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HANNAH ARENDT

Hannover 14 ottobre 1906 – New York 4 dicembre 1975

Una delle massime pensatrici del Novecento - Prima donna docente di politica (Princeton Univ.).

Biografia

Cresce a Koenigsberg, poi studia teologia sotto Rudolf Bultmann presso l’Univ. Di Marburgo. Qui avviene il primo incontro con il giovane H. che nelle sue lezioni sta predisponendo i contenuti della Existenzphilosophie, che appariranno nel 1927 nel suo libro Sein und Zeit. La relazione amorosa con Heidegger termina quando lei si sposta a Heidelberg, dove studia sotto Karl Jaspers, psichiatra convertito alla filosofia.

Nel settembre 1929 sposa lo scrittore Gűnther Anders (pseudonimo di Gűnther Stern), si laurea due anni dopo con una tesi sull’idea di amore in Agostino. In un clima di crescente antisemitismo (lei ebrea, il marito ebreo), raccoglie documentazione biografica circa una ebrea che a Berlino nel tardo 800 aveva scelto la conversione al cristianesimo per potersi garantire il suo lavoro come cameriera. Il suo lavoro venne pubblicato solo nel 1958: Rahel Varnhagen: The Life of a Jewish Woman. Arrestata nel ’33 dalla Gestapo, in quanto attivista politica che documentava la persecuzione degli ebrei, riesce a fuggire da Berlino con la complicità di una guardia carceraria e   a raggiungere Parigi dove per tutti gli anni ’30 si impegna nell’ aiuto ai figli degli ebrei tedeschi che venivano diretti verso la Palestina, all’epoca terra araba sotto controllo inglese. Conosce un comunista che aveva militato nella Lega Spartachista di Rosa Luxemburg, Heinrich Blűcher, che sposa nel gennaio 1940.

Con la successiva invasione nazista della Francia, la coppia viene separata e lei, in quanto ebrea, internata nel sud della Francia. Da lì Hannah riesce a fuggire e a riunirsi al marito, con il quale nel maggio 1941 raggiunge New York, dove si dedica – per tutta la durata della guerra – alla redazione di The Origins of Totalitarianism (pubblicato nel 1951). Nei circoli intellettuali newyorkesi viene apprezzata per i suoi contributi alla Partisan Review dove lavorano anche non-ebrei, come Mary McCarthy. Il suo libro, stampato in piena guerra fredda, la fece conoscere per il parallelismo nazismo-stalinismo teorizzato dalla A. sia nell’ambito della forma statale che nell’ambito sociale, che esprime anche un razzismo antisemita, e per l’analisi delle “due guerre” condotte da Hitler, l’una contro Occidente e paesi comunisti, l’altra contro il popolo ebreo. Una successiva edizione dell’opera (1958) analizzava anche gli esiti dlla Rivoluzione ungherese antisovietica di due anni prima.

Tre successive opere riguardano la filosofia politica: The Human Condition (1958), Between Past and Future (1961).

Nel 1961 segue, come corrispondente di The New Yorker il processo che gli israeliani conducevano contro il colonnello Eichmann, responsabile della “logistica” e dell’organizzazione preposta, per ordine di Hitler, all’eliminazione sistematica degli ebrei in tutta l’Europa occupata. L’insieme degli articoli fu poi pubblicato nel libro Eichmann in Jerusalem.  In Eichmann A. esemplificava “the banality of evil” (banalità del male), vale a dire la conduzione quotidiana, burocratica, del “mestiere” di assassino, conduzione più tecnica che ideologica. Il male di Eichmann consiste non tanto nell’odio razziale, ma nella mancanza di riflessione cosciente su quanto stava facendo, il male consiste cioè nella sua “inconsapevolezza” di fare male. 

Eichmann era interessato a “fare bene” il lavoro tecnico, eludendo accuratamente di dare un senso razionale al tutto: il colonnello ha “fatto bene tecnicamente” un male che rifiutava di riconoscere in quanto non considerava suo dovere giudicare ciò che, per ordini superiori, faceva: in un apparato burocratico, gli ordini non si discutono.  In questa situazione A. vedeva il pericolo dell’estensione del razzismo sistematico ben oltre i confini del Terzo Reich. La banalità del male sta anche in quegli stessi ebrei (organizzati nel “consiglio della comunità”, Judenräte) che invece di opporsi apertamente al nazismo, ne facilitavano la politica cercando di collaborare – per venalità, egoismo, paura, deresponsabilità - con i vari funzionari addetti all’eliminazione. 

 filosofi condannati a morte e filosofi che condannano a morte

Sono sempre rimasto colpito dal suo pronunciamento (unico, a mio ricordo) di legittimazione filosofica della condanna a morte per un uomo, per quanto colpevole come Eichmann. La condanna avveniva a 16 anni di distanza dai reati di cui era giustamente accusato, ma non è tanto questo il punto a favore di una condanna non capitale. Che senso ha una sentenza di morte dichiarata da una filosofa e filosoficamente "argomentata"? Secondo A. il colonnello nazista meritava la morte perché aveva chiaramente detto che non desiderava condividere la terra con gli ebrei, perciò lo stato ebraico non aveva motivo di condividere la terra con lui.  Queste due considerazioni sono poco filosofiche e molto politiche. Legittimano lo stato di Israele come stato religioso (se non razzistico), e legittimano le pena capitale in quanto strumento politico. Esiste anche una "banalità dell'essere filosofo": il perdere o rifiutare il senso del proprio essere filosofo.

Questa teoria portò l’autrice a riflettere – dopo la fase della sua fermaopposizione alla guerra in Vietnam - (nelle lezioni tenute ad Aberdeen in Scozia nel 1975) sulle considerazioni neo-kantiane relativamente alla formulazione del giudizio (The Life of the Mind -1978). Un reiterato attacco cardiaco la condusse alla morte il 4 dicembre 1975, cinque anni dopo la morte del marito.

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Nel saggio sulla libertà[Che cos'e' la libertà, in Tra passato e futuro], A. muove dalla ricostruzione critica delle concezioni della libertà dominanti nella tradizione filosofica occidentale, che concepiscono essenzialmente la libertà come libertà del pensare e del volere, che concerne esclusivamente la relazione dell'individuo con se stesso, e che e' quindi essenzialmente una libertà dall'agire e dalla politica.
A partire dalla contestazione di tali concezioni, le cui ragioni profonde sono indagate in modo dettagliato in Vita activa, nelle pagine conclusive
del saggio sulla libertà  A. i introduce, richiamandosi ad Agostino, una concezione della libertà umana come "miracolosa" facoltà di "dare inizio a qualcosa di nuovo".
A partire da una suggestiva interpretazione di tale definizione la filosofa mostra come la libertà risulti indissolubilmente correlata all'agire
politico e come questo si riveli la forma della vita attiva, in cui si  realizza e si illumina pienamente il senso dell'esistenza degli esseri
umani, e non dell'Uomo, sulla terra. [da Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo [email protected], 2002, 430 (29 novembre)]. 

Ribadendo la separazione di verità e significato, Hannah Arendt conferma la sua scelta per il filosofare socratico come esercizio maieutico del render conto delle parole più abusate e della loro misura nascosta. Chiedendo infaticabilmente: che cosa vuoi intendere, quando dici questo.
L'esistenza, per sua stessa natura, non e' mai isolata; esiste solo nella comunicazione e nella consapevolezza dell'esistenza degli atri.

Da Archivio Arendt. 1. 1930-1948, MI:Feltrinelli, 2001, p. 220
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Opere

Critica

Laura Boella, Hannah Arendt, MI:Feltrinelli 1995, pp. 240 (densa monografia, un colloquio tra due profonde e sensibili pensatrici)

Elisabeth Young-Bruehl, Hannah Arendt, TO:Bollati Boringhieri 1990, 1994, pp. 642, (fondamentale biografia) 

Roberto Esposito, L'origine della politica: Hannah Arendt o Simone Weil?, Roma:Donzelli, 1996

 Paolo Flores d'Arcais, Hannah Arendt, Roma:Donzelli, 1996

Augusto Illuminati, Esercizi politici: quattro sguardi su Hannah Arendt, Roma:Manifestolibri, 1994
Friedrich G. Friedmann, Hannah Arendt, FI:Giuntina,  2001

fonti

 

Linkografia

www.us-israel.org/jsource/biography/arendt.html  fonte da cui ho tratto parte della biografia

 

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