27 gennaio, per non dimenticare

intervento di Gianpasquale Santomassimo*

 

Questa giornata che è stata istituita in quasi tutti i paesi europei rappresenta anche la sanzione di un mutamento che è intervenuto nella coscienza occidentale. Possiamo dire che solo nell’ultimo quarto di secolo si è presa coscienza dell’enormità di quanto è accaduto. Questa presa di coscienza è avvenuta lentamente. Io posso ricordare che quando ai nostri tempi ci parlavano della seconda guerra mondiale nelle scuole (era abbastanza raro che se ne parlasse), quando se ne parlava c’era sicuramente la menzione dei campi di concentramento e della persecuzione degli ebrei. Ma veniva ricordata come una delle tante atrocità della seconda guerra mondiale. Era molto più vivo e lacerante il ricordo dei bombardamenti, il ricordo dei soldati italiani caduti in guerra, il ricordo delle sofferenze e delle privazioni di tutta la popolazione civile. Certo tutto questo accadeva in un paese che aveva seri problemi con la propria memoria e che non aveva neppure provato ad avviare un esame di coscienza e che aveva istituito uno strano compromesso per cui si celebrava retoricamente la resistenza ma anche le battaglie della guerra fascista, era una memoria molto confusa e a tratti schizofrenica.

C’è da ricordare che in Germania accadeva di peggio, fino alla fine degli anni sessanta vi fu una rimozione completa di questo problema nell’opinione pubblica tedesca. Poi qualcosa cominciò a cambiare. Una nuova generazione pose all’ordine del giorno le colpe dei padri, impose un dibattito e impose una lenta ma inesorabile presa di coscienza. Bisogna riconoscere che proprio il popolo tedesco alla fine ha saputo fare i conti con il proprio passato in maniera più radicale di quanto hanno fatto altri.. E’ stata molto più lenta la presa di coscienza dei francesi ad esempio sul significato del collaborazionismo di Vichy e il ruolo di quel regime nello sterminio. Noi italiani non abbiamo ancora saputo staccarci del tutto dal mito consolatorio dell’italiano brava gente, che riesce a farsi benvolere anche dai popoli che aggredisce e che saccheggia. E abbiamo sempre sottovalutato la portata delle leggi razziali del 1938 e abbiamo sempre teso a minimizzare di cui abbiamo sempre ridotto l’impatto tragico nella realtà della società italiana.

Quindi c’è stata una coscienza europea che è cambiata negli anni e che vuole sancire con questa giornata la irreversibilità del cambiamento che è avvenuto. Ricordare perché è doveroso e ricordare per evitare che succeda di nuovo.

Questa legge è stata istituita anche in Italia, c’è stato un dibattito molto particolare, ci sono stati molti compromessi. Non si parla di fascismo nel testo di questa legge e questo è abbastanza significativo, è probabilmente un prezzo che è stato pagato per ottenere il voto della maggioranza del parlamento. Si è discusso molto su alcune questioni che stanno dietro a questa celebrazione. In particolare: è giusto ricordare "solo" questo sterminio? Ci sono stati altri massacri nella storia. Il Novecento ne ha visto altri, anche maggiori per numero complessivo di vittime, ma il problema non è quello di una computisteria degli uccisi. Che significa allora parlare di unicità di Auschwitz? E’ il tema che molti hanno posto e che è anche alla base del mancato voto di alcuni uomini che in passato erano stati anche importanti nella formazione della nostra cultura di sinistra.

Quando si parla di unicità chiariamo alcune cose. La comparazione non solo è possibile ma è lecita, è utile e per certi aspetti doverosa. Quando parliamo di unicità di Auschwitz in realtà una comparazione l’abbiamo già fatta mentalmente altrimenti non potremmo esprimere questo tipo di giudizio. Sappiamo benissimo che vi sono stati molti altri massacri, riteniamo però che vi sia una qualità completamente diversa, una unicità che non viene dal numero delle vittime ma dalle motivazioni, dai mezzi, dal meccanismo che ha portato a questo. Mentre questa tragedia si concludeva tra la fine del ’44 e la primavera del ’45, era in pieno svolgimento ad esempio tra India e Pakistan una guerra civile e religiosa ferocissima che per numero di vittime arrivò a cifre abbastanza vicine a quelle della Shoa. Io ritengo che sia fuorviante paragonare Auschwitz con altre forme di barbarie nel corso del Novecento o nel corso dei secoli con altre forme di scoppio improvviso di violenza che avviene tra popoli avversi, tra etnie avverse, e ne avvengono anche oggi. Sono in corso ad esempio in Africa. Qui non si tratta di "barbarie", ci troviamo di fronte ad un massacro che avviene con caratteristiche industriali di organizzazione, burocratica di uno sterminio e tutto questo accade nel cuore stesso della civiltà europea ad opera del popolo più colto e civilizzato d’Europa. Non si tratta di uno scoppio di violenza improvvisa ma di qualcosa di fortemente meditato e programmato e che come vedremo ottiene una partecipazione vastissima e inquietante da parte di tutto questo popolo e non solo del popolo tedesco. Massacro che non risponde a nessuna esigenza bellica, anzi è controproducente da questo punto di vista. Nella logica militare voi dovete pensare che noi ci troviamo di fronte ad un popolo che è impegnato nella più grande guerra combattuta nella storia, è impegnato su più fronti e che poi distoglie uomini, mezzi, energie preziosissime per mettere in piedi e portare a fine questo massacro industriale e burocratizzato. C’è una centralità di questo scopo, di questo obiettivo che non nasce da esigenze belliche ma che per certi aspetti va anche al di là dello stesso interesse delle vicende militari.

Tutto questo nasce all’interno di una guerra ed è bene tenerlo presente. Ci sono caratteristiche di fondo di questa guerra che vanno ricordate perché sono anch’esse caratteristiche uniche. Nelle guerre si uccide e si muore e la seconda guerra mondiale è una guerra che a differenza di tutte quelle che l’avevano preceduta vede un numero maggiore di vittime tra la popolazione civile che non tra gli eserciti, un numero nettamente maggiore. Va anche ricordato che la guerra ai civili non giustificata né da esigenze belliche né da leggi di guerra fu praticata in maniera unilaterale solo dalle truppe dell’asse, dai tedeschi e anche dagli italiani nei Balcani, arrogandosi un diritto di vita e di morte su popolazioni inermi che rispecchiava anche i fondamenti dell’ideologia con cui questa guerra veniva combattuta. Unilaterale perché non vi fu nessuna reciprocità da parte di altre operazioni anche se molte vittime innocenti morirono, quando l’armata rossa invase e occupò la Germania vi furono sicuramente episodi di brutalità ma non vi fu nessuna vendetta sulle popolazioni civili, non vi fu nessun massacro lontanamente paragonabile a quello che i tedeschi avevano compiuto in Russia e negli altri paesi dell’Est. Questo sterminio conosce una accelerazione negli ultimi anni della guerra. Se la guerra fosse finita nel 1942 probabilmente la macchia di infamia maggiore che si potrebbe ricordare per il regime nazionalsocialista sarebbe quella dei due milioni di civili russi sterminati fino a quel momento.

Nella guerra che viene condotta ad est tutti i mezzi nei confronti di un nemico giurato vengono ritenuti leciti. Gli ordini prevedevano l’eliminazione sistematica dei funzionari del partito comunista e degli ebrei. Le leggi internazionali che regolavano le conduzioni delle guerre dovevano essere ignorate. Quanto alla popolazione civile, l’esercito di occupazione doveva disinteressarsi delle sue condizioni di esistenza e aveva il divieto di utilizzare la produzione agricola per sfamarla. La guerra sul fronte orientale, in Polonia, in parte anche in Jugoslavia ma soprattutto in Russia si svolse con modalità diverse da quelle messe in opera sul fronte occidentale: qui l’obiettivo includeva la possibilità di uno sterminio sistematico della popolazione. Lo dimostra il numero delle vittime sovietiche (20 milioni di morti di cui oltre 7 milioni tra i civili).

E all’interno di questo tipo di guerra condotto con questi intenti e con questa ideologia matura la cosiddetta "soluzione finale" del problema ebraico. Nelle intenzioni di Hitler e dei vertici della classe dirigente nazista l’intenzione di risolvere radicalmente il problema ebraico è indubbio ed è documentato a sufficienza nelle pagine del Mein Kampf, e d’altra parte l’antisemitismo è al centro e in questo senso costituisce la specificità dell’ideologia nazista.

Lo sterminio faceva parte dell’orizzonte delle possibilità dopo l’avvio della persecuzione. Emigrazione, deportazione, ghettizzazione furono ipotesi alternative prese in esame e parzialmente applicate prima della scelta finale.

Alla vigilia della guerra il regime sembrò favorevole ad una emigrazione in massa verso una varietà di paesi dei circa 700.000 ebrei che ancora vivevano nel territorio del Reich dopo le annessioni dell’Austria e dei Sudeti: si voleva così evitare la loro concentrazione in un solo luogo (la Palestina o, come pure venne ipotizzato nel 1940, il Madagascar) e alimentare l’ostilità antiebraica nei paesi di destinazione nonché dimostrare l’ipocrisia delle proteste, peraltro contenute, dell’opinione pubblica occidentale per la persecuzione in Germania. In effetti, la disponibilità degli altri paesi ad accogliere gli ebrei fu molto scarsa: il problema venne affrontato come un normale problema migratorio e quindi alla luce delle logiche di restrizione che allora prevalevano.

Scoppiata la guerra, però, quanto più le conquiste territoriali procedevano, tanto maggiore era il numero degli ebrei che cadevano sotto la giurisdizione tedesca all’ovest e all’est: 3 milioni e mezzo alla metà del 1940, altri 5 milioni dopo l’aggressione all’URSS. L’idea di trasferirli fuori dell’impero tedesco venne allora scartata come impraticabile e prese corpo l’ipotesi di utilizzare la Polonia come contenitore di tutti gli ebrei "catturati". Nell’ottobre 1941, convogli carichi di ebrei provenienti dalla Germania, dalla Boemia e dalla Moravia, da Vienna, dal Lussemburgo cominciarono ad arrivare nei ghetti polacchi. Gli ebrei, rinchiusi nei ghetti, morivano a decine di migliaia per la scarsità dell’alimentazione e le epidemie che scoppiavano a causa dell’alta densità abitativa. A Varsavia, per un mese, tra l’aprile e il maggio del 1943, il ghetto insorse, ingaggiando con i tedeschi una battaglia disperata, che si concluse inevitabilmente con la sconfitta e la distruzione del grande quartiere ebraico.

Già alla fine del 1941, comunque, anche i fautori di un impiego degli ebrei come manodopera a basso costo riconobbero che esso non era conciliabile con l’imposizione di condizioni di vita intollerabili. Lo sfruttamento del lavoro continuò ma ad esso si combinò lo sterminio sistematico nei campi.

I campi erano originariamente stati concepiti come luoghi di detenzione e di punizione per gli oppositori, gli indesiderabili, gli ebrei e di ricovero per i lavoratori coatti. L’ingresso in guerra aveva indurito la repressione all’interno della Germania e nei confronti dei paesi occupati: nel settembre del 1941, il cosiddetto decreto "notte e nebbia" (una frase idiomatica che voleva dire "in tutta segretezza") aveva disposto la deportazione nei campi tedeschi di tutti i sospetti di resistenza, e tra questi anche una parte dei prigionieri di guerra. Dalla Germania in senso stretto i campi si diffusero da allora in tutte le zone occupate, e specialmente all’est.

Auschwitz, nella Slesia già Polacca, era stato costruito nel 1940 e venne ampliato l’anno successivo in modo da poter contenere fino a 100 mila prigionieri: la cosiddetta Auschwitz II, a Birkenau, nelle cui vicinanze cominciarono a operare le camere a gas. Nei dintorni di Auschwitz venne costruita anche una fabbrica della industria chimica IG-Farben e altre fabbriche minori, dove una parte dei prigionieri veniva inviata a lavorare. Lavoro coatto e sterminio si trovavano insomma qui in un rapporto ambiguo, che non conosceva tuttavia soluzioni di continuità. La morte per sfinimento, per malattia e per fame era l’alternativa allo sterminio industriale; i più resistenti, quando non erano in grado di lavorare, finivano a loro volta nelle camere a gas. Ad Auschwitz avvenivano anche le procedure di selezione tristemente note, che separavano le persone abili al lavoro da quelle destinate allo sterminio.

I campi erano burocraticamente distinti tra campi di lavoro, di transito, per i prigionieri di guerra e campi di eliminazione veri e propri: nei fatti, le distinzioni sfumavano, anche se i campi polacchi di Chelmno, Treblinka, Belzek, Sobibor furono specificatamente addetti allo sterminio.

Agli occhi dei carnefici, i vantaggi dell’eliminazione nei campi erano molteplici: le esecuzioni si svolgevano nel chiuso dei lager ed evitavano le forme di abbrutimento registrate presso i reparti incaricati di fucilazioni da massa (la pratica più diffusa nei territori dell’est, ad opera dei "gruppi operativi" – Einsatzgruppen – delle SS ma anche di reparti dell’esercito: i gruppi comunicarono a Berlino che a tutto l’aprile del 1942 avevano trucidato circa 600.000 persone). La soluzione tecnica delle camere a gas, adottata per primo dal comandante di Auschwitz, Rudolf Höss, in ragione della sua capacità di annientamento – in quel solo lager si calcola che venissero soppresse 2 milioni di persone - , era stata recuperata dagli esperimenti di eutanasia nei confronti di malati incurabili, di schizofrenici, epilettici e affetti da malattie ereditarie, sviluppatisi in Germania subito dopo l’inizio della guerra per ragioni di igiene razziale. Gli esperimenti erano stati ufficialmente sospesi in seguito alle proteste provenienti da ambienti ecclesiastici: anche questo spiega perché si evitò di formalizzare in un ordine scritto la decisione di procedere allo sterminio degli ebrei e delle altre "razze inferiori".

Pianificata con ogni probabilità nell’estate del 1941, la messa in pratica dello sterminio sistematico iniziò nei primi mesi del 1942, dopo un incontro che il 20 gennaio dello stesso anno aveva riunito in una villa sulla Grosser Wannsee, alla periferia di Berlino, i massimi gradi delle SS, della polizia, di vari ministeri, del partito, del Governatorato della Polonia. La riunione era presieduta da Himmler, che alle sue cariche aveva aggiunto anche quella di Commissario per "il consolidamento della razza germanica". Gli ebrei, rastrellati da ovest verso est, sarebbero stati trasferiti dapprima nei ghetti di transito, in Polonia, e ai lavori forzati. La selezione naturale ne avrebbe decimato le fila. I rimanenti, pericolosi perché possibile "seme di una nuova rinascita ebraica", sarebbero stati "trattati di conseguenza", cioè sterminati.

Ma il punto veramente importane non è l’individuazione di una data precisa – ad Auschwitz le camere a gas cominciarono a funzionare dalla fine del 1941 – quanto il nesso necessario, stabilito dagli stessi carnefici, tra "la conquista di spazio vitale e lo stermino degli ebrei, i due elementi cruciali della Weltanschauung (visione del mondo) nazionalsocialista". Primato imperiale, primato razziale ed eliminazione degli ebrei andavano di conserva, anche se quest’ultima doveva avvenire senza lasciare traccia. Quasi tutti i campi di sterminio (Belzec, Treblinka, Sobibor tra gli altri) vennero smantellati nel corso del 1943. Auschwitz invece restò pressoché intatta e continuò a funzionare fino al gennaio del 1945.

Le vittime ebree del genocidio furono circa 6 milioni. Intere regioni e città dell’Europa centrale mutarono tra l’altro, in seguito a questa perdita, la loro stessa composizione sociale e la loro vocazione economica e culturale.

Lo sterminio – lo abbiamo detto – doveva svolgersi nella massima segretezza, vale a dire che sterminio e occultamento delle prove di questo sterminio erano attività che procedevano in parallelo. Ma comunque della sua attuazione se non delle sue proporzioni si ebbe certamente notizia presso l’opinione pubblica occidentale: le reazioni del Vaticano, dei britannici e degli americani furono tuttavia fin troppo caute e non ebbero alcun effetto. Neppure in Germania ci furono reazioni apprezzabili; eppure le deportazioni e i trasferimenti all’est degli ebrei erano noti, come lo erano le fucilazioni in massa eseguite all’est. Il segreto, del resto, non poteva essere mantenuto quando centinaia di migliaia di persone, soldati, burocrati, senza contare gli esecutori, erano coinvolti, direttamente o indirettamente, nello sterminio.

Girare la testa dall’altra parte e rifugiarsi nel privato fu l’atteggiamento più diffuso: effetto della paura e della durezza della repressione ma anche della rinuncia a esercitare un giudizio di corresponsabilità morale. Responsabile primo dello sterminio è stato certamente l’antisemitismo fanatico dei capi nazisti; ma ad esso concorsero la logica burocratica ed efficientista di centinaia di migliaia di comprimari e il silenzio della grande maggioranza della popolazione. Disciplina, lontananza dalla scena del delitto, impersonalità: furono questi gli strumenti di cui si avvalse la "pratica burocratica" dello sterminio e che sostennero la rivendicazione di innocenza dei suoi diretti e indiretti, esecutori della "banalità del male", burocrati dello sterminio.

Uomini comuni, bravi cittadini, bravi padri di famiglia, non solo mostri degenerati presero parte a questo stermino. Perché? Come fu possibile?

Questo ci porta ad interrogarci sull’atteggiamento della maggioranza della popolazione tedesca e non solo tedesca sul perché lo sterminio ottenne la collaborazione non sempre attiva ma in ogni caso opaca, disciplinata, burocraticamente consenziente da parte della maggioranza della popolazione tedesca coinvolta nella organizzazione di questa macchina industriale. Questo è probabilmente la parte più ardua per chi si interroga nella storia del Novecento, Noi lo facciamo spesso anche in forma celebrativa, lo facciamo anche in questi giorni quando parliamo di questa tragedia, quando cerchiamo di trarre da essa insegnamenti, moniti per l’attualità. Facciamo riferimento giustamente al razzismo.

Vorrei dire che forse è limitativo spiegare tutto con il razzismo, anche qui bisogna tener presente che in questa storia, e anche questo ne dimostra l’unicità, c’è qualcosa di una qualità diversa e superiore rispetto al razzismo normale e tradizionale. Forme di razzismo ne abbiamo avute moltissimo nella storia, esse contemplavano in genere l’asservimento di razze inferiori, la loro schiavizzazione, l’utilizzazione coatta del lavoro servile. Abbiamo avuto società schiaviste nella storia, ne abbiamo avute per tutto l’800, gli Stati Uniti del sud erano una società schiavista fino alla metà dell’800. Nessuna di queste ideologie prevedeva lo sterminio. Lo sterminio è qualcosa di qualitativamente diverso. Qui non c’è semplicemente una gerarchia di razze superiori e inferiori, cosa che già di per se sarebbe inquietante e rivoltante, cerchiamo di capire che cosa c’è. Intanto riflettiamo sul linguaggio che viene usato in Germania per propagandare queste idee. Nel linguaggio tedesco degli anni 30 colpisce l’uso delle metafore mediche e chirurgiche, si parla quasi sempre di un bubbone da amputare, i parassiti da estirpare quando si parla degli ebrei. Un parassita che succhia il sangue al popolo tedesco e il popolo tedesco è descritto come un organismo sano insidiato da questo pericolo e che può salvarsi solo eliminando la radice di questo pericolo che ne mina l’esistenza e le possibilità di sviluppo e l’espansione. Non c’è semplicemente il razzismo, non c’è la visione degli ebrei come di una razza inferiore che va asservita: c’è qualcosa di più. C’è la negazione della appartenenza alla sfera dell’umanità. Credo che questo vada compreso perché spiega molte cose, le cose che poi sono più difficili da capire. Perché poi si usino persone come cavie per esperimenti, come corpi da cui ricavare saponi, pettini, spazzolini, alla stregua di quanto si fa con gli animali. Si tratta appunto di "non persone". Tenendo presente questo possiamo cominciare ad avvicinarci a comprendere la "normalità" dei comportamenti di tanti tedeschi nei campi di sterminio, comportamenti che altrimenti ci sembrerebbero semplicemente incomprensibili. Accarezzare un bambino ebreo e poi ucciderlo a sangue freddo il giorno dopo, tornare dopo una dura giornata di lavoro e di sterminio nelle stanze degli ufficiali e rilassarsi suonando Schubert al pianoforte, è una sensazione di normalità che non sembra provocare particolari turbamenti come di chi esegue un lavoro magari sgradevole ma necessario. E’ qualcosa che non ha a che fare comunque con una offesa che viene fatta ad altri uomini perché la convinzione è quella di non avere a che fare con uomini. Qualcosa che non fa parte dell’umanità e nei confronti della quale si possono assumere comportamenti che non destano un particolare turbamento così come a nessuno di noi fa una particolare impressione il fatto di indossare scarpe di cuoio ricavate dalla pelle di un animale.

Va ricordato la straordinaria forza dell’antisemitismo che non è semplice razzismo nell’Europa centrale di quegli anni.

E’ stata definita classicamente la lotta di classe dei poveri. Questo antisemitismo ha tanto successo perché ha tanta capacità di coinvolgimento? Perché trasporta tante masse? Per la sua estrema efficacia, per la sue estrema semplificazione, perché è una teoria che individua in un'unica causa la responsabilità di tutti i mali della società e questa causa a differenza di altre teorie critiche della società, non è una causa astratta, non è qualcosa a cui si giunge attraverso una astrazione come può essere il capitalismo. È qualcosa di tangibile di concreto che si vede per strada, è il vicino di casa, quella particolare bottega. È un obiettivo tangibile un nemico che si può additare, individuare nella vita di tutti i giorni. La forza di questo tipo di visione del mondo è particolarmente inquietante, è particolarmente pericolosa proprio per questo tipo di attrezzatura mentale che individua in un nemico determinato e tangibile l’unica causa dei mali della società. Questa tendenza è tuttora latente e può ripresentarsi in molte occasioni. Provate a sostituire al termine ebrei altri termini, meridionali, albanesi, extracomunitari in genere, vi accorgete di come questo meccanismo sia tuttora latente ed operante all’interno della nostra civiltà.

Detto questo concludo con brevissime considerazioni sulla particolarità della situazione italiana, qual è la situazione della coscienza collettiva italiana nel giungere a questo appuntamento, ci sono problemi, ci sono inquietudini che avvengono su questo terreno? Io direi che ci sono molti problemi e molte inquietudini. Facciamo anche qui una breve comparazione tra il modo in cui giunge l’Italia a questo appuntamento e il modo in cui sono giunti gli altri paesi.

Negli altri paesi abbiamo avuto una presa di coscienza graduale, magari lenta ma comunque inarrestabile che ha proceduto nel corso degli anni fino a giungere a questo risultato. Il caso della Germania è il più significativo. L’importanza che ha avuto una generazione come quella del ’68 su cui si è tornati a polemizzare in quel paese, a cui va ascritto semplicemente, onestamente il merito di aver avviato questo esame di coscienza della nazione tedesca rispetto alle colpe dei padri. Non è accaduto così in tutti gli altri paesi. Abbiamo un esempio estremo anche se molto vicino geograficamente a quello tedesco, il caso dell’Austria, che ha esercitato nei confronti del problema delle proprie corresponsabilità nello sterminio, nella persecuzione degli ebrei, nella organizzazione della Shoa. Un atteggiamento di completa rimozione che parte dal 1945 e arriva sostanzialmente fino ai nostri giorni salvo ovviamente forze organizzate ma minoritarie della sinistra e salvo intellettuali. Il mito dell’Austria prima vittima del nazismo in seguito all’Anchulls ha assolto completamente l’opinione pubblica austriaca da qualsiasi corresponsabilità che noi sappiamo è stata molto pesante.

Il caso italiano si pone un po’ a mezzo tra questi estremi nel senso che noi abbiamo avuto, anche qui nel corso degli anni 60 e degli anni 70, una forte presa di coscienza su questo problema, abbiamo avuto anche qui un processo che è stato avviato e che si è innestato su una tradizione antifascista che esisteva forte in alcune regioni, meno forte in altre ma che comunque era parte vitale della cultura e della società italiana. Nel corso dell’ultimo quarto di secolo a differenza di quanto è accaduto nella coscienza occidentale in Italia c’è stata una regressione su questo problema, vale a dire che il problema dei conti con il passato è stato progressivamente rimosso, non è stato proseguito questo esame di coscienza anzi in qualche misura si è proceduto a una sorta di rivalutazione strisciante del fascismo non solo distinto ma in qualche misura addirittura contrapposto al nazionalsocialismo nelle tesi dei suoi storici più illustri e più celebrati, e si è avuto un progressivo edulcoramento delle responsabilità e delle caratteristiche storiche del fascismo italiano che è stato il primo fascismo al mondo. L’Italia è il paese che ha inventato il fascismo, l’Italia è il paese che ha avuto delle responsabilità innegabili e bruttissimi nell’avviare la situazione internazionale lungo il piano inclinato che porta poi alla seconda guerra mondiale. Atteggiamento di edulcorazione delle responsabilità italiane e fasciste e completa rimozione del problema delle stragi italiane in altri paesi, dall’Africa ai Balcani. Siamo prontissimi a fare i mostri sui gulag come è giusto che si facciano ma non abbiamo mai fatto i mostri su i campi di concentramento italiani in Tripolitania che precedono storicamente i gulag e sulla repressione e sugli eccidi compiuti ai tempi dell’Etiopia. Se io dicessi Tepralibanos nessuno capirebbe di cosa parlo. Si tratta dello sterminio di una intera classe dirigente nel monastero coopto che formava la classe dirigente di quel paese, qualcosa che è paragonabile per entità e per qualità al massacro delle fosse di Kadin. Al di la di questo che può apparire un discorso moralistico e in parte lo è, il vero problema è il tipo di atteggiamento del fascismo che è andato maturando e nei confronti di questo problema nella corresponsabilità nello sterminio. Edulcoramento quindi delle responsabilità, sostanziale assoluzione del fascismo italiano nel quadro del meccanismo della Shoa e un giudizio sempre più positivo, riproposizione di quell’immagine bonaria del fascismo italiano nettamente distinto dai caratteri cupi con cui è sempre stato descritto il fascismo tedesco che ha contraddistinto letteratura, cinematografia italiana nel corso degli anni e che negli ultimi tempi è arrivato anche alla stessa rivalutazione sul terreno della buona fede, della nobiltà dei sentimenti, dell’amor patrio anche della stessa Repubblica Sociale, vale a dire che con momento del fascismo direttamente e strettamente composto dallo stesso meccanismo sociale. Queste sono cose da tenere presenti nel momento in cui si ricorda questo che non può essere un momento di purificazione e di auto assoluzione, in tutti i paesi giustamente si discute delle responsabilità interne che quel paese ha avuto. In Italia si è sempre evitato questo discorso, il fatto stesso che in questa legge non si faccia menzione del fascismo è una spia molto significativa. È probabile che queste cose vadano anche a peggiorare nei tempi che ci aspettano ed è bene su questo terreno non abbassare mai la guardia e fare in modo che queste occasioni di celebrazione diventino una occasione non solo di ricordo ma anche di riflessione e di stimolo per una azione che possa invertire queste tendenze.

 

*Docente di Storia all'Università di Siena

Hosted by www.Geocities.ws

1