ABORTO DI UNA SOCIALDEMOCRAZIA

di Tito Livio

Nella primavera del 1981 scadeva il mandato settennale del Presidente della Repubblica Francese, V. Giscard d'Estaing. Per contrastare la sua rielezione e poter sperare di batterlo, il candidato del Partito Socialista, François Mitterrand, fu costretto ad allearsi col Partito Comunista Francese (PCF) di George Marchais.

All'epoca, benché l'Unione Sovietica e l'ideologia che incarnava non mostravano ancora palesi segni di cedimento, e benché rappresentasse oltre il 10% dell'elettorato, il peso reale del PCF nel Paese era del tutto trascurabile. La Francia era un paese all'avanguardia nel mondo occidentale, il Front Commun era un ricordo, ed il comunismo era considerato niente piú che un elemento paesaggistico di certe cinture urbane industriali.

Avendo vinto lo scontro elettorale anche grazie a questa alleanza, nel diventare l'11 aprile il nuovo Presidente della Repubblica, F. Mitterrand onoró il patto elettorale formando un Consiglio dei Ministri con ben quattro Ministri del PCF. Questa presenza anacronistica si rivelò naturalmente ingombrante per un paese come la Francia, cosí che Mitterrand ed il suo Primo Ministro iniziarono un'opera di lento soffocamento sino a spingere il PCF a ritirarsi volontariamente dalle responsabilitá governative.

Inizió il declino del PCF e del suo leader, ridotto via via a poco piú di una macchietta nelle sue apparizioni televisive. Grazie all'intelligenza di Mitterrand, il Partito Socialista assunse dunque quel ruolo di sinistra socialdemocratica che già caratterizzava i sistemi bipolari dei maggiori Paesi dell'Europa occidentale, ed ai quali l'ideologia comunista era del tutto estranea ancor prima della caduta del Muro.

In condizioni completamente diverse, stava succedendo qualcosa di analogo anche in Italia.

Negli anni 80, tramontato il sogno della Rivoluzione e anche del "sorpasso" del Partito Comunista Italiano (PCI) sulla DC, e scomparso il leader carismatico, Enrico Berlinguer, si affacció prepotentemente (in tutti i sensi) sulla scena politica italiana il Partito Socialista (PSI) , cui Bettino Craxi era riuscito a dare una veste di moderna socialdemocrazia, emarginando le vecchie componenti massimaliste che non si erano mai scrollate di dosso la sudditanza psicologica e materiale al PCI.

In un Paese che voleva crescere in seno alla comunitá occidentale, in un quadro internazionale in cui l'URSS ed il Comunismo si avviavano al tracollo, non fu difficile per il PSI attrarre sempre piú quell'elettorato comunista non troppo ideologizzato, che vedeva nella costituzione di un moderno partito della sinistra socialdemocratica la concreta possibilitá di bilanciare la quarantennale egemonia democristiana.

Prese avvio cosí un lento travaso di voti dal PCI al PSI che, favorito magari da alcuni eventi esterni, come la caduta del Muro ed i problemi di leadership all'interno del PCI, avrebbe rischiato di trasformarsi in vera e propria emorragia, con la prospettiva di ridurre il PCI ad una condizione non troppo dissimile da quella del PCF francese. Mutatis mutandis, Craxi stava operando come un Mitterrand nostrano.

Come l'apparato del PCI riuscí a "parare la botta" e a distruggere (fisicamente) colui che stava diventando il suo liquidatore testamentario, con l'azione combinata del Partito dei Giudici e del circo mass-mediatico, é cosa nota e fa (purtroppo) ancora parte della cronaca. Il Partito Socialista ed il suo leader sono stati eliminati dalla scena ed il PCI, ribattezzatosi (P)DS, ha egemonizzato tutta la sinistra e, ahimé, anche il Potere.

Quello che é successo in cinque anni di Governi a egemonia PDS in un'Italia priva di Amministrazione efficiente e di orgoglio nazionale, é sotto gli occhi di tutti, ed é stato ampiamente commentato in altri articoli di questa rivista.

Poi d'improvviso, arriva il colpo di scena. Mentre il centrodestra si prepara con pazienza a dar luogo all'alternanza al momento opportuno (addirittura fornendo al Governo i voti mancanti in momenti cruciali per il ruolo internazionale dell'Italia), ecco che i rimasugli di quello che fu il Partito Socialista craxiano trovano il coraggio per uno scatto d'orgoglio (quello che i rimasugli democristiani non hanno ancora trovato, né peraltro cercato), e rompono quella cortina di omertá che ha finora consentito al (P)DS di egemonizzare il Paese ben al di lá di quanto la propria consistenza elettorale giustificherebbe.

La banale constatazione del segretario politico socialista Boselli, secondo cui "D'Alema deve andarsene, perché la coalizione di sinistra non avrebbe speranza di battere il centrodestra alle prossime elezioni, presentando D'Alema come leader", invece di lasciare tutti indifferenti, vista la consistenza della fonte, provoca un terremoto tale che il povero D'Alema rischia davvero di doversi dimettere. Un Governo che resiste al Potere, indifferente al tracollo generalizzato del Paese, si squaglierebbe invece come neve al sole per delle querelles di poltrone, secondo le migliori tradizioni della Prima Repubblica!

Potenza dei craxiani alla riscossa? Non si direbbe davvero. Ci sembra molto piú realistico pensare alla dissoluzione di una maggioranza anacronistica, mai eletta dagli italiani, sopravvissuta alla Storia, che ha tentato di nascondere fino all'ultimo il suo stato agonizzante con operazioni di cosmesi facciale (il cambio di denominazioni, gli slogans patetici come "il Comunismo é incompatibile con la libertá",...) senza avere il coraggio, la capacitá e la voglia di rivedere i propri schemi mentali.

"Cambiare tutto affinché nulla cambi": é quello che le coalizioni di sinistra-centro hanno tentato di fare in questi ultimi anni, un po' come accadde in Romania con il compagno Iliescu, braccio destro di Ceausescu, spacciatosi per "nuovo" dopo la congiura di Palazzo e l'assassinio del Dittatore.

E dire che D'Alema ha avuto piú di un'occasione per elevarsi a "uomo di stato", se ne avesse avuto la stoffa, realizzando, in accordo col Polo, le riforme che avrebbero consentito di rifondare l'Italia e, accessoriamente, di ripulirla dalle scorie tossiche del passato. Con la creazione di un vero sistema bipolare, in un'Italia modernizzata, D'Alema avrebbe potuto diventare lui il Mitterrand italiano, colui cioé che avrebbe avuto il merito di traghettare gli eredi di un'ideologia defunta in un moderno schieramento socialdemocratico, diventando tra l'altro pacificatore nazionale e benemerito di un Paese a dignitá ritrovata.

Non ne ha avuto la forza né la capacitá, rimanendo quel grigio funzionario di un partito totalitario, trovatosi per una bizzarria della Storia, in una posizione troppo elevata al rango. Con tanta parte di responsabilitá sullo stato comatoso e di lacerazioni profonde in cui é stata trascinata l'Italia.

Nessun rimpianto dunque se, invece della sceneggiata cui ormai ci ha abituato (crisi sì, crisi forse, crisi no, mai parlato di crisi,...), il Governo si dimettesse davvero!

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