QUESTIONI SULL'OTTIMA REPUBBLICA
ARTICOLO PRIMO
Se a ragione e utilmente si sia aggiunta alla dottrina politica
il dialogo della Città del Sole.
Più difficoltà militano contro la ragionevolezza e
l'utilità di una tal repubblica.
1. Di ciò che non esistette mai, né esisterà
né si spera che esista, è inutile e vano
l'occuparsene; ma un simile modo di vivere in comune affatto
esente di delitti è impossibile, né mai si è
veduto, né si vedrà, dunque inutilmente ci siamo di
esso occupati. Argomento che Luciano usava contro la repubblica
di Platone.
2. Questa repubblica non può sussistere che in una sola
città, non in un regno, poiché non si possono
trovare luoghi affatto simili, adunque o sarà corrotta dai
popoli soggetti, dal commercio, o dalle sedizioni che nasceranno
contro una maniera di vivere sì austera.
3. Questa repubblica vien immaginata ottima e che duri per
sempre; ella prima non potrà durare per sempre
perché necessariamente essa dovrà corrompersi alla
fine, o essere invasa dalla peste pel lungo domicilio non essendo
purificata dal vento, dalla guerra, dalla fame, dalle bestie
feroci, se mai potrà sfuggire alla tirannia interna, o
infine dal troppo numero dei cittadini, come diceva Platone della
sua repubblica. Secondo, non potrà essere ottima
poiché necessariamente vi saranno dei delitti come dice
l'apostolo: si discessimus quia peccatum non habemus, ipsi nos
seducimus, e parimenti Aristotile prova che la comunanza dei beni
utili e delle mogli fa viziosa una repubblica contro Platone, e
quando ci sembra aver sfuggito un male ne incontriamo una
moltitudine.
4. Quel modo di vivere è più secondo natura che
è provato dall'uso di tutte le nazioni; ma il nostro
è rigettato da tutte, dunque inutilmente e leggermente ne
abbiam tenuto discorso.
5. Nessuno vorrebbe vivere sotto leggi ed osservanze così
severe e sotto tutela dei pedagoghi e questa repubblica sarebbe
rovesciata dagli stessi cittadini, come addivenne a molti ordini
religiosi viventi in comunità.
6. È naturale agli uomini lo studiare le opere di Dio, il
viaggiare pel mondo, cercare dovunque le scienze, far esperienza
di tutto; ma gli abitanti di una tal repubblica sarebbero come i
monaci che non studiano che sui libri, e quando intendono qualche
cosa che in essi non si trova si scandalizzano e si conturbano;
come ora appena credono alle osservazioni di Galileo, e
anteriormente che Colombo avesse trovato un nuovo emisfero,
perché S. Agostino lo nega.
Ma, rispondendo prima in generale, in nostro favore sta l'esempio
di Tommaso Moro, martire recente, che scrisse la sua repubblica
Utopia imaginaria, sul cui esempio noi abbiamo trovate le
istituzioni della nostra; e Platone parimente presentò
un'idea della repubblica, che sebbene, come dicono i teologi,
nella natura corrotta non può essere in tutte le parti
posta in pratica, pure nello stato d'innocenza avrebbe
ottimamente potuto sussistere, e Cristo appunto ci richiama allo
stato d'innocenza. Aristotile istituì nello stesso modo la
sua repubblica e molti altri filosofi. I principi parimente
promulgano leggi che credono esser ottime; non perché
s'imaginino che nessuno le trasgredirà, ma perché
pensano che faranno felice chi le osserva. E S. Tommaso insegna
che i religiosi non sono tenuti sotto pena di peccato ad
osservare quanto vien prescritto nella regola, ma solo le cose
più essenziali, quantunque sarebbero più felici
osservandole tutte: devono vivere secondo la regola cioè
adattare per quanto possono comodamente la loro vita alla regola.
Mosè promulgò leggi date da Dio e istituì
un'ottima repubblica, e finché gli Ebrei vissero a norma
della medesima fiorirono; quando poi non ne osservarono le leggi
decaddero. Così i retori stabiliscono le ottime regole di
un buon discorso privo di ogni difetto. Così i filosofi
imaginano un poema senza pecca, e tuttavia alcun poeta non sfugge
ogni pecca. Così i teologi descrivono la vita dei santi, e
nessuno o pochi di loro la imita. Qual nazione poi o qual
individuo poté imitare la vita di Cristo senza peccato?
Furono per questo scritti inutilmente gli Evangeli? non mai: ma
perché facciamo ogni sforzo per accostarci il più
che possiamo ai medesimi. Cristo stabilì una repubblica
eccellentissima, priva d'ogni peccato che gli apostoli appena
osservarono intieramente, poi dal popolo passò al clero, e
finalmente ai soli monaci; e in questi ora persevera in alcuni,
negli altri poi vedi ben pochi istituti conservarsi in armonia
colla medesima. Noi poi presentiamo la nostra repubblica non come
data da Dio ma come un trovato filosofico e della ragione umana
per dimostrare che la verità del Vangelo è conforme
alla natura. Che se in alcune cose ci scostiamo dal Vangelo, o
sembriamo scostarci, ciò non si deve ascrivere ad
empietà, ma alla debolezza umana che priva di rivelazione
pensa molte cose essere giuste, che al lume della medesima non
sono tali, come diremo della comunità dei matrimoni; e per
questo abbiamo supposta la nostra repubblica nel gentilesimo che
aspetta la rivelazione di una vita migliore, e vivendo secondo i
dettami della ragione merita di averla. Quindi sono come
catecumeni della vita cristiana; perciò dice Cirillo
contro Giuliano: che ai gentili fu data la filosofia come
catechismo per la fede cristiana. Noi poi ammaestriamo i gentili
perché vivano rettamente se non vogliono essere
abbandonati da Dio, e persuadiamo i cristiani che la vita di
Cristo è conforme alla natura prendendo da questa
repubblica l'esempio, come S. Clemente romano dalla repubblica
socratica, e come fecero e il Grisostomo e S. Ambrogio.
Egli è poi chiaro come con questa maniera di vivere
vengano tolti tutti i vizi, poiché né i magistrati
hanno ragioni di ambire i posti, e tutti gli ab si che nascono,
sia dalla successione, sia dall'elezione, sia dalla sorte,
stabilendo noi una specie di repubblica come quella delle grue e
delle api celebrate da S. Ambrogio; così pure vengono
tolte le sedizioni dei sudditi, che nascono sia dall'insolenza
dei magistrati, sia dalla licenza di questi, o dalla
povertà, o dalla troppa abbiezione ed oppressione.
Così tutti i mali che nascono dai due opposti, dalle
ricchezze e dalla povertà, e che Platone e Salomone
considerano come l'origine dei mali della repubblica: cioè
l'avarizia, l'adulazione, la frode, i furti, la sordidezza dalla
povertà: la rapina, l'arroganza, la superbia,
l'ostentazione, l'oziosità, ecc., dalle ricchezze.
Così si distruggono i vizi che nascono dall'abuso
dell'amore, come gli adulteri, la fornicazione, la sodomia, gli
aborti, la gelosia, le discordie domestiche, ecc.
Così i mali che procedono dal troppo amore dei figli o
delle consorti; e la proprietà che tronca, come dice
Sant'Agostino, le forze della carità, e l'amor proprio
cagione di tutti i mali, come dice Santa Caterina in un dialogo;
da qui l'avarizia, l'usura, l'illiberalità, l'odio del
prossimo, l'invidia verso i ricchi e i grandi: noi accresciamo
l'amore della comunità e togliamo gli odj che nascono
dall'avarizia, radice di ogni male, così le liti, le
frodi, le false testimonianze, ecc.
Così tutti i mali del corpo e dell'anima che nascono o dal
troppo lavoro nel povero, o dall'ozio nei ricchi, mentre da noi
si scompartono le fatiche ugualmente.
Così i mali che vengono dall'ozio nelle donne, e che
corrompono la generazione e la salute del corpo e dello spirito,
mentre noi le occupiamo di esercizi e delle virtù ad esse
confacenti.
Così i mali che nascono dall'ignoranza e dalla stoltezza,
mentre nella nostra repubblica si vede tanta esperienza di
dottrina in ogni cosa, e nella stessa fabbrica della
città, ove con imagini e pitture a chi solo vi riguardi si
insegnano tutte le scienze quasi in un modo storico.
Così vien provveduto meravigliosamente contro la
corruzione delle leggi.
Finalmente siccome abbiamo sfuggito in ogni cosa gli estremi e
ridotto tutte le cose a giusto mezzo, in cui sta la virtù,
non può imaginarsi una repubblica più felice e
più facile. E finalmente tutti i difetti che si sono
notati nelle repubbliche di Minosse, di Licur , di Solone, di
Caronda, di Romolo, di Platone, di Aristotile e di altri autori,
nella nostra repubblica, a chi ben vi guarda, non vi si trovano,
e felicemente si è provveduto a tutto, poiché essa
è dedotta dalla dottrina delle primalità
metafisiche, colle quali nulla vien negletto od ommesso.
Ora alla prima difficoltà si è risposto che se non
si può raggiungere esattamente l'idea di una tal
repubblica, non per questo si è scritto inutilmente,
mentre si propone un esemplare da imitarsi per quanto si
può. Ma che essa sia pur possibile lo mostra e la vita dei
primi cristiani in cui la comunanza fu stabilita sotto gli
apostoli secondo testifica S. Luca e S. Clemente. E in
Alessandria si è osservato l'istesso modo di vivere sotto
S. Marco, come testifican Filone e S. Girolamo. Tale fu la vita
del clero fino ad Urbano 1 ed anche sotto S. Agostino; e tale ora
è la vita dei monaci che S. Grisostomo desidera, come
possibile, introdotta in tutta la città di Costantinopoli,
e che io spero doversi in futuro realizzare doo la ruina
dell'Anticristo, come ne' miei profetali. Chi poi
aristotelizzando la nega, è però costretto ad
ammetterla possibile nello stato di innoc enza, sebbene non di
presente. Ma i padri la suppongono praticabile anche ora,
poiché Cristo ci ha ridotti a quel primo stato. E mentre
Luciano, gentile e ateista, deride Platone per aver imaginato una
repubblica impossibile, S. Clemente,. Ambroo e Grisostomo lo
lodano, e esti per dottrina e per santità sono bene da
anteporsi a mille Luciani.
Alla seconda obbiezione. Noi abbiamo per questo attribuito un tal
modo di vivere solo alla capitale. 1 villaggi poi imiteranno un
tal modo o in parte, o nel tutto, quando più di essi si
uniranno a formare una provincia. Luoghi adatti poi si troveranno
facilmente, e dove manchino varieremo la forma, in modo che nel
più alto del monte sia il capo della città, nelle
appendici semicircolari poi le abitazioni, e al piano il nostro
modello sarà pur buono, se non vi si oppone il fango, che
si può schivare selciando le vie e scavando acquedotti.
Perché poi gli abitanti non siano corrotti dal commercio
si è provveduto nel testo coi magistrati a ciò
deputati, ed a fuggire le sedizioni esterne valgono le rocche ben
munite della metropoli e le milizie che percorrono di continuo
per la difesa dell'impero, e più la probità della
città dominante, il servire alla quale è una
felicità come per gli ignoranti è bene servire al
sapiente e al probo e più coll'opinione di probità
che colla forza Roma accrebbe l'impero, e sotto Pompilio
stimarono nefando usare dei mezzi contrari alla virtù
contra i nemici.
Alla terza obbiezione. Essa durerà fino ad uno dei periodi
generali delle cose umane che dan origine ad un nuovo secolo.
Poiché quanto alla peste, alle fiere, alla fame, alla
guerra, abbiamo provveduto ottimamente per quanto si può
colla virtù o almeno assai meglio di quel che si soglia
fare altrove, poiché i venti per le quattro vie maggiori
purgano la città, e dove sono impediti dalle case
suppliscono le finestre, poste in modo da chiudersi alle cattive
esalazioni e da aprirsi alle salubri. Quanto al numero degli
abitanti vedi la metafisica. Dico questa essere una via ottima e
di cui si deve più aver cura che della durata. Certo vi
saranno dei peccati, ma non gravi, come negli altri Stati o
almeno non tali che ruinino la repubblica come risulta dagli
ordini stabiliti. Ciò poi che Aristotile obbietta ad una
tale repubblica verrà sciolto nei susseguenti
articoli.
Alla quarta obbiezione. Dico che tal repubblica, come il secolo
d'oro, vien da tutti desiderata e chiesta da Dio quando si
domanda che la sua volontà sia fatta così in cielo
come in terra. Non vien però praticata per la malizia dei
principi, che a sé non all'impero della somma ragione
sottomettono i popoli. Dall'uso poi e dall'esperienza è
provato essere possibile quanto abbiam detto; come è
più secondo natura il vivere conforme alla ragione che
all'affetto sensuale, e virtuosamente di quel che viziosamente,
secondo Grisostomo. E i monaci sono di ciò una prova, e
ora gli anabatisti, che vivono in comune, che se ritenessero i
veri dogmi della fede, più profitterebbero in questo modo
di vita; e volesse il cielo che non fossero eretici, e
praticassero la giustizia come noi professiamo: che sarebbero un
esempio della sua verità; ma non so per qual stoltezza
rifiutano il migliore.
Alla quinta obbiezione. Ella è anzi una somma
felicità il vivere virtuosamente, come dice Grisostomo, e
dove commettendo errore sei tosto corretto, avanti che sopporti
gli effetti dell'errore. La licenza è causa dei mali, ed
è felice quella necessità che ci sforza al bene.
Ma, a noi avvezzi al male, sembra duro questo genere di vita,
come ai giuocatori e ai discoli la vita dei buoni cittadini: e a
questi la vita dei monaci. Ma provate, e vedrete i religiosi non
mai per la severità della disciplina si rivoltano, ma se
avviene è pel commercio dei laici, per l'ambizione degli
onori e l'amore della proprietà o per libidine, ma nella
nostra repubblica si è provveduto e sfuggito tutte queste
cagioni. Dunque non prova l'esempio di quelli.
Alla sesta obbiezione. Noi anzi cerchiamo di far tesoro per la
nostra repubblica delle osservazioni dell'esperienza, della
scienza di tutta la terra, e a questo fine abbiamo stabilito
peregrinazioni, comunicazioni di commercio e ambasciate.
Né i monaci si privano di questi beni mutando spesso
città e provincia, né l'ignoranza dell'esperienza
si dà a vedere nei migliori monaci, ma solo nei volgari.
Le loro querele poi giovano perché meglio si discutono le
cose, e si rischiarano, e alla fine si acquietano pure tutti i
virtuosi. E tu non troverai che in alcun luogo più si sia
fatto per la dottrina e la conservazione delle scienze che negli
ordini dei monaci e dei frati. E i monaci antropomorfiti, insorti
contra Origene ad istigazione del maligno Teofilo patriarca, non
ottennero nulla dopo un esatto esame. Ma è chiaro che tali
sedizioni non avverranno nella città del Sole. Il
monachismo è stato ritrovato per l'aumento della
santità e della scienza, non per rendere pesante la
sudditanza, come pretendono gli ipocriti.
ARTICOLO SECONDO
Se sia più conforme alla natura, e più utile alla
conservazione e all'aumento della repubblica e dei particolari,
la comunanza dei beni esterni come sostengono Socrate e Platone,
oppure la divisione difesa da Aristotile.
Prima obbiezione. Contro la comunanza dei beni Aristotile nel
2° libro della Politica argomenta in questo modo: o in questa
comunanza, dice, i campi sarebbero propri e i frutti comuni o
viceversa, o sì gli uni che gli altri comuni. Nel primo
caso chi avesse più suolo dovrebbe più lavorare per
coltivarlo, e avere egual parte di frutti con quelli che non
lavorano, e da qui nascerebbero discordia e ruina. Nel secondo
caso nessuno sarebbe stimolato al lavoro, e i campi sarebbero mal
coltivati, poiché ognuno pensa più a sé che
alle cose comuni, e dove v'è una moltitudine di servi il
servizio è peggiore, mentre ognuno rimette sull ' 'altro
il lavoro che dovrebbe fare. Nel terzo caso avverrebbe lo stesso
e inoltre un nuovo male, poiché ognuno vorrebbe avere la
migliore e la più gran parte nei frutti, e la minore nelle
fatiche, e quindi invece dell'amicizia, non vi sarebbe che
discordia e frode.
Seconda obbiezione. Contro la comunanza dei beni utili si
obbietta essere necessarie più classi di persone pel buon
governo della repubblica, come soldati, artefici e governatori,
secondo Socrate: che se tutte le cose fossero comuni, ognuno
rifiuterebbe le fatiche dell'agricoltore, e vorrebbe esser
soldato e in tempo di guerra vorrebbe essere agricoltore, e non
combatterebbe senza stipendio; o meglio ancora tutti vorrebbero
essere rettori, giudici o sacerdoti. Così onorando alcuni,
si aggraverebbero gli altri, aggravando i primi di minor lavoro,
e quindi vi sarebbe ancora dell'ingiustizia, come per lo innanzi;
è dunque meglio dividere i beni.
Terza obbiezione. La comunanza distrugge la liberalità e
la facoltà di esercitare l'ospitalità, di
soccorrere i poveri, poiché chi nulla possiede del suo non
può fare alcuna di queste cose.
Quarta obbiezione. L un'eresia il negare la giustizia della
divisione dei beni, come sostiene S. Agostino contro quelli che
aveano in comune le donne e i beni e dicevano di vivere in tal
modo alla maniera degli apostoli. E Soto nel lib. de Just. et
Jure, dice che il concilio di Costanza condanna Giovanni Uss che
nega potersi possedere qualche cosa in particolare; e Cristo
disse: reddite quae Caesaris Caesari.
In contrario rispondiamo prima in generale colle parole di S.
Clemente papa nell'epist. 4, e che sono riferite da Graziano nel
can. 2, quest. I. - Carissimi, l'uso di tutte le cose che sono in
questo mondo dovea essere comune, ma per iniquità, l'uno
disse essere sua questa cosa, l'altro quell'altra, ecc., e dice
che gli apostoli hanno insegnato e vissuto in modo che tutto
fosse in comune, anche le donne. E così insegnano tutti i
Padri commentando il principio della Genesi, poiché Dio
non distribuì nulla e lasciò tutto in comune agli
uomini perché crescessero, moltiplicassero e riempissero
la terra. Così insegna Isidoro nel capo del jus naturale;
e che gli apostoli abbiano vissuto in tal modo e tutti i
cristiani primitivi si vede da S. Luca, S. Clemente, Tertulliano,
Grisostomo, Agostino, Ambrogio, Filone, Origene ed altri; questa
vita fu poi ristretta ai soli chierici che viveano in comune come
testificano gli stessi e S. Girolamo, Prospero e Urbano papa e
altri. Ma sotto il papa Simplicio, circa l'anno 470, fu fatta dal
medesimo la divisione dei beni della Chiesa per modo che una
parte toccasse al vescovo, l'altra alla fabbrica, l'altra al
clero, ed una ai poveri. Poscia Gelasio papa poco dopo e S.
Agostino non volevano ordinar chierici se non ponevano tutto in
comune. Ma in seguito per non fare degli ipocriti che celavano il
proprio' lo si permise, ma non volentieri. Perciò è
un'eresia il condannare la vita comune, o il dirla contro natura.
Anzi S. Agostino pensa che il togliere la proprietà
è cagione di maggior splendore. Quindi sì per la
presente che per la futura vita è migliore la comunanza
dei beni. E S. Grisostomo insegna che questo genere di vita
passò nei monaci ed egli la adotta, la insinua e la
predica a tutti, e insegna nell'omelia al popolo di Antiochia che
nessuno è padrone de' suoi beni ma solamente è
dispensatore, come il vescovo di quelli della Chiesa, e quindi
ogni laico il quale abusa de' suoi beni e non ne comunica agli
altri, esser colpevole. S. Tommaso dice che siamo padroni della
proprietà, non dell'uso, poi nell'estremo bisogno tutte le
cose sono comuni. Perciò, se bene rifletti, una tale
proprietà è piuttosto un peso per l'obbligazione di
render conto della mala distribuzione, e ciò vien
affermato da S. Basilio nel sermone ai ricchi, e da S. Ambrogio
nel sermone 81, e S. Grisostomo lo inculca in quasi tutte le sue
omelie e particolarmente sopra S. Luca al cap. 6 ove si trovano
queste parole: nemo dicat proprio a Deo percipimus omnia:
mendacii verba sunt meum et tuum. Lo stesso afferma Socrate nella
Repubblica di Platone o del Timeo, lo stesso S. Agostino nel
trattato 8° sopra Giovanni e il poeta Cristiano:
Si duo de notris tollas pronomina rebus,
Praelia cessarent, pax sine lite foret.
E Ovidio nelle Metamorfosi I, pone tal vita nel secol d'oro. E
Ambrogio sopra il salmo 118 alla lettera L, dice: Dominus noster
terram hanc possessionem omnium hominum voluit esse communem: sed
avaritia possessionum jura distribuit: e nel libro de Virg. dice
che la violenza, la strage e la guerra distribuirono le cose agli
ebrei carnali, non però ai leviti, che figuravano il
cristianesimo e il clero. S. Clemente poi afferma che ciò
fu per l'iniquità dei gentili. E lo stesso S. Ambrogio nel
lib. I degli Uffizi, cap. 28, prova colla scrittura e
coll'autorità degli storici tutte le cose essere comuni,
ma per usurpazione essere state divise, e lo stesso negli Hexam.
V, insegna coll'esempio della repubblica civile delle api la vita
in comune, tanto dei beni che della generazione, e coll'esempio
delle grue sviluppa la vita comune in una repubblica militare. E
Gesù Cristo coll'esempio degli uccelli che non hanno nulla
di proprio, che non seminano né mietono, né
dividono la pastura; eppure, come dice il giurisperito: jus
naturale est id quod natura omnia animalia docuit. Per cui egli
è certissimo essere per diritto naturale tutte le cose
comuni.
Scoto nel 4 delle sentenze 15, risponde che la comunanza è
di diritto naturale nello stato di natura, ma Adamo avendo
peccato fu derogato a tal diritto. Ma vana è questa
risposta poiché, come dice S. Tommaso, il peccato non
distrugge i beni di natura, ma solo quelli di grazia. Esso offese
la natura e la ragione, ma non introdusse un nuovo diritto;
quindi se la comunanza fu di diritto, la sola ingiustizia
poté introdurre la divisione. Perciò anche la
glossa sul testo di S. Clemente dice che essa fu introdotta: per
iniquitatem, idest per jus gentium contrarium juri naturali.
Ma come vi può essere diritto se è contrario alla
natura, che è l'arte divina? Così il diritto
sarebbe un peccato. Scoto risponde che ciò avviene per
l'iniquità, cioè pel peccato originale, ma questo
commento è vano, poiché come spiegherà le
parole di S. Ambrogio, che dice la divisione introdotta
dall'avarizia e dalla violenza? Di più S. Clemente dice
che gli Apostoli ci hanno rimessi nello stato dijus naturale;
adunque questa che fu iniquità lo è pur ora.
Gaetano insegna che fu una comunanza naturale « negativa
», cioè che la natura non insegnò la
divisione: ma non « affermativa », come se avesse
detto di vivere in comune e non altrimenti. E Scoto vi aderisce
come al solito, ma aggiunge, come mai allora la divisione
verrebbe dall'iniquità e dall'avarizia, come insegnano i
santi, se la comunanza nello stato di natura non fu che negativa?
Quindi con più ragione S. Tommaso insegna l'uso comune
essere di diritto naturale, la distribuzione poi e l'acquisto
della proprietà essere di diritto positivo. E questa
divisione non può essere contraria alla natura,
poiché questa proprietà è nel caso di
necessità, e in tutto ciò che succede, il
necessario divien comunità, come insegna parlando
dell'elemosine; poiché tutto ciò che eccede i
bisogni della persona e della natura, si deve donare, altrimenti
non sarebbero condannati nel giorno del giudizio quelli che non
sollevarono i bisognosi. E sebbene questa dottrina di S. Tommaso
sembri giustificare in qualche parte la divisione, non le accorda
però che il diritto di distribuire e di sollevare, e
resta, giusta la dottrina di S. Grisostomo, Basilio, Ambrogio e
Leone papa (ser. V, de Collectis), che i ricchi sono dispensatori
non padroni delle cose; che se poi sono padroni, non lo sono che
di distribuire e di donare, come i vescovi della parte della
Chiesa; la parte poi di cui sono padroni si limita al puro vitto
e vestito. E questa parte la hanno pure i monaci, come loro la
attribuisce e prova Giovanni papa XXII nelle Extrav.
Poiché di diritto e non ingiustamente mangia il monaco e
l'apostolo, quindi ha l'uso di diritto, non di solo fatto,
giacché questo ultimo diritto lo ha il ladro quando mangia
le cose altrui. Scoto pensa che questo papa errasse, ed abbia
deciso ciò per odio contro i Francescani, poiché
Clemente V e Nicola III, pontefici, accordano ai Francescani
soltanto l'uso di fatto, non di diritto, come un invitato a cena
mangia solo di fatto non di diritto. Ma Scoto s'inganna, e
ingiustamente condanna un papa, poiché quei pontefici da
lui citati non distruggono il diritto di gius naturale, ma solo
il diritto positivo, quindi S. Tommaso pensa che nelle cose che
si distruggono coll'uso non si può distinguere l'uso dal
dominio, come si vede nel trattato dell'usufrutto delle cose che
si consumano coll'uso (lib. 2). Perciò questi pontefici
non si contraddicono tra di loro, come insegna Giovanni XXII, ma
è bensì eretico chi nega l'uso di diritto agli
Apostoli e a Cristo; poiché allora non avrebbero mangiato
di diritto, ma ingiustamente come il ladro. Il ladro ha il
diritto di fatto ma nella necessità ha anche il diritto
naturale. Da tutto questo risulta la solidità della
dottrina dei Santi, contro gli sciocchi che mettono la bocca in
cielo. L'invitato mangia di diritto, e il suo titolo è la
donazione, non minore del titolo di vendita. Ma, dirai: i ricchi
sono dunque obbligati alla restituzione del superfluo, e a chi?
ai poveri o alla repubblica? direi alla repubblica e ai poveri,
ma perché non vi è luogo a disputa poiché
questi non hanno acquistato un diritto positivo, dico a Dio, a
cui dovranno render ragione nel giorno finale, come insegnano S.
Basilio, Ambrogio e Leone.
Adunque colla nostra repubblica vengono tranquillizzate le
coscienze, tolta l'avarizia, radice di ogni male, e le frodi
commesse nei contratti, e i furti e le rapine e la mollezza e
l'oppressione dei poveri, e l'ignoranza che invade anche gli
ingegni meglio disposti, perché rifuggono dalla fatica
mentre pretendono filosofare, e le inutili cure, e le fatiche, e
il danaro che mantiene i mercadanti, e la illiberalità, e
la superbia, e gli altri mali prodotti dalla divisione' e l'amor
proprio, e le inimicizie, e le invidie, e le insidie, come si
è mostrato. Distribuendosi gli onori secondo le attitudini
naturali si tolgono i mali che nascono dalla successione,
dall'elezione e dall'ambizione, come insegna S. Ambrogio parlando
della repubblica delle api, e così seguiamo la natura che
è l'ottima maestra, come nelle api. E l'elezione di cui
noi facciamo uso non è licenziosa, ma naturale, eleggendo
quelli che si distinguono per le virtù naturali e
morali.
Ora rispondendo in particolare alla prima obbiezione, diciamo che
Aristotile commette errore spontaneamente e di mala fede,
poiché anche per Platone e i fondi e i frutti e le
«fatiche» sono comuni; e nella nostra repubblica
vengono distribuite dai magistrati dell'arti le fatiche secondo
la capacità e la forza, ed eseguite dai capi delle arti
con tutta la moltitudine, come si vide nel testo; né da
alcuno può usurparsi nulla, nutrendosi tutti a tavola
comune e ricevendo le vesti dal magistrato del vestiario, secondo
la qualità e le stagioni, e conformi alla salute; e
ciò pure si vede fare dai monaci e dagli apostoli. Quindi
Aristotile ciarla inutilmente. Non hai che da esaminare nel testo
il modo della distribuzione dei vestiti secondo le stagioni, le
fatiche e le arti e la esecuzione, ecc., né alcuno
può far difficoltà, poiché tutte le cose
sono fatte con ragione, anzi ognuno ama di fare ciò che
è conforme alla sua disposizione naturale, ciò che
appunto praticasi nella nostra repubblica.
Alla seconda obbiezione si risponde, che ciascuno vien applicato
dai Magistrati fin dall'infanzia, secondo le disposizioni
naturali, alle varie arti, e chiunque per esperienza e per
dottrina riesce ottimo, si prepone all'arte per cui è
idoneo. Sommi magistrati poi non possono divenire se non gli
eccellenti, secondo l'ordine notato nel testo. Quindi né
il soldato vorrebbe divenir capitano, né l'agricoltore
sacerdote, dandosi gli incarichi secondo l'esperienza e la
dottrina, non per favore e per parentele: ma adeguati alle
cognizioni. E ciascuno riceve l'ufficio nel ramo in cui si
distingue. Né i primi magistrati possono onorare gli uni e
reprimere gli altri, non governando arbitrariamente, ma seguendo
la natura, applicano ciascuno all'ufficio conveniente. E non
possedendo nulla in proprio per cui possano violare il diritto
altrui per ingrandire i figliuoli, conviene loro agir bene per
essere onorati, e considerando tutti come fratelli e figli e
parenti si mantiene un egual amore per tutti senza alcuna
distinzione. Nessuno combatte per paga, ma per sé, pei
figli e pei fratelli, né alcuno ha bisogno di stipendio,
avendo ognuno da vivere bene, ma dell'onore che le azioni
valorose ottengono dai fratelli. 1 Romani fino alla guerra di
Terracina combatterono senza stipendio e gareggiavano a morir per
la patria; ma quando invase l'amore della proprietà,
mancò a poco a poco la virtù. E Sallustio e S.
Agostino insegnano che essi giunsero a tanto impero per l'amore
della comunità, e Catone in Sallustio dice: pubblicae opes
et privata paupertas, foris justum imperium, intus indicendo
animus liber, neque formidini neque cupiditati obnoxius, rem
Romanam auxere. Nella nostra repubblica poi queste cose assai
migliori si conservano per la comunanza dei beni utili e onesti
sotto la guida della natura.
Alla terza obbiezione. Inconsideratamente parla Aristotile, e
anche Scoto, per non dire ampiamente. Forse che i monaci e gli
apostoli non sono liberali perché non posseggono in
proprio? La liberalità non consiste nel dare quello che
hai usurpato, ma nel porre tutto in comune, come afferma S.
Tommaso. Nel testo poi vedrai come dalla repubblica si onorino
gli ospiti, e come si sovvenga ai miseri per natura,
poiché presso di noi non vi ha alcun misero per fortuna,
essendo tutte le cose comuni, e tutti fratelli, e sono indicati i
mutui uffici con cui si mostra la liberalità: e se ne
insti dirò: che essi hanno mutata la liberalità in
beneficenza che è alla prima superiore.
Alla quarta obbiezione. Scoto argomenta con punica fede, come al
solito, poiché lo stesso Agostino al cap. 4 de haeres; e
S. Tommaso 2, 2 quest. 66, art. 2, insegna essere eretici quelli
che dicono non potersi salvare coloro che possedono in proprio
qualche cosa, e parimente quelli che sostengono doversi usare il
vago concubito delle donne, ma non perché predicano la
comunità, ché anzi è maggior eresia il negar
la comunità, che gli apostoli e i monaci osservano, di
quel che la divisione. Concediamo poi che la Chiesa poté
accordare la divisione piuttosto tollerantemente che
positivamente e direttamente. Ma, come dice S. Agostino, che pur
vuole avere piuttosto chierichi zoppi che morti, cioè
piuttosto proprietari che ipocriti. E lo stesso Scoto poi
sostiene che la divisione fu introdotta per la negligenza con cui
son trattate le cose comuni, e la cupidigia del proprio
interesse, quindi da cattiva radice, e perciò la divisione
non può esser buona cosa, ma solo permessa, non voluta
dalla natura. Ora come ardisce poi egli chiamar eretici quelli
che seguitano la natura, e lodare quelli che predicano con
Aristotile la permissione introdotta dalla corruttela? Diciamo
che la Chiesa può accordare la divisione e permetterla,
come tolleransi le meretrici per minor male, come i zoppi
piuttosto che i morti, al dire di Agostino. Il modo poi con cui
vien dalla Chiesa accordata la proprietà si è
spiegato che non è se non una procura, non l'uso del
superfluo, e Alessandro, Alonzo e Tommaso Valden e Ricardo e il
Panormita, pensano essere eretico chi asserisce i chierici essere
veri padroni dei beni della Chiesa, e non accordano ai medesimi
che l'uso. S. Tommaso non dà loro il dominio che della
piccola porzione che consumano poiché non sono che
usufruttuari dei fondi, né possono lasciargli ai figli o
agli amici. Cosa poi sia dei laici si è detto
superiormente. Gli ignoranti sono pronti a chiamar eretico quello
che non possono convincere colle ragioni. La parola di Cristo:
Reddite quae sunt Casaris Casari, non rende padrone il medesimo
se non di dispensare, o di nulla, poiché nulla appartiene
a Cesare. Che cosa ha egli che non abbia ricevuto? Tutte le cose
adunque sono di Dio e a Cesare solo come amministratore. Vedi
nella Monarchia del Messia ove si è scritto di ciò.
Lo stesso Cristo dice: reges gentium dominantur eorum, vos autem
non sic, sed qui maior est fiat minister. Perciò
giustamente predica S. Tommaso la proprietà di
amministrazione e procura la comunità dell'uso. E il papa
è il servo dei servi di Dio, e l'imperatore il servo della
Chiesa.
ARTICOLO TERZO
Se la comunanza delle donne sia più conforme alla natura e
più utile alla generazione e quindi a tutta la repubblica,
oppure la proprietà delle mogli e dei figli.
Ad Aristotile sembra più conveniente la proprietà e
nociva la comunanza a cui oppone:
Prima obbiezione. Socrate pensa che l'amore si accrescerebbe tra
i cittadini da ciò che ognuno considererebbe i vecchi come
suoi genitori, e questi i giovani come figli, e gli eguali come
fratelli, ma ciò distruggerebbe anzi ogni amore.
Poiché o si prende quel « tutti »
collettivamente ed è vero che tutti i vecchi sono padri di
tutti i giovani, ma allora l'amore di ciascun vecchio in
particolare sarebbe ben piccolo verso quelli, come una goccia di
miele in molta acqua, e tosto si estinguerebbe, perché
nessuno conoscerebbe i propri figli, né questi il loro
padre. in vero se si riunisce il diviso in modo che ciascuno si
consideri padre di ciascuno, ciò accrescerebbe l'amore, ma
è impossibile che alcuno abbia più di una madre e
un padre; di più ognuno conoscerebbe i propri figli dalla
fisonomia e quindi avrebbe più affetto per questi.
Seconda obbiezione. Nascerebbero discordie tra le donne e spesso
tra i padri e i figli incerti.
Terza obbiezione. Nel vago concubito non si conosce la prole ed
è pur naturale all'uomo il voler conoscere la propria
discendenza in cui si perpetua.
Quarta obbiezione. Nascerebbero adulterii, fornicazione ed
incesti, colle sorelle, le madri e le figlie, e le gelosie per le
donne, e le contese per quelle che vorrebbero abbracciare.
Quinta obbiezione. Scoto obbietta le parole: erunt duo in carne
una; adunque non si possono avere più mogli senza una
dispensa divina.
Sesta obbiezione. Fu l'eresia dei Nicolaiti il mettere le mogli
in comune.
Rispondiamo prima in generale coll'autorità di S. Clemente
nel citato canone: conjuges secundum Apostolorum doctrinam
comunes esse debere. Ma siccome questo sarebbe contro
l'onestà cristiana si deve ammettere la glossa a questo
passo apposta: comunes quo ad obsequium non quo ad thorum.
E a dir vero, come testifica Tertulliano, così vissero i
primi cristiani, che tutto aveano in comune tranne le donne pel
talamo, poiché è palese che le donne servivano
tutti. Ma i Nicolaiti introdussero la comunità nel talamo,
ed io pure condanno questa eresia, ma sostengo la comunanza nelle
funzioni, non però nel governo politico; poiché la
donna non può essere magistrato né insegnare agli
uomini, ma solo tra le donne e nel ministero della generazione.
Alle stesse poi son commesse le arti che si eseguiscono con poca
fatica o anche la guerra nella difesa delle mura. E noi leggiamo
che le donne spartane difesero la patria nell'assenza dei mariti,
e le femmine tra gli animali si battono come i maschi, e le
amazzoni un tempo nell'Asia ed ora nell'Africa fanno la guerra.
Ma Gaetano nel libro de Pulchro, dice che ciò non è
conforme alla natura, e perciò esse doveano tagliare la
destra mammella per poter maneggiare la lancia. Ma io dirò
forse con maggior fondamento con Galeno, che lo facevano
perché la forza che serviva a nutrire la destra mammella
passasse a rinforzare il braccio destro. Né la destra
mammella impedisce punto di maneggiare la lancia, ma solo di
appoggiarla al petto. Inoltre vi sono più maniere di
combattere che convengono alle donne come si vede negli Africani.
Aristotile poi non poté rifiutare questo argomento delle
amazzoni. E noi pure non le mischiamo a tutte le faccende di
guerra ma solo alla difesa delle mura, ai pronti soccorsi, e non
vogliamo di esse formare una repubblica di Amazzoni, e solo le
rinforziamo perché servano alla difesa e alla prole.
Aristotile rigetta l'argomento delle femmine che combattono tra
le fiere, perché queste non hanno cura delle cose
famigliari come le nostre che sole vi sono destinate dalla
natura, ma s'inganna, poiché le fiere hanno cura dei loro
piccoli, e procurano ad essi cibo e difesa, e viceversa molti
uomini si occupano delle cose famigliari, come particolarmente i
monaci; adunque non è contro natura come egli insegna.
Diremo di più che la comunanza delle donne pel concubito
non è contro il naturale diritto particolarmente come fu
stabilita da noi, che anzi vi è grandemente conforme:
quindi non è eresia l'insegnarla in uno stato diretto dai
puri lumi naturali, ma bensì dopo conosciuto il jus divino
ed ecclesiastico positivo: come non è eresia il mangiare
carni tutti i giorni e l'insegnare nello stato naturale che
ciò è utile, ma dopo la promulgazione della legge
ecclesiastica sulla proibizione dei cibi in certi giorni per
l'astinenza cristiana, è un'eresia il farne uso e
l'insegnare ciò esser lecito. Si prova inoltre; ogni
peccato contro natura o distrugge l'individuo, o la specie, o
è diretto a questa distruzione, come insegna S. Tommaso;
quindi le uccisioni, il furto, la rapina, la fornicazione,
l'adulterio, la sodomia, ecc., sono contro natura, perché
offendono il prossimo o impediscono la generazione o tendono a
queste cose; ma la società comune delle donne non
distrugge né le persone, né impedisce la
generazione, dunque non è contro l'ordine, ma al contrario
giova grandemente all'individuo, alla generazione e alla
repubblica, come appare dal testo.
Si deve poi notare che vi ha tre specie di vago concubito; l'uno,
per cui ciascuno può mischiarsi ad ognuno che desidera e
come vuole, e questo è contro la natura razionale
dell'uomo, quantunque sia proprio di alcune bestie, come dei
cavalli, degli asini, delle capre, ecc., e quindi la natura
provvide che queste bestie solo in certi tempi sentano gli
stimoli alla generazione; gli uomini poi, essendo sempre ad essa
disposti, se potessero mischiarsi con ciascuna, si
indebolirebbero di continuo, e tutti andrebbero sempre dalle
più belle, e queste per la confusione dei semi e per
l'azione contraria, non concepirebbero, come avviene alle
meretrici. Le donne brutte, poi eccitate da gelosia e da dolore,
macchinerebbero ogni male contro le belle. Perciò questo
vago concubito è un'eresia e un'empietà contro
natura, e fu appunto quella dei Gnostici e dei Nicolaiti, e di
alcuni moderni eretici e alcuni religiosi della setta di Maometto
nell'Africa, che tengon lecito l'unirsi a ciascuna, e anche in
publico.
L'altro genere di concubito vago, è quello dopo le nozze
legali, ragunandosi in certi tempi, e a cui nelle tenebre
è lecito unirsi a quello che la sorte gli offre: come si
è scoperto di recente nella Gallia e in Germania in certe
contrade: onde avvenne che cert'uni, ricevuto il segno,
riconobbero di essersi uniti alle madri, e questo modo è
pure un'eresia contro natura, e certo contro la legge divina
positiva, poiché non ha per iscopo la generazione, ma la
sola libidine: e l'unione vaga delle bestie è ancora
migliore, poiché esse generano, né è contro
natura poiché vien prodotta la prole, ma in queste unioni
di eretici è solo per accidente se viene la generazione,
non avendo per iscopo che la lussuria, poiché per la
generazione bastano bene i mariti a casa.
Il terzo modo di concubito finalmente è quello da noi
descritto in una società quasi di natura, nella quale
cioè non generino se non i più robusti e i
migliori, e seguendo la direzione dei medici e dei magistrati,
nei tempi atti alla generazione, secondo l'astrologia, con timore
e ossequio alla divinità, e solo dopo gli anni 25 sino ai
53; alle donne pure abbiamo prescritto un tempo, quello
cioè in cui sono a ciò atte, e abbiamo distrutte le
unioni inconvenienti, quelle cioè che si fanno per solo
riguardo delle ricchezze, per cui o la repubblica non ha prole
dalle medesime, o ne ha una vile, deforme e imbecille, come si
vede dall'esperienza, e fu notato da Pitagora sommo filosofo.
Abbiamo impedita ugualmente la debolezza prodotta dal troppo
coito o le malattie da sterilità; poiché se l'una
non concepisce con questo, può concepire con quello, e la
natura ci insegna appunto in questo caso a mutare. Ciò poi
che le nostre leggi hanno stabilito: che ciascuno non usi che
colla propria moglie ancorché sterile, non può
essere facilmente coi soli lumi naturali approvato dal filosofo;
perciò io non sostengo se non che gli istitutori di una
repubblica colla comunanza delle donne non peccano nello stato
dei puri lumi naturali, avanti che la rivelazione insegni non
doversi così praticare. Onde Durando ed altri sostengono
che nemmeno la fornicazione non è contro la legge
naturale, e molti teologi confessano non essere essa proibita che
per legge positiva; e la ragione di S. Tommaso che essa è
contraria alla generazione e all'educazione, non vale quando si
sappia che la donna è sterile. E tuttavia io sono
d'accordo in ciò con S. Tommaso che con lunghe deduzioni
si può ciò provare colla pura ragione, ma non
però conoscere da tutti. Così Socrate non
peccò bevendo il veleno, costretto dalla legge, quantunque
i teologi provino essere peccato, poiché nessuno
può essere obbligato dalla legge ad agire contro se
stesso. Ma queste sottili deduzioni nate dalla luce evangelica
non potevano essere conosciute dagli antichi filosofi che anzi
provarono essere lecito l'uccidersi da sé, ed essere noi
padroni della propria vita, come stimarono Catone, Seneca e
Cleomene. In conseguenza io sostengo che la comunità delle
donne nel modo da noi posta non è contro il diritto
naturale, o se lo è non può esser conosciuto dal
filosofo coi soli lumi naturali, poiché ciò non si
deduce direttamente dal diritto naturale, come conclusione
immediata, ma solo come lontana deduzione, e piuttosto fondata
sul diritto positivo, che può variare. Le ragioni poi di
Aristotele non nascono dalla natura della cosa, ma da sola
invidia contro Platone; ed egli stesso ricorda molte nazioni che
vissero in questo modo. Viene pure a nostro sostegno S. Tommaso
che nella 2, 2 quest. 154, art. 9 confessa che nessuna
congiunzione è contro natura, tranne quella del figlio
colla madre, e del padre colla figlia; poiché gli stessi
cavalli, secondo Aristotile, hanno ciò in orrore. Ed io
stesso vidi a Montedoro un cavallo che non voleva unirsi colla
madre. E non perché non ne venga la generazione, ma per
reverenza naturale. E tuttavia, secondo la testimonianza di
Tolomeo, fu comune usanza tra i Persiani l'unirsi alle madri. E
tra gli animali, i gallinacci e molti altri praticano lo stesso.
lo tuttavia nella repubblica ho schivato che le madri si unissero
ai figli, o i padri alle figlie, quantunque quest'ultimo caso sia
meno contro natura. Gaetano pure prova, appoggiato allo spirito
di S. Tommaso e alla ragione naturale, che l'unione colla sorella
o cogli affini e consanguinei, non è contro il diritto
naturale, ma solo contro il legale; ed essere un precetto
giudiziale, non morale, la proibizione degli altri gradi;
poiché i figli di Adamo si unirono colle sorelle, e Abramo
e Giacobbe patriarchi, al primo dei quali Sara era sorella. E S.
Tommaso adduce due ragioni di queste proibizioni, cioè pel
rispetto ai parenti, perché potessero vivere insieme senza
scrupolo, e perché si moltiplicassero le amicizie per
mezzo dei matrimoni, e la libidine non riescisse più dolce
col proprio sangue. Ragioni che secondo Gaetano decisero pure la
legge cristiana. Ma nella repubblica solare non avrebbero luogo,
poiché le donne abitano separatamente e non avviene
l'unione se non secondo la legge, i tempi e i luoghi prefissi.
Ciò poi che si accorda nella repubblica solare, per
fuggire la sodomia e un mal maggiore, si accorda pure nella
religione cristiana; poiché il marito può usare
senza peccato della moglie ancorché gravida, per
estinguere la libidine, e non per la generazione. lo poi provvidi
affinché questo seme non vada perduto, e diedi tutti i
miei precetti per la conservazione della repubblica; gli altri
poi non sono riprovati dagli stessi filosofi secondo il diritto
naturale, e Aristotile in grazia della salute raccomanda il coito
ai non generanti, come pure Ippocrate ed altri per ischivare mali
maggiori.
Ora in particolare rispondo alla prima obbiezione. Che quel tutti
si può prendere nei due sensi: poiché tutti fino ad
una certa età, determinata nel testo, sono padri di tutti
collettivamente e separatamente: il primo è vero, secondo
l'atto naturale, l'altro poi secondo la carità naturale.
Né da ciò vien diminuita la carità, ma solo
la cupidità e l'avarizia; poiché l'uomo, regnando
la divisione, è disposto ad amare i proprj figli
più che non conviene, e a disprezzare gli altrui oltre
misura. L'uomo saggio poi ama più i migliori
ancorché d'altri, ed ha maggior cura dei cattivi per
migliorarli: poiché riesce spiacevole il vedere tante
deformità nel genere umano, e quindi abbiamo orrore dei
zoppi, dei ciechi, dei miserabili perché sono del nostro
genere e rappresentano a ciascuno la propria infelicità.
Per la comunanza poi dei figli, dei fratelli, dei padri, delle
madri, si provvede in modo da diminuire il troppo amor proprio
che è la cupidità, e da aumentare l'amor comune
cioè la carità. Quindi S. Agostino disse amputatio
proprietatis est augmentum caritatis e si deve piuttosto credere
a S. Agostino che ad Aristotele, e col primo sta pure S. Paolo
che dice: caritas non querit quae sua sunt, cioè antepone
le cose comuni alle proprie, non le proprie alle comuni.
Nell'unione dei monaci si vede lo stesso, poiché il monaco
non possedendo nulla in proprio, ama la comunità come il
piede tutto il corpo; se poi possiede in proprio è come un
membro reciso, o un piede tagliato, non avendo cura che di
ciò che è suo. Lo stesso avvenne nella repubblica
romana; quando i cittadini erano poveri e la repubblica ricca,
tutti volevano morire per la patria; quando poi i cittadini
furono ricchi, ciascuno avrebbe ammazzato la patria pel proprio
vantaggio. L'Apostolo adduce l'esempio delle membra e del corpo,
e lo stesso insegnano Ambrogio e Grisostomo. L'amore dunque nella
comunità non sarebbe come una goccia di miele in
molt'acqua, ma come un piccol fuoco in molta stoppa.
Poiché l'amore è una delle primalità, e di
sua natura diffusivo, come il fuoco, ed esso è felice
nella società di molti per la fama, la diffusione del
nome, la memoria e gli ajuti più numerosi che vi riceve.
Separatamente, quantunque ciascuno non sia figlio che di un solo,
può esser amato da tutti quando formano un solo nella
carità. Onde lo zio ama i nipoti quantunque da lui non
generati, perché si considera di una stessa famiglia. E il
papa e i cardinali chi non vede quanto amino i nipoti, e i
consanguinei, che pure non hanno generati? E noi amiamo gli amici
e i figli degli amici, e i vecchi nei monasteri amano i novizi,
soprattutto i virtuosi; taccia adunque il nemico della
carità. - La fisionomia inganna poiché i figli non
rassomigliano sempre al padre, ma sovente agli estranei; e di
poco ostacolo sarebbe quella piccola propensione nella nostra
repubblica ove tutto è ordinato secondo la legge di natura
e del merito. Giacobbe pure amò più Giuseppe, ed
altri altri; ciò non pregiudicherebbe alla comunità
né alla carità; i figli qui non congiureranno tra
di loro, vivendo tutti sotto la stessa disciplina; le sante donne
dei patriarchi, come Rachele e Lia, tenevano come loro propri
anche i figli delle ancelle, ma Aristotile non conobbe una tal
carità.
Alla seconda obbiezione. Si nega la conseguenza quando il tutto
è governato secondo le regole e la scienza dei medici,
delle matrone e dell'astrologia. Dalla posizione del cielo
nascono e si conoscono le inclinazioni morali, secondo S. Tommaso
(Polit. 5, lect. 13). E i nostri Solari crederebbero illecito
l'unirsi per puro piacere e per sanità, nei quai casi si
è provveduto altrimenti; quanto alle risse vedi il
testo.
Alla terza obbiezione. Essendo tutti i membri di uno stesso
corpo, considerano tutti i giovani minori per figli, e sanno di
perpetuarsi meglio in quella comunità, che nei figli
proprj. Inoltre, come tutti insegnano, la vita della fama
procurataci dalle opere buone è da preferirsi a quella che
abbiamo nei figli. Così i filosofi si procurano figli col
seme della loro dottrina, non col seme carnale. Né i
pidocchi quantunque nascano da noi son nostri figli. Né i
veri figli di Abramo ora sono i giudei, ma i cristiani.
L'eternità poi la cerchiamo in Dio, e per la repubblica
una vita beata, come insegna Ambrogio. Né gli animali
conoscono i loro figli una volta cresciuti; né questo
viene direttamente, ma solo indirettamente da natura.
Alla quarta obbiezione. Diciamo con Gaetano e S. Tommaso, non
essere incesto contro natura che quello commesso colla madre, e
noi lo schiviamo nella repubblica; colle sorelle poi e con altre
non è che legale, e dove non siavi questa legge non vi ha
inc 1 esto, né alcun adulterio. Poiché l'adulterio
è o naturale o legale: il naturale avviene tra animali di
diversa specie, come insegna Sant'Ambrogio nel 5 Hex. cap. 3,
come tra l'asino e la cavalla: il legale è poi quando
alcuno pratica la donna altrui, proibito dalla legge: ma nella
nostra repubblica non esiste questa legge; ma vi sono generatori
pubblici più utili a questa funzione: non vi ha dunque
adulterio, come non vi ha prole adulterina, né unione
illegale. Così tra i monaci non è un furto ove
tutte le cose sono comuni, se alcuno mangia del pane.
Poiché l'adulterio non consiste nella libidine, altrimenti
il marito che usa della moglie per piacere sarebbe adultero, ma
da ciò che si usa di donna non sua; ma la legge ora la fa
sua, e non farebbe torto alla repubblica se non usandone contro
la regola: come il monaco ruba dei beni del monastero, quando
usurpa le cose comuni senza permesso. Ma, si dirà, S.
Tommaso insegna pure che tutti i precetti del Decalogo sono
precetti naturali. Si risponde, posta la divisione: poiché
il furto non esiste se non stabilita la divisione dei beni. Altri
dottori poi sostengono non tutti quei precetti essere di diritto
naturale. Nella nostra repubblica poi non vi ha divisione di
proprietà, ma solo d'uso, e a tempo per mantener l'ingegno
e la forza dei cittadini. Non si conosce poi che la fornicazione
sia peccato dalla sola natura delle cose, né nella
repubblica del Sole vi ha fornicazione, essendovi comunanza. Le
altre turpitudini, la gelosia e le contese, qui non possono aver
luogo ove si regolano le cose secondo una legge e una disciplina
a tutti gradevole: né ciò che è proprio
delle bestie e di certi eretici qui non avviene; vedi il
testo.
Alla quinta obbiezione. Se fosse di diritto naturale l'avere una
sol donna. Dio stesso non potrebbe dispensarci, secondo S.
Tommaso. Ma Giacobbe prese due sorelle, e Davide cinque mogli, e
Salomone 700, e quasi tutti i patriarchi ebbero più mogli,
né si vede in ciò alcuna dispensa, quantunque
comunemente si creda; egli è chiaro che la
pluralità delle donne non è contro natura. E tutti
gli animali, tranne forse la tortora e il colombo, che si unisce
alla sola sorella, si congiungono con più femmine. E in
questa repubblica, che si governa colle leggi naturali, non colle
rivelate, ciò non poteva essere conosciuto. Anzi la natura
insegna a chi non genera con una, di unirsi ad un'altra: e
ciò anche Sara chiese ad Abramo, come cosa naturale, se
non vi sia rivelazione contraria, e Lia e Rachele diedero al
marito le proprie ancelle. E come questi Solari potrebbero sapere
essere ciò contro natura quando né gli uomini
né gli animali possono ciò discoprire? Inoltre i
nostri cittadini non ne hanno né una né molte, ma
nel tempo prescritto alla generazione ciascuno si avvicina a
quella che la legge gli destina pel bene della repubblica,
né generano per loro ma per la repubblica, anzi nemmen noi
poiché il padre tra di noi non ha tanto potere sul figlio
quanto la repubblica; poiché la parte è pel tutto e
non il tutto per la parte. Se dunque il tutto ha cura della
totalità nella repubblica solare, né la rimette ai
privati, esso opera convenientemente. Il marito unendosi per
libidine alla moglie, quando gli pare, produce una prole
imbecille e degenere. Noi abbiamo cura di avere un'ottima
generazione nei nostri cavalli, non per la nostra specie. Anche
per Aristotile è un miscuglio contro natura se chi
è d'animo servile cerca di congiungersi a donne generose e
come gli pare ad esse si unisce. E S. Grisostomo, nel libro del
sacerdozio, figuratamente riprova il vescovo ignorante che si
unisce alla Chiesa generosa - Il Signore disse: erunt duo in
carne una; ciò è vero, e così avviene pure
nella nostra repubblica, poiché Iddio non insegnò
con ciò che nessuno non debba unirsi se non ad una;
altrimenti né Giacobbe avrebbe preso simultaneamente due
mogli, né morta una sarebbe lecito prenderne un'altra. Dei
due si fa dunque una carne, perché dal miscuglio dei due
semi ne nasca una prole: e Sant'Ambrogio dice con S. Paolo: non
avrei conosciuto questo peccato se la legge non lo ordinasse.
Alla sesta obbiezione. L'eresia dei Nicolaiti stava in ciò
che ammettevano esser lecito ad ognuno di unirsi come gli
piacesse ad ognuna, e questo è contrario al diritto
naturale e impedisce la generazione, come si è già
detto; ma nella repubblica solare l'unione avviene sotto le
regole della filosofia e dell'astrologia, e sì
ordinatamente che la generazione riesca migliore e più
numerosa; essa è dunque conforme alla natura, e quindi non
è eresia se non dopo condannata dalla Chiesa. Ortensio
ossia Catone, uomo sapientissimo e dottissimo, concedette in
prestito la propria moglie a Bruto per avere prole da lei, come
se quel rigido stoico volesse con ciò insegnare che
ciò si faceva secondo l'ordine naturale. Come dunque gli
abitanti solari guidati dai puri lumi naturali possono sapere
che, tranne la nostra forma di matrimonio, tutte le altre siano
peccato, mentre gli stessi Ebrei e i Romani ammisero il divorzio,
e i filosofi accordarono la permuta; e Socrate e Platone
ciò insegnarono? Aristotile non rimprovera loro di mancare
al diritto naturale, ma perché non gli pare ciò
utile; anzi narra che alcune nazioni vissero in tal modo. lo poi
concedo questa essere ora un'eresia nella Chiesa cristiana, ma
che colla sola guida della natura non si può conoscere che
sia male quando non si faccia in modo bestiale o a quello dei
Nicolaiti. S. Tommaso afferma essere il matrimonio contro natura
quando non favorisca la prole e la società, ma nella
nostra repubblica l'unione è anzi sommamente favorevole a
tutti due.
Gli argomenti addotti da Aristotile contro la comunanza: che essa
è superflua, come se alcuno volesse far versi di un sol
piede, e tirar l'armonia da una sol corda; sono puerili e
contrari alla carità e alla repubblica dei monaci e degli
apostoli, che allora converrebbe condannare, perché
avevano un sol cuore e una sol anima e non dicevano alcuna cosa
esser propria ma tutte le cose aveano tra loro comuni.
Poiché questa unità non distrugge la
pluralità, ma la fortifica per l'unione, non già di
un sol uomo, ma di tutti gli stati e condizioni; ciò che
non ottiene Aristotile nella sua repubblica, e non già da
una sol corda ma da più tiriamo l'armonia. Aristotile non
stabilisce che la discordia, componendo la sua repubblica di due
contrari; noi da più abbiamo l'unione e come un carme,
poiché tutte le cose concordano insieme: Aristotile non
compone il suo carme che di due piedi contrari, e discordi, come
si è mostrato nell'esame della sua repubblica. La nostra
poi è del tutto apostolica, se stabilisce la comunanza non
pel piacere, ma per l'ossequio come si vede nel nostro
dialogo.
FINE DELLE QUESTIONI
SULLA CITTA DEL SOLE
La traduzione utilizzata è quella inclusa in L'Utopia,
ovvero la Repubblica di Tommaso Moro e la Città del Sole
di Tommaso Campanella, Versioni italiane, nuovamente rivedute e
corrette, G. Daelli e C., Milano, 1863, pp. 149-78.
HTML Markup by Karl Stas <[email protected]>.