Alessandro Grossato

 

Il ‘Confine’ tra idea e realtà

Memorie storiche, momentanea ratio, e immaginazioni ostili nello spazio geopolitico

[in corso di stampa sul primo numero della nuova serie di Futuro Presente]

 

 

 

Anche per Heidegger, nel suo saggio intitolato "Costruire abitare pensare" (1976: p. 103), "La delimitazione non è ciò su cui una cosa si arresta, ma come i greci riconobbero, è ciò da cui una cosa inizia la sua presenza."

Nozione fondamentale della geopolitica è infatti quella di ‘confine’ (limes latino). Importante, al punto di aver dato il nome ad una branca tanto fondamentale, quanto oggi trascurata, della geopolitica, ovvero alla Limologia.

Quelle che qui seguono, ben lungi dal poter sintetizzare l’argomento, voglion essere solo delle considerazioni, degli stimoli a riconsiderare da punti di vista, per qualcuno forse imprevisti, un tema come quello dell’idea e della realtà del ‘confine’, che a molti di noi può superficialmente sembrare già da tempo compiutamente compreso nella sua essenza.

 

Territorialismo ed aggressività

Già in ambito preculturale, puramente biologico, esiste la nozione etologica di Umwelt, ovvero di "Un campo di repulsione fissato nello spazio" (definizione di Kummer, 1970), indispensabile per la sopravvivenza e la limitazione dei conflitti, come si può constatare addirittura presso forme assai basse di vita, quali anellidi, molluschi ed artropodi. Salendo la scala gerarchica degli esseri viventi, si assiste in parallelo ad un progressivo accentuarsi della valorizzazione e delle ritualizzazioni relative a tale ‘campo di repulsione’. Fino alla piena consapevolezza dell’importanza del proprio ‘spazio vitale’, e della sua difesa ad oltranza, raggiunta nella classe dei mammiferi. Così, "Ogni esemplare di criceto dell’Europa centrale occupa un proprio territorio dove vive da solo e si batte contro qualsiasi criceto che si spinga nella sua zona." (Eibl-Eibesfeldt, 1990: p. 48).

Anche nell’uomo esiste una percezione per così dire ‘naturale’ dei suoi ‘spazi vitali’:

 

le unità di spazio sono sia reali sia immaginarie. La mente verifica costantemente con la visione gli ostacoli fisici al movimento e alla mobilità e facendo ciò traccia i confini di un’area immaginaria sicura e abitabile dello spazio. Tale struttura identificata a livello mentale, grazie alle immagini dello spazio fisico, viene fondata da un processo dialettico di riconoscimento dell’idea di fratture e continuità, contiguità, prossimità e limite. (Chaudhuri: 332)

 

Ma è ovviamente solo nell’uomo che il ‘confine’ diviene anche artificium, cioè una complessa nozione culturale, che ben definisce Norberg-Schulz (1979: p. 58):

 

La qualità distintiva di ogni luogo artificiale è la chiusura; il carattere e le proprietà spaziali di un luogo sono quindi determinate dalle sue modalità di chiusura. Essa può essere più o meno completa, può presentare delle aperture e implicare a loro volta degli orientamenti, tutte variazioni destinate ad influenzare la capienza del luogo. Spazio chiuso significa soprattutto un’area distinta e separata dall’ambiente attiguo, mediante l’erezione di un confine. Questo confine può presentarsi anche in forma meno rigida, come raggruppamento denso di elementi, con una linea di demarcazione più sottintesa che manifesta concretamente. (…) Non si potrà mai valutare abbastanza l’importanza culturale della definizione di un’area qualitativamente diversa da quanto la circonda.

 

Dobbiamo solo aggiungere che sulla percezione storico-culturale del ‘confine’ si esercita anche una triplice proiezione degli psichismi collettivi, secondo quelle che sono le tre principali facoltà della mente umana, ovvero ragione, memoria ed immaginazione, a loro volta in naturale rapporto con la successione temporale di passato, presente e futuro.

Così ancor oggi, l’immaginazione ostile di chi aspira a modificare confini ora fissati, momentaneamente considerati razionali ed equi, si nutre spesso di memorie storiche solo temporaneamente rimosse.

 

Il Passato arcaico: sacer, terminus, limes e rex

In realtà, molto al di là di preculturali motivazioni etologiche o sociobiologiche, l’idea di confine nelle società umane appare sin dall’inizio fortemente connotata di sacralità. Così, molte tradizioni mitiche ricordano persino la dimora edenica delle origini come uno spazio chiuso, il medioevale hortus conclusus, con al centro l’‘Albero della Vita’ od una fontana. Lo stesso termine ‘sacro’ (lat. sacer), derivante dalla radice indoeuropea sak-, indicante nelle lingue dell’area italica, ittita, germanica settentrionale e tocaria ‘ciò da cui si deve stare lontani perché sacro’, ha in definitiva, guardacaso, un significato assai simile. Il ‘sagrato’ d’una Chiesa, per esempio, è lo spazio delimitato attorno ad essa, intorno ad un ‘centro’ irradiante sacertà. Viceversa il latino termen (confine, limite) e terminus (pietra di confine, limite, confine, linea di confine) rinviano ad un Terminus che era l’omonimo ‘dio dei confini’, ovvero la personificazione divina del confine. Solo limes significante ancora il ‘limite tra due campi’, e la ‘pietra posta come segno di confine di un campo’, si avvicina con il suo significato secondario di ‘frontiera’, ‘baluardo’, ‘bastione’ soprattutto all’idea materiale e difensiva di confine nel senso quasi moderno del termine.

Nell’Eurasia antica, la delimitazione del territorio era una funzione prerogativa solo dei sovrani: lo dimostrano molte evidenze lessicali e culturali delle società indoeuropee. Alle origini protostoriche, anzi preistoriche, dell’ecumene culturale eurasiatico, l’idea primordiale di confine risulta infatti strettamente connessa a quella di sovranità, intesa in un senso sia politico che cosmico e sacrale. Come ben sanno i linguisti, i termini rex latino e celtico rix, significanti ‘re’, hanno la stessa origine etimologica indoeuropea del sanscrito raj-(an). Ora, secondo il Benveniste (1976: 291-296), il ‘re’ delle principali tradizioni indoeuropee era precisamente colui che "aveva autorità per tracciare i limiti della città", quindi i confini. Tutti ricordiamo la leggenda di Romolo e Remo. Inoltre alcune relazioni morfologiche, sulle quali non ci soffermeremo, collegano nella lingua latina sia il verbo rego (nel senso di ‘reggere’, cioè ‘governare’) che il sostantivo regio (‘regione’) e l’aggettivo rectus (‘retto’), inteso anche in senso morale, alla stessa radice. In particolare il verbo latino rego corrisponde etimologicamente e semanticamente al verbo greco orégo, che si traduce prevalentemente con ‘stendere’. Più esattamente, orégo, orégnumi significava ‘stendere in linea retta a partire dal punto che si occupa’. Del resto regio originariamente non significava ‘regione’, bensì ‘il punto raggiunto da una linea retta tracciata per terra o in cielo’, poi ‘lo spazio compreso tra queste linee rette tracciate in diversi sensi’. L’espressione ‘regere fines’ significava quindi alla lettera ‘tracciare le frontiere in linea retta’, operazione che per l’appunto veniva compiuta ritualmente dal sovrano per la costruzione d’una città. Per dirla ancora col Benveniste, si trattava ad un tempo "di delimitare l’interno e l’esterno, il regno del sacro e il regno del profano, il territorio nazionale e il territorio dello straniero.", e questo tracciato veniva fatto dal personaggio investito del massimo potere, il rex. In rex bisogna vedere non tanto il sovrano quanto colui che traccerà la linea (...)". Dunque "la nozione concreta enunciata dalla radice *reg- è molto più viva in rex, alle origini, di quanto si potrebbe pensare". In India, più particolarmente, il raja era il prototipo del perfetto nobile-guerriero ario (ksatriya), avendone più pienamente realizzato la vera natura, ed essendo primus inter pares fra di essi, perché considerato come massimamente rajasico, ‘irradiante’. L’irraggiamento di rajas equivaleva primariamente al referente mitico-simbolico del dispiegarsi della ruota del mondo (kalpa) a partire dal suo centro-origine, ove risiederebbe il legislatore primordiale (Manu), il quale proprio per questa sua ‘stazione’ è sottratto al dominio dell’azione e del divenire ch’egli occultamente regola. La sovranità del cakravartin (lett. di ‘colui che fa girare la ruota’) è quindi una funzione universale, a rigore propria solo di personaggi mitici o leggendari. Quella del raja, invece, come dimostra anche la tradizione storica, è una sovranità intesa in un senso assai più temporalmente contingente, e come spazialmente limitata. Si è dunque ancora nell’ambito del simbolismo del piano orizzontale, ma non più inteso come cakra, come ‘ruota’ o ‘cerchio’ in movimento avente un centro evidente e immobile, bensì come ‘quadrato’, cauka in Hindi. Si sa che nelle culture arcaiche la forma circolare, per il suo rapportarsi al Cielo, ha soprattutto una connotazione temporale, mentre la forma quadrata è generalmente il simbolo della terra, della sua immobilità e solidità minerale, nonché della sua estensione spaziale secondo i quattro punti cardinali. Ora, se si considerano i raggi di una ruota come indefinitamente distanti dal loro centro d’origine, essi non ci appariranno più divergenti ma paralleli, e ortogonali saranno le loro eventuali intersezioni con una serie idealmente indefinita di cerchi concentrici, le cui curve ci appariranno allora ugualmente rettificate. Questo reticolo indefinito di rette fra loro ortogonali, quasi l’incrocio di meridiani e paralleli terrestri, sarà l’immagine del ‘tessuto’ del Mondo che vedrà colui che si trova, come il raja ed ogni altro ksatriya con lui, in posizione spiritualmente eccentrica, spostato verso la periferia del cakra, della Rota Mundi. A lui particolarmente consono sarà allora il simbolismo della scacchiera usata nello astàpada o caturanga, quel gioco degli scacchi ad uso degli ksatriya noto già nell’India vedica, sorto sullo schema della più importante variante, quella di sessantaquattro riquadri (pada), del vastupurusamandala o vastumandala, lo schema geometrico (mandala) di base usato dagli architetti indiani per rendere ordinato, e quindi sacro, lo spazio (vastu) così delimitato, su cui fondare i templi, le città, e financo le singole case. Ogni raja, che non è un ‘Signore universale’, un Maharaja, se non virtualmente, non ponendosi effettivamente a quel ‘Centro del Mondo’ da cui si eserciterebbe una sovranità senza confini, governa infatti solo sul suo ‘quadrato di terra’, e disputandone diuturnamente il possesso con i suoi confinari. Si può ancora ricordare in rapporto con questo ‘quadrato’ della terra l’espressione sanscrita riju-ga, lett. ‘che va diritto’, riferita particolarmente alla traiettoria d’una freccia nel contesto del rito guerriero e regale, tipicamente indiano e praticato anche dal Principe Siddharta, consistente nel tirare delle frecce in direzione dei quattro punti cardinali. Del resto anche in Cina l’ideogramma composito gúo, esprimente l’idea di ‘territorio’, era ed è caratterizzato dall’ideogramma wéi, significante ‘cinta’, ‘recinzione’, costituito da un quadrato, e da , un’alabarda piantata al suo centro.

Accennando ancora all’Asia estremo orientale, è interessante ricordare come in Giappone, come ha dimostrato Günter Nitschke (1974), proprio dal processo di demarcazione ritualizzata del territorio derivarono fenomeni culturali fondamentali e di vario genere. Nitschke osserva inoltre che la parola giapponese shima, che sta ad indicare un ‘territorio’ (racchiuso) derivava da shime, il nome del contrassegno che marcava la terra occupata, analogamente alla derivazione del tedesco Mark, ‘Marca’ da marke, ‘marchio’.

 

Medioevo ed Età Moderna

Trascureremo irriguardosamente il Medioevo, che in apparenza non vede grandi cambiamenti significativi. Ricorderemo comunque l’importanza, dato il restringersi dello spazio politico perlopiù ai centri urbani, dell’introduzione di alcuni termini nordici denotanti un’area circoscritta, come town (ingl. per città), tun (norvegese), tyn (ceco), tutti derivanti dal tedesco Zaun, ‘recinzione’. E soprattutto, sempre in tedesco, la nozione di Mark, nel senso di ‘territorio’ liminale del Reich, come la Danimarca a nord e la Marca veneta a sudest (v. Grossato, 1996).

L’ingresso nella modernità coincide invece con delle notevoli trasmutazioni nell’idea di confine. Si affermano per la prima volta dei confini di definizione geografico-matematica corrispondenti alle coordinate terrestri, specialmente ai meridiani. Un significativo processo, indicativo, fra l’altro, d’una nascente contrapposizione giuridico-ideologica e quindi di civiltà fra ‘Terra’ e ‘Mare’, in primis fra Sacro Romano Impero e talassocrazia britannica, così bene tratteggiata da Carl Schmitt. Da esso si svilupperà l’idea delle cosiddette ‘linee globali di divisione’, dalle rayas ispano-portoghesi e dalle amity-lines franco-inglesi, fino alla nozione statunitense di ‘emisfero occidentale’.

Rayas - La determinazione d’una raya o più rayas, ovvero di linee globali di delimitazione tra i territori e i mari appartenenti a due potenze cristiane, quali appunto Spagna e Portogallo, il tutto sotto la garanzia della somma autorità pontificia, diviene una necessità dopo la ‘scoperta’ e la colonizzazione del cosiddetto nuovo mondo. L’ultimo esempio di applicazione di questa prassi si è avuta, sembra quasi incredibile, proprio in questi ultimi anni, con la poco nota mediazione della diplomazia vaticana fra Cile ed Argentina per la determinazione definitiva del loro confine meridionale. Quel che è necessario sottolineare è l’astrattezza, e quindi la sostanziale artificiosità, davvero tipo ‘scacchiera’, di questo nuovo modo di determinare i confini, del tutto estraneo alla più antica tradizione europea, ed i cui sviluppi nei secoli successivi avrebbe portato, tanto inavvertitamente quanto inesorabilmente, al declino dello ius publicum europaeum, e quindi alla relativa ‘centralità’ dell’Europa in Occidente.

Amity-lines - Le amity-lines franco inglesi, versione più ‘laica’ e pragmatica delle ancora ‘cattoliche’ rayas, erano appunto delle ‘linee di amicizia’, ma facendo un ulteriore passo in avanti nella degradazione dell’idea di confine, già nel senso di limiti all’applicabilità dello ius publicum europaeum, e quindi volte a delimitare di fatto un’arena vastissima ove esercitare una sfrenata violenza di conquista e di dominio. Ad esse si accenna per la prima volta in una clausola segreta del trattato ispano-francese di Cateau-Cambrésis del 1559, ma divengono rapidamente una componente importante del diritto internazionale europeo. Esse passavano a sud per l’Equatore o per il Tropico del Cancro, e ad ovest nell’Oceano Atlantico ad un grado di longitudine, passando per le Isole Canarie o per le Azzorre.

‘Emisfero occidentale’ - La nozione statunitense di ‘emisfero occidentale’, è uno sviluppo di questa esperienza storica soprattutto anglosassone. Essa è concepita quale zona di autodifesa del continente americano, posto così virtualmente tutto sotto sovranità statunitense, ed è ancora solo ‘questo emisfero’ senza ulteriore aggettivazione nella famosa dottrina Monroe formulata nel dicembre 1823, perché effettivamente con essa, in origine, si intendeva in generale solo il nuovo mondo scoperto da Cristoforo Colombo. Ma di fatto ‘quest’emisfero’ viene gradualmente esteso dai cartografi americani, e guarda caso giusto verso il 1939, ad esser considerato compreso fra il 20° ed il 180° grado di longitudine ovest, venendo ad includere così di fatto anche Groenlandia, Islanda (che sarà infatti occupata durante la Seconda Guerra Mondiale) e le Azzorre ad est, ma poi anche, chissà perché, sempre verso est fino alle Isole di Capo Verde ed alla Nuova Zelanda ad ovest. Si sa, la sicurezza non è mai troppa. Fra l’altro, sia detto en passant, l’inclusione così di fatto di gran parte dell’immensa estensione dell’Oceano Pacifico nel proprio emisfero viene prudentemente segnalata da Schmitt (1991) come uno dei fattori che portarono al conflitto col Giappone nel ‘41.

 

Il Passato prossimo: la ‘Cortina di Ferro’

Una delle conseguenze del secondo conflitto mondiale fu la scomparsa, non casuale, della parola geopolitica. Come scrive efficacemente Yves Lacoste (1993),

 

dopo lo scatenamento della guerra fredda, a partire dal 1947, la costituzione di due ‘blocchi’ contrapposti in Europa, schierati lungo la linea di confine fissata dagli accordi di Jalta nel 1945, spinse i leader dei due schieramenti a proscrivere ogni idea, ogni rappresentazione che non rafforzasse quella dello scontro planetario delle due concezioni del mondo: il ‘mondo libero’, che i suoi avversari definivano imperialista o capitalista, e il ‘mondo socialista’, chiamato più semplicemente mondo comunista. Questa rappresentazione - la divisione del mondo in due coalizioni con le loro zone di influenza - era peraltro di tipo perfettamente geopolitico - rivalità di poteri su dei territori; ma, per i dirigenti dell’una o dell’altra superpotenza, non era auspicabile impiegare un termine che non poteva mancare di ricordare i recenti conflitti nazionali, né di ricordare a ciascuna nazione quanto aveva lottato per difendere o riconquistare il suo territorio. Le nazioni appartenevano ormai all’uno o all’altro blocco, ed era importante che nulla ne indebolisse la coesione. Nel ‘campo socialista’ gli Stati erano considerati fratelli grazie al socialismo, e la geopolitica andava dunque vietata, poiché era così strettamente legata ai conflitti territoriali che li avevano opposti gli uni agli altri solo poco tempo prima. I conflitti sul territorio dovevano essere per principio dimenticati una volta per tutte. In ‘Occidente’ non era più considerato opportuno evocare la geopolitica né i litigi territoriali (per esempio, l’Alsazia-Lorena) che avevano portato a combattersi così duramente tra loro delle nazioni che oramai facevano parte dell’Alleanza atlantica. In ciascuno dei due campi, i problemi delle nazioni e dei loro territori dovevano apparire secondari e sorpassati tenendo conto della contrapposizione planetaria di due ideologie, di due sistemi, di due mondi dai valori radicalmente diversi.

 

L’‘emisfero occidentale’ era ormai arrivato a tagliare in due la vecchia Europa, coniugandosi, sul suo versante sovietico, ironia della storia, con una delle più arcaiche concezioni asiatiche del ‘confine’, inteso come baluardo fortificato di esclusione: la ‘grande muraglia’. Nozione non solo cinese, bensì ben famigliare anche alla tradizione russa, se solo si pone mente a quello che era nelle città russe, all’interno d’un primo ‘anello’ costituito dalle mura cittadine, il kreml, fortezza dentro la fortezza, da cui ‘Cremlino’. Anzi, è da notare che nella concezione propriamente russa il gioco dell’esclusione non è più rivolto solo contro l’esterno, ma anche a parte dell’interno della città. È del resto acquisizione recente che ogni singolo paese appartenente al Patto di Varsavia era a sua volta separato da tutti gli altri da una serie di ulteriori distinte ‘cortine di ferro’. Anche l’arcaicissima nozione asiatica della ‘grande muraglia’ si prestava a questo punto a divenire una perfetta ‘linea globale di divisione’. Né si creda che John F. Kennedy, il ‘più berlinese fra i Berlinesi’, come ormai risulta da irrefutabili documenti, sgradisse troppo la situazione. Il senso vero di quel suo famoso discorso a Berlino, era che considerava ormai i Tedeschi dell’Ovest ‘più americani degli Americani’, mentre quelli dell’Est sarebbero rimasti o comunque divenuti ‘più sovietici dei Russi’. E non si può negare che tutto ciò sia in gran parte avvenuto.

 

Presente e Futuro: ‘oltre il confine’...

Come dicevamo fin dal titolo, le proiezioni delle ‘immaginazioni geopolitiche’ in atto, quali che esse siano, sono sempre più o meno accentuatamente ‘ostili’ verso qualcosa o verso qualcuno. Questo perché esse proiettano in un futuro sognato, o comunque auspicato, delle più o meno rilevanti modifiche dei confini esistenti. E in effetti oggi, per dirla col titolo di un interessante studio del Luverà, tutti i fermenti dell’‘immaginazione geopolitica’ in Europa ci sembrano tendere ormai con decisione a portare, in un senso o nell’altro, ‘oltre il confine’ dei vecchi stati nazionali in crisi. Si fa avanti così sempre più l’idea della regione come strumento di esclusione dal governo centrale, e viceversa dell’omogeneità etnica quale criterio aggregante di futuri Stati regionali. Particolarmente determinata e coerente in tal senso, appare soprattutto la nuova destra neoregionalista, la cui idea guida è lo sviluppo di un federalismo etnico, che consenta ai popoli, considerati come delle realtà assolutamente incomprimibili, di rimettere in movimento anche in Occidente le frontiere, di "aprirsi un varco attraverso la pietrificata sovranità statale", come dice Andreas Mölzer, ex presidente dell’Accademia dei Nazional-liberali austriaci. Ma ormai, aldilà della vecchia distinzione destra-sinistra, questa è oggi in definitiva la strategia sulla quale convergono vecchi e nuovi movimenti regionalisti e regionalisti-separatisti a livello europeo, attivi non solo in Germania ed Austria, ma anche in Catalogna, Scozia, Belgio, e in quei paesi dell’Est dove sono insediate minoranze nazionali. Dal 1989, cioè dal crollo della ‘Cortina di Ferro’, favorito da fenomeni in atto quali il nuovo ordine continentale determinato dal Mercato unico, l’incompiuta e tentennante Unione europea, ed i rivolgimenti all’Est. Tutti avvenimenti che hanno fortemente indebolito gli Stati nazionali, spingendo i movimenti regionalisti a modificare radicalmente la loro strategia: oggi essi, pur consentendo al cosiddetto processo di unificazione europea, mirano a conseguire un proprio status istituzionale che garantisca la loro "separazione all’interno dell’Unione Europea" (S. Pintarits). In tale direzione spingono ovviamente soprattutto "le regioni economicamente e politicamente più forti e quelle che dispongono di speciali caratteri linguistico-culturali e geografici". E così anche Bossi scrive in Vento del Nord (p. 202) che "la nuova Europa, secondo la Lega, dovrà essere una federazione di popoli liberi tutelati da forti istituzioni regionali, titolari della sovranità originaria". D’altra parte, in una già da tempo avviata fase di revisione del tradizionale concetto di sovranità territoriale, in cui gli Stati da un lato si aggregano in unioni od organismi internazionali più vasti, e dall’altro cedono competenze verso il basso, è logico che proliferino i progetti di Stati regionali, o di Euroregioni. Quest’ultime, fenomeno di cui quasi non si parla in Italia neanche fra gli ‘addetti ai lavori’, sono a tuttoggi ben 54, di cui la metà esatta gravitante attorno ai confini germanici. Quando sono interessate zone a cavaliere di confini nazionali, esse, come la recente ‘Euregio Tirolo’, possono svilupparsi e prosperare in una zona grigia sia dal punto di vista politico che istituzionale. I sostenitori a spada tratta d’un regionalismo etnocentrico o etnofederalismo, che in nome d’un’Europa delle Regioni, temuta e quindi avversata dalla UE, dichiarano ormai apertamente di volere la modifica dei confini, hanno un loro libro-manifesto che è Europa der Regionen, a cura di A. Mölzer - J. Hatzenbichler, pubblicato a Graz, dalla Leopold Stocker Verlag, nel 1993. Esso contiene vari scritti soprattutto di esponenti della nuova destra, compresa un’intervista a Jörg Haider, ma anche, quasi sconosciuto in Italia, un significativo contributo di Umberto Bossi intitolato: "Das Italien der Lega". Lo Hatzenbichler in particolare, vi formula nove tesi finali, tra le quali il principio che allo Stato federale dovrebbero spettare solo le competenze delegate dagli Stati regionali, titolari degli Affari Esteri per poter trattare direttamente con le regioni vicine. Il compito principale del Freistaat sarebbe quindi la "distruzione dello pseudo-Stato nazionale", arrivando così a conseguire un ‘nuovo ordine europeo’, con il vantaggio di "poter rivedere i confini tracciati artificialmente e ingiustamente", così che l’Europa delle regioni possa, sempre secondo Andreas Mölzer, testuali parole, "realizzare la riparazione del paesaggio politico dell’Europa determinato dai Trattati di Parigi del 1919 e dalle Conferenze di Potsdam e Jalta". Come si può constatare, in geopolitica l’‘immaginazione ostile’ si nutre soprattutto di ‘memoria storica’, come dimostrano clamorosamente i recenti esempi del Galles e della Scozia.

Dietro le quinte, punto immobile di riferimento per tutti è da molto tempo l’Internationales Institut für Nationalitätenrecht und Regionalismus (INTEREG), ovvero l’Istituto Internazionale per il Diritto delle Nazionalità ed il Regionalismo, associazione con sede a Monaco di Baviera. Al Congresso di fondazione, a Ratisbona, già nell’ottobre del 1977, quindi ben prima del fatidico ‘89, Alfons Goppel, allora Presidente del Land della Baviera, che finanzia l’INTEREG attraverso la Bayerische Landeszentrale für politische Bildungsarbeit - l’Ente centrale bavarese di istruzione politica - nel messaggio di saluto evidenziò l’importanza di "elaborare princìpi e il loro recepimento in un diritto europeo o internazionale dei gruppi etnici". L’INTEREG orienta la sua attività verso quella che viene considerata la più importante questione di politica internazionale, ovvero il conflitto tra maggioranze e minoranze etniche, che o devono convivere in uno Stato, o combattono per nuove delimitazioni territoriali e a favore dell’autodeterminazione. Nella dichiarazione istitutiva dell’INTEREG si sottolinea infatti l'obiettivo di una "relativizzazione degli Stati nazionali", al fine di conseguire "l’affermazione di un diritto dei gruppi etnici e dei princìpi dell'autodeterminazione e dell'autonoma stabilità delle regioni", in base al principio dell’omogeneità etnica, considerato l’unica garanzia contro il ‘potenziale di conflittualità’ dovuto al fatto, indubbiamente vero, che "solamente il 9% degli Stati è etnicamente omogeneo, mentre in tutti gli altri devono convivere maggioranze e minoranze, distinte in diversa misura a livello etnico, linguistico, culturale, spirituale". Tutti questi sviluppi, le cui basi teoriche, giuridiche ed organizzative sono state preparate da tempo nell’area germanica fin dagli inizi del secondo dopoguerra, e che hanno avuto il loro detonatore con il crollo del Comunismo, sono, lo si voglia o meno capire, pienamente in corso ovunque, Svizzera compresa. Lo dimostra ad esempio il fatto che il Republik Österreich-Bundeskanzleramt ha commissionato all’Accademia delle Scienze di Vienna un Rapporto intitolato: Österreich und das Europa der Regionen, pubblicato a Vienna nell’ottobre 1995. Solo gli Italiani sembrano non accorgersi quale sia esattamente lo scenario europeo verso il quale ormai ci si muove. Tutto ciò diciamo senza voler minimamente attribuire nessuna particolare responsabilità politica ai Tedeschi. Che l’area germanica sia oggi l’unica in fase di espansione centripeta in Europa, soprattutto dopo la riunificazione, e dopo la frammentazione in suo obiettivo vantaggio della Cecoslovacchia e della Yugoslavia, e quella probabile del Belgio, è un dato di fatto inoppugnabile. Viceversa, sono tutti gli altri stati europei, quale più quale meno a soffrire, di piccole o grandi tendenze centrifughe, e in particolare la Russia, con conseguenze geopolitiche facilmente immaginabili.

In realtà il tormento di andare o meno ‘oltre’ gli attuali confini, che certo assillerà sempre più l’Europa nell’immediato futuro, ha la sua ragion d’essere nella rimozione d’un’assai più profonda zona della nostra memoria collettiva, rimozione fatta, già da tempo, dall’intera civiltà occidentale. In un mirabile dialogo fra libro e libro, Martin Heidegger rispose nel 1955 con il suo studio, La questione dell’essere, al saggio di Jünger, Oltre la linea, apparso in suo omaggio cinque anni prima. Il problema indicato da Jünger era quello del superamento del nichilismo: "L’attraversamento della linea, il passaggio del punto zero divide lo spettacolo; esso indica il punto mediano, non la fine. La sicurezza è ancora molto lontana". Secondo Heidegger, dir così significava peccare di ottimismo, perché "ormai solo un Dio ci può salvare". Ma questo è certamente un altro discorso.

 

 

Riferimenti bibliografici

 

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