Il fascismo italiano e la persecuzione contro gli ebrei: problemi storici e storiografici

Di Claudio Natoli*

 

 

1. La persecuzione contro gli ebrei da parte del regime fascista italiano è stata per lungo tempo rimossa dalla nostra storia nazionale e solo in una fase relativamente recente ha assunto un posto di rilievo nella vita politica e nella coscienza collettiva. Risale all'inizio del 1999 la pubblicazione da parte della Camera dei Deputati di un volume curato da Corrado Vivanti, che raccoglie una impressionante documentazione di questa pagina nera della nostra storia. Ma ad uno sguardo retrospettivo si potrebbe affermare che, dopo una prima stagione pionieristica che risale ai primi anni sessanta, solo negli ultimi quindici anni questo problema è divenuto nella storiografia e in una cerchia più ampia di opinione pubblica un capitolo non marginale della storia e della coscienza nazionale. Risale al 1988 un importante convegno promosso dalla Camera dei deputati su "La legislazione antiebraica in Italia e in Eurtopa", che ha aperto una stagione molto ricca di studi, tra cui vorrei ricordare in primo luogo le ricerche promosse dal CEDEC di Milano e i contributi di Liliana Picciotto Fargion. Tra questi deve essere menzionato almeno il "Libro della memoria. Gli ebrei deportati dall'Italia (1943-1945)", in cui si ricostruiscono le trappe e i meccanismi istituzionali della persecuzione, ed in cui, a partire dalla documentazione relativa ai convogli partiti dall'Italia, si possono ritrovare i nomi e le storie personali della maggioranza degli ebrei deportati e quindi dare un volto e conoscere uno per uno chi furono coloro che vissero direttamente la sconvolgente esperienza dei campi di sterminio. Su di un altro versante Michele Sarfatti ha ricostruito le varie fasi della persecuzione degli ebrei in Italia, con una particolare attenzione agli aspetti giuridici, dapprima nel volume "Mussolini contro gli ebrei. Cronaca della elaborazione delle leggi del 1938", pubblicato nel 1994, e poi nello studio recentissimo "Gli ebrei nell'Italia fascista. Vicende, identità persecuzione", che documenta i legami di continuità tra la fase della "persecuzione dei diritti" e quella, successiva all'8 settembre 1943, della "persecuzione delle vite" degli ebrei. Inoltre, è d'obbligo ricordare la fioritura di una serie di studi di storia locale ( da Torino, a Trieste e a Venezia), che hanno contribuito, contro una diffusa tendenza alla marginalizzazione, a reinserire la storia della persecuzione antiebraica nella storia generale del fascismo e della società italiana. Tra questi contributi va menzionata in modo particolare la grande ricerca "Razza e fascismo. La persecuzione contro gli ebrei in Toscana (1938-1943)" diretta da Enzo Collotti, uscita nel 1999 presso l'editore Carocci. Questa ricerca costituisce la prima ricognizione in profondità condotta in Italia a livello reginale e ci offre non solo un'analisi a tutto campo delle varie fasi della persecuzione, dal censimento alla miriade di provvedimenti legislativi e amministrativi che porteranno all'esclusione degli ebrei dalla società italiana, ma analizza anche la stampa quotidiana e la pubblicistica razzistica, il comportamento delle istituzioni statali e delle federazioni del Partito fascista, e infine approfondisce la storia parallela delle comunità ebraiche in Toscana nella fase precedente e successiva all'avvio della persecuzione. Un capitolo particolare è dedicato in questo contesto ai provvedimenti di esclusione dei docenti definiti di "razza ebraica" dall'università italiana e alla parallela proliferazione di discipline e di insegnamenti di intonazione razzistica. Emergono qui non solo le dimensioni quantitative del fenomeno e la portata del depauperamento culturale che ne conseguì, ma anche il sostanziale allineamento del mondo accademico e scientifico alla persecuzione razziale. Come anche altre ricerche hanno dimostrato, siamo qui in presenza di un fenomeno destinato a gettare la propria ombra sino al secondo dopoguerra. Ciò è testimoniato dal processo doloroso e travagliato della reintegrazione dei diritti delle vittime, e più in generale dai ritardi e dalle resistenze politiche e burocratiche che contrassegnarono l'abrogazione della legislazione antiebraica nell'Italia repubblicana. Non si può concludere questa rassegna di carattere generale senza menzionare l'accurata ricerca di Klaus Voigt sugli esuli tedeschi ed ebrei in Italia, che ricostruisce l'impatto della persecuzione sulle loro vicende individuali e collettive, ma anche le fasi profondamente diverse che scandirono la politica di Mussolini e delle istituzioni del regime: dalla "tolleranza" sorpendentemente ampia accordata nel periodo 1933-1936, contrassegnato da una intenzionale differenziazione dal nazionalsocialismo tedesco, all'avvio con le leggi razziali del 1938 delle espulsioni dall'Italia ed in seguito dell'internamento degli ebrei stranieri durante la seconda guerra mondiale, in un clima di crescente tensione tra autonomia e subalternità all'alleato tedesco, alla piena corresponsabilità delle autorità di Salò alla deportazione e allo sterminio degli ebrei residenti nell'Italia occupata dopo l'8 settembre 1943.

A queste indicazioni vorrei aggiungere il riferimento almeno a due prodotti di carattere audiovisivo che mi sembrano di particolare interesse: il primo è il film documentario "Memoria", realizzato dal CEDEC di Milano, che raccoglie un ampio spettro di testimonianze dei sopravvissuti e che è un documento per molti aspetti prezioso e di forte impatto emotivo, anche se si raccomanda a un pubblico già provvisto di una conoscenza storica di un certo livello; il secondo, che invece si presta a un'eccellente utilizzazione didattica anche nelle scuole, è il programma "Per ignota destinazione", ralizzato dalla RAI e curato da Piero Farina con la consulenza storica di Liliana Picciotto Fargion."Per ignota destinazione" affronta il tema della persecuzione antiebraica in Italia soprattutto sulla base delle testimonianze di ebrei italiani di quel tempo, che riuscirono, per le più varie ragioni a sopravvivere. Alcuni di loro sono ex-deportati e appartengono ai pochissimi sopravvissuti ai campi di sterminio (dove, come ci ha ricordato Primo Levi sopravvivere era una eccezione, cosicché coloro che tornarono portarono con sé persino il senso di colpa per essersi salvati) e dove questi testimoni persero tutti i loro familiari. Anzi, il film è scandito dal ritorno ad Auschwitz dopo cinquant'anni di uno di questi sopravvissuti, che ancora porta sul braccio il tatuaggio che veniva impresso sugli internati, percorrendo la stessa ferrovia e gli stessi luoghi di transito. Questo programma offre, oltre a un buon inquadramento storico, moltissimi spunti di riflessione relativi sia ai grandi temi storici (l'atteggiamento della popolazione italiana verso la persecuzione degli ebrei), sia ai percorsi individuali degli intervistati (alcuni particolarmente toccanti, come quelli riguardanti i ricordi familiari e l'impatto delle persecuzione sui bambini ebrei)

2. Il dato più significativo di questa ormai ricca stagione di ricerche è costituito dall'emeregere di una prospettiva interpretativa profondamente nuova rispetto a quella traciata da un filone storiografico molto accreditato in Italia, ma per certi aspetti anche in Germania. Questo filone, in sostanza, ha teso a ridimensionare o addirittura a minimizzare la portata della persecuzione antiebraica da parte del fascismo italiano avendo come punto di riferimento l'abnormità della politica di sterminio razziale giunta sino alla cosiddetta "soluzione finale", in quanto tratto caratterizzante e prerogativa esclusiva del nazionalsocialismo tedesco. E' questa la tesi di Karl Dietrich Bracher, che proprio dalla ipostatizzazione della "dimensione ideologica e totalitaria" dello Stato del Führer e dei suoi caratteri organicamente razzisti ha fatto discendere una assoluta incomparabilità tra fascismo italiano e nazionalsocialismo tedesco e il rifiuto stesso della categoria generale del fascismo. Ma soprattutto, è necessario fare qui riferimento alle tesi di Renzo De Felice , che pure ha avuto il merito di avere scritto la prima "Storia degli ebrei italiani durante il fascismo", che uscì presso l'editore Einaudi nel lontano 1961. Nel corso del tempo De Felice proprio dalla asserita inesistenza nel fascismo italiano di sostanziali caratteri razzistici e antisemiti ha fatto discenderne l'incommensurabilità con il nazionalsocialismo, ed ha teso sempre più a minimizzare il peso della persecuzione antiebraica nella storia del fascismo e della società italiana sostenendo non solo la pressoché totale estraneità della popolazione, ma anche il carattere meramente improvvisato e strumentale all'alleanza con la Germania nazista della politica di Mussolini e delle istituzioni del regime.

Non è qui in discussione la legittimità e la opportunità di analizzare la specificità della legislazione razziale e della politica del regime fascista e di sottolineare i fattori che almeno sino al 1943 lo differenziariarono dal nazionalsocialismo tedesco. Ed è innegabile anche che nella percezione soggettiva e nella memoria di una parte dei perseguitati (soprattutto stranieri) la fase precedente alla deportazione e allo sterminio sia stata rimossa o anche rievocata nel confronto con accenti di gratitudine verso il popolo e le stesse autorità italiane. Tuttavia, alla luce delle risultanze della fase più recente delle ricerche, emerge anche la necessità di sfatare molti luoghi comuni che hanno svolto per molti anni una funzione "autoassolutoria" e "autoconsolatoria" per una parte non marginale della popolazione e delle classi dirigenti italiane.

3. E' certamente vero che l'antisemitismo fu fin dall'inizio una componente costitutiva del nazionalsocialismo tedesco e una componente essenziale della comunità popolare nazionalsocialista, fondata sulla esclusione e sulla persecuzione di tutti i diversi e di tutti i veri o presunti nemici di questa comunità, laddove invece esso assunse un ruolo rilevante nell'ambito del regime fascista italiano solo in una fase relativamente tarda, che risale alla fine degli anni trenta. E' vero anche che le condizioni dell' internamento degli ebrei stranieri e italiani a partire dal luglio 1940 furono in Italia incomparabilmente diverse da quelle praticate nei ghetti della Polonia e che fino alla caduta di Mussolini il regime non fu direttamente partecipe della deportazione e dello sterminio degli ebrei europei. E' vero infine.che durante la seconda guerra mondiale i militari italiani e gli stessi funzionari del Ministero degli esteri evitarono nella maggioranza dei casi di consegnare agli alleati tedeschi e in seguito protessero gli ebrei che si erano rifugiati nei territori della Francia e dei paesi balcanici occupati nel 1940-41 dall'Italia.

E' necessario tuttavia aggiungere che tutto questo non giustifica in alcun modo né i tentativi di minimizzazione dei risultati devastanti della persecuzione in riferimento alle persone colpite e ai processi di degenerazione giuridica, istituzionale e culturale indotti nella società italiana, né tantomeno l'affermazione dello stesso Renzo De Felice secondo cui il fascismo italiano sarebbe rimasto estraneo al "cono d'ombra dell'Olocausto". La deportazione e il genocidio degli ebrei durante la seconda guerra mondiale ebbero come centro motore lo Stato nazista e la pretesa di costruire un Nuovo Ordine Europeo fondato sul predominio del popolo dei dominatori di razza ariana e sulla schiavizzazione o la stessa distruzione fisica dei nemici del Terzo Reich e dei popoli giudicati razzialmente inferiori. Ma, come ha dimostrato in modo definitivo la grande ricerca di Raul Hilberg, questo crimine, che non ha precedenti nella storia dell'umanità, non sarebbe stato possibile su scala europea senza la partecipazione dei governi collaborazionisti e di tutti gli Stati alleati o satelliti che già prima della guerra avevano attuato di loro iniziativa la persecuzione contro gli ebrei e avevano predisposto i necessari apparati burocratici e amministrativi. Vi è inoltre un secondo campo di riflessione che riguarda specificamente il fascismo italiano, che in questa sede è necessario approfondire. .E' merito della storiografia più recente aver dimostrato l'assoluta infondatezza del luogo comune secondo cui il razzismo e l'antisemitismo avrebbero giocato un ruolo del tutto marginale nell'ambito del regime fascista, oppure che essi sarebbero stati una semplice appendice politica dell'alleanza militare con la Germania nazista e sarebbero stati per giunta praticati senza convinzione e senza rigore dalla dirigenza fascista e personalmente da Mussolini. Io credo che in questo modo si rischia di fornire una rappresentazione gravemente edulcorata del fascismo italiano. In realtà il razzismo nel corso degli anni trenta divenne una componente essenziale del disegno di controllo totalitario della società italiana che il regime fascista perseguì con l'obiettivo di mobilitare l'intera nazione contro i cosidetti "nemici interni" e di prepararla sistematicamente alla guerra. Una società completamente controllata e manipolata dall'alto, senza conflitti e senza diversi, era infatti, nella concezione della dirigenza fascista, la premessa essenziale per scatenare la guerra imperialista a fianco dell'alleato tedesco, e non vi è dubbio che il modello plebiscitario di mobilitazione delle masse all'insegna del mito del Führer allora all'apice del successo nella Germania nazista abbia esercitato alla fine degli anni trenta una notevole influenza sulla radicalizzazione totalitaria del fascismo italiano. Come ha notato Enzo Collotti, la campagna antisemita del 1938 fu il momento centrale di un processo di "emarginazione delle diversità, intese come possibile potenziale di dissenso", che era peraltro profondamente connaturato con il regime e che si era già in precedenza tradotto nella repressione delle opposizioni politiche e culturali e nell'oppressione delle minoranze nazionali comprese nei confini italiani. In altre parole, "l'obiettivo immediato del bombardamento propagandistico e delle misure restrittive" adottate nel 1938 era l'ebreo, ma "i destinatari dei messaggi che l'operazione aveva di mira erano tutti coloro che non si identificavano ancora con il regime fascista". E quindi l'obiettivo era "demonizzare definitivamente la democrazia", per far accettare al popolo italiano la "fascistizzazione completa" dello Stato e della società. In questo senso la persecuzione coontro gli ebrei costituì non solo una decisione di politica estera, ma anche e soprattutto una scelta di politica interna che fu presa autonomamente da Mussolini senza alcuna imposizione da parte dell'alleato tedesco.

Tutto questo può aiutarci a comprendere il nesso molto stretto che unì nella seconda metà degli anni trenta il razzismo coloniale legato alla conquista dell'Etiopia e alla proclamazione dell'Impero alla persecuzione antiebraica, un nesso che fu costantemente rivendicato nella campagna propagandistica e nelle deliberazioni politiche del regime. Questa realtà è stata esaurientemente dimostrata dalla bella mostra sulla "Menzogna della razza" che è stata allestita dal Centro Furio Iesi di Bologna e che è stata esposta con molto successo in numerose città italiane. Già nel 1937 alla retorica della superiorità della cosiddetta "razza italiana" come giustificazione per la conquista dell'Etiopia aveva fatto riscontro in Africa orientale l'introduzione di un incipiente regime di apartheid e di una legislazione razzista che vietava e sanzionava penalmente i rapporti di "tipo coniugale" tra sudditi etiopici e italiani e che era ispirata alle leggi naziste di Norimberga. La campagna antisemita che prese avvio nello stesso anno e che culminò nell'estate del 1938 con la pubblicazione da parte di un nutrito gruppo di accademici italiani del cosiddetto Manifesto della razza, si innestò direttamente sull'imperialismo razzista rivolto contro le popolazioni etiopiche e approdò a una legislazione antiebraica che aveva ben poco da invidiare e per alcuni aspetti era anche più dura rispetto a quella in vigore nello stesso periodo nella Germania nazista. Certo, nel fascismo italiano non mancarono tentativi di differenziazione dall'arianesimo di stampo nazista (peraltro sostenuto da ambienti tutt'altro che marginali), facendo riferimento, non solo a fattori biologici, ma anche a motivi storico-culturali ed esoterico-tradizionalisti. Nondimeno, come ha osservato Michele Sarfatti, che ha ricostruito il ruolo protagonistico di Mussolini nella preparazione e nell'instaurazione dell'antisemitismo di Stato, l'Italia alle fine del 1938 "si trovò ad avere un sistema antiebraico che costituì forse ciò che di più violento era realizzabile in un paese nel quale non vi erano fino allo stati forti movimenti e agitazioni antisemiti, nel quale vi era la presenza comunque condizionante del papa e della chiesa cattolica, nel quale il dittatore non era l'unico rappresentante dello stato, nel quale il partito al potere non era indipendente dalla tradizione nazionalista, nel quale i perseguitati non erano stati tutti estranei al regime, nel quale il dittatore non aveva manifestato in precedenza un antisemitismo radicale". Le leggi italiane prevedevano, infatti, la privazione della cittadinanza e l'espulsione degli ebrei stranieri, il divieto di matrimonio tra ebrei e cittadini italiani, l'allontanamento dei ragazzi ebrei e degli insegnanti dalle scuole di ogni ordine e grado, dalle università, dalle accademie e dagli istituti di cultura, l'esclusione dal servizio militare, il licenziamento dalle forze armate, dagli impieghi pubblici, dagli enti parastatali, dalle banche di interesse nazionale e dalle società di assicurazione, l'esclusione dal Partito fasciista e dalle organizzazioni di massa, il ritiro dalle biblioteche e il divieto di pubblicazione delle opere di autori ebrei,.la cancellazione dagli albi dalle libere professioni, il divieto di impiegare domestici definiti di "razza ariana", la drastica limitazione delle attività in campo industriale e finanziario e degli stessi diritti di proprietà

La finalità di questi provvedimenti era di escludere gli ebrei dal resto della cittadinanza privandoli di una serie di diritti fondamentali, e non è inutile ricordare che nella Germania nazista la legislazione antisemita aveva svolto negli anni trenta un'analoga funzione. In particolare, essa avrebbe qui avuto l'effetto di indurre nella maggioranza della popolazione uno stato d'animo di assuefazione e di indifferenza verso la persecuzione di una minoranza da parte dello Stato che avrebbe creato il vuoto attorno alla comunità ebraica e che avrebbe costituito in seguito una premessa per la deportazione e per lo sterminio durante la seconda guerra mondiale.

4. Emerge a questo punto una questione di grande rilevanza su cui è opportuno riflettere: e cioè se vi sia stata o meno una continuità tra le leggi razziali varate dallo Stato fascista nel 1938 e la deportazione e lo sterminio degli ebrei italiani nel 1943-45, durante la repubblica di Salò. Un diffuso luogo comune, accreditato anch'esso da una parte della storiografia, sostiene che questi atti sarebbero da ascrivere alla esclusiva responsabilità dell'occupante tedesco, che aveva invaso l'Italia dopo l'8 settembre 1943. Ma anche su questo punto gli studi più recenti hanno dissipato questa immagine consolatoria, che si richiama al mito del "buon italiano".

Anzitutto non si deve dimenticare che l'antisemitismo di Stato subì in Italia un processo di autonoma radicalizzazione durante la seconda guerra mondiale che a prima vista è meno avvertibile solo perché non passò attraverso la legislazione ordinaria, bensì attraverso il ricorso a una serie fittissima di misure amministrative che ebbero come centri motori Mussolini e il Ministero dell'interno da una parte, la Demorazza e il Partito fascista dall'altra. Il crescendo di misure discriminatorie e vessatorie nei confronti degli ebrei italiani riguardò l'internamento di coloro che venivano considerati potenziali "nemici", il divieto di impiegarsi negli stabilimenti ausiliari, di frequentare le biblioteche pubbliche e determinati luoghi di cura e di villeggiatura, di possedere apparecchi radio, di partecipare e di accedere alle vendite all'asta, di lavorare nel campo dell'informazione e in attività turistiche, alberghiere e dello spettacolo, il rifiuto delle licenze di commercio e la revoca di quelle già concesse in numerosi settori di attività, sfociò nel 1942 nell'imposizione del lavoro obbligatorio per coloro che fossero nell'età tra i 18 e i 55 anni e culminò subito prima della caduta di Mussolini nella decisione di internare anche gli ebrei italiani tra i 18 e i 30 anni di ambo i sessi in appositi campi di concentramento. Se è vero che il lavoro obbligatorio si scontrò con gravi difficoltà di applicazione e che l'istituzione dei campi di concentramento non venne fortunatamente attuata solo perché fu preceduta il 25 luglio del 1943 dal crollo del regime, queste misure stanno ad indicare una continua radicalizzazione della persecuzione contro gli ebrei. Ad essa faceva da contraltare la sopravvenuta disponibilità da parte di Mussolini a consegnare alle autorità tedesche e ai loro alleati gli ebrei stranieri rifugiatisi nelle zone di occupazione italiana in Croazia e nella Francia del sud-est: una scelta che venne vanificata solo in virtù delle resistenze e delle contromisure che vennero a più riprese adottate dai responsabili militari e dal Ministero degli esteri. La tendenza di De Felice ad attribuire un ruolo sostanzialmente moderato a Mussolini in queste vicende risulta pertanto drasticamente ridimensionata alla luce delle ricerche più recenti, così come la radicale demarcazione da lui proposta tra il razzismo biologico del nazionalsocialismo e il presunto "razzismo spiritualista" che il dittatore avrebbe abbracciato sotto le suggestioni di Julius Evola. In realtà i confini tra i due razzismi erano incomparabilmente più sfumati, come dimostra, tra l'altro un'attenta lettura di uno dei testi classici del moderno antisemitismo, e cioè "I fondamenti del XIX secolo" di Houston Stewart Chamberlain: del resto, proprio il legame tra il razzismo biologico e quello spiritualista furono nel 1942 al centro di un programma di collaborazione tra il Partito fascista e quello nazista che vide coinvolto in prima persona lo stesso Evola e che avrebbe dovuto approdare alla pubblicazione di una rivista bilingue comune, con la significativa denominazione "Sangue e spirito". In definitiva, ai fini di una valutazione storica complessiva, sembra largamente condivisibile il seguente giudizio di Liliana Picciotto Fargion riguardo alla situazione che si sarebbe determinata in Italia dopo l'8 settembre 1943:

"Mentre in Francia (...) i tedeschi dovettero aspettare parecchi mesi prima di poter passare all'azione, in Italia saltarono del tutto la fase preparatoria, in primo luogo per l'incalzare degli avvenimenti ( si era già alla fine del 1943), ma soprattutto perché non la ritennero necessaria (...)

La fase "burocratica" della persecuzione era infatti già compiuta l'8 settembre 1943: il condizionamento in senso antiebraico dell'opinione pubblica, la legislazione stessa, il costante aggiornamento della schedatura degli ebrei, la creazione di un organismo deputato al regolamento e alla esecuzione pratica della politica antiebraica come la Direzione generale per la Demografia e la Razza del Ministero dell'Interno. Non si può non vedere una coincidenza quasi perfetta tra ciò che altrove i nazisti intrapresero dopo l'occupazione e ciò che in Italia i fascisti avevano avviato prima. Con ciò non si vuole affatto sostenere che da parte italiana ci fosse stata una intenzionale programmazione mirata allo sterminio(...) Ma in Italia i primi mattoni dell'edificio antisemita furono comunque posti dal fascismo monarchico e non dal nazismo. Anche se fra i due regimi, fascista e nazista, non vi fu coordinamento, né intenzione di continuità, né, tantomeno, una dinamica di causa ed effetto, occorre sottolineare con forza che l'antisemitismo fascista preparò il terreno allo sterminio deciso dalla Germania nazista".

Dopo l'8 settembre le strade dell'antisemitismo fascista e di quello nazista si incontrarono rapidamente. Il passaggio dalla persecuzione dei diritti a quello delle vite appare pienamente in atto sin dai primi passi della neocostituita Repubblica di Salò. All'integrale ripristino delle misure antiebraiche in vigore prima del 25 luglio fecero seguito, il 14 novembre 1943, le difinizione, contenuta nel Manifesto programmatico del Partito fascista repubblicano, degli ebrei come "appartenenti a Stato nemico", ed all'inizio di dicembre l'ordine di arresto e di internamento in appositi campi di concentramento provinciali e quindi in speciali campi appositamente costituiti degli ebrei italiani e stranieri sino al 70° anno di età e la confisca di tutti i loro beni mobili e immobili. Queste misure, varate nell'Italia occupata dalle armate tedesche, dopo l'insediamento degli apparati delle SS e della Gestapo preposti alla deportazione e allo sterminio degli ebrei e dopo le razzie effettuate a Roma, Trieste, Firenze, Milano e in altre località e l'invio dei primi convogli diretti ad Auschwitz, senza la minima protesta da parte di Mussolini, assumevano un significato inequivocabile e non si vede come alle autorità di Salò possa essere attribuito da De Felice un grado anche minimo di "umanità". Il cerchio si chiuse definitivamente quando gli ebrei rastrellati dagli organi di polizia italiana e tedesca sulla base dei dati continuamente aggiornati del censimento del 1938 cominciarono a essere convogliati nel campo di Fossoli e quando la gestione di quest'ultimo nella seconda metà di febbraio 1944 venne ceduta dalle autorità italiane alle SS, che provvidero direttamente alla deportazione verso i campi di sterminio. Il numero degli ebrei italiani e stranieri deportati e sterminati nel 1943-45 ammonta a oltre 7000 (e si deve sottolineare che oltre un terzo di loro fu arrestato con il coinvolgimento delle autorità fasciste italiane o su denunce di civili italiani). Se il bilancio non fu ancora più pesante ciò fu dovuto anche a circostanze meramente casuali, come ad es. al fatto che il campo di Ferramonti, dove erano internati 1500 di ebrei stranieri si trovava in provincia di Cosenza, a cioè in una regione che sfuggì all'occupazione tedesca dell'Italia dopo l'8 settembre 1943.

Si potrebbe obiettare che nonostante tutto, circa i 4/5 dei 43.000 ebrei italiani e stranieri residenti nel 1943-45 nell'Italia occupata riuscirono a scampare alla deportazione. Anche questo fatto corrisponde a verità, ma non si può in alcun modo sostenere che la causa principale di questo fatto debba essere attribuita alla presunta benevolenza e alla scarsa convinzione delle autorità di Salò, anche se non mancarono inziative in questo senso da parte di singoli funzionari e anche da parte di fascisti. E' impensabile che qualcuno possa oggi ignorare il nome di Auschwitz, ma forse non tutti sono a conoscenza che già nel corso del1942-43 vi furono violenze antisemite e devastazioni a Trieste, Venezia, Spalato e Padova, e che sempre a Trieste nel 1943-45 funzionò un vero e proprio campo di sterminio, la risiera di San Sabba, in cui vennero uccise e bruciate attraverso il forno crematorio circa 4.OOO persone, appartenenti a tutte le categorie di nemici dell'ordine nazi-fascista in Europa. Il Lager di Trieste, gestito direttamente dai nazisti con la connivenza dei fascisti e della autorità italiane, agì come un effettivo microcosmo della politica nazifascista di repressione e di sterminio: esso funzionò come strumento sia per la repressione spietata dei ribelli dell'ordine nazi-fascista in Europa, e quindi dei combattenti dei movimenti della Resistenza sloveni e italiani, sia come luogo di internamento per la deportazione e il successivo sterminio degli ebrei .

Al fine di comprendere come mai una quota rilevante di ebrei italiani scampò alle deportazioni e allo sterminio, è necessario richiamarsi non già a un presunto scarso impegno delle autorità di Salò, bensì a due ordini di fattori radicalmente diversi. Il primo di questi elementi è che al tempo del fascismo gli ebrei erano ormai pienamente integrati nella società italiana e non esisteva quell'ostilità di massa nei loro confronti che il regime fascista cercò artificiosamente di suscitare e che in altri paesi dell'Europa centro-orientale determinò un clima psicologico favorevole ala persecuzione e alla deportazione. E' tuttavia doveroso un richiamo a non sottovalutare sia la possibile incidenza della propaganda fascista volta a scaricare sugli ebrei la responsabilità della catastrofe bellica, sia l'esistenza di un più antico retroterra di antigiudaismo cattolico, sia, soprattutto, la "zona grigia" dell'apatia e dell'indifferenza che fu presente anche in Italia, che lo stesso fascismo aveva contribuito a diffondere e che almeno tra il 1938 e il 1943 caratterizzò l'atteggiamento di una larga maggioranza della popolazione. Come ha scritto ancora Enzo Collotti, se l'impegno attivo contro i perseguitati è stato di una minoranza di fanatici, anche le manifestazioni di dissociazione da questa minoranza e di aperta solidarietà sono state anch'esse assolutamente minoritarie, mentre ben più diffuso è stato l'atteggiamento della silenziosa interruzione dei rapporti personali con gli ebrei, che ne ha gravemente accentuato l'isolamento e quindi l'esposizione alla persecuzione.

Ma vi è un secondo elemento di riflessione, che riguarda il rapporto tra il salvataggio di circa i 4/5 degli ebrei italiani e la grande estensione di massa che assunse in Italia il movimento della Resistenza. E per Resistenza si intende qui non solo la lotta armata e i grandi movimenti popolari di opposizione contro l'occupante e i fascisti di Salò, ma anche un altro ambito che si è segnalato solo in tempi recenti all'attenzione degli storici, e cioè quello della resistenza civile. Lo studioso francese Jacques Sémelin, in un bel libro che è stato anche tradotto in italiano, ha definito la resistenza civile come la lotta spontanea delle popolazioni dell'Europa occupata per preservare l'identità collettiva delle società aggredite, cioè i loro valori fondamentali, le libertà fondamentali, il rispetto dei diritti della persona e delle conquiste sociali e politiche conculcate dalla dominazione nazi-fascista, ed insieme l'affermazione di una legittimità ribelle all'ordine dell'occupante e dei suoi collaboratori. Ora proprio lo sviluppo di un movimento popolare di Resistenza delle dimensioni che si ebbero in Italia (è bene ricordare che in Italia nel marzo 1944 si svolse il più grande sciopero generale politico dell'intera Europa occupata) contribuì certamente a creare quel clima di delegittimazione dell'occupante e di isolamento dei fascisti di Salò che favorì non solo l'estendersi della disobbidienza civile ma anche la diffusione di quei valori umanistici e di solidarietà nei confronti dei perseguitati che determinarono un ambiente favorevole per il salvataggio della maggioranza degli ebrei italiani. Va anche ricordato inoltre il contributo diretto di esponenti e di gruppi della Resistenza per la liberazione dei prigionieri dai campi di concentramento, per la fabbricazione di documenti falsi, per il reperimento dei rifugi e per l'aiuto agli espatri verso la Svizzera. In una prospettiva comparata sul piano europeo la Resistenza italiana occupa un posto non trascurabile nel salvataggio degli ebrei, anche se nel nostro paese come altrove le iniziative intraprese rimasero molto al di sotto dell'enormità dei compiti rispetto a quanto stava accadendo. Su di un altro versante un contributo di decisiva importanza fu fornito dal basso clero e da numerosi istituzioni ecclesiastiche che offrirono in gran numero assistenza e rifugio, nonché dalle curie vescovili di Genova, Firenze e Torino e a Roma dal padre cappuccino Benôit-Marie, che nella fase più difficile assunsero direttamente i compiti della clandestina Delasem. In questa opera religiosi e istituzioni compensarono le ambiguità, le reticenze, le omissioni e le connivenze che, come ha egregiamente documentato Giovanni Miccoli, avevano caratterizzato l'atteggiamento della S. Sede a partire dalle leggi razziali del 1938 e il colpevole silenzio costantemente mantenuto nei confronti della persecuzione e dello sterminio degli ebrei da parte dello stesso papa Pio XII.

Fu questo un aspetto di quella più generale rinascita della società civile che il fascismo aveva cercato di distruggere e che la Resistenza ha lasciato come eredità duratura all'Italia repubblicana. Si potrebbe aggiungere che questo patrimonio, codificato dalla Costituzione, dovrebbe essere salvaguardato anche per il futuro come parte essenziale della nostra nostra identità democratica e civile, contro il revisionismo vecchio e nuovo che cerca di screditare e di cancellare questa tradizione insieme con la memoria critica del passato fascista.

5. E' opportuno concludere con un'ultima osservazione che riguarda proprio la conservazione e la trasmissione della memoria della deportazione e del genocidio degli ebrei, come parte fondamentale della nostra identità democratica di cittadini dell'Italia e dell'Europa. Ci sono tanti modi per cancellare questa memoria: il primo è quello della rimozione, contro cui si scontrarono per primi i sopravvissuti quando tornarono dai campi di sterminio (ci sono pagine molto amare a questo proposito, cosicché una parte di loro scelse il silenzio piuttosto che la testimonianza), e del resto è ben noto quanto sia stato faticoso nel secondo dopoguerra far acquisire alla coscienza collettiva non solo del popolo tedesco ma di tutti i popoli dell'Europa una precisa consapevolezza dell'enormità del crimine contro l'umanità che era stato commesso; il secondo modo è il negazionismo di coloro che hanno cercato di sostenere che il genocidio non sarebbe mai avvenuto, che Auschwitz sarebbe un'invenzione degli ebrei e di coloro che hanno combattuto il nazifascismo, ma questo io credo che oggi sia il pericolo minore; infine, ed è questo invece il rischio più grave nella società in cui oggi viviamo, è la tendenza, che è enormemente favorita dalle forme semplificate della comunicazione televisiva, a banalizzare o a spettacolarizzare il genocidio degli ebrei, fornendo spiegazioni apparentemente facili come la follia personale di Hitler o la ferocia congenita dei tedeschi di ieri, come è stato scritto nel volume davvero pessimo del politilogo americano Daniel Goldhagen "I volenterosi carnefici di Hitler": in altre parole, la tendenza a separare il genocidio degli ebrei dalla realtà storicamente determinata dei regimi fascisti e dal complesso di fattori politici, economici e sociali che lo resero possibile, o anche ad annegarlo in una generica quanto strumentale deplorazione dei massacri e degli orrori del XX Secolo e dei sistemi cosiddetti totalitari, deprivandolo dei caratteri specifici della sua unicità. Scriveva Primo Levi a proposito del comandante di Auschwitz Rudolf Höss che non si era in presenza di un mostro ma di una persona sostanzialmente "normale", e che la vera questione su cui ci si doveva interrogare era semmai il meccanismo e l'ambiente che passo passo aveva trasformato Höss in uno dei peggiori criminali della storia. Ed aggiungeva: "Io di mostri non ne ho visti nessuno. Sono persone come noi che agirono in quel certo modo per il fatto che esisteva un fascismo o un nazismo in Germania. Se tornasse un fascismo o un nazismo dovunque si troverebbero persone come noi che agirebbero in questo modo".

Estendendo il pensiero di Levi si potrebbe aggiungere che senza una comprensione critica del passato non è possibile salvaguardarne e trasmetterne la memoria, e nemmeno è possibile conservare la capacità di interpretare il presente e quindi di affrontare con la necessaria consapevolezza le tensioni e i conflitti della società dei nostri giorni, in cui riemergono drammaticamente i problemi della xenofobia, dell'antisemitismo e del razzismo, ed in cui sono nuovamente all'ordine del giorno vere e proprie guerre etniche e religiose, come è avvenuto e avviene non solo in Medio Oriente, ma anche nel cuore dell'Europa, ai nostri stessi confini, nella ex Jugoslavia.

La conoscenza storica può aiutarci a mantenere viva una società civile matura e consapevole, che sappia isolare e stroncare sul nascere questi fenomeni degenerativi che possono risorgere e da cui non si è mai una volta per sempre immunizzati. Per questo una grande responsabilità spetta oggi a chi si occupa di storia e soprattutto agli insegnanti, a cominciare dalle scuole e dalle università.

Permettetemi di concludere con la citazione di un altro passo di Primo Levi che risale al 1975 e che nel suo richiamo alla memoria storica è rivolto non solo al passato, ma anche e soprattutto al nostro presente:

"Ora siamo ridotti a qualche decina: forse siamo troppo pochi per essere ascoltati, e inoltre abbiamo spesso l'impressione di essere dei narratori molesti; talvolta, addirittura, si avvera davanti a noi un sogno curiosamente simbolico che frequentava le notti di prigionia: l'interlocutore non ci ascolta, non comprende, si distrae, se ne va e ci lascia soli. Eppure, raccontare dobbiamo: è un dovere verso i compagni che non sono tornati, ed è un compito che conferisce un senso alla nostra sopravvivenza. A noi è accaduto (non per nostra virtù) di vivere un'esperienza fondamentale, e di apprendere alcune cose sull'Uomo che sentiamo necessario divulgare.

Ci siamo accorti che l'uomo è sopraffattore; è rimasto tale, a dispetto di millenni di codici e di tribunali. Molti sistemi sociali si propongono di raffrenare questa spinta verso l'iniquità e il sopruso; altri invece la lodano, la legalizzano e la additano come ultimo fine politico. Questi sistemi si possono, senza alcuna forzatura di termini, designare come fascisti: conosciamo altre definizioni del fascismo, ma ci sembra più preciso, e più conforme alla nostra esperienza specifica, definire fascisti tutti e soli i regimi che negano, nella teoria e nella pratica, la fondamentale uguaglianza di diritti fra tutti gli esseri umani; ora, poiché l'individuo o la classe i cui diritti vengono negati raramente si adatta, in regime fascista si rende necessaria la violenza o la frode. La violenza, per eliminare gli oppositori, che non possono mancare; la frode, per confermare i ligi che l'esercizio del sopruso è lodevole e legittimo, e per convincere i sopraffatti (entro i limiti, che sono ampi, della credulità umana) che il loro sacrificio non è un sacrificio, oppure che è indispensabile in vista di qualche scopo indefiniti e trascendente.

I vari regimi fascisti differiscono fra loro per il prevalere della frode o rispettivamente della violenza. Il fascismo italiano, primogenito in Europa e sotto molti aspetti pionieristico, sulla base originale di una repressione relativamente poco sanguinosa ha eretto un colossale edificio di mistificazione e di frodi (chi ha studiato in anni fascisti ne conserva un bruciante ricordo) i cui effetti durano tuttora. Il nazionalsocialismo, ricco dell'esperienza italiana (...) ha puntato sulla violenza fin dal principio, ha riscoperto nel campo di concentramento, vecchia istituzione schiavista, un "instrumentum regni" dotato del potenziale terroristico che si desiderava, ed ha proceduto su questa via con incredibile rapidità e coerenza (...)

I campi non erano (...) un fenomeno marginale(...) erano un'istituzione fondamentale dell'Europa fascistizzata, e da parte nazista non si faceva mistero che il sistrema sarebbe stato mantenuto, anzi esteso e perfezionato, se l'Asse avesse vinto. Sarebbe stata la realizzazione piena del fascismo: la consacrazione del privilegio, della non-uguaglianza e della non-libertà.

Perfino nell'interno del Lager si stabilì, anzi fu deliberatamente instaurato, un sistema d'autorità tipicamente fascista: una gerarchia rigida fra i prigionieri, in cui il massimo potere spettava a chi meno lavorava: tutte le investiture, anche le più risibili (spazzini, sguatteri, guardie notturne) provenivano dall'alto; il suddito, e cioè il prigioniero senza gradi era totalmente privo di diritti; e neppure mancava una sinistra propaggine della polizia segreta, sotto forma di una miriade di spie. Insomma il microcosmo-campo rispecchiava fedelmente il tessuto sociale dello Stato totalitario, dove (almeno in teoria) l'Ordine regna sovrano: non c'era luogo più ordinato del Lager. Non intendo certo dire che quel nostro passato ci induca a detestare l'ordine in sé, bensì quell' ordine, perché era un ordine senza diritto"

(Roma, gennaio 2000)

 

*Docente di Storia Moderna, Università di Cagliari

Hosted by www.Geocities.ws

1