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Prima Lettera a un Amico

 

Silvio Ceccato

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Caro Massimo,

 

ti scrivo di un incidente occorsomi e di come ne sia scampato per miracolo.

Ricorderai che quando studiavamo musica si discuteva con tutti gli epiteti intorno all’Arte, soprattutto negli incontri o scontri con chi musica non scriveva.

Già abitavamo in due città lontane, allorché un certo giorno mi venne in mente di chiedermi sul serio che cosa fosse mai che ci faceva chiamare una musica, un quadro, etc., “Arte” o “non-Arte”.

Comincio con il prendere questo o quell’oggetto, fra i più sicuramente artistici, nel senso che tu ed io ed i nostri amici, almeno, così li avremmo giudicati, e scruto l’oggetto, potrei dire lo giro e rigiro e percuoto e sondo, con tutte le arti che avevamo appreso dai nostri Maestri in Conservatorio e fatte nostre nella pratica di compositori, e vi trasporto le decine di libri di tecnica di questa o quell’Arte, letti e studiati e discussi nei cento colloqui.

C’era di che stropicciarsi gli occhi!

Mentre sceglievo quegli oggetti, ne ero certo, la caratteristica che li faceva opere d’Arte era lì, davanti agli occhi. Ma al fissarli per dare inizio all’analisi, ed afferrare quella caratteristica, e isolarla e studiarmela, la caratteristica spariva, senza lasciare la più piccola traccia.

Se fosse scomparsa ogni cosa avrei pensato a qualche incantesimo da mondo delle Fate o da Mille e una notte. Ma no. Venivo scoprendo invece in quegli oggetti mille cose pensate ed impensate. Come chi per la prima volta esplora di notte con un raggio di luce la spiaggia del mare alla ricerca del gioiello perduto.

Soltanto, nulla, assolutamente nulla, che somigliasse, nemmeno alla lontana, a ciò che stavo cercando, e che pure aveva sicuramente accompagnato la scelta.

Almanaccai stratagemmi. Vecchi e bambini, colti e rozzi, furono le mie Versuchpersonen. Li obbligavo a scegliere ed a scartare negli album di dischi e di riproduzioni di quadri. E li sorprendevo: Perché? Perché? Io poi cercavo di fare le cose così alla svelta che la caratteristica dell’artistico non avesse il tempo di sfuggirmi prima che l’avessi afferrata. Macché!

Ti dirò di un’altra diavoleria. Quando cercavo di tener sott’occhio tanti esemplari di oggetti d’Arte, allora mi sembrava che quella caratteristica tornasse a far capolino, invitandomi a prenderla. Ed io ci cascavo; ricominciavo; e mi ritrovavo con le mani vuote.

Fu così che mi rivolsi ai sapienti. Insegnavano nelle Università ed alcuni studiavano l’uomo e la natura e la realtà proprio da anni.

Essi scopersero, con mia viva sorpresa, che io ero un “filosofo”, “un filosofo un po’ strano, forse”, diceva uno di questi, “fra l’ingegnere e l’artista”. Generosi e cordiali si interessarono a me. Ci fu persino chi mi offerse di diventare dei loro.

Ma dovevo studiare. La mia ricerca era una faccenda di concetti e di essenze, di generali e di particolari, di definizioni.

Ed io studiai. Leggevo e leggevo.

Intanto la carta da musica restava bianca, le mani arrug­ginivano lontano dalla tastiera; ed anche le opere d’Arte comparivano sempre più di rado nel nuovo orizzonte.

Imparai invece che noi “conosciamo” le cose, e che in ogni conoscenza c’è un “oggetto” e un “soggetto”. E vero che per certuni c’era soltanto l’oggetto, ma poi essi si affrettavano a dividerlo nell’oggetto e nella coscienza dell’oggetto, che non era proprio l’oggetto, ma un prodotto dell’oggetto; e per certi altri c’era soltanto il soggetto, ma poi anch’essi si affrettavano a dividerlo nella coscienza, o spirito, o Io, e nel contenuto della coscienza, che non era proprio il soggetto, ma un prodotto del soggetto. Sicché quella distinzione in qualche modo veniva sempre ricordata. Altrimenti, dove sarebbe andato a finire il conoscere?

Fu la mia più grande scoperta, caro Massimo, e mi sentivo un uomo nuovo. Tanto più che quelle erano anche le parole degli scienziati, quelli delle grandi scoperte ed invenzioni di tutti i tempi. Come mai nelle nostre discussioni non ci avevamo pensato? Ma ignoranti musicastri eravamo.

Ora si dovevano chiarire le cose. Non avevo potuto trovare l’Arte, così senz’altro, perché l’Arte è un fenomeno soggettivo, un prodotto dello spirito, ed io certamente vi avevo mescolato l’oggetto; oppure non avevo potuto trovare l’Arte, così senz’altro, perché l’Arte è un fenomeno oggettivo, ed io certamente vi avevo mescolato il soggetto. Sfido io! mi mancava la distinzione.

Ma ora, tenendola ben presente, avrei di sicuro raggiunto il mio intento e soddisfatta la mia curiosità: avrei saputo che cosa è l’Arte.

Quando mi accorsi che in quell’insegnamento mancava qualcosa.

Vi si parlava sì dell’oggettivo e del soggettivo, ma non si indicava insieme il criterio per decidere quello che spettasse all’uno e quello che spettasse all’altro. È come se ti dessero un forziere senza la chiave. Proprio su questo, anzi, Locke, Berkeley e Kant (pensa, nomi grossi, come fra noi Bach, Mozart e Beethoven) avevano discusso senza riuscire a mettersi d’accordo.

Avrei discusso anch’io. Ormai ci avevo già perso troppo tempo perché potessi tirarmi indietro.

Fu così che tornai ad applicare il mio vecchio sistema, questa volta all’oggettivo ed al soggettivo.

Ecco là un oggetto, dicevo; e ne ero affatto sicuro: il tavolo, la penna, l’amico, la musica od il quadro, etc. Vediamo che cosa lo fa un oggetto. Lo avrei sviscerato nelle sue caratteristiche e ne avrei sviscerato le caratteristiche. Mi ero dato anche a studi di matematica, di fisica e chimica, di biologia e psicologia e sociologia, perché nulla potesse sfuggirmi. Un inventario della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, in quegli anni, credo mi avrebbe incluso fra i pezzi, come i banchi ed i paralumi verdi.

Per la seconda volta dovevo sfregarmi gli occhi.

Assolutamente nulla che assomigliasse nemmeno alla lontana a quello che stavo cercando.

Quanto al soggetto poi! A scanso di possibili equivoci prendevo me come soggetto. Io almeno sarei stato un soggetto. La caratteristica del soggettivo l’avrei dunque cercata su me. E analizzavo. Pazzie, Massimo, pazzie. A parte una certa impressione che l’io si tramutasse in oggetto al primo accostarmici, dovevo tenere e scartare qualcosa di lui. Ma lo scartato dell’io come avrebbe potuto non essere anch’esso soggetto?

Rimpiangevo persino i nostri contrappunti a sedici parti.

Tu mi dirai che ero stato sciocco a tornare al vecchio sistema.

Gli è che dal mio giro di studi avevo portato a casa ben poco per sostituirlo. E sì che le metodologie, e le logiche della ricerca, e persino le semantiche ormai avevano per me ben pochi segreti.

Da principio sembrava che un metodo sicuro, un sistema garantito lo avessero trovato. Si trattava di prendere tanti esemplari di una certa cosa, supponiamo l’Arte, l’Economia, lo zolfo, il numero, etc., e di vedere quale caratteristica possedessero tutti in comune, e quali caratteristiche differissero invece nell’uno e nell’altro. Prendi e scarta, “induci” e “astrai”, dicevano; e la caratteristica che ti rimane è quella buona: è, cioè, l’essenza dell’Economia, dello zolfo, etc. Senonché, dopo un certo tempo che tutti facevano così, fieri e contenti dei più fortunati successi, si erano accorti che quel procedimento non era adoperabile. Per prendere gli esempi avrebbero dovuto sapere sin da prima quale era la caratteristica della cosa cercata.

Sembrava la storia del contadino toscano. Non la sai? Un contadino di Toscana da anni prediceva all’alba il tempo della giornata, con tanto successo che dai dintorni ognuno che dovesse far lavori nei campi a lui ricorreva. Vecchio, si temette portasse con sé il suo segreto. Così il Sindaco del paese lo andò a trovare. Quel segreto sarebbe rimasto gelosamente custodito sino alla sua morte; ma lo dicesse, in nome del paese. Ed il contadino comprese, parlò e mostrò. In una nicchia teneva un mattone. Lo guardava e prediceva. Il segreto era tutto lì, e non lui lo aveva scoperto. Lo aveva appreso leggendo Il Giornale della Provincia, tanti anni addietro ormai, in cui era scritto: “Il tempo si vede dal mattone”.

Ma alla fine, Massimo, non sapevo se ridere o piangere. L’entusiasmo per la nostra musica, così sconsideratamente trasferito, non l’avrei ritrovato mai più. E di qui il senso del fallimento, perché non c’era alcunché che io onestamente potessi proporre.

Dal di fuori dovevo sembrare il baco da seta che, mentre tutti gli altri hanno già chiuso il bozzolo, vaga ancora col capo svogliato. Vagavo fra i libri e le Scuole e le lingue, anche se con una speranza che era sempre minore.

E allora, quelli che avevano chiuso il bozzolo?, tu mi chiederai.

Non so se riuscirò a spiegarti, o a farmi credere, Massimo. Mi ero convinto che quelli cercavano tutt’ altra cosa da quella per cui io mi ero mosso. Quelli non erano stati spinti tanto, prima dal desiderio di sapere una cosa, e poi dal puntiglio di sapere una cosa, quanto dal desiderio o dalla convenienza di fare un discorso su una cosa.

Importante per loro era il giustificare il discorso, non il trovare la cosa cercata. Così ne spiegavo anche le mosse.

Per esempio, una loro dichiarazione iniziale. Nel caso di certe parole, essi facevano il linguaggio responsabile di tale equivocità e vaghezza ed ondeggiamento, da escludere addirittura la possibilità di individuare le rispettive cose nominate. Questa era una giustificazione del loro successivo operare! Perché, da quale fonte mai avrebbero essi ricevuta una simile informazione, se non dall’individuazione stessa di queste cose, di cui escludevano invece la possibilità? A parte il quotidiano intendersi degli uomini con quelle parole, che fa proprio supporre il contrario; a parte che basta guardare come si insegna e si apprende a parlare, per accorgersi che l’impiego di una parola si trasmette presentando insieme ciò che deve essere usato come parola e ciò che deve essere usato come cosa nominata, affinché siano poi ripetuti insieme, sicché, anche se la presentazione della cosa nominata dovesse cambiare ogni volta, il loro rapporto si sarà comunque fissato su un numero finito di presentazioni e quindi di cose nominate; a parte infine anche il mio orecchio di musicista! che mi assicurava proprio del contrario.

Povere innocenti parole. Dopo la condanna del linguaggio, esse non venivano più studiate nel loro significato, ma imbrigliate, a piacere del proponente, con altre parole (tecnica dei formalisti, assiomaticisti, logicisti, etc.). E povere innocenti cose nominate. Dopo la condanna del linguaggio, esse non venivano più studiate dedicando loro nuove analisi, ma riprese dai discorsi, e quindi da un precedente sapere degli altri (tecnica degli analisti oxoniensi).

Doveva essere proprio così, se qualcuno, anzi molti ormai, scrivevano grossi volumi, non per presentare quello che avevano cercato e trovato, ma per decantare l’impossibilità del cercare e del trovare.

Con me era invece il caso di dire: “curiosità punita”.

Furono anni di giorni neri, Massimo. Persino una tardiva chiamata alle armi, dandomi la tranquillità di un mestiere riconosciuto, giunse gradita.

La prima schiarita avvenne al ritorno dalla guerra.

Chiacchieravamo con un amico che anche tu conosci, Adriano, biologo. Egli mi raccontava di un loro collega che, dopo aver sostenuto di osservare questa o quella parte dell’organismo, l’occhio per esempio, “naturalmente” subordinata al tutto, passava a chiedere come “naturale” subordinazione quella dell’individuo alla società.

Cose non nuove anche per te, Massimo, che della storia delle scuole elementari ricorderai almeno l’apologo di Menenio Agrippa.

Ma, nonostante tanto precedente, noi ci sentivamo dubbiosi, e di un dubbio che investiva, nota, sia quel discorso che il contrario di quel discorso.

E ad un tratto qualcosa mi si sciolse dentro.

Quel signore diceva di avere “osservato” quanto sosteneva. “Osservato” dunque un uomo, l’occhio, il fegato, tanti uomini, ed “osservato che l’una cosa era una parte e che l’altra era un tutto”. Ma come poteva aver osservato” qualcosa di simile, se l’uomo una volta figurava come un tutto, quando si parlava dell’occhio, ed un’altra come una parte, quando si parlava della società?

Dunque, dunque!

Non certo alla stessa maniera in cui aveva “osservato” che qualcosa era l’occhio od il fegato o l’uomo, cose nominate, sicuramente non intercambiabili fra loro sotto lo stesso nome.

L’individuazione doveva essere dunque avvenuta in due modi differenti. E non era difficile distinguerli. O meglio, l’individuazione avveniva sempre nello stesso modo. Ma qui eravamo di fronte ad un caso di attribuzione. Una cosa più sottile.

Quando noi di qualcosa diciamo che essa è questo o quello, ciò che diciamo può avere una duplice provenienza.

a) Diciamo che essa è tale in seguito a qualche caratteristica che già la costituisce; o

b) Diciamo che essa è tale in seguito a qualche attività che noi svolgiamo nei suoi confronti.

Ti illustrerò la distinzione con qualche esempio.

Osserva quanto ti presento ora qui:

 

 

 

 

Ti sarai già detto che è una macchia. L’hai riconosciuta come tale in seguito alla forma ed alla differenza di colore dal bianco del foglio, od in seguito a qualcos’altro, e soprattutto in seguito a tutte queste cose. In questo modo sei giunto a dire di essa che è una “macchia”, od anche, analizzando ciò che già hai costituito, che essa è “rotondeggiante”, “nera”, etc.

Nel dire ciò tu hai seguito la strada cui si è alluso in a).

Ma ora tu puoi procedere anche in un altro modo. Puoi per esempio mettere la macchia in rapporto con lo scritto che la precede “Osserva quanto ti presento ora qui”, oppure con lo scritto che la segue, “Ti sarai già detto che è una macchia”, in rapporto, per il posto che la macchia e questo scritto occupano nel foglio di carta, a te che li stai osservando. Sinora forse tu non stavi nemmeno pensando di usare quelle cose in questo modo, ma ora che te l’ho chiesto forse lo hai già fatto. Per farlo hai iniziato un certo movimento con gli occhi o la testa, per esempio dall’alto in basso, incontrando prima “Osserva quanto ti presento ora qui”, poi la macchia, ed infine “Ti sa­rai già detto che è una macchia”.

Osserva quanto ti presento ora qui:

 

 

 

 

Ti sarai già detto che è una macchia.

Per cui ora volendo indicare ciò che alla macchia viene a spettare in seguito a questo tuo movimento, potrai dire che la macchia è “sotto” lo scritto “Osserva quanto ti presento ora qui”, oppure è “sopra” lo scritto “Ti sarai già detto che è una macchia”, od anche che essa è “in mezzo” ai due scritti.

Allora, nel dire tutto ciò, tu hai seguito la strada cui si è alluso in b).

Avrai già capito l’importanza del tener distinte le due strade, ed anche a quali conseguenze va incontro chi le confonde.

Perché invano, tu cercherai fra le caratteristiche della cosa nei cui confronti tu svolgi una certa attività quanto le attribuisci per aver svolto nei suoi confronti quella attività.

Seguendo il nostro esempio della macchia, invano tu cercherai nelle caratteristiche per cui dici di quella cosa che essa è una “macchia” o “rotondeggiante” o “nera” le caratteristiche per cui dici che essa è “sotto”, o “sopra”, o “in mezzo”.

E proprio tanto più ti sforzerai di osservare su quella cosa, così individuata e distinta per esempio nello spazio e nel tempo, le caratteristiche del secondo tipo, e tanto meno ti sarà dato accorgerti dell’attività che svolgi, anzi ormai devi dire dell’attività che svolgevi, nei confronti di quella cosa, ed alla quale queste caratteristiche sono dovute. Ti voglio portare un esempio del mondo a noi familiare. Prendi una nota musicale. Sarebbe come se tu ne cercassi il suo aspetto, valore, caratteristica di tema mentre la analizzi o per l’altezza, o per l’intensità, o per la durata, etc. Soltanto il metterla in rapporto con qualcos’altro, non fosse che il silenzio che la precede o la segue, può aggiungerle lo stato di tema.

Quel biologo non si era accorto di attribuire al corpo umano, con la sua attività di correlatore, la caratteristica di essere ora una parte ed ora un tutto. Pensava invece di stare osservando anche questo, allo stesso modo in cui osservava per esempio l’occhio, distinguendolo per forma e colore, etc., dal fegato o dai reni, o dalle ossa che ne formano l’orbita. Ed anch’io, sciocco, mi ero messo a cercare l’Arte nelle caratteristiche osservative di questa o quella cosa.

Mi affrettai a distinguere dunque più specie di proprietà. Parlai di proprietà osservative, di proprietà da correlazione, e di proprietà da atteggiamento. Queste ultime: presenti in quanto si rompe qualcosa in osservato ed osservatore, rompendo poi anche questo osservatore nuovamente in osservato ed osservatore, ed attribuendo infine il risultato della seconda osservazione al primo osservato. In queste ultime proprietà mi era riuscito di collocare la tormentata Arte, o meglio l’atteggiamento estetico, momento preliminare all’accettazione o rifiuto estetico di qualcosa come Arte o non-Arte.

Cominciò allora la caccia alle proprietà da correlazione. Andavo a vedere sotto ad ogni parola, che avesse dato fastidio nella storia delle individuazioni e delle definizioni, se per caso non vi si nascondesse qualche proprietà da correlazione, cercata invece come differenza individuante qualcosa nello spazio o nel tempo.

Già all’inizio un bottino fortunatissimo furono i famosi concetti, universali, idee, leggi descrittive, ed i non meno famosi particolari, copie, fenomeni. Trovai che essi altro non erano se non l’usare, i primi, non importa quali cose come termini di confronto, come modelli, ed i secondi, non importa quali cose come cose confrontate. Le cose così correlate acquistavano proprio le proprietà antitetiche che non soltanto Platone, ma tutti noi ogni giorno sentiamo proprie dei concetti e dei fenomeni: le proprietà che hanno, i primi, di non cambiare, di avere un numero finito di proprietà, etc., i secondi, di cambiare, di avere un numero indefinito di proprietà, etc.

Ed infine, perché continuare a parlare sempre di proprietà? Si poteva benissimo considerare l’attività correlatrice per conto suo; non soltanto, ma anche descriverla mediante una sua analisi in altre attività.

Anzi, una volta fatto l’orecchio ad isolare le attività, e la mano ad analizzarle, non era difficile scovarle anche fuori dalle correlazioni.

Fu un’orgia di attività. Ti ricordi Gioacchino Rossini? Cadeva per terra un piatto. E, mentre i familiari protestavano contro la sorte o il servo, egli gridava giulivo: “do, mi, si bemolle!”. Quando il mascalzoncello non tirava addirittura un sasso contro qualche vetro, per sentirsi uno squillante “do diesis, la, fa,”. Così io ora scioglievo in attività per esempio il tempo e lo spazio, il numero, il punto, la superficie, la linea, la causa e l’effetto, etc.

Quando affrontai i valori, a mostrare la loro provenienza da una correlazione fu la volta del buono e del cattivo, e prima di questi dell’etica, e fu la volta del giusto e dell’ingiusto, e prima di questi della giustizia. Tanto che qualcuno, di poca fiducia nella bontà degli uomini, se ne sentì la coscienza turbata.

La lista delle attività individuate ed analizzate così si accrebbe, e due o tre cose mi apparvero sempre più chiaramente.

Anzitutto che quelle attività che io venivo mettendo in luce avevano tutte qualcosa di comune. Anche se per il momento a colpire era una loro caratteristica più negativa che positiva. In esse non si usavano mai, né prendendoli isolatamente, né prendendoli insieme, i termini di una differenza.

Che cosa sono queste differenze e questi termini?

Ecco. E sempre una stessa attività che ci permette di dire sia “luce” e “buio” sia “oscurare” e “illuminare”: “luce” e “buio”, quando i termini della differenza sono considerati singolarmente; “oscurare” e “illuminare”, quando i termini sono considerati uno dopo l’altro, ma insieme, cioè come una stessa cosa.

Si tratta dell’attività del differenziare, da cui abbiamo poi tutte le cose fisiche e tutte le cose psichiche, quando ai termini della differenza tu aggiunga, per ottenere le cose fisiche, una localizzazione spaziale, e, per ottenere le cose psichiche, una localizzazione temporale. In quelle attività che venivo mettendo in luce, appunto, mai figurava un risultato dell’attività del differenziare.

La loro caratteristica positiva mi si rivelò molto più tardi. Ma non occorreva venisse esplicitamente individuata per far sentire, già a questo stadio della ricerca, che ci si muoveva qui in una sfera ben distinta da secoli come cosa nominata unica, cioè chiamata con un unico nome, la sfera del “mentale”, la sfera del “logos”. Soltanto, essa era sempre rimasta inviolata, perché le attività che io venivo mettendo in luce non erano state riconosciute come attività, ma configurate invece come sfigurati enti, costretti a rassomigliare alle cose fisiche e psichiche senza però averne alcuna caratteristica. Taluni poi, alle prese con le parole che designano certe attività mentali, per non aver fastidi, avevano tagliato corto, asserendo che a queste parole non corrispondeva alcuna cosa nominata: flatus vocis! Un asserzione altrettanto contraddittoria di quella di chi venisse a raccontare di una musica senza suoni e senza pause.

Ma ciò che più mi sorprese fu il trovare, quando il numero delle concordanze non poté più lasciare dubbi, che tutti i problemi che hanno ricevuto e conservato un posto nella storia della filosofia e della scienza e tutte le asserzioni che hanno ricevuto e conservato un posto nella storia della metafisica avevano la loro origine nella confusione che ti ho denunciata, e nella quale anch’io ero caduto: i problemi filosofici, in quanto si tenta di individuare ed analizzare e descrivere una attività mentale in termini di proprietà di cose fisiche e psichiche; le asserzioni metafisiche, in quanto si attribuisce a qualcosa di fisico o di psichico, come sua proprietà costitutiva, ciò che proviene soltanto dallo svolgere nei suoi confronti un’attività mentale.

Per cui, quando poi la descrizione fallisce e la proprietà non si mostra costitutiva, si fabbricano i “sistemi”: rispettivamente, per giustificare, cioè far riuscire, il fallimento, e per dimostrare, cioè dedurre, ciò che non si è mostrato.

Gli altri problemi e le altre asserzioni, comunque nascano, finiscono o prima o poi nella tecnica, che di volta in volta li risolve, o ne prospetta le soluzioni, o ne migliora le soluzioni; sicché, anche se il loro inizio è stato verbale, o prima o poi fluiscono in qualcosa, possiamo dire, che si vede e si fa.

Vuoi che ti racconti un caso alla buona, per te, di problema filosofico-scientifico? Assisterai ai filosofo alle prese con il “bis”.

La storia comincia con una scenetta in trattoria. Un avventore sente il vicino di tavola chiedere un “bis”, e gli vede arrivare sul piatto una bella bistecca. “Ah!” si dice “‘Bis’ vuol dire un pezzo di carne così e così, cotto così e così”. Continua a teatro. Alle grida di “bis”, un certo pianista Massimo si inchina, sorride, alza le code del frac, ed attacca la terza ballata di Chopin. “Toh!” si dice il nostro avventore “Mi ero ingannato. ‘Bis’ vuoi dire semplicemente una cosa buona e bella, qualcosa di gradito, che piace”. Ma ora il brav’uomo sta leggendo il giornale, ed un titolone lo informa del “Bis dell’incidente sul rapido Milano-Parigi. Cinquantadue morti.” “Che gusti, che gusti!” mormora. E non capisce più niente.

Vuoi sapere che cosa ci sta sotto quel “bis”? Una ripetizione ed il porre un’eguaglianza: attività mentali. Niente carni cotte o crude, niente musiche piacevoli o spiacevoli, niente ferri contorti di rotaie e vagoni, e corpi smembrati.

Ora ti cerco qualcosa di più allegro per una rappresentazione del metafisico.

Pensa a due persone, che stanno sedute ai lati opposti di un tavolo. Sul tavolo sono posati due piattini, l’uno rotondo e l’altro quadrato, il tutto disposto come vedi qui:

 

persona

 

piatto

rotondo

piatto

quadrato

 

persona

 

 

Ognuna delle due persone deve cercare di precedere l’altra nel fare, su comando di una terza, la stessa cosa ai piattini. (Il gioco è un po’ infantile, ma anche questo ti aiuta a comprendere come gli adulti possano perdersi.) “Prendere il piatto rotondo!”, “Rovesciare il piatto quadrato! ”, etc. Finché giunge il comando “Mettete il dito sul piatto a destra!” Com’è, come non è, le due persone si trovano col dito, l’una sul piatto rotondo e l’altra sul piatto quadrato; ed al primo momento leggerai sulle loro facce come ognuna di esse pensi che c’è stato uno sbaglio, che una delle due ha sbagliato nell’individuare il piattino o nel comprendere il comando. Poi sorrideranno. E sarebbe certamente grave se si mettessero a discutere, pretendendo che soltanto l’una delle due abbia ragione, col richiamarsi per esempio alle proprietà geometriche del quadrato e del cerchio. Perché allora si ritroverebbero nella situazione in cui si erano cacciati Talete, Anassimandro ed Anassimene. Li hai sentiti nominare, ma non ti ricordi che cosa hanno fatto? Ognuno di essi svolgeva nei confronti di qualcosa certe attività correlatrici, in seguito alle quali quella cosa si trovava ad essere fatta un principio, una causa, una origine, in breve, come dicevano loro, “arché”. Il bello è però che, se le operazioni mentali erano le stesse, ogni volta cambiava la cosa nei cui confronti esse venivano svolte. Chi ci metteva l’acqua, chi il fuoco, chi l’aria. E poi ognuno pretendeva di aver ragione, appellandosi alle proprietà che oggi diremmo fisico-chimiche dell’acqua, del fuoco, dell’aria.

Otto anni, dunque, io avevo perduti per riuscire a capire che, quando parliamo di qualcosa in un certo modo, non sempre è perché ne predichiamo qualche caratteristica isolata fra quelle con cui già abbiamo costituito quella cosa, ma talvolta è anche perché inseriamo quella cosa come correlato in una certa correlazione, o semplicemente perché svolgiamo nei suoi confronti una qualche attività.

Trattenendo a stento un “Che sciocco!”, tu sarai comunque stupito di come ciò mi fosse potuto accadere, e di come nessuno dei sapienti consultati mi avesse posto sull’avviso. Diamine! Non si tratta mica di qualcosa che per vedere bisogna andare sull’altra faccia della luna. E una faccenda che ci riguarda piuttosto da vicino e che basta un minimo di attenzione per controllare su di noi ad ogni momento.

Eppure, Massimo, quando nel corso delle mie analisi della varie attività, ad un certo punto, potei rendermi conto di che cosa ostacoli l’affiorare di questa elementarissima consapevolezza, compresi che soltanto un caso, un miracolo, diciamo, se vuoi, può liberare l’uomo che una volta sia caduto nel diabolico circolo destinato a nascondergliela.

La storia comincia con una ingenuità da bambini.

Anche tu avrai notato come noi usiamo quali parole sempre un piccolissimo numero di suoni o grafie, quelli dell’alfabeto (e persino in cinese avviene la stessa cosa, anche se un vero e proprio alfabeto in quella lingua non c’è). “Sopra tutte le invenzioni stupenda... parlare.., con i vari accozzamenti di venti caratteruzzi”, diceva Galileo.

Abbiamo scelto, come materiale da usare per le parole, i suoni e le grafie perché sono sempre a portata di mano, perché, come cose osservative, si trasmettono a distanza e perché si producono e distinguono su qualcosa che rimane relativamente costante, che serve loro da sfondo, e per tanti altri motivi.

Per formare le parole ci serviamo sempre e soltanto di quei pochi suoni e grafie, che cerchiamo poi di non impiegare mai per altri scopi, sia perché con la continua ripetizione si impara a produrli decentemente ed a riconoscerli subito, sia perché al trovarli non rimanga dubbio se il loro produttore li volesse presentare come musica e disegno o come linguaggio.

Ma tutto questo ha avuto una conseguenza, ben comprensibile fra l’altro, se pensi che noi si apprende a parlare proprio in quei primi diciotto mesi di vita in cui ci sono tante cose nuove da fare che non avanza il tempo per rifletterci sopra. Si può ben finire con il credere che quei suoni siano di per sé parole, cioè svolgano una funzione espressiva ed indicatrice, non perché in presenza loro noi passiamo a fare la cosa nominata che vi abbiamo fatta corrispondere, ma proprio in seguito alloro essere fatti così, come suoni (allo stesso modo che certi suoni, perché fatti così, per esempio di quel timbro ed altezza, ci piacciono o ci dispiacciono). Ed allora si avrà anche che altre cose sono di per sé cose nominate.

Pazzie, dirai tu. Ma ai primordi della speculazione greca troviamo proprio una situazione di questo tipo; benché, naturalmente, arruffata e confusa.

Per cui, quando i primi speculatori cercano di raffigurarsi il rapporto che sussiste fra le parole e le cose nominate, essi sono distratti da quel nostro passaggio, fra non importa quale cosa e non importa quale altra cosa, purché mentre si fa la seconda si continui in qualche modo a rappresentarsi la prima, passaggio che fa della prima una cosa nominata e della seconda una parola. Si raffigurano invece questo passaggio nostro con il passaggio di una terza cosa, che, con funzione informatrice, si staccherebbe dalle cose nominate per andare ai parlanti, o si staccherebbe da questi per andare a quelle. Ti faccio uno schizzo di questo modo di vedere le cose:

 

                 parlante | -----   < ---------  | cose nominate

oppure:

                parlante | -------- >   ------- | cose nominate

 

La terza cosa che passa diventò quelle eidola, effluvi, particelle, etc., di cui certo ricorderai di aver sentito parlare.

Spiegato in questo modo il rapporto fra le parole e le cose nominate, ora bisognava però spiegare il rapporto della terza cosa introdotta con le cose nominate e con il parlante.

Per fortuna ci si limitò a fornire al messaggero dell’informazione una specie di canale, ricavandolo dai sensi, e si lasciò oscuro dove mai sfociasse nella testa.

Socrate coprì questa situazione con il nome di “conoscere”, quale attività o passività con cui l’uomo entrerebbe in contatto con le cose.

Anche se il nome non fu sufficiente a tacitare le varie difficoltà introdotte con quella spiegazione.

Per esempio, tanto per ricordare di queste difficoltà quella che, in ricordo di Socrate, chiameremo la teetetiana: come si fa a sapere che la cosa che mi arriva rappresenta proprio quell’altra cosa? Anzi, come si fa a sapere che la cosa che arriva presenta qualcos’altro, e non si presenta invece in tutta autonomia? Perché, tu capisci, presenti insieme le due cose non saranno mai.

La conseguenza di questa spiegazione conoscitiva, la conseguenza in cui ero incappato io, proviene dalla limitazione che l’introduzione del conoscere impone a tutte le cose nominate.

Queste, per poter essere il posto di partenza, o di arrivo, ed il momento di partenza, o di arrivo, della cosa che si muove informatrice, dovettero tutte trovarsi in un qualche posto, là separate dalle altre cose in quanto di per sé distinte da queste, e dovettero tutte trovarsi in un qualche momento, compiute in tutte le caratteristiche che le differenziano da ogni altra cosa, quando da esse si stacca, o quando le incontra, la cosa che si muove informatrice.

E così, addio attività! Sia perché le attività non hanno come loro proprietà costitutiva alcun posto, sia perché le attività abbisognano almeno di due momenti per costituirsi.

Per renderti conto che le attività non possiedono di per sé alcun posto, rappresentati per esempio questa situazione che ti è familiare. Ecco qua un piatto e le posate, e vari bocconi, la bocca di Massimo, ed il mangiare. In un certo posto, occupanti la loro porzione di spazio, ed in questo distinti dall’ambiente che li circonda, troverai il piatto e le posate ed i bocconi, nonché la bocca, od il Signor Massimo, che potrai anche spostare, se vuoi; ma non il mangiare! Il mangiare non ha un confine che lo separi da qualcos’altro. Il confine lo ha soltanto il boccone che mangi, o Massimo che mangia; ma non mai il mangiare.

Le attività non poterono più figurare fra le cose conosciute e nominate. Si dovettero considerare finzioni linguistiche, opponendo la “finzione linguistica” (entrambe parole alle quali si dette così una nuova accezione, conoscitiva) alle “cose reali”, cioè alle cose localizzate nello spazio e nel tempo e là conosciute (dando così anche alle parole “cosa” e “realtà” una nuova accezione, conoscitiva).

Dalla strage delle attività si salvarono soltanto quelle che le lingue avevano nominate con i verbi, la categoria grammaticale che permette di designarle come correlati nella correlazione in cui esse si inseriscono assieme ai soggetti od agli oggetti. Trovarono rifugio presso un soggetto od un oggetto scelti fra le cose fisiche o psichiche, che con la loro localizzazione nello spazio o nel tempo diedero ad esse il sostegno della realtà conoscitiva.

Ma alla strage soggiacquero tutte le attività usate come elemento correlatore nelle correlazioni: perché esse non apparivano nella categoria grammaticale del verbo, bensì nelle categorie che designano le loro diverse funzioni nel discorso, cioè come preposizioni, congiunzioni, etc., e soggiacquero tutte le attività che si trovano accoppiate sotto un unico nome con le cose nei cui confronti esse si svolgono.

E qui giungiamo al diabolico circolo.

Fra le cose nominate non con un verbo e contenenti attività troviamo quelle che si chiamano “parola” o “simbolo”, e “cosa nominata” o “simbolizzato”.

Ed il circolo tu lo hai già capito. Per poter rendersi conto di che cosa è una parola ed una cosa nominata, e non cadere nella svista greca che ha dato luogo al conoscere, bisogna poter ammettere le attività (quel passare che noi facciamo da una cosa ad un’altra, rappresentandoci la prima mentre stiamo facendo la seconda). Ma per poter ammettere queste attività, bisogna rendersi conto che non è il conoscere (cioè qualcosa che passa fra le cose nominate ed il parlante) che determina il rapporto fra le parole e le cose nominate. Vedi che scherzo!

Ricordi quanto si raccontava di Hitler e del Rabbino: ai tempi in cui ad Hitler faceva gola l’Inghilterra, protetta dal suo Channel, Hitler voleva sapere dal Rabbino come Mosè avesse fatto ad aprire le acque del Mar Rosso. Rispose il Rabbino: “Con una bacchetta magica”. “Esiste ancora questa bacchetta?” chiese Hitler ansioso. Ed il Rabbino: “Sì, esiste ancora”. Il cuore di Hitler si riempì di speranze, mentre fingeva di barattare la bacchetta con la vita degli ebrei: “Dove, dove si trova questa bacchetta?”. La bacchetta era a Londra.

Beh, mi era andata bene. Ed un giorno forse mi deciderò a scrivere il diario, o le memorie, di uno scampato dal conoscitivismo, a salvaguardia di tanti poveri infelici.

Ora deve esserci però una domanda che ti sta da non poco a cuore: ed alla quale devo rispondere. Perché mai abbia mandata questa lettera a te; tanto più che se anche tu, come me ed i sapienti, saresti caduto in quella confusione, in quella svista, al toccare le nascoste attività, tu non hai alcun bisogno di toccarle e vivi egualmente in pace. Perché, dunque, non l’ho mandata ad un filosofo?

Almeno per due motivi, Massimo.

Il primo è perché la volevo mandare proprio a te, in ricordo della nostra musica.

Senza la raffinata abitudine di ascoltarsi, di seguire il nascere e lo svolgersi di un tema, che acquista il compositore, senza quel particolare modo di ascoltare le voci isolatamente, che ci fa ascoltatori e compositori di musica polifonica, io non credo che sarei mai riuscito a sentire le attività, che in fine isolai, misi in luce e descrissi, con tanta violenza da opporre questo mio sentire a tutte le contrarie convinzioni trasmesse dalla secolare pressione conoscitiva che costringeva a raffigurarsi quelle attività come altrettanti enti, i famosi enti di cui ti ho parlato, assomiglianti alle cose fisiche o psichiche, o persino ad un loro ibrido, senza poterne avere alcuna delle caratteristiche. La musica è stata forse responsabile del mio primo ingenuo filosofare, ma è stata alla fine anche la mia salvatrice.

L’altro motivo riguarda il filosofo.

Il filosofo si sarebbe dispiaciuto.

Come potrebbe gradire che gli si racconti che, in fondo, il suo mestiere è basato su una confusione, su una svista? Il mestiere ne esce tutt’intero svilito. E tu sapessi invece come l’hanno circondato di riverenza.

Il mio racconto equivale poi a rinfacciargli che in tanti an­ni, che dico, secoli, egli di quell’imbroglio iniziale non si è mai accorto. Lo riteneva anzi la prova della profondità dell’uomo, dell’Uomo; fiero persino di essere un ricercatore mancato pur di essere il portatore di tanto Problema: Philosophia Perennis. Ma come potrebbe essere questo possibile, se il filosofo, almeno sin dall’epoca di Descartes, si va proclamando il più dubitoso fra i dubitosi, il più fondante fra i fondanti, il più critico fra i critici?

Il filosofo si sarebbe dispiaciuto anche per ragioni pratiche. Ora ti spiego. Ma tu assecondami. E non raccontare troppo in giro queste cose.

La confusione fra i due tipi di attribuzione permette da millenni un florido commercio, in quanto i risultati di una attività svolta nei confronti della cosa che riceve l’attribuzione sono ridotti ai risultati di una analisi delle proprietà costitutive della cosa che riceve l’attribuzione.

Tutte le caratteristiche attribuite ad una cosa diventano infatti del tipo di quelle con cui si è costituita la cosa, per esempio il rosso e l’acido ed il basico alla stessa stregua del buono e del cattivo, del giusto e dell’ingiusto, del naturale e dell’innaturale. Capisci? Poter dire con la stessa convinzione “quello è giallo”, “quello è verde” e “quello è bene”, “quello è male”. Quale Capo di Stato e quale padre di famiglia rinuncerebbe a servirsi di tanto strumento di persuasione? Il moralista, sia in veste politica che religiosa, ha così un forte interesse ad allevare i distributori del conoscere e della limitazione che ne segue, e permette tutto questo. Sul mercato vi è dunque richiesta di filosofia, ed il filosofo può acquistare il suo valore economico.

Infine, mi sono dovuto convincere che ad alcuni piace proprio un cercare che non conclude, la ricerca che rimane indefinitamente sospesa. Così il poeta: “Amo solo le rose che non colsi”. Come ad alcuni piace il linguaggio irriducibilmente metaforico che rende inconfondibile la descrizione conoscitiva di una attività. Quella metaforicità permette di prendere le parole come punto di partenza per i più personali itinerari di significato. Qui il poeta direbbe forse che “qualcosa soffia nel fuoco dei ricordi e delle speranze”.

Ma soprattutto il filosofo non potrebbe mai perdonarmi il tono scherzoso, il sorriso. “E tu” mi dirai “perché ci scherzi con quelle cose?”.

Ti assicuro, Massimo, non è per una critica che si evolve secondo la scala dei valori di quel tale che ne voleva quale primo grado il discorso, quale grado maggiore il silenzio, e quale grado sommo il sorriso.

La storia della svista, della confusione, dell’introduzione greca del conoscere, non mi interesserebbe come oggetto di critica se non perché devo proteggere il mio studio della mente dell’uomo, del suo pensiero e del suo linguaggio.

Ma proprio di non essermi portato dietro quel conoscere, il discorso sorridente è la più sicura prova; è la prova che posso parlare della mente dell’uomo avendo dinanzi qualcosa che rimarrebbe così anche senza il discorso, “vedendo” qualcosa! (E non pensare che quel “vedere” sia quello dell’estrospezione o dell’introspezione conoscitivizzante del filosofo: è quello del fare essendone consapevoli, è quello del “noein” prima che i filosofi se ne impossessassero.) Nel discorso con cui parla il filosofo, della mente di cui parla il filosofo, questo non sarebbe mai possibile, tanto l’inevitabile metaforicità rende in esso avulse ma inseparabili la descrizione e la cosa descritta. Il discorso sorridente diventerebbe leggerezza e futilità della cosa stessa di cui si parla; così come il discorso grave ne diviene la profondità!

Questa è l’unica cosa sottile che ti abbia scritto in questa lettera, Massimo. Non lasciartela sfuggire.

Il filosofo non può rendersi conto di quell’indissolubile legame, altrimenti sarebbe già uscito dalla tradizione conoscitiva e filosofo non sarebbe più. Ma ciò nonostante non può non avvertire l’incompatibilità del sorriso con il suo discorso. Qualcosa deve fargli male, al sentire parlare così. Ed io non voglio far del male a nessuno.

Ciao, Massimo. Salutami Adele.

Tuo Silvio

 

 

P.S.

Potrebbe anche darsi che quello che ti ho raccontato (sulle due provenienze di ciò che si attribuisce alle cose: da analisi delle caratteristiche con cui hai già costituita la cosa, o da attività che svolgi nei confronti della cosa), abbia sostituito per un momento l’artistica tua ispirazione con un’intelligente curiosità. E così ti stia chiedendo quale delle due attribuzioni intervenga quando ti parlano di un suono in termini di numero o di ampiezza delle vibrazioni. Non interviene né l’una né l’altra. Questa attribuzione appartiene ad un terzo tipo. La si fa indicando il funzionamento di qualcosa di fisico, che è messo in rapporto di organo e funzione con la cosa che riceve l’attribuzione. Roba, più che altro, da fisici. Tu continua a servirti del tuo ottimo orecchio.

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