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J.G.Fichte - pedagogia

1762-1814

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Sintesi da www.ilgiardinodeipensieri.com/storiafil/pancaldi-2.htm

 

 

Tra le esperienze filosofiche romantiche, l'idealismo è stato certamente quella dal maggiore spessore teoretico e dalle più vaste risonanze culturali. Sostenendo il primato del pensiero sulla sfera dell'empiria, e la realtà come prodotto dello spirito nella sua dimensione universale, l'idealismo, pur nelle sue varie versioni, è stato gravido di implicazioni pedagogiche, orientate da un lato a legare più strettamente la formazione individuale al compito storico e al suo inserimento nelle istituzioni del popolo di cui fa parte, e ad assegnare dall'altro una predominanza della filosofia e al procedimento razionale. Ne consegue una dura polemica contro le tendenze irrazionalistiche presenti nella cultura romantica, ed una svalutazione, in sede educativa, dei fattori ludici, intuitivi e sentimentali. In fondo la pedagogia consiste nell'esercizio stesso del pensiero, nel suo elevarsi dal piano più elementare ed immediato a quello dell'universalità e della necessità: in definitiva essa non è che filosofia in atto o "applicata".

La svolta idealistica in filosofia, a partire dalle premesse kantiane e dalla loro discussione, venne attuata da J.G. Fichte  il quale ponendo quale fondamento metafisico assoluto una soggettività infinita, indica nel contempo agli spiriti infiniti, all'umanità nella sua globalità, il cammino da compiere per realizzare il suo destino: poiché le singole individualità sono parte e derivati dell'Infinito, è loro preciso compito tendervi con uno sforzo morale che implica un perenne processo di autoperfezionamento etico e di progressivo cammino verso la libertà da realizzarsi mediante il superamento di tutto ciò che si presenta come mera materia, inerte e meccanica naturalità. Poiché l'Infinito e l'Assoluto sono immanenti in noi, la filosofia avrà il compito di renderne cosciente ciascun uomo risvegliando in lui il senso etico-religioso della sua essenza e condurlo a svolgere tale missione presso i suoi simili. La pedagogia altro dunque non è se non la "parte pragmatica della filosofia": se quest'ultima traccia il percorso etico-religioso che l'umanità dovrà realizzare indicandone i principi, la prima li dovrà applicare in modo che le coscienze se ne approprino per realizzare il compito che in questo tracciato è stato loro assegnato. Si comprende facilmente come in questo quadro il problema di come l'uomo debba educare ed educarsi nel corso della storia coincida con il problema di come il mondo debba essere ricostruito secondo la legge morale che impone di rimuovere tutto ciò che, in quanto Non-io o natura, limita la libertà del soggetto. Se queste idee pedagogiche risultavano piuttosto implicite nella "Dottrina della scienza" (1794), diventano palesi nelle contemporanee "Lezioni sulla missione del dotto": in esse, mentre si ribadisce che l'uomo ha come missione il dovere di elevare la propria individualità empirica alla sua essenza razionale attraverso un processo infinito di autoperfezionamento, non in condizioni di aristocratica solitudine ma nell'ambito della società dove ognuno deve contribuire al miglioramento di tutti, dall'altro si precisa che questo fine è perseguibile solo mediante lo Stato. Esso non deve essere strumento di coercizione e oppressione, ma ha il compito di promuovere la libertà e il raffinamento morale dei cittadini. Per questo scopo educativo lo Stato deve affidare la responsabilità ai dotti, cioè ai filosofi. Sono essi infatti i depositari del sapere che concerne gli autentici bisogni degli uomini, e perciò essi conoscono i mezzi per soddisfarli e possono fissare gli obiettivi relativi al particolare momento storico. Gli intellettuali devono porsi al servizio di questa grande missione collettiva perché essi sono i maestri del genere umano, cui devono indicare la direzione da seguire sorvegliandone il cammino. Quest' ultimo non potrà essere rousseauianamente un ritorno alla natura, ma al contrario sarà possibile solo come cultura, cioè come attività tesa al perfezionamento etico e allo sviluppo della civiltà.

Fichte ritorna sui temi pedagogici nei celebri "Discorsi alla nazione tedesca" pronunciati nel 1807-8 in occasione dell'invasione della Germania da parte delle armate napoleoniche. Opera di esaltazione patriottica, dove si teorizza la superiorità dell'identità della nazione tedesca, in essa l'educazione assume necessariamente un ruolo centrale per il risorgimento germanico. Perciò essa deve essere globale e totale, nel senso che deve formare tutto l'uomo e tutti gli uomini senza distinzione di classe: ci dovrà dunque essere solo "una vera e propria educazione nazionale tedesca", quale condizione per il riscatto nazionale. Dato questo alto fine, l'educazione non può presupporre la libertà interiore; la libertà esige, per essere esercitata, una volontà matura che si può formare coltivandola e stimolandola con l'intima necessità delle risoluzioni senza possibilità di alternative contrarie. Chi educa deve essere depositario di una verità indiscutibile che lo legittima ed esercitare la coercizione in vista della formazione di una salda volontà in cui Fichte traduce la kantiana legge del dovere. Inoltre bisogna che l'educazione sviluppi nel singolo alti ideali di vita che egli dovrà impegnarsi a realizzare nella realtà concreta con una forte e costante tensione etica. L'educatore non deve dunque assecondare la spontaneità dell'allievo, bensì destarne l'attività spirituale che non lo renda passivamente adeguato al mondo ma idealmente animato dalla volontà di cambiarlo. Pertanto anche l'istruzione, lungi dall'essere nozionistica, dovrà essere impartita in modo attivo: poiché si conosce per agire, l'educazione intellettuale risulterà preliminare e fondamentale per la formazione morale. Tuttavia Fichte insiste nell'avanzare la necessità di non separare apprendimento da attività spirituale, poiché senza quest'ultima la prima non riesce a trovare adeguata motivazione e scade nell'utilitarismo. Me egli evidenzia anche un altro punto: il suo progetto di educazione nazionale richiede una rivoluzione pedagogica, in quanto per formare le nuove generazioni di giovani occorre abbandonare tutti i modelli tradizionali degli adulti. Si tratta di rispondere contemporaneamente a due esigenze in apparenza contraddittorie: da un lato bisognerebbe, roussoianamente, formare i giovani fuori dalla società; dall'altro formarli precocemente in senso sociale per renderli in grado di recare il loro contributo al perfezionamento collettivo. A tale scopo Fichte ipotizza dei collegi che siano comunità sociali in scala ridotta, dove ogni giovane possa apprendere presto l'obbedienza alla legge, il lavoro e il sacrificio per il bene comune come fattori costitutivi e obbliganti per la propria formazione e come preparazione all'assunzione delle future responsabilità morali. In essi dovrà svolgersi sia la coeducazione dei sessi sia l'esercizio costante di un lavoro produttivo, di pari dignità con quello teorico. In questi collegi si sarebbe dovuto partire con un curriculum onnicomprensivo per assicurare a tutti la stessa formazione di base; in un secondo tempo, si sarebbero distinti i curricoli per i dotti e per gli addetti alle altre attività in base alle inclinazioni e alle disposizioni allo studio. Fichte non si è mai occupato di didattica e dei caratteri pratici della nuova organizzazione scolastica, ma ha indicato esplicitamente in Pestalozzi l'autore a cui ispirarsi e da cui trarre le indicazioni più proficue e consone al proprio indirizzo teorico. In ogni caso deve essere lo Stato l'istituzione cui spetta in modo preminente il compito dell'educazione: infatti solo lo Stato può assicurare un'educazione nazionale, poiché dispone sia delle risorse economiche sia della forza coecitiva per imporre a tutti il nuovo modello pedagogico. Si tratta naturalmente di uno Stato etico, guidato, in senso platonico, da uomini dotti completamente dediti alla loro missione nazionale e disposti a realizzarla con rigore e sacrificio personale. Naturalmente lo Stato interverrà a sovrintendere sull'educazione nel suo grado più elevato, cioè sull'università quale luogo di apprendimento dell'utilizzo delle capacità intellettuali formate dagli studi superiori precedenti per divenire funzionari di stato. In essa opereranno i filosofi che organizzeranno l'insieme dei saperi per la guida degli allievi. Sotto questo aspetto Fichte fu un fervente sostenitore della fondazione della nuova università di Berlino, di cui fu tra i primi docenti e primo rettore.

 

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