La
Razionalità o la rAzionalità del Capitalismo
Cornelius Castoriadis
Da più di un decennio si sente ripetere un ritornello ammantato di scientificità: la società capitalista ha provato la propria eccellenza, la propria superiorità perché ha superato la selezione darwinania. È la forma che contiene in sé una indiscutibile efficienza rispetto a tutte le altre configurazioni socio-economiche. Il motivo? Semplicissimo: è razionale. Quindi il capitalismo è figlio legittimo della secolarizzazione. Chi, dunque, attacca e critica il capitalismo lo fa solo perché mosso da una fede, ma non dalla ragione. Un colossale falso storico e teorico che Cornelius Castoriadis (1922-1977) smonta in modo sistematico. Questo saggio verrà pubblicato nel volume edito da Elèuthera, La rivoluzione democratica. Teoria e progetto dell’autogoverno, curato da Fabio Ciaramelli. Di Castoriadis, filosofo, psicoanalista ed economista, sono stati pubblicati in italiano: La società burocratica (due volumi, 1978-19 79), Gli incroci del labirinto (1988), L’istituzione immaginaria della società (1995) e L’enigma del soggetto (1997)
Può sembrare strano
discutere ancora della «razionalità economica» del capitalismo contemporaneo
in un’epoca in cui la disoccupazione ufficiale coinvolge in Francia tre
milioni e mezzo di persone e più del 10 per cento della popolazione attiva nei
paesi dell’Unione Europea, e in cui i governi rispondono a questa situazione
rafforzando le misure deflazionistiche, come la riduzione del deficit di
bilancio. La cosa diventa meno strana, o meglio la stranezza si sposta, se si
considera l’incredibile regressione ideologica che colpisce le società
occidentali ormai da vent’anni. Cose che si ritenevano ragionevolmente
acquisite, come la critica devastante dell’economia politica accademica
portata avanti dalla scuola di Cambridge fra il 1930 e il 1965 (Sraffa, Robinson, Kahn, Keynes, Kalecki,
Shackle, Kaldor, Pasinetti, e altri), sono non già discusse o confutate, ma
semplicemente passate sotto silenzio o dimenticate, mentre invenzioni ingenue
e inverosimili, come l’«economia dell’offerta» o il «monetarismo», stanno alla
ribalta. Parimenti, i cantori del neoliberismo presentano le loro aberrazioni
come evidenze del buon senso, quando la libertà assoluta dei movimenti del
capitale sta rovinando settori interi della produzione di quasi tutti i paesi
e l’economia mondiale si trasforma in un casinò
planetario.
Questa regressione non si
limita al campo dell’economia. È altrettanto prevalente nel campo della teoria
politica (caratteristica della «democrazia rappresentativa», diventata
indiscutibile e indiscussa proprio nel momento in cui è sempre più svalutata
in tutti i paesi in cui ha un certo passato), e più
in generale nelle discipline sociali, come dimostra, per citare solo un
esempio, l’offensiva scientista e positivista contro la psicoanalisi che va per
la maggiore negli Stati Uniti da quindici anni a questa parte.
Lo sfondo storico-sociale di questa regressione è visibile a occhio nudo. Essa accompagna una reazione sociale e
politica in atto dalla fine degli anni Settanta, di cui i «socialisti» sono
stati in Francia i maggiori artefici e di cui per ora nulla lascia prevedere
la fine, tranne, in un avvenire vago e lontano, il carattere autodistruttivo
di questo nuovo corso del capitalismo. Ma neppure
questa prospettiva può offrire consolazione, perché è in gioco molto di più
del suicidio del capitalismo, come dimostra, fra l’altro, la distruzione
dell’ambiente su scala planetaria. L’analisi critica dell’evoluzione presente
diventa perciò ancor più necessaria. Ma non è
l’oggetto centrale di questo testo.
Il capitalismo è il primo
regime sociale che produce un’ideologia secondo cui esso sarebbe «razionale».
La legittimazione degli altri tipi d’istituzione
della società era mitica, religiosa o tradizionale. In questo caso, invece, si
pretende che esista una legittimità «razionale». Ovviamente questo criterio,
ossia quello di essere razionale (e non consacrato
dall’esperienza o dalla tradizione, dato dagli dèi o dagli eroi e così via), è
istituito precisamente dal capitalismo; ma avviene come se il fatto di essere
stato istituito molto recentemente, invece di relativizzare questo criterio, lo
avesse reso indiscutibile. Per poco che ci si pensi, non si può evitare la
domanda: che cos’è dunque la razionalità, e quale razionalità? Il capitalismo
potrebbe far ricorso a un certo hegelismo: la ragione
è l’operazione conforme a uno scopo, diceva il vecchio maestro di Karl Marx.
Sarebbe quindi la conformità dell’operazione al proprio scopo il criterio
della razionalità. In questo modo non potremmo più chiedere: che ne è della razionalità dello scopo stesso? Questa
razionalità relegata ai mezzi, che Max Weber chiamava curiosamente Zweckrationalitat, ossia razionalità relativamente
a uno scopo che si suppone ammesso, razionalità strumentale, non ha
evidentemente alcun valore in sé. La scelta del miglior veleno per avvelenare
il marito, o quella della bomba H più efficace per sterminare
milioni di persone, per la loro stessa «razionalità» aumentano l’orrore che
proviamo non solo rispetto allo scopo perseguito, ma anche rispetto ai mezzi
che hanno permesso di raggiungerlo con il massimo di efficacia. Eppure, nei suoi momenti più filantropici, l’ideologia
capitalista pretende di affermare uno scopo della «razionalità», che sarebbe
il «benessere». Ma la sua specificità deriva dal fatto
che identifica questo benessere con un massimo, o un ottimo, economico, oppure
pretende che deriverà, sicuramente o molto probabilmente, dalla realizzazione
di questo massimo o di questo ottimo. Così, direttamente o indirettamente, la
razionalità è ridotta alla razionalità «economica», e
questa è definita in modo puramente quantitativo come massimizzazione /
minimizzazione: massimizzazione di un prodotto e minimizzazione dei costi.
Evidentemente, è il regime stesso che decide che cos’è un prodotto, e come questo
prodotto sarà valutato, così come decide quali e quanti saranno i costi [1].
Osserviamo che la relatività
del criterio ultimo per ogni cultura è nota per lo meno a partire da Weber, per
non risalire fino a Erodoto. Ogni società istituisce
nello stesso tempo la propria istituzione e la sua «legittimazione». Questa
legittimazione, termine improprio, occidentale, che rimanda già a una «razionalizzazione», è quasi sempre implicita. O meglio, è tautologica: le disposizioni dell’Antico Testamento o
del Corano hanno la loro giustificazione proprio in ciò che affermano: che
«c’è un solo Dio, che è Dio», di cui rappresentano la parola e la volontà.
In altri casi (le società arcaiche) trovano questa giustificazione nel fatto
che sono state date dagli antenati, che devono essere
riveriti e onorati, stando a quanto l’istituzione prescrive. Allo stesso modo
è tautologica la «legittimazione» del capitalismo con la razionalità: chi,
all’interno di questa società, salvo forse un poeta o un mistico, oserebbe
scagliarsi contro la «razionalità»?
Il cerchio dell’istituzione
è, naturalmente, solo un’istanza del cerchio della
creazione. L’istituzione non può esistere se non
assicura la propria esistenza, e la forza bruta è generalmente incapace di
assolvere a questo ruolo al di là di brevi periodi [2]. Aprendo una parentesi,
ci si può chiedere cosa accadrebbe, a questo
proposito, nel caso di una società autonoma, ossia di una società capace di rimettere
in causa, esplicitamente e lucidamente, le proprie istituzioni. In un certo
senso, è evidente che essa non potrà uscire da questo cerchio. Affermerà che
l’autonomia sociale e collettiva «vale». Certo, potrà giustificare la propria
esistenza a posteriori, con le proprie opere, fra le
quali il tipo antropologico d’individuo autonomo che creerà. Ma la valutazione
positiva delle sue opere dipenderà ancora da criteri,
più in generale da significati immaginari sociali, che avrà essa stessa
istituito. Questo per ricordare che alla fin fine nessun tipo di società può trovare la propria giustificazione al di fuori
di se stessa. Non si può uscire da questo cerchio, e non è questo che può
costituire il fondamento di una critica del
capitalismo.
Bisogna osservare che,
nell’ultimo periodo, gli ideologi di servizio hanno finalmente abbandonato la
pretesa di giustificare o legittimare il regime; essi rinviano semplicemente al
fallimento del «socialismo reale» (come se le attività di Landru
fornissero una giustificazione a quelle di Stavinsky)
e alle cifre della «crescita», laddove questa continua ad avvenire. Erano più
coraggiosi un tempo, quando scrivevano trattati di welfare
economics, di economia del
benessere. È anche vero che lo stato pietoso degli ex critici professionisti
(marxisti o sedicenti tali) del capitalismo permette a questi ideologi, in
pieno accordo con lo spirito del tempo, di mettere da parte ogni pretesa di
serietà. In ogni caso, la nostra critica sarà essenzialmente
immanente; essa cercherà di dimostrare che, sul piano teorico, le costruzioni
dell’economia politica accademica sono incoerenti, o prive di senso, o valide
solamente per un mondo fittizio; e che, sul piano empirico, il funzionamento
effettivo dell’economia capitalista ha scarsi rapporti con ciò che se ne dice
nella «teoria». In altre parole, si farà la critica del capitalismo secondo
i suoi stessi criteri. La discussione sarà suddivisa
in quattro parti:
· la specificità e la relatività storico-sociale dell’istituzione capitalista;
· l’ideologia teorica dell’economia
capitalista;
· la realtà effettiva dell’economia capitalista
· i fattori dell’efficacia produttiva della
società capitalista e della sua “resilienza” storico-sociale.
SPECIFICITÀ E RELATIVITÀ
STORICO-SOCIALE DELL’ISTITUZIONE CAPITALISTA
Se si dà una specie di
scorsa sintetica alla storia, il tratto caratteristico del capitalismo fra
tutte le forme di vita storico-sociale è
evidentemente la posizione dell’economia (della produzione e del consumo, ma anche, soprattutto, dei «criteri» economici)
come luogo centrale e valore supremo della vita sociale. Un suo corollario è la
costituzione del «prodotto» sociale specifico del capitalismo. In poche parole, tutte le attività umane e tutti i loro effetti
finiscono più o meno per essere considerati come attività e prodotti economici,
o per lo meno come caratterizzati e valorizzati essenzialmente dalla loro
dimensione economica. Inutile aggiungere che tale valorizzazione
è operata unicamente in termini monetari.
Questo aspetto era
schiettamente riconosciuto sin dalla fine del diciottesimo secolo, se non
prima. Le giustificazioni dell’indifferenza moderna nei confronti
degli affari comuni e della politica 131 fanno appello alla centralità degli
interessi economici per l’uomo moderno. Tanto Claude Henri Saint-Simon quanto Auguste Comte saranno i cantori dell’epoca «industriale» o «positiva».
Le pagine di Marx nei Manoscritti del
1844 relative alla trasformazione di tutti i valori in
valori monetari sono belle e forti; e non contrastano con l’opinione
dell’epoca per il contenuto (si veda Honoré de
Balzac), ma per la virulenza della critica. Ma è
caratteristico il fatto che la forte coscienza della storicità del fenomeno,
presente all’epoca, sarà rapidamente occultata dagli apologeti del nuovo
regime, reclutati soprattutto fra gli economisti. Questo occultamento assumerà
la forma di una glorificazione del capitalismo, presentato come regime
economico «razionale», la cui apparizione segna un
trionfo della ragione nella storia e relega i regimi precedenti nell’oscurità
dei tempi «gotici» (per riprendere un vecchio termine di Emmanuel-Joseph
Siéyès) o primitivi. L’apparizione storica del
capitalismo diventa, sotto la loro penna, un’epifania della ragione,
assicurandosi così un avvenire illimitato. Come scriveva Marx, «per loro c’è
stata storia, ma non ce n’è più». Curiosamente, oppure no se si pensa ai
vantaggi ideologici di questa posizione, la negazione della storicità del capitalismo ha prevalso presso gli economisti da David
Ricardo a oggi. Si è glorificata l’economia politica, e il suo oggetto, come
investigazione della «pura logica della scelta» o come studio dell’«allocazione
di mezzi limitati per la realizzazione di obiettivi illimitati»
(Lionel Robbins). Come se
questa scelta potesse essere totalmente indipendente, nel
suoi criteri e nei suoi oggetti, dalla forma storico-sociale
in cui si esercita; e come se solo l’economia ne fosse interessata (o,
rispettivamente, come se l’economia potesse subordinare a sé tutte le attività
umane in cui debba esercitarsi una scelta qualsiasi, dalla strategia alla
chirurgia). Questa aberrazione ha avuto grande
successo nel periodo recente, in cui si sono viste proliferare delle «economie»
e delle pretese di calcolo economico praticamente in tutti i campi
(dall’educazione fino alla repressione penale). E’ chiaro che, in questa
prospettiva, i «ragionamenti» della scienza economica (scrivo ormai questa
parola senza virgolette per non appesantire) si applicherebbero di diritto, e
anche di fatto, a tutte le società che sono esistite o
che esisteranno.
In un’altra forma, queste
idee sono riemerse negli scritti di Friedrich von Hayek. La società capitalista
avrebbe provato la propria eccellenza, la propria superiorità, attraverso una
selezione darwiniana. Essa si sarebbe rivelata come la sola capace di sopravvivere
nella lotta con le altre forme di società. A parte l’assurdità
dell’applicazione dello schema darwiniano alle forme sociali nella storia e la
ripetizione di un artificio classico (la sopravvivenza dei più adatti è la
sopravvivenza dei più adatti a sopravvivere; il dominio del
capitalismo mostra semplicemente che è il più forte, al limite nel
senso più semplice e brutale del termine, e non che sia il migliore o il più
«razionale»: l’«antimetafisico» Hayek si dimostra in
questo caso un hegeliano della specie più volgare), sappiamo che le cose non
sono andate così. Quel che si osserva nei secoli sedicesimo,
diciassettesimo e diciottesimo non è una competizione fra un numero
indefinito di regimi da cui il capitalismo sarebbe uscito vincitore, ma
l’enigmatica sinergia di una quantità di fattori che cospirano tutti verso lo
stesso risultato [4]. Che poi una società fondata su una tecnologia altamente
sviluppata abbia potuto dimostrare la propria superiorità sterminando nazioni e
tribù amerindie, aborigeni tasmaniani o australiani, e asservendone tanti
altri, non costituisce un grande mistero.
Non è necessario fare qui
l’elenco degli esempi e degli studi che mostrano che la quasi totalità della
storia umana si è sviluppata in regimi in cui l’«efficacia»
economica, la massimizzazione del prodotto, e così via, non erano
assolutamente dei punti di riferimento centrali nelle attività sociali. Non che queste società siano state positivamente «irrazionali» sul
piano dell’organizzazione del lavoro e dei rapporti di produzione. Ma quasi sempre, a un livello tecnologico dato, la vita
sociale si è sviluppata con tutt’altre preoccupazioni che non quelle di migliorare
la «produttività» del lavoro con invenzioni tecniche o con la riorganizzazione
dei metodi di lavoro e dei rapporti di produzione. Questi settori delle
attività sociali erano subordinati e integrati ad altri, ogni volta considerati
come incarnazioni delle finalità principali della vita umana, e soprattutto
essi non erano separati in quanto «produzione» o
«economia». Queste separazioni sono molto tardive e, in sostanza, sono state istituite parallelamente al capitalismo, da lui
e per lui. Ci limiteremo a ricordare i lavori di Ruth Benedict
sugli Indiani dell’America del Nord, di Margaret Mead
sulle società del Pacifico, di Gregory
Bateson su Bali, senza dimenticare quelli di Pierre Clastres sui Tupi Guarani e di
Jacques Lizot sugli Yanomani.
Nel periodo più recente, la sintesi più soddisfacente di
questi argomenti è stata fornita da Marshall Sahlins (L’economia
della pietra: scarsità e abbondanza nelle società primitive). Del resto,
non si tratta affatto solo dei
«primitivi». L’antropologia economica della Grecia antica porta a
conclusioni analoghe, e così l’analisi delle società medievali [5].
Tutti gli studi
sull’apparizione del capitalismo nell’Europa
occidentale mostrano con forza la «contingenza» storica di questo processo,
indipendentemente dalla loro validità intrinseca. È
così con Max
Weber, Werner Sombart,
Richard Tawney, e altri. Anche per uno ben convinto,
come Marx, della «necessità storica» in generale e di quella del capitalismo
in particolare, la nascita del capitalismo è inconcepibile senza richiamarsi, e
giustamente, all’accumulazione primitiva; e Marx dimostra a lungo (capitoli
26-32 del primo volume del Capitale) che
essa è condizionata da fattori che non hanno nulla di «economico» e non devono
nulla al «mercato», in particolare le esazioni, la frode e la violenza privata
e statale [6]. Uno studio analogo è stato compiuto magistralmente, per un
periodo più recente, da Karl Polanyi nell’opera La grande
trasformazione.
Prima di proseguire, si pone
il problema di una caratterizzazione soddisfacente del regime capitalista. Si
sa, per lo meno a partire da Marx, che il tratto specifico del capitalismo non
è la semplice accumulazione delle ricchezze. La tesaurizzazione è praticata in
molte società storiche e sono noti anche tentativi di valorizzazione della
terra su grande scala con il lavoro servile a opera
dei proprietari latifondisti (specialmente, vicino a noi, nella Roma
imperiale). Ma la semplice massimizzazione (della
ricchezza, della produzione) non è, come tale, sufficiente per caratterizzare
il capitalismo. Marx aveva colto il nocciolo essenziale della questione,
quando poneva come determinanti del capitalismo
l’accumulazione delle forze produttive combinata con la trasformazione
sistematica dei processi di produzione e di lavoro e ciò che ha definito
«l’applicazione ragionata della scienza nel processo di produzione» [7].
L’elemento decisivo non è l’accumulazione in quanto
tale, ma la trasformazione continua del processo di produzione in vista
dell’accrescimento del prodotto combinato con una riduzione dei costi. Questo
contiene l’essenziale di ciò che Weber chiamerà in seguito la
«razionalizzazione» e di cui dirà, correttamente, che sotto il capitalismo essa
tende a impadronirsi di tutte le sfere della vita
sociale, in particolare come estensione del dominio della calcolabilità.
Gyorgy Lukàcs aggiungerà
alle opinioni di Marx e di Weber importanti analisi sulla reificazione
dell’insieme della vita sociale a opera del
capitalismo.
Perché la «razionalizzazione»? Come tutte le creazioni
storiche, il predominio della tendenza verso questa «razionalizzazione» è, alla
base, «arbitrario»; non possiamo dedurlo né produrlo a partire da
qualcos’altro. Ma possiamo caratterizzarlo meglio collegandolo a qualcosa di
più noto, di più familiare, ed espresso sotto altre forme
in altri tipi di organizzazione sociale: la tendenza verso il dominio. Questo
ci permette in particolare di operare un collegamento con uno dei tratti più
profondi della psiche singola: l’aspirazione all’onnipotenza. Questa tendenza,
questa spinta verso il dominio, non è, a sua volta,
esclusivamente specifica del capitalismo; per esempio, la manifestano anche le
organizzazioni sociali orientate verso la conquista. Ma
possiamo avvicinarci alla specificità del capitalismo considerando due sue
caratteristiche essenziali. La prima, è che questa spinta
verso il dominio non è semplicemente orientata verso la conquista «esterna»,
ma prende di mira altrettanto, e ancor più, la totalità della società. Non deve
realizzarsi soltanto nella produzione, ma anche nel consumo,
e non solo nell’economia, ma nell’educazione, nel diritto, nella vita politica,
eccetera. Sarebbe un errore (l’errore marxista) vedere queste estensioni come
«secondarie» o strumentali rispetto al dominio della
produzione e dell’economia, che costituirebbe l’essenziale. È
lo stesso significato
immaginario sociale che via via s’impadronisce delle
sfere sociali. Che «cominci» con la produzione non è certo un caso: è nella
produzione che i cambiamenti della tecnica permettono
all’inizio una razionalizzazione dominatrice. Ma la
produzione non ne ha il monopolio. Dal 1597 al 1607 Maurizio di Nassau,
principe di Orange e statolder
dell’Olanda e della Zelanda, fissa, con l’aiuto dei fratelli Guglielmo-Luigi e Giovanni, le regole standard per il
maneggio del moschetto: esse comprendono circa quaranta movimenti precisi, che
il moschettiere deve effettuare nell’ordine e secondo un ritmo stabilito e
uniforme per tutta la compagnia. Queste regole saranno
formulate da Jacob de Ghyn
in un Manuale sul maneggio delle armi pubblicato
ad Amsterdam nel 1607, che avrà immediatamente una grande diffusione in Europa
e sarà tradotto per ordine dello zar in una Russia praticamente analfabeta [8].
La seconda caratteristica è evidentemente che la spinta
verso il dominio si dà mezzi nuovi, e mezzi di carattere speciale («razionale»,
ossia «economico») per realizzarsi. I mezzi non sono più la magia o la
vittoria in battaglia, ma precisamente la razionalizzazione, che assume qui un
contenuto particolare, del tutto specifico: quello
della massimizzazione / minimizzazione, ossia dell’estremizzazione, se si può
foggiare questo termine a partire dalla matematica (massimo e minimo sono due
casi dell’estremo). Considerando questo insieme di fatti possiamo
caratterizzare il significato immaginario sociale nucleare del capitalismo
come la spinta verso l’estensione illimitata del «dominio razionale». Spiegherò
in seguito le virgolette.
Questa estensione illimitata
del dominio razionale avanza insieme a diversi altri
movimenti storico-sociali, e s’incarna in
essi. Non voglio parlare delle conseguenze del capitalismo (per esempio, l’urbanizzazione
e i cambiamenti delle caratteristiche delle città), ma dei fattori la cui
presenza è stata una condizione essenziale della sua nascita e del suo
sviluppo:
· Accelerazione enorme del cambiamento
tecnico, fenomeno storicamente nuovo (è una constatazione
banale, ma dev’essere evidenziata). Questa accelerazione è prodotta dalla
fioritura scientifica che incomincia già prima del rinascimento, ma si accentua
enormemente con quest’ultimo. Essa si trasforma nel periodo recente in un
movimento autonomo della tecnoscienza. Si deve sottolineare una caratteristica particolare di questa evoluzione
della tecnica: essa è prevalentemente orientata verso la riduzione, e poi
l’eliminazione, del ruolo dell’uomo nella produzione. Questo fatto è
comprensibile, in quanto l’uomo è l’elemento più
difficile da dominare; ma conduce al tempo stesso a irrazionalità d’altro tipo
(per esempio, i cedimenti dei sistemi tecnici possono avere conseguenze
catastrofiche).
· Nascita e consolidamento dello stato
moderno. Lo sviluppo del capitalismo nell’Europa occidentale va di pari passo
con la creazione dello stato assolutista, che lo alimenta e lo favorisce sotto
diversi aspetti. Nello stesso tempo, questo stato centralizzato si
burocratizza: una gerarchia burocratica con un «buon ordine» si sostituisce al
groviglio feudale più o meno caotico. Questa burocratizzazione dello stato e
dell’esercito fornirà un modello di organizzazione
all’impresa capitalistica nascente.
· Nei casi più importanti (Inghilterra,
Francia, Paesi Bassi...), creazione dello stato
moderno parallela alla formazione delle nazioni moderne. Si costituisce così
una sfera nazionale che, tanto dal punto di vista economico (mercati nazionali
e coloniali protetti, commesse statali) quanto dal punto di vista giuridico
(unificazione delle regole e delle giurisdizioni), è essenziale per la prima
fase di sviluppo del capitalismo.
· Considerevole mutazione antropologica. Il motivo economico, per amore o per forza, tende a
soppiantare tutti gli altri. L’essere umano diventa homo oeconomicus, ossia homo computans.
La durata è riassorbita nel tempo misurabile, imposto
a tutti. Il tipo dell’imprenditore schumpeteriano, e
poi dello speculatore, diventa centrale. Le diverse professioni sono più o meno
impregnate della mentalità del calcolo e del guadagno. Nello stesso tempo,
nasce e si sviluppa una psicosociologia operaia, caratterizzata dalla solidarietà,
dall’opposizione all’ordine esistente e dalla sua contestazione, che si opporrà
per circa due secoli alla mentalità dominante e condizionerà il conflitto
sociale.
· Nascita e sviluppo del
capitalismo soprattutto in società in cui è presente fin dall’inizio il
conflitto e, più specificamente, la messa in questione dell’ordine stabilito.
Manifestatasi all’inizio come un movimento della
proto-borghesia che mira all’indipendenza dei Comuni, questa messa in
discussione esprime alla fine, nelle condizioni dell’Europa occidentale, la
ripresa del vecchio movimento verso l’autonomia, e si dispiegherà nelle forme
del movimento democratico e operaio. Dopo uno stadio iniziale, l’evoluzione del
capitalismo è incomprensibile senza questa contestazione
interna, che è stata d’importanza decisiva quale condizione stessa del suo
sviluppo, come ricorderemo in seguito.
L’IDEOLOGIA TEORICA
DELL’ECONOMIA CAPITALISTA
Quello che attualmente passa per «scienza economica» è stato oggetto
di tante devastanti critiche, e ha così pochi rapporti con la realtà che
occuparsene ancora può sembrare altrettanto anacronistico e inutile che
frustare dei cavalli morti. Ma, come ho già osservato, la regressione
ideologica attuale è talmente grande, e soprattutto i resti di quelle «teorie»
affiorano ancora in tante menti confuse, non solo di giornalisti, che è necessario dedicarsi a un esercizio sommario di
ricapitolazione.
C’è stata un’economia
politica classica, che di fatto termina con Marx. Ma, come notava già quest’ultimo,
quello che nei suoi predecessori classici era stato un serio sforzo di analisi della nuova realtà sociale emergente, era
rapidamente diventato, nelle mani degli epigoni di Adam Smith
e Ricardo, un esercizio di difesa e di glorificazione del nuovo regime. Dopo
una fase di volgare apologetica, l’economia politica
ha indossato vesti matematiche, e questo le ha permesso di aspirare alla
«scientificità». Tuttavia, il carattere ideologico della nuova scienza è
rivelato dal suo continuo sforzo per presentare il regime come inevitabile e al
tempo stesso ottimale. Si osserverà facilmente che
l’una o l’altra di queste qualità sarebbe
sufficiente; che l’inevitabile sia al tempo stesso ottimale può solo far
drizzare le orecchie. Qui si tenterà semplicemente di mettere in luce qualche
postulato fondamentale di questa ideologia e di
mostrarne tanto la vacuità che l’irrealtà.
L’idea che sovrasta tutte le
altre è quella della separabilità, che porta a quella dell’imputazione
separata. Ora, in effetti, il sottospazio economico, come tutti i sottospazi
sociali, non è né discreto né continuo (beninteso, questi termini sono qui utilizzati
metaforicamente). Nelle sue attività economiche, un
individuo o un’azienda sono certo individuabili, designabili come entità a
parte, ma la loro attività sotto tutti gli aspetti è costantemente intrecciata
con quella di un numero indefinito di altri individui o aziende, in molteplici
modi che a loro volta non sono strettamente separabili. Un’azienda prende delle
decisioni in funzione di un «clima generale di opinione»
e, quale che sia la sua importanza, le sue decisioni modificheranno quel clima
generale. Le sue azioni, senza che essa lo voglia o
lo sappia, renderanno la vita e l’attività di altre aziende più facili
(economie esterne) o più difficili (diseconomie
esterne), e di rimando essa subirà, positivamente o negativamente, gli effetti
delle azioni di altre aziende e di altri fattori della vita sociale. L’imputazione
di un risultato economico a un’azienda è puramente
convenzionale e arbitrario, segue dei confini tracciati dalla legge (proprietà
privata), dalla convenzione o dall’abitudine. Altrettanto arbitraria è
l’imputazione del risultato produttivo a questo o quel fattore di produzione,
il «capitale» o il «lavoro». Capitale (nel senso dei mezzi di produzione
prodotti) e lavoro contribuiscono al risultato
produttivo senza che si possa, salvo forse nei casi più banali, separare il
contributo di ciascuno. La stessa cosa vale all’interno di una fabbrica fra i
diversi reparti e le diverse officine. E lo stesso
vale per il «risultato del lavoro» di ciascun individuo. Nessuno potrebbe fare
quel che fa senza la sinergia della società in cui è
immerso, e senza gli effetti della storia precedente accumulatisi nei suoi gesti
e nella sua mente. Tacitamente, questi effetti sono trattati dall’economia
politica classica come «doni gratuiti della storia», ma hanno dei risultati
molto tangibili, che sono constatabili, per esempio, quando si confronta la
produttività industriale di una popolazione europea con quella di popolazioni
dei paesi pre-capitalisti [9]. Il prodotto sociale è il prodotto della cooperazione di una collettività
dai confini evanescenti. L’idea di prodotto individuale è un’eredità della
convenzione/istituzione giuridica della prima instaurazione della «proprietà
privata» sul suolo. Queste idee, separabilità in generale e possibilità
d’imputazione separata in particolare, sono i presupposti taciti dei postulati
della teoria economica.
Il primo di questi
postulati, esplicito o implicito anche sotto forme attenuate, è quello dell’homo oeconomicus, che non riguarda
solo gli individui, ma anche le organizzazioni (imprese, stato: anche se
quest’ultimo, curiosamente, sembra sfuggire al postulato della razionalità che
caratterizzerebbe tutti gli altri attori della vita economica, senza dubbio
perché alterato da fattori politici). Il fatto che questi corpi collettivi
sviluppino delle condotte, delle «razionalità» e soprattutto delle
irrazionalità specifiche, non preoccupa più di tanto i
teorici. Quest’uomo economico è un uomo unicamente e
perfettamente calcolatore. Il suo comportamento è quello di un computer
che massimizza / minimizza in ogni momento i risultati delle proprie azioni.
Sarebbe facile far ridere il lettore sviluppando le conseguenze rigorose di
questa finzione: per esempio, che lui stesso ogni mattina, dopo essersi
svegliato ma prima di uscire dal letto, passa in rassegna senza saperlo i
diversi miliardi di possibilità che gli si offrono per massimizzare la
gradevolezza o minimizzare la sgradevolezza della giornata che comincia, ne
pondera le combinazioni e posa il piede a terra, sempre pronto del resto a
rivedere le conclusioni del suo calcolo alla luce di ogni
nuova informazione che riceve. Come il quadro d’insieme del sistema
capitalista da parte dei suoi apologeti sembra ignorare la storia, l’etnologia
e la sociologia, così questo postulato vuole ignorare la psicologia e la
psicoanalisi, la sociologia dei gruppi e delle organizzazioni. Nessuno
funziona cercando costantemente di massimizzare / minimizzare i suoi «utili»
o le sue «perdite», i suoi benefici o i suoi costi, e nessuno potrebbe farlo. Nessun consumatore conosce l’insieme delle
merci che sono sul mercato, le loro qualità e i loro
difetti, e nessuno potrebbe conoscerli. Nessuno è guidato esclusivamente da
considerazioni di utilità o di «ofelimità» personale;
deve scegliere invece nell’ambiente che gli è accessibile, è influenzato dalla
pubblicità, i suoi «gusti» riflettono una quantità di influenze sociali più o
meno aleatorie dal punto di vista «economico». Questo vale anche per le decisioni
delle organizzazioni. La burocrazia manageriale che dirige le
aziende non solo possiede un’informazione imperfetta e dei criteri per
lo più falsi, ma non prende le proprie decisioni come conclusione di una
procedura «razionale», bensì vi perviene al termine di una lotta fra cricche e
clan spinti da un insieme di motivazioni, fra le quali la massimizzazione dei
profitti dell’azienda è soltanto una, e non sempre la più importante.
Il
postulato della matematizzazione è evidentemente consustanziale con la
«razionalizzazione» concepita come esclusivamente quantitativa. I manuali e i testi di economia politica sono pieni di equazioni e di grafici, che sono quasi sempre
privi di senso, se non come esercizi elementari di calcolo differenziale e di
algebra lineare. Questa mancanza di senso ha diverse
ragioni:
· Tale matematizzazione
è essenzialmente quantitativa (algebrico-differenziale).
Ora, l’economia effettiva presenta il paradosso di essere
piena di quantità che non sono realmente passibili di trattamento matematico se
non elementare. Certo, ci sono le quantità fisiche, ma queste quantità, com’è
noto, sono eterogenee. Non possono essere addizionate né sottratte, tranne
quando si tratta rigorosamente dello stesso oggetto
(non parlo dei calcoli dell’ingegnere). Esse sono lo stesso
addizionate sul mercato, o nelle tabelle della contabilità nazionale, mediante
il loro prezzo. Ma le grandezze così stabilite non
hanno significato se non all’interno di un quadro molto ristretto. Per esempio,
non sono confrontabili inter-temporalmente e neppure
internazionalmente. Solo le valutazioni ai prezzi
correnti sono sommabili, e queste forniscono soltanto un’immagine «istantanea»
e dal significato limitato. Strettamente parlando, non c’è molto senso a confrontare, per esempio, il prodotto nazionale su
periodi temporali successivi anche poco distanti, perché la sua composizione
nel frattempo è cambiata e i metodi inventati per aggirare il famoso problema
dei numeri indici sono artifici poco rigorosi. Questo non contraddice la verità
di enunciati come «la produzione quest’anno è
diminuita relativamente all’anno precedente», o «il consumo operaio è
considerevolmente aumentato da un secolo a questa parte», ma rende
insignificanti i calcoli e le previsioni al terzo o al quarto decimale, praticati
correntemente nella contabilità nazionale.
·L’economia politica parla continuamente del
«capitale» come fattore di produzione, intendendo con ciò l’insieme dei mezzi
di produzione prodotti. Ma questo insieme, a dire il vero, non è misurabile,
per molteplici ragioni: la sua composizione è eterogenea, le valutazioni dei
beni che lo compongono ai prezzi di mercato possono cambiare da un giorno
all’altro secondo lo stato della domanda e le previsioni di profitto, le invenzioni
tecniche che intervengono continuamente modificano
costantemente il «valore» degli elementi che lo compongono (delle macchine
nuove possono perdere tutto il loro valore se compaiono sul mercato delle
macchine con prestazioni più elevate); i cambiamenti dei «gusti», ossia le
modifiche più o meno durevoli della struttura della domanda, modificano a loro
volta il «valore» di questi elementi. Questo non impedisce ai manuali di economia politica e persino ai premi Nobel, di parlare
continuamente di «funzioni di produzione» e discutere sulla loro forma
matematica più appropriata.
· D’altra parte, il calcolo differenziale ha a
che fare con grandezze continue, mentre le quantità economiche sono discrete
(sia che le si prenda «fisicamente» o che si prendano
le loro valutazioni in prezzi correnti). Le derivate e le
differenziali di cui sono pieni i testi economici sono una presa in giro
della matematica. Tutte le curve «marginali» (di «costi», «utilità», e così
via) sono fondamentalmente prive di senso. È vero che la stessa questione di
principio appare nella fisica quantistica, nella quale si utilizza il calcolo
differenziale mentre i fenomeni hanno probabilmente una struttura soggiacente
discreta. Ma la realtà osservabile è comunque
sufficientemente «pseudo-continua» per giustificare
questo trattamento, cosa del resto dimostrata dall’efficacia scientifica dei
metodi della fisica. (Lo stesso vale per le equazioni della termodinamica
statistica). Si possono «interpolare» i punti di una curva presunta a partire
da valori osservabili estremamente vicini, e si può
quindi calcolare una quasi-derivata. Ma un grafico di cui solo rari punti possono essere determinati
esclude il trattamento per mezzo dell’analisi matematica. Questo è vero in
tutti i campi dell’economia, ma in particolare quando si tratta di capitale e
di produzione. Per fare un esempio notevole, ma per
nulla eccezionale, una compagnia aerea che voglia aumentare la propria capacità
di trasporto non può farlo se non con l’acquisto di unità che valgono decine di
milioni di dollari al pezzo.
· Tutto ciò significa che la nozione di
funzione in economia è priva di validità. Una funzione è una legge che collega
in maniera assolutamente rigida uno o più valori della variabile indipendente a un valore, e solo a uno, della variabile dipendente. Ma
anche supponendo che queste variabili possano essere
misurate, tali relazioni rigide in economia semplicemente non esistono. C’è
sicuramente un gran numero di regolarità approssimative, senza le quali la
vita reale dell’economia sarebbe impossibile. Ma la
valutazione corretta di queste regolarità e la loro utilizzazione adeguata da
parte degli attori dell’economia hanno a che fare con l’arte, non con una
«scienza». Si può essere certi, a grandi linee, che se la domanda di una merce
aumenta di fronte a un’offerta più o meno fissa, il
prezzo della merce aumenterà. Ma è assurdo voler dire
matematicamente di quanto lo farà. Allo stesso modo, un aumento della domanda
porterà con sé, in generale, un aumento della produzione. Ma la ripartizione
del potere d’acquisto della domanda addizionale fra aumento del prezzo e
aumento dell’offerta (della produzione) dipende da una quantità di fattori
che non sono misurabili e a dire il vero neanche sempre attribuibili: per
esempio, il grado di oligopolio nel settore
considerato, le stime delle aziende riguardanti il carattere passeggero o
durevole dell’aumento della domanda e così via. In un caso simile, le
possibilità stesse di aumento dell’offerta (della
produzione) non sono veramente determinabili a priori. La capacità di
produzione in capitale fisso è rigorosamente determinata soltanto in alcuni
settori eccezionali (altiforni e pochi altri casi). Per la maggior parte delle
industrie manifatturiere, questa capacità può essere quasi moltiplicata per
tre, a seconda della possibilità o meno di passare dal
lavoro a una squadra al lavoro a due o tre squadre. Il grado di utilizzo del capitale fisso è fluido e, in grado minore,
lo stesso vale per l’intensità dell’utilizzo della forza lavoro. Più in
generale, parlare di «leggi» in economia è un mostruoso abuso di linguaggio,
se si eccettuano ancora una volta alcuni casi banali che non sono comunque suscettibili di un trattamento quantitativo
rigoroso. Anche nel breve periodo, in economia «statica», lo stato e
l’evoluzione del sistema dipendono essenzialmente dalle azioni e reazioni
degli individui, dei gruppi e delle classi, che non sono
sottoposti a determinismi fissi. Questo è ancor più valido per
l’evoluzione a medio e lungo termine. Questa è determinata in parte dal ritmo e
dal contenuto dei cambiamenti tecnologici, che sono
essenzialmente imprevedibili. Se fossero prevedibili,
sarebbero stati istantaneamente realizzati, come osservava già Joan Robinson nel 1951 [10]. Inoltre l’evoluzione è determinata
dall’atteggiamento delle aziende che, in aggiunta ad altri fattori
«irrazionali», è motivato dalle loro previsioni, di cui nulla garantisce che
siano corrette. Infine, è determinata dal comportamento della classe dei lavoratori,
altrettanto poco prevedibile (la loro tendenza a fare
rivendicazioni, per esempio, e la possibilità di farlo con successo, è soggetta
a fattori psicologici, politici e così via).
· La parte essenziale dei ragionamenti
dell’economia accademica riguarda lo studio delle situazioni di «equilibrio» e
delle loro condizioni di realizzazione. L’ossessione
dell’equilibrio ha due radici, entrambe ideologiche. Le situazioni di equilibrio vengono scelte perché sono le sole che
permettono soluzioni determinate e univoche: i sistemi di equazioni simultanee
forniscono una maschera di scientificità rigorosa. D’altra parte, gli
equilibri sono quasi sempre presentati come
equivalenti a situazioni di «ottimizzazione» (mercati «ripuliti», fattori pienamente
utilizzati, consumatori che realizzano la loro massima soddisfazione, ...). Il
risultato è stato che, fino agli anni Trenta, si è teso a mascherare o a
relegare nelle note a pie’ di pagina gli squilibri persistenti o gli
«equilibri» catastrofici o non ottimizzanti (gli equilibri dei mercati
monopolistici od oligopolistici, che implicano un supersfruttamento
addizionale dei consumatori, o gli «equilibri» della sottoccupazione). Si era
addirittura riusciti (Arthur Pigou) nell’impresa di
presentare situazioni di disoccupazione massiccia come situazioni
di equilibrio più o meno soddisfacente, spiegando che gli operai disoccupati
si erano in realtà «ritirati dal mercato» perché rifiutavano un abbassamento
estremo dei loro salari per trovare lavoro. (Questo tipo di bestialità è ancora
in pieno vigore oggi, quando si pretende che la disoccupazione in Europa verrebbe riassorbita se soltanto 1’«offerta di lavoro»
diventasse più «flessibile», ossia se gli operai accettassero l’abbassamento
dei loro salari e altri vantaggi). Ora, la situazione permanente dell’economia
capitalista è una successione di squilibri mutevoli, e questo ha come risultato di rendere, al tempo stesso, le previsioni
aleatorie e la struttura esistente in ogni momento, tanto del «capitale» che
della domanda, piena di «fossili» (Joan Robinson).
LA REALTÀ EFFETTIVA
DELL’ECONOMIA CAPITALISTA
«Qui sta il problema», disse
Alice,
«voi potete far sì che le
parole significhino cose differenti».
«Il problema è», rispose Humpty Dumpty,
«chi deve essere il padrone.
Ecco tutto».
Per molto tempo, la nuova
«scienza economica» si è preoccupata soltanto dei fattori che determinano i
prezzi delle merci particolari in condizioni di «equilibrio» statico. Gli
economisti credevano, o facevano finta di credere, che gli stessi fattori che
determinano il prezzo di una merce «ideale» in condizioni «ideali» (concorrenza
perfetta e così via) determinassero pressappoco tutti i prezzi (compreso il
prezzo del lavoro e il prezzo del capitale), che a loro volta avrebbero
determinato tutto ciò che d’importante accade nell’economia: il suo equilibrio globale, la distribuzione del reddito nazionale,
l’allocazione delle risorse prodotte fra le diverse categorie di utilizzatori
e di utilizzazione, e (ma questa questione restava in una vaghezza nebulosa)
l’evoluzione a lungo termine. Tutto ciò doveva, più o meno esattamente, derivare
delle curve dei costi e delle utilità marginali, rispetto alle quali si poteva
«dimostrare» con poca fatica che s’incrociavano
sempre con punti ottimali di «equilibrio». Che la caratteristica fondamentale
del capitalismo sia lo sconvolgimento brusco e
violento dell’economia e della società, e quindi la riproduzione incessante
delle discontinuità, non sembrava far loro perdere il sonno.
Questo ritornello continua a essere sussurrato sottovoce dagli economisti accademici di
oggi, ma nessuno sembra più prenderlo sul serio. Senza dubbio è dovuto al fatto che la finzione della concorrenza
perfetta, pura e perfetta o perfettamente perfetta, si è dissolta in fumo (ne
riparlerò dopo) e che è impossibile, anche in teoria, passare dalla realtà di
mercati oligopolisti a equilibri generali che ottimizzino qualcos’altro
all’infuori dei profitti degli oligopoli o, più precisamente, dei clan che li
dirigono. Ancor più, la mondializzazione effettiva della produzione
capitalista, con le differenze colossali delle condizioni di produzione che
essa mette in evidenza fra paesi da molto tempo
industrializzati e paesi emergenti, rende semplicemente ridicolo ogni postulato
di omogeneità anche approssimativa nei mercati dei «fattori di produzione» su
scala planetaria.
Per la fase «classica» del
capitalismo, ossia fin verso il 1975, tre gruppi di problemi si ponevano a ogni analisi economica che volesse mantenere una
pertinenza con la realtà e gli aspetti dell’economia importanti per lo stato e
l’evoluzione della società. Il primo, chiaramente definito da Ricardo e ripreso
da Marx, è quello della distribuzione del prodotto sociale (il «reddito
nazionale»). Questo influenza fortemente l’allocazione delle risorse fra
categorie (settori) della produzione. Il secondo è quello del rapporto fra le
risorse produttive disponibili (capitale e lavoro) e la domanda sodale effettiva, rapporto da cui dipende la piena utilizzazione
o la sotto-utilizzazione di queste risorse. Questo problema è strettamente
legato al terzo: quello dell’evoluzione dell’economia, ossia della crescita
effettiva o auspicabile della produzione. I tre gruppi sono in stretta
comunicazione, poiché la distribuzione del reddito, per esempio, è il
principale fattore che regola la distribuzione delle risorse, che a sua volta
gioca un ruolo essenziale sia nella quantità sia nel contenuto
dell’investimento, e quindi nelle evoluzioni future dell’economia.
Se si trascurano i dettagli,
le caratterizzazioni e i casi particolari, e se in una prima fase si fa astrazione
dal commercio estero (considerando, per esempio, un’economia mondiale che si
suppone pressappoco omogenea), la risposta a questi problemi è straordinariamente
semplice. La distribuzione dei redditi fra classi sociali e, all’interno di
ciascuna classe, fra gruppi sociali si trasforma essenzialmente in funzione
del reciproco rapporto di forza. Questa distribuzione regola in prima approssimazione
l’allocazione delle risorse fra consumo e
investimenti. A grandi linee, i lavoratori consumano quel che guadagnano, gli
abbienti guadagnano quel che spendono [11]; essi consumano una parte minore
del loro reddito e ne investono la maggior parte: o
non la investono, nel qual caso essa sparisce, e nello stesso tempo appare una
situazione di sottoccupazione. Così è determinata anche la distribuzione dell’investimento fra industrie che producono beni di consumo e
industrie che producono mezzi di produzione. L’«equilibrio globale»,
l’uguaglianza approssimativa fra capacità d’offerta, ossia utilizzo del
capitale e della forza lavoro disponibile, e domanda effettiva, ossia
solvibile, dipende prima di tutto dalla quantità d’investimento. Se
consideriamo come dati il totale dei salari e delle rendite degli abbienti
destinati al consumo, ci sarà equilibrio soltanto se le imprese investono tanto da assorbire all’incirca la capacità
produttiva delle industrie che producono mezzi di produzione. Nulla proibisce
che lo facciano; ma nulla garantisce che lo faranno.
Questo dipende da numerosi fattori, il principale dei quali è costituito
dalle loro previsioni riguardanti la domanda futura
dei loro prodotti [12]. Su queste anticipazioni, si può dire poco di ragionevole
a priori e in generale. Di qui le fluttuazioni
ricorrenti del livello di attività e gli «incidenti»,
che possono andare fino a depressioni gravi o a fasi di forte inflazione. Se si considera in prima approssimazione il ritmo del progresso
tecnico (quindi anche dell’aumento della produttività del lavoro) come più o
meno costante, queste stesse previsioni e il livello d’investimento che
impongono determineranno il tasso di crescita dell’economia a più lungo termine.
In questo caso, essi saranno fortemente influenzati, in tendenza, dall’insieme
dell’esperienza passata dell’economia capitalista, che è mediamente quella di
un’espansione. Ci sarà dunque sul lungo termine un espediente favorevole alla
crescita, ma anche un notevole margine d’incertezza in ogni momento
particolare per ogni impresa particolare; incertezza che, combinata con gli
effetti riflessi delle fluttuazioni precedenti sul capitale fisso esistente, esclude che ci sia mai una crescita equilibrata e
«stazionaria» (a tasso pressoché costante, steady) a lungo termine. Questo
quadro generale può e deve essere evidentemente completato dalla
considerazione di altri fattori (accelerazione o
rallentamento del progresso tecnico, variazioni nel movimento demografico,
apertura di nuove zone geografiche di valorizzazione, e così via).
In tutto questo, nulla
consente di parlare di un equilibrio sicuro, né di un tasso di crescita o di un
livello di produzione ottimale, né di una massimizzazione
dell’utilità sociale, né di una remunerazione del lavoro secondo il suo
«prodotto marginale», né di un tasso naturale del profitto o dell’interesse,
e neanche di quegli amorini e di quelle ninfe che popolano i manuali di
economia. In particolare, i profitti delle aziende non sono determinati dal
«costo marginale» del loro prodotto (che, in tempi normali, fissa unicamente
un limite inferiore ai loro prezzi di vendita), ma dal prezzo che possono ottenere (imporre, estorcere) per il loro prodotto,
a seconda dello stato della domanda. Questo esclude di per sé qualsiasi
discussione sulla «razionalità» dell’allocazione delle risorse nell’economia.
Ecco un certo numero difatti
che mostrano concretamente di che cos’è fatta la «razionalità» economica
sotto il capitalismo:
· Ogni azienda investe in primo luogo nella
propria linea di produzione, e non dove il profitto sarebbe «marginalmente
superiore» (quindi «socialmente preferibile»). Se l’azienda si avventura a investire in altri settori, è perché vi prevede un tasso
di profitto sensibilmente superiore.
· Quasi tutte le aziende (compresi i negozi di
quartiere) si trovano in una situazione di oligopolio,
e non di concorrenza, a meno che non sia di monopolio o d’intesa fra i
produttori sotto l’una o l’altra forma.
· Questo fatto determina la vaghezza delle
nozioni di «merce» come prodotto omogeneo e di «settore» come insieme di aziende che producono «lo stesso prodotto».
· Le decisioni dell’azienda, se investire o meno, se aumentare o diminuire la produzione, sono sempre
prese con un’informazione lacunosa e manipolata; nelle aziende importanti,
queste decisioni sono il risultato di battaglie interne di «esperti» e di clan
burocratici (e non di una «procedura razionale di decisione»: Herbert Simon). Esse sono fortemente
manipolate allo scopo di mantenere in carica il gruppo dirigente, come avevano
mostrato negli anni Sessanta gli studi di Robin Marris.
· La situazione interna dell’azienda presenta
un grado più o meno grande di opacità per i dirigenti,
per la burocratizzazione dell’azienda e per la resistenza dei lavoratori [13].
· Il «mercato del capitale» (e del credito) è
totalmente «imperfetto», sia perché i fondi disponibili,
come ho già detto, si dirigono di preferenza verso le zone in cui sono stati
acquisiti, sia perché la situazione dei mutuatari è opaca, sia perché esistono
fortissimi legami fra banche e industria.
· In stretto rapporto con il punto precedente,
il «capitale», in quanto potere di disporre di
risorse produttive e specialmente del lavoro altrui, è in parte dissociato
dalla proprietà o dal possesso di somme di valori. L’essenziale è la
possibilità di accesso a tali risorse che può essere
assicurato per altre vie (per esempio, con il credito bancario).
· La «valutazione» delle imprese esistenti sul
mercato è vaga, perché dipende dalle previsioni che riguardano i loro profitti
futuri e il tasso medio di profitto previsto.
· La produzione (e fino a
un certo punto il mercato del lavoro) è piena di rendite di posizione.
· La proprietà privata della terra crea una
rendita fondiaria assoluta (Marx) che non ha e non può avere alcuna
giustificazione economica.
· La forza lavoro non è una merce. La sua
produzione e riproduzione non sono e non possono essere
regolate da un «mercato» [14].
· Il rendimento effettivo del lavoro (o il
tasso effettivo di remunerazione / rendimento fisico) [15] è ampiamente
indeterminato.
Nella fase presente del
capitalismo, ossia da circa un quarto di secolo, tutto questo resta vero, ma nuovi fattori sconvolgono la prospettiva
d’insieme. Così, la mondializzazione effettiva della produzione, resa
possibile da nuovi sviluppi tecnologici (in breve, la riduzione a quasi nulla,
quantitativamente parlando, dell’importanza della
qualificazione del lavoro nella produzione materiale, che mette così a
disposizione del capitale mondiale miliardi di affamati in giro per il mondo) e
politici (la smobilitazione dei governi in materia di politica economica, in
particolare la liberalizzazione totale dei flussi internazionali di capitale),
ha avuto l’effetto, in apparenza paradossale, di distruggere l’omogeneità
delle condizioni economiche di produzione nel mondo proprio nel momento in cui
si stabiliva un mercato veramente mondiale. Qualsiasi discussione sulla
determinazione dei prezzi o di qualsiasi altra cosa (compresi i profitti
capitalistici) ad opera di fattori «razionali» in queste condizioni diventa
ridicola. Riprenderò l’argomento nell’ultima parte di questo testo.
EFFICACIA RELATIVA,
FLESSIBILITA' E RESISTENZA DEL CAPITALISMO
La migliore giustificazione
del capitalismo è quella che offriva, alla fine della sua vita, Joseph Schumpeter in Capitalismo, Socialismo, Democrazia,
così come l’ha sintetizzata Joan Robinson [16]: il
sistema è certamente crudele, ingiusto, turbolento, ma fornisce la merce, e smettetela di brontolare visto che è questa merce che
volete.
Giustificazione a circolo vizioso, anche in questo caso. Nei paesi «ricchi», la gente
«vuole» questa merce perché è abituata fin dalla più tenera età a volerla
(provate a visitare una scuola materna di oggi) e
perché il regime impedisce, in mille maniere, di volere qualsiasi altra cosa.
In tutti i paesi, la «vuole» perché, se il capitalismo non ha inventato ab ovo
quello che si definisce effetto di dimostrazione, ne ha però sviluppata la
potenza a un livello prima sconosciuto. Per ora,
questa merce continua bene o male a essere in grado di
fornirla. Qui la discussione non può che fermarsi: finché la gente vorrà questa accumulazione di paccottiglia, accumulazione sempre
più aleatoria per un numero crescente di persone, e di cui un giorno potranno,
o non potranno, essere sazi, la situazione non cambierà.
Ma qualche problema resta. Fin
dove arriva, e su cosa si basa, questa «efficacia» del capitalismo, nonostante
tutti i suoi limiti? Come si spiega che il regime abbia
potuto sopravvivere a una lunga serie di crisi e di vicissitudini
storiche e, per lo meno fino a un certo momento, uscirne rafforzato? Quali sono, da questo punto di vista, i cambiamenti che la sua
nuova fase può suscitare?
La risposta alla prima
domanda non è così difficile. Il capitalismo è il regime che mira ad accrescere
con tutti i suoi mezzi la produzione (una certa
produzione, non dimentichiamolo) e a diminuire con tutti i mezzi i suoi costi;
costi, non dimentichiamo neanche questo, definiti in modo molto restrittivo:
né la distruzione dell’ambiente, né l’appiattimento delle vite umane, né la
bruttezza delle città, né la vittoria universale dell’irresponsabilità e del
cinismo, né la sostituzione della tragedia e della festa popolare con il serial
televisivo rientrano in questo calcolo, e non potrebbero esserlo in nessun
calcolo di questo tipo. Per realizzare questo fine, il capitalismo ha potuto e saputo contare su uno sviluppo della tecnologia
senza precedenti nella storia, che lui stesso ha promosso in mille modi;
tecnologia a sua volta rigidamente orientata, è vero, ma adeguata ai fini
perseguiti: potenza per i dominanti, consumo di massa per la maggioranza dei
dominati, distruzione del senso del lavoro, eliminazione del ruolo umano nella
produzione. Ma il mezzo più formidabile è stato quello di distruggere tutti i
significati sociali precedenti e di instillare nell’animo
di tutti, o quasi, la smania di acquisire ciò che, nella sfera di ciascuno, è,
o sembra, accessibile, e per questo accettare praticamente tutto. Questa
enorme mutazione antropologica può essere chiarita e capita, ma non
«spiegata».
A questi mezzi si è
aggiunta, da un certo momento e nient’affatto dall’origine, la trasformazione
di un meccanismo istituzionale antichissimo, il mercato, sbarazzato di ogni vincolo ed esteso gradualmente a tutte le sfere
della vita sociale. Questo mercato non è, non è mai stato e non sarà mai, per
tutto il tempo in cui il capitalismo esisterà, un mercato perfetto, né davvero
concorrenziale nel pio senso dei manuali di economia
politica. Il mercato è sempre stato caratterizzato dagli interventi della
potenza dello stato, dalle coalizioni dei capitalisti,
dal controllo dell’informazione, dalle manipolazioni dei consumatori e dalla violenza
aperta o mascherata contro i lavoratori. Non è molto diverso da una giungla moderatamente
selvaggia e, come in ogni giungla, i più adatti a sopravvivere sono
sopravvissuti e sopravvivono: salvo che questa attitudine
alla sopravvivenza non coincide con alcun optimum sociale, e neppure con il
massimo di una produzione, ostacolata dalla concentrazione del capitale, dagli
oligopoli e dai monopoli, per non parlare delle allocazioni irrazionali di
risorse, delle capacità non utilizzate e del conflitto permanente attorno alla
produzione sui luoghi di lavoro. Ma attraverso gli
alti e i bassi, i boom e i crack, il mercato bene o male ha funzionato, nei
suoi limiti e secondo le sue finalità.
La risposta alla seconda
domanda, ammesso che ce ne sia una, è più difficile e complessa. Nell’essenza,
è paradossale. Lasciata a se stessa, la minimizzazione
dei costi implica logicamente i salari più bassi possibile per una produttività
più alta possibile. È verso una situazione di questo tipo che si orientava
spontaneamente il capitalismo della prima metà del diciannovesimo secolo, ed è
questa la logica che Marx ha estrapolato con le sue concezioni della
pauperizzazione e della sovrapproduzione. Sono le lotte operaie che hanno
contrastato questa tendenza, imponendo aumenti dei salari e riduzioni della
durata del lavoro che hanno creato degli enormi mercati di consumo interno e
hanno evitato al capitalismo di essere sommerso dalla
propria produzione. Si è anche visto, è noto e lo si
può dimostrare (Keynes l’aveva fatto), che, lasciato
a se stesso, il sistema non è spontaneamente portato verso un equilibrio, per
quanto approssimativo, ma piuttosto verso un’alternanza di fasi di espansione e
di contrazione, le crisi economiche, le più violente delle quali possono produrre,
e lo hanno fatto, una notevole distruzione di ricchezze accumulate e una
disoccupazione vertiginosa (il 30 per cento della forza lavoro negli Stati
Uniti nel 1933). Ora, anche in questo caso, sono delle reazioni sociali e
politiche che hanno imposto a partire dal 1933, prima di tutto agli Stati
Uniti, nuove politiche d’intervento dello stato
nell’economia.
Nei due casi (distribuzione
del prodotto sociale, ruolo dello stato), l’establishment capitalista, bancario
e accademico ha rabbiosamente combattuto queste folli innovazioni che
rischiavano di provocare la fine del mondo. Per molto
tempo, i padroni non si sono limitati a chiedere (e ottenere) l’intervento
dell’esercito contro gli operai in sciopero; hanno anche proclamato che era
impossibile accordare aumenti di salario o riduzioni della giornata lavorativa
senza provocare la rovina della loro impresa e
dell’intera società; e hanno sempre trovato professori di economia politica
per dar loro ragione. Così Jacques Rueff, l’eroe
della politica economica francese, organizzava la «deflazione Laval» nel 1932, mentre sull’altra sponda della Manica il
Tesoro e la Banca d’Inghilterra accumulavano i memorandum che dimostravano che
qualsiasi rilancio della domanda attraverso lavori
pubblici avrebbe provocato una catastrofe economica.
Solo dopo la seconda guerra
mondiale aumenti più o meno regolari di salario e regolazione statale della
domanda globale sono stati generalmente accettati dal
padronato e dagli economisti accademici. Ne è
risultata la più lunga fase di espansione capitalista, pressappoco ininterrotta
(i «gloriosi trent’anni»). Come aveva previsto Kalecki
fin dal 1943, una pressione crescente sui salari e sui prezzi ne è stata la conseguenza e si è manifestata con chiarezza a
partire dagli anni Sessanta. Niente dimostra che non avrebbe
potuto essere moderata con politiche moderate. Ma
in questo caso è entrato in gioco un fattore squisitamente politico. Questa
situazione moderatamente inflazionistica ha dato il segnale, e il pretesto, di
una controffensiva reazionaria (Margaret Thatcher, Ronald Reagan), di una
specie di controrivoluzione conservatrice, che da
quindici anni si è estesa in tutto il pianeta. Sul piano politico, questa
controffensiva ha sfruttato il fallimento dei partiti «di sinistra»
tradizionali, l’enorme perdita d’influenza dei sindacati, la mostruosità
diventata manifesta dei regimi del «socialismo reale» anche prima del loro
crollo, l’apatia e il rifugio nel privato della popolazione,
la sua irritazione crescente contro l’ipertrofia e l’assurdità delle burocrazie
statali. A parte l’ultimo, tutti questi fattori esprimono direttamente o
indirettamente la crisi del progetto storico-sociale
di autonomia individuale e collettiva. Il grande
squilibrio del rapporto delle forze sociali che ne è
risultato ha permesso il ritomo a un liberismo
brutale e cieco, di cui sicuramente i beneficiai principali sono le grandi
concentrazioni dell’industria e della finanza e i gruppi che le dirigono, ma
che supera di gran lunga il loro ruolo politico; in Francia, in Spagna, in
diversi paesi nordici, sono i partiti cosiddetti socialisti che si sono
incaricati d’introdurre e d’imporre, o di mantenere (Gran Bretagna) il
neoliberismo. Si assiste al trionfo non mitigato dell’immaginario capitalista
nelle sue forme più grossolane. Questo si è materializzato essenzialmente con
lo smantellamento del ruolo dello stato nel campo economico. I movimenti internazionali dei capitali sono stati liberati da ogni
controllo; il feticismo dell’equilibrio budgetario vieta ogni politica di
regolazione della domanda; la politica monetaria è passata interamente nelle
mani delle banche centrali, il cui unico assillo è la lotta contro
un’inflazione ormai inesistente. Ne consegue che da quindici anni la disoccupazione
è mantenuta ad alti livelli; dove si è verificato un calo della disoccupazione,
come negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, il prezzo è stato la proliferazione
dei lavori a tempo parziale o mal pagati e la stagnazione o la riduzione dei
salari reali, parallelamente a una crescita continua
dei profitti delle imprese e dei redditi delle classi ricche. L’attacco
frontale contro i salari e i diritti già acquisiti dai lavoratori, permesso
dall’aumento della disoccupazione e dalla precarietà dei lavori, è giustificata
dal ricatto: bisognerebbe ridurre i costi del lavoro per poter far fronte alla
concorrenza esterna o evitare le delocalizzazioni.
In questo modo, si vorrebbe forse far credere che una diminuzione di qualche
punto in percentuale dei salari in Francia o in Germania basterebbe
per lottare vittoriosamente contro la produzione di paesi in cui i salari sono
la decima o la ventesima parte dei nostri (2,5 dollari al giorno per le operaie
della Nike stipate negli ergastula
di questa impresa in Indonesia, e ancor meno in Vietnam). Nessuna
«flessibilità del lavoro» nei vecchi paesi
industrializzati potrebbe resistere alla concorrenza della mano d’opera
miserabile di paesi che contengono una riserva inesauribile di forza lavoro. Ci
sono, rapidamente mobilizzabili e praticamente senza
bisogno di formazione, centinala di milioni di operai e di operaie potenziali
in Cina, altrettanti in India, quasi altrettanti negli altri paesi dell’Asia,
senza parlare dell’America latina, dell’Africa e dell’Europa dell’Est. Ed è
ridicolo pretendere che una transizione senza scosse potrà condurre paesi che
presentano simili scarti nelle loro condizioni iniziali a
una situazione di armoniosa divisione internazionale del lavoro. Assistiamo a una fase di transizione brutale, selvaggia, su una scala
molto più vasta e in un lasso di tempo molto più breve che nelle altre fasi di
transizione della storia del capitalismo, che si vuole giustificare con il
pretesto assurdo che il corso attuale è ineluttabile, che nessuna politica può
resistere allo juggernaut dell’evoluzione
dell’economia.
In una tale situazione, è
vano discutere di una qualsiasi «razionalità» del capitalismo. Il regime ha allontanato
da sé i pochi mezzi di controllo che centocinquant’anni di lotte politiche,
sociali e ideologiche erano riusciti a imporre. Il
dominio anomico dei robber barons, i «baroni predatori» dell’industria e della
finanza statunitensi alla fine del secolo scorso, offre solo un pallido
precedente. Le multinazionali, la speculazione finanziaria e anche le mafie
nel senso stretto del termine saccheggiano il pianeta,
guidate unicamente dalla visione a breve termine dei loro profitti. Il
fallimento ripetuto di qualunque tentativo di preservare l’ambiente dalle
conseguenze dell’industrializzazione, civilizzata e
selvaggia, è solo il segno più spettacolare della loro miopia. Gli effetti
prevedibili e terrificanti della «modernizzazione» dei rimanenti quattro
quinti del mondo non svolgono alcun ruolo nelle politiche attuali [17]. La prospettiva
che ne consegue non è quella di una «crisi economica» generale del capitalismo
in senso tradizionale. In astratto, il capitalismo (le imprese mondiali)
potrebbe stare di bene in meglio fino al giorno in cui
il cielo ci precipiterà sulla testa. Ma questo
presupporrebbe, fra l’altro, che la rovina dei vecchi paesi industrializzati,
specialmente in Europa, e l’uscita di miliardi di persone dal loro mondo
millenario, per entrare in società tecnicizzate, salariate e urbane nei paesi
non ancora industrializzati, potrebbero svolgersi senza gravi scosse politiche
e sociali. È una prospettiva possibile. Non è sicuro che sia la più probabile.
L’analisi può giungere fino
a porre questo tipo di domande. Il resto dipende dalle reazioni e dalle azioni
delle popolazioni dei paesi interessati.
Articolo apparso su Libertaria Ott. Dic. 2001 -
traduzione di Grazia Regoli