CNEO POMPEO

di Tito Livio

Perduta la battaglia di Farsalo, per non cadere nelle mani di Cesare, Cneo Pompeo fuggì verso l'Egitto per chiedere rifugio al giovane re Tolomeo XIV. Informato dai propri servizi di intelligence su come fossero andate le cose, il giovane re ed i suoi tutori mostrarono una buona dose di realpolitiek. Si resero conto cioé che le sorti di Roma, e quindi del mondo, erano ormai nelle mani del vincitore, e che la Storia stava offrendo loro su un piatto d'argento l'occasione per uscire dalla mediocrità in cui il regno d'Egitto era finito.

Fu così che quando Cesare giunse alla sua corte, Tolomeo gli presentò su un piatto d'argento la testa mozzata di Pompeo, pensando di fargli cosa gradita ed ottenerne quindi le sue grazie. Più che il realismo politico, fu in realtà un calcolo di servile clientelismo, allo scopo di ingraziarsi il Potente di turno, che spinse Tolomeo e la sua corte a voler anticipare le intenzioni di Cesare, uccidendo a tradimento il fuggiasco cui ufficialmente avevano concesso ospitalità.

Il calcolo si rivelò però sbagliato, dal momento che Cesare, oltre ad avere orrore del sangue versato inutilmente, aveva ben altre intenzioni verso Pompeo: perdonandolo e riappacificandosi con lui, intendeva ricomporre l'unità di Roma dopo quell'ennesima guerra civile, senza esasperare gli odii e le tensioni tra le fazioni dei vincitori e dei vinti.

Mal gliene incolse dunque a Tolomeo, visto che il suo eccesso di realismo non fece altro che provocare il pianto amaro di Cesare, nonché una imperitura fama di "imbecille" presso i posteri e, benché gli storici non lo dicano, un tragico esempio per i futuri italiani del secondo millennio d.C. (e, temiamo, anche del terzo).

Duemila anni più tardi infatti, sbaragliato il campo dagli avversari con l'appoggio delle famiglie patrizie della repubblica, ed occupato tutto l'occupabile, Massimo D'Alema ha iniziato a ritenersi l'onniPotente di turno, in dubbio costante se accettare o meno le acclamazioni dei soliti "clientes" che vorrebbero nominarlo re (anche Cesare rifiutò tre volte, non ostante la sua notevole ambizione, la corona che il Senato gli offriva, per rispetto alla costituzione repubblicana). Nel frattempo, per intimorire le ultime sacche di resistenza, lancia imperterrito denuncie giudiziarie, non tanto contro i nemici, quanto contro certi giornalisti che, lungi dall'attaccarlo, hanno il solo torto di non osannarlo apertamente e incondizionatamente nei loro articoli. Nascono quindi, come nell'antichità e nei secoli bui, richieste di riscatti a peso d'oro ("Guai ai vinti!"), ordalie, giudizi di Dio ed altre amenità varie, affinché il giornalista reprobo possa essere ammesso al perdono, e costituire altresì un monito per gli altri.

Se l'intolleranza di D'Alema verso la critica giornalistica rimane un suo comprensibile diritto, seppur discutibile presso un uomo politico, meno comprensibile è come tutti sembrino prendere sul serio quelle richieste, invece di trattarle con un più pertinente coro di "soffi rumorosi a labbra strette " (Garzanti) di cui Totò ci ha lasciato fulgidi esempi.

Tragico invece l'atteggiamento di quell'Ordine dei Giornalisti che, con pronta efficienza, ha comminato la sanzione dell'ammonimento ad un cronista politico, giudicandolo colpevole del reato di diffamazione, per aver scritto, udite! udite!, che probabilmente l'intenzione di D'Alema era quella di creare un sindacato unico ulivista. Nientemeno...!

Pur tralasciando la sostanza del presunto crimine, degna più di una "Secchia rapita" o della "Commedia dell'Arte", resta il fatto che un Ordine dei Giornalisti, organo preposto alla tutela della libertà ed indipendenza dei giornalisti, viene meno al suo ruolo e sacrifica la testa del perseguitato (e con essa la libertà di opinione) per porgerla su un piatto d'argento al Potente di turno, immaginando verosimilmente di fargli cosa gradita. Un po' come Tolomeo XIV. Non sappiamo se questa realpolitiek provocherà il pianto amaro di D'Alema, ma ne dubitiamo: Cesare era in fondo un "grande" della storia patria, ed i galloni se li era conquistati sul campo, D'Alema invece nella fureria di un partito, e forse la lungimiranza politica non è la stessa.

Certo è che, se di tutti i Tolomei della Storia resta ben poca traccia, le conseguenze dei loro gesti possono andare lontano. In effetti, la testa mozzata di Pompeo impedì una definitiva pacificazione di Roma e contribuì a portare più tardi Cesare alle Idi di marzo, e Roma alla fine delle libertà repubblicane.

Al posto di D'Alema, ci penseremmo due volte prima di incoraggiare simili comportamenti dei vari Tolomei (ma sarebbe più appropriato definirli Pierini) dei nostri giorni, e cercheremmo piuttosto di accelerare sulla strada delle riforme istituzionali, decise in Bicamerale di comune accordo col Polo: solo così infatti crediamo che D'Alema possa tagliare l'erba sotto i piedi a tutti i cospiratori che preparano le sue Idi e soffocano l'Italia con le loro quotidiane Idi...ozie!

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