’. Gli abitanti di Melo furono schiacciati senza pieta’ dalla soverchiante superiorita’ ateniese.  Scrive Nietzsche nel passo prima citato: “ La giustizia, la nozione di giustizia, nasce tra potenze all’incirca pari: lo ha ben compreso  Tucidide nel terribile dialogo tra gli ambasciatori ateniesi e quelli dei melii”. Scrive Montinari commentando la tirata di Nietzsche sulla “bestia bionda”: “La famosa dottrina della ‘bestia bionda’ ha questo significato: la societa’ umana  si basa su delitti orrendi, e sempre sara’ cosi’.  Dioniso comanda di dire questa verita’ senza velami, e impone al tempo stesso di accettarla, di affermarla. E’ la stessa visione della realta’ di cui e’ testimone Tucidide , nel colloquio fra i Melii e gli ambasciatori Ateniesi. Nietzsche non e’ un esaltatore della violenza come non lo e’ Tucidide. Gli Ateniesi che sterminano con spietata crudelta’ i cittadini di Melo sono gli stessi – cioe’ gli Ateniesi della stessa generazione – che da Pericle nel discorso funebre sono chiamati educatori della Grecia, amanti del bello e della sapienza. Rifiutarsi a questo, secondo Nietzsche, significa o negare la vita in generale o dire il falso sul principio della vita”: [le osservazioni sono tratte dall’Introduzione di Luciano Canfora a:Tucidide, Dialogo dei Melii e degli Ateniesi, Marsilio 1991]. Io non so se la nozione di giustizia debba sempre essere inficiata dall’uso della forza; non voglio credere che la giustizia sia possibile solo nei rapporti che si fondano su una sostanziale parita’, come sembra credere Nietzsche; sono molto perplessa sul fatto che comunque anche le “culle della democrazia” (Atene allora, gli USA oggi), quando costruiscono i loro imperi, non possano prescindere dall’uso della violenza.E tuttavia ritengo che si debba riflettere, e molto, su questi temi se non vogliamo, per amore di un utopismo astratto, essere presi in giro dalla realta’ dei fatti.

Ho cercato, infine,  di effettuare su questi argomenti un esperimento se possibile ancora piu’ “impuro” rispetto a quello suggerito da Boitani: non soltanto testi confrontati con altri testi e ad e essi sovrapposti e intrecciati, ma testimonianze di epoche diverse che vengono a collidere con la nostra concreta realta’ quotidiana e la illuminano di un senso imprevisto.

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