PATTO D'ACCIAIO

di Tito Livio

Negli ultimi venti anni il peso degli accordi presi in sede comunitaria ha avuto un impatto via via più importante sulla vita quotidiana dei cittadini europei. Da un lato, questi accordi concedevano lassi di tempo piuttosto ampi per l'entrata in vigore, onde consentire l'adeguamento delle legislazioni nazionali e la preparazione delle riforme eventualmente necessarie, dall'altro le conseguenze di cerrti accordi non erano misurabili in termini immediati, ma su una scala temporalmente dilatata. Questo ha fatto sì che fino ad anni recenti, gli Italiani abbiano sottovalutato, o siano stati tenuti all'oscuro, delle conseguenze pratiche di certi accordi comunitari.

Il riferimento alle "quote latte" è evidente. Forse meno evidente è il legame degli accordi sul latte con altri fatti del recente passato, come la crisi della siderurgia e le sue drammatiche conseguenze in termini di (dis)occupazione.

Negli anni 70 si pose nella Comunità Europea il problema delle eccedenze di produzione nei settori agricolo e siderurgico, complicato dall'emergere sui mercati mondiali delle concorrenziali produzioni di Paesi terzi. Nelle riunioni dei Ministri competenti, ovviamente ogni Paese cercava di ottenere il massimo nei settori di proprio interesse, facendo concessioni agli altri Paesi in settori i meno strategici.

In questa fase furono gettate le basi dei futuri disastri italiani, basi che si fondavano (e che continuano a fondarsi) su due invariabili pilastri: l'ideologia e la superficialità.

Il Partito Comunista e la sua corte hanno sempre guardato agli operai dell'industria come una facile massa di manovra: grazie al controllo dei sindacati, gli operai potevano essere utilizzati a piacimento, nelle fabbriche e in piazza, per condizionare l'azione del Governo, e rappresentavano una forza elettorale facilmente raggiungibile dalle direttive e dalla propaganda del partito. Il fatto che i grandi impianti industriali riunissero in un medesimo luogo un numero elevato di operai, si rivelava dunque intrinsecamente favorevole agli obiettivi di controllo da parte dei partiti di sinistra.

Questi obiettivi di politica interna, andavano nella medesima direzione degli interessi dei partiti di Governo che vedevano, nel crescere di una grande industria assistita di Stato, la possibilità di accedere al controllo di notevoli flussi di denaro mediante le cosiddette "poltrone" a nomina politica. E andavano anche nella direzione degli interessi della grande Finanza che, con l'industria di Stato, sarebbe sempre riuscita a fare ottimi affari.

Si creò dunque una perfetta convergenza di interessi a che l'Italia si volgesse verso l'industria pesante e la siderurgia.

Parallelamente, si verificava che le organizzazioni dei coltivatori italiani fossero per tradizione controllate dalla DC, e da alcune sue correnti in particolare. Tuttavia, aldilà della posizione personale di qualche vecchio notabile, esse non creavano spazi sufficienti per tutti. Sia per questa ragione, sia per il fatto che la dispersione intrinseca dei lavoratori del settore agricolo ne impediva un agevole controllo da parte di un sindacato amico, i partiti di sinistra non erano particolarmente interessati a difendere e a sviluppare l'industra agroalimentare italiana. Non essendo quindi sufficientemente attraente né per il Governo né per l'opposizione, l'agricoltura italiana fu lasciata andare alla deriva, se non addirittura distrutta in favore di interessi, come quelli edilizi, ben più remunerativi per politicanti senza scrupoli. La distruzione della Conca D'Oro nel retroterra di Palermo ne è un tragico esempio.

Di fronte a questa convergenza di interessi puramente egoistici, che passavano al di sopra di qualsiasi considerazione di convenienza per il Paese ed il suo futuro, era fatale che in sede comunitaria i delegati italiani mirassero ad ottenere il massimo nel campo della siderurgia, lasciando che gli altri Paesi facessero il bello e il cattivo tempo nel campo dell' inutile agricoltura.

Fu così che l'Italia ebbe l'autorizzazione a costruire o potenziare i grandi impianti di Cornigliano, Taranto e Bagnoli, e a lanciarsi nella folle impresa di Gioia Tauro, accettando come contropartita di rinunciare a produrre determinate quantità di latte e derivati, o aranci, ecc., che andarono agli allevatori e coltivatori nordeuropei e francesi, per non parlare dei successivi spagnoli, greci e dei paesi limitrofi all'area comunitaria (Tunisia, Marocco, Israele,...).

E' a questo punto che conviene fare riferimento anche all'altro pilastro dei disastri italiani, la superficialità, termine generico con cui si può indicare tutta una serie di cattive qualità.

Se gli interessi di cui sopra guidavano in maniera più o meno velata i nostri negoziatori, è altrettanto vero che buona parte di essi non si era mai premurata di valutare le conseguenze a lungo termine di certe decisioni, né spesso di studiare i relativi dossiers. E' noto che Andreotti spesso si faceva istruire dai "tecnici" un paio d'ore prima dell'inizio dei negoziati su quello che doveva dire, immaginiamo con quanta convinzione, come pure che per ragioni linguistiche De Mita rinunciava a partecipare ai ricevimenti informali in occasione di vertici europei (famosa la scortesia verso Mitterrand, padrone di casa), classiche occasioni di incontri a due ove si tracciano gli accordi prima delle decisioni finali.

Non deve quindi sorprendere se l'Italia puntò tutto sulla siderurgia tradizionale, a basso contenuto tecnologico, nel momento stesso in cui questo tipo di produzioni cominciava ad essere accessibile ai paesi del terzo mondo, dato appunto l'ormai basso valore tecnologico, con un costo decisamente inferiore a quello dei paesi industrializzati.

Così, mentre altri paesi si dedicavano alla ricerca e produzione degli acciai "speciali", ad alto valore aggiunto, l'Italia si ritrovava nel giro di pochi anni ad avere una produzione di ferraccio non più concorrenziale, quindi non assorbito dal mercato e che costava alla Comunità Europea e al Paese un prezzo non più sopportabile.

Queste considerazioni erano comunque irrilevanti per la Triplice sindacale ed i suoi referenti politici, dal momento che la situazione contingente consentiva loro di vivere alla grande "quei mitici anni" (movimento operaio, lotte sindacali, scioperi, blocchi ferroviari, lotta continua, quasi "sorpasso" del PCI, ...).

Le conseguenze per il Paese le abbiamo invece viste alla grande in tempi più recenti, con la chiusura di buona parte degli stabilimenti di Bagnoli e Cornigliano e la conseguente catastrofe in termini di (dis)occupazione, goccia nel mare per Napoli, evento traumatico per Genova, anche perché concomitante con lo strangolamento del porto effettuato dai camalli, appartenenti manco a dirlo alla stessa area politico-sindacale. Chiusura imposta dalla logica di mercato prima ancora che dai ripetuti diktat della Comunità Europea stessa.

Non diversamente era andata anni prima con i transatlantici Michelangelo e Raffaello, meganavi per il trasporto passeggeri tra l'Italia e l'America, la cui costruzione fu decisa quando già si viaggiava in 707 o DC8, e finiti in disarmo o come ristoranti galleggianti senza aver mai fatto un viaggio!

Nel frattempo la crescita dei consumi alimentari ha fatto sì che l'Italia si ritrovi oggi a poter produrre, in base agli accordi comunitari sottoscritti, solo metà del proprio fabbisogno di latte e derivati, e un terzo del fabbisogno di carne. Come se non bastasse, si è obbligati a importare dall'Olanda (!) degli aggegi che chiamano pomodori, nati in serra con radici in provetta, ma che con i "pomodori" veri non hanno nulla in comune, mentre nel Napoletano si distruggono quantità impressionanti di San Marzano per eccesso di produzione rispetto alle quantità consentite.

In maniera del tutto analoga, l'Italia è obbligata a distillare la sovrapproduzione di vino, a distruggere non so quanti ettari di vigne e a ridurre la produzione d'olio d'oliva, onde consentire ad altri Paesi di immettere sul mercato le loro quote.

Processo indispensabile questo degli accordi comunitari, in cui ogni Paese sacrifica una parte di interessi in un certo settore per ottenere vantaggi in un altro, consentendo una ottimizzazione ed armonizzazione delle produzioni comunitarie, ma che dovrebbe essere condotto da negoziatori che conoscano i dossiers di cui dovranno discutere e che soprattutto li abbiano valutati in termini di reali interessi a lungo termine del Paese. Ma che soprattutto possano mettere in gioco il peso politico del proprio Paese.

E qui ci arrendiamo, non potendo pretendere che un governo di postcomunisti abbia un qualche peso in Europa occidentale. Tantopiù se guidato da un Boiardo di Stato sopravvissuto alla DC e appena tollerato dai nuovi padroni, il quale, per ironia della sorte, guidava la siderurgia di Stato proprio in quegli anni, non facendo figurarne i passivi nei bilanci dell'IRI onde poter dire di aver risanato i conti dell'IRI, e che si è ingegnosamente occupato di agricoltura e pomodori (Cirio), tanto ingegnosamente che un Pubblico Ministero ne ha chiesto il rinvio a giudizio!

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