XI.
Verso la rinascita del pensiero ateo
1.1 Il concetto di “ateismo” nel Settecento
Per comprendere l’articolarsi della dialettica
tra i vari tipi di illuminismo prodromico all’ateismo
è indispensabile cogliere il significato
della parola “ateismo” e dei suoi
derivati nell’epoca che stiamo considerando.
Va ricordato che sin dal XV secolo le autorità ecclesiastiche cominciano
ad
utilizzare massivamente lo strumento della scomunica.
Esso, istituito dal concilio di Nicea nel
325 ed affinato in quello di Calcedonia del 451, ha il doppio scopo di escludere
il
peccatore da ogni rapporto con la comunità
cristiana e quello di additarlo al
pubblico ludibrio. Ma la scomunica, caratterizzata
dall’accusa di empietà, può tradursi facilmente nella percezione
pubblica come un’accusa di ateismo, per quanto,
è il caso di ricordarlo, i due
termini non sono corrispondenti. Empietà
deriva dal latino im-pietas
e sta ad indicare il comportamento incompatibile
con la pietas (la
devozione), che si può manifestare in vari
modi, dal sacrilegio, alla
bestemmia, alla profanazione, ma che non
corrisponde in ogni caso alla
professione di ateismo. Tuttavia è facile comprendere
come, per estensione, il concetto di empietà possa
diventare criminalità e da questo ateismo
in una concezione popolare di
irreligiosità generica. Si comprende così,
per un verso, l’improprietà di molte
accuse di ateismo, e nello stesso tempo l’opportunità
strumentale di sanzionare una qualsiasi attività
scorretta o sconveniente nei
confronti dell’idea di Dio con “ateismo”.
È grave che molti esegeti dell’ateismo ancor
oggi come allora non riescano a porre adeguate distinzioni e cogliere
differenze,
perpetuando così equivoci forse tollerabili
relativamente all’ateismo pratico
(comportamentale), ma non all’ateismo teorico
(filosofico) pena la sua totale
incomprensione e mistificazione.
L’esecrazione di un pensiero anticristiano,
ma raramente ateo, mette in
moto sin dal secolo precedente una vasta
gamma di pubblicistica che coniuga
l’apologia della religione con la diffamazione
dell’ateismo. Gli atei, per la
semplice ragione di negare Dio, vengono accusati di
ogni sorta di comportamenti esecrabili e
di crimini abominevoli. L’abate Augustin Barruel, gesuita e
legittimista fanatico, membro della Società de Jésus
e dal 1787 redattore del Journal ecclesiastique, è un grande protagonista di queste
campagne. che nel 1798 dava alle stampe les Memoires pour
servir a l’histoire du jacobinisme, nel quale, accorpando nel termine di
giacobinismo tutte le aberrazioni di fine
secolo, tuona contro «i nuovi
Vandali» rivoluzionari tra i quali pone Voltaire,
Diderot e d’Alembert, «sofisti dell’empietà», complottanti «contro il Dio del Vangelo»[1]. E lo strenuo difensore del trono e dell’altare
precisava
anche: «Il velo dell’empietà doveva essere
abbastanza trasparente per renderla piccante e abbastanza oscuro per
procurare
delle scuse e delle scappatoie. Quest’arte
era soprattutto propria del volpone
sofista d’Alembert. Diderot, più ardito, doveva
talora essere abbandonato a tutta la follia
della sua empietà.»
[2]
11.2 Prodromi e moventi dell’ateismo filosofico
Se ci eravamo
particolarmente dilungati al capitolo XI
nel dar conto degli sviluppi della
scienza e specialmente della tecnologia nel
Settecento è perché è nei nuovi
servizi, nei nuovi congegni e nei nuovi manufatti
che la ricerca di base e
quella applicata, insieme con i nuovi metodi
di costruzione e applicazione di
apparecchi e macchine, che muta profondamente
la prospettiva antropologica e
(ci corre l’obbligo di precisarlo) non sempre
in meglio. Intendiamo dire che la
tecnologia rende molto più confortevole l’esistenza
della maggior parte degli
uomini, riducendone la fatica fisica, largamente
ridotta grazie all’energia
termica e alla trasmissione meccanica del
moto, ma pone anche l’umanità sulla
strada del “macchinismo”. Una condizione, quella dell’uomo
moderno, che vede eccessi i quali, proprio
sotto il profilo antropico,
producono anche effetti negativi sul corpo
e sulla psiche di talune categorie
di lavoratori di basso livello sottoposte
a ritmi di lavoro disumani con salari
infimi. Una situazione che oltre a provocare preoccupazioni
e
indignazione sfocerà nella riprovazione di
molti e in teorie sociologiche e
politiche per porvi rimedio. Va però anche
aggiunto che il Settecento vede
l’invenzione di altri tipi di macchine, estremamente
semplici e non nate per “produrre”, come
il pallone aerostatico. Quando la mole
leggera della macchina volante dei Mongolfier si
libra nel cielo di Parigi, il 5 giugno del
1783, non è per chiudere l’uomo tra
le quattro mura di un opificio in un lavoro
stressante, ma per liberarne la
fantasia verso spazi dove ciò che era sino
a ieri
impossibile si apre al possibile.
Lasciando agli esperti le
analisi antropologiche ci limiteremo qui a dire che il
superamento dei limiti del corpo umano e
in genere del corpo animale come forza
motrice attraverso le leve degli arti muta
in qualche modo il rapporto tra
l’uomo e il mondo. Ma sono specialmente le macchine
mobili che mutano il rapporto dell’uomo con
la terra, col mare e con l’aria che
hanno un peso rilevante e fanno capire che
l’uomo è in grado di superare i
limiti del suo corpo attraverso le sue creazioni
meccaniche. Da ciò la speranza
in un possibile nuovo modo di esistere e
di esperire la vita, il suo
allontanarsi da schemi di esistenza che prima di ciò
che abbiamo chiamato macchinismo erano rimasti immutati nei millenni. Ma anche nuove inquietudini e paure per una
perdita della
dimensione umana e di valori ritenuti irrinunciabili
che riposavano in una
tradizione religiosa profondamente radicata
nella cultura e nelle singole
coscienze, convinta che le cose eccezionali
fossero possibili esclusivamente o
a Dio stesso o ai santi suoi “delegati”.
È probabile che tutto ciò, in qualche
misura, contribuisca all’allontanamento di
una parte (sia pur modesta) di
un’umanità “tecnologizzata” dall’orizzonte teologico
in direzione agnostica o persino ateistica.
Infatti
non solo le nuove scoperte scientifiche aprono
il ventaglio delle conoscenze,
ma anche alludono ad un superameno di limiti
umani ritenuti “fissi” dalla
Creazione che mette in mora certe rigidezze
della fede al ritmo veloce delle
nuove macchine.
Per sgombrare da subito il
campo da numerosi e vischiosi equivoci bisogna
comprendere da subito che cos’è
l’ateismo e che cos’è l’anti-Cristianesimo.
Quando Bayle afferma che «L’ateismo non conduce
necessariamente alla corruzione dei costumi
» non può pensare a La Mettrie, a Helvétius o a d’Holbach, che
alla sua epoca
non erano ancora nati, bensì a Spinoza e alla sua
teologia panenteistica. Un a
teologia definita impropriamente come un
“ateismo” dai teologi ebraici e
cristiani che vedevano nella sua esegesi
della Bibbia e nel suo razionalismo panenteista una troppo pericolosa religione alternativa,
soprattutto presso le classi colte. Come riteniamo
di aver sufficientemente chiarito a suo tempo
[3] Spinoza non è né antiebraico (l’ebraismo è la sua
fede di
partenza) e né anticristiano, semplicemente
egli intende riformare
un’interpretazione rozza delle Sacre Scritture
che confonde il fine didattico
con quello teologico. Questo stato di cose
ci fa capire come Mersenne potesse ritenere, nel
1635, che a Parigi ci fossero 50.000 atei,
stima che sarebbe certamente
eccessiva anche pensando ad un puro ateismo
“pratico” [4], ma
come all’opposto un feroce anti-ateo come
il padre Garasse
si preoccupasse di minimizzarne la presenza
a non più di cinque, tre dei quali
italiani. [5]
Cassirer, dopo
aver rilevato giustamente che il concetto
di razionalismo nel materialismo
illuministico taglia i ponti col razionalismo
metafisico secentesco di
Cartesio, di Malebranche e di Spinoza,
osserva:
Il periodo dell’Illuminismo non trae l’ideale
di
questo pensiero dalle dottrine filosofiche
del passato; ma esso ideale gli si
viene formando sul modello e sull’esempio
che riscontra nella scienza naturale
di quel tempo. Si cerca di risolvere il problema
centrale riguardante il metodo
della filosofia, anziché mediante il Discours
de la Méthode di Cartesio, risalendo alle Regulae philosophandi
del Newton e questa risoluzione imprime tosto
agli studi una direzione del tutto
diversa. Il Newton, infatti, non procede
per deduzione, ma per analisi. Egli
non comincia dal porre determinati principi,
determinati concetti universali,
onde procedere di qui, a mano a mano, mediante
sillogismi astratti, verso la
conoscenza del particolare, dell’”effettivo”;
ma il suo pensiero si muove in
senso opposto [6]
A
tale considerazione sul metodo newtoniano, Cassirer ne fa seguire una seconda
che lo spiega anche meglio:
Un punto di partenza realmente univoco non
ce lo può dare l’astrazione o la “definizione”
fisica, ma
soltanto l’esperienza e l’osservazione. […]
Quel che si cerca
infatti e che si presuppone come esistenza inviolabile
è l’ordine e la
perfetta normalità di ciò che è effettivo;
[…] Non si passa quindi dai concetti
e dai principi ai fenomeni, ma viceversa.
L’osservazione è il datum; il principio e la norma il
quaesitum. Questo nuovo ordine di precedenza
metodico ha impresso il suo suggello a tutto
il pensiero del secolo XVIII. [7]
Per quanto riguarda il nuovo senso illuministico del termine “ragione” Cassirer asserisce:
Qui si manifesta ancora una
volta un notevole cambiamento di significato
subito del concetto ragione
rispetto alla concezione del secolo XVII.
Per i grandi sistemi metafisici del
secolo XVII, per il Descartes e il Malebranche, per lo Spinoza e il Leibniz la
ragione è il territorio delle “verità eterne”,
di quelle verità che sono comuni
allo spirito umano e a quello divino. Ciò
che conosciamo e intuiamo in grazia
della ragione, lo intuiamo direttamente ”in
Dio”: ogni atto della ragione ci
conferma la partecipazione all’essenza divina,
ci schiude il regno
dell’intelligibile, del soprasensibile. Il
secolo XVIII dà alla ragione un
altro significato, più modesto. Essa non
è più un complesso “di
idee innate” date prima di ogni esperienza,
nelle quali ci si manifesta
l’essenza assoluta delle cose. La ragione non è tanto
un siffatto possesso quanto piuttosto una data forma di acquisto.
Non è l’erario né il tesoro dello spirito,
nel quale sia ben custodita la
verità, come una moneta coniata; è invece
la forza originaria dello spirito, la
quale conduce alla scoperta della verità
e alla sua determinazione. Quest’atto determinante è il germe e l’indispensabile premessa di
ogni
vera sicurezza. Tutto il secolo XVIII intende
la ragione in questo significato.
Esso non la considera un fisso contenuto di cognizioni, di principi, di
verità, ma piuttosto come una facoltà, come una forza che si può
comprendere pienamente soltanto nel suo esercizio
e nella sua esplicazione. Che cosa sia e che cosa possa, non si potrà
mai giudicare dai suoi
risultati, ma soltanto dalla sua funzione. E la
sua funzione più importante sta nella sua
capacità di legare e di sciogliere. [8]
Sciogliere e legare i componenti delle credenze attraverso la loro previa scomposizione per poter procedere a una nuova costruzione concettuale: questa la tesi del Cassirer nel definire i criteri metodologici del pensiero illuministico e, aggiungiamo noi, post-metafisico. Su queste basi euristiche la “libido sciendi” che la teologia dogmatica aveva condannato diventa il fondamento del conoscere e del filosofare illuministico.
È interessante rilevare come siano viste da uno storico cattolico come Chaunu le posizioni di Voltaire, di Helvétius e
di
d’Holbach, che avrebbero considerato Meslier
un eroe e un precursore
dell’anti-Cristianesimo. Egli vede nel rifiuto
della fede in Cristo nient’altro
che un’operazione “sostitutiva”, scrivendo:
«Il rifiuto della Rivelazione
particolare appartiene alla sfera della nuova
fede. La violenza dell’attacco
alla religione, nella prima metà del XVIII
secolo, ha un carattere religioso:
poiché le nuove idee si inseriscono nelle strutture
mentali ereditate dal cristianesimo mediante
un processo di sostituzione.» [9] Nulla
da eccepire relativamente a Voltaire, che è tanto
anti-ateo quanto fedele di una religione,
quella deista, che è a tutti gli
effetti sostitutiva del Cristianesimo in
quanto sua modificazione in senso
razionalistico e panteistico. Per quanto
riguarda i due materialisti, invece,
la nostra idea è che più che di una sostituzione
si tratti di un trasferimento
dei principi ontologici dalla religione (teologia
cultuale) a
una metafisica (teologia filosofale) dove
la Necessità impersonale prende il posto
della Volontà del Dio personale della Bibbia.
Ora, non rilevare le differenze
filosofiche tra il deista e i materialisti,
accorpandoli, ci pare il segno
della superficialità con la quale storici
ricchi di prestigio quanto carenti nell’analisi filosofica possano abbandonarsi ad
affermazioni sommarie e acritiche il cui
solo scopo apre esser quello di
confondere le idee in un campo che di confusione
soffre troppo e da sempre.
Ci si può domandare come sia stato
possibile (all’infuori di ogni giudizio su di essi)
che alcuni uomini del XVIII secolo abbiano
potuto avanzare l’ipotesi della
non-esistenza di Dio. La domanda non è peregrina,
perché è veramente difficile
comprendere come in un contesto non diremo
uniformemente cristianizzato, il che tutto
sommato è irrilevante, ma impregnato
di Dio, sia stato possibile da parte di qualcuno
negarne l’esistenza. Dalla
culla alla tomba l’uomo europeo dal IV secolo in poi
ha ricevuto un ferreo imprinting teistico
(nella fattispecie cristiano) ed un sistematico
lavaggio del cervello da ogni
“sporcizia” di incredulità. Helvétius, convinto
che sia
l’educazione a determinare il modo do pensare,
sostiene che «L’arte di formare
gli uomini è in tutti i paesi legata così
strettamente alla forma di governo,
che forse non è possibile cambiare in modo
considerevole l’educazione pubblica
senza considerare la costituzione stessa
degli stati.»
Probabilmente la sua tesi è vera solo a metà, ma
saranno comunque veramente pochi quelli disposti
a seguirlo nel perorare una
riforma di sistemi educativi in Francia.
E tuttavia, nel ritenere l’educazione
elemento fondamentale ai fini della formazione
di un individuo in una certa
direzione, va sottolineato che proprio lui, che aveva
studiato dai Gesuiti, ne appariva come la
smentita vivente.
I Gesuiti hanno dominato l’educazione in
Europa e in alcune aree dell’America sino
a una data
precisa, il 1759, attraverso un sistema di
collegi diffuso e capillare, dove
l’alta qualità dell’insegnamento era sicura
garanzia di ottima formazione
culturale. Da tale data in poi e sino allo
scioglimento dell’ordine da parte di
Clemente XIV, nel 1773, è una catena di passi
politici dei loro nemici per
determinare la loro espunzione. Tutta politica
la loro caduta, iniziata con
l’iniziativa del primo ministro portoghese
Pombal di
espellerli dai territori del regno perché
diventati troppo potenti in Paraguay,
dove hanno instaurato un sotto-stato teocratico
da essi
controllato e sottratto all’autorità regia.
Per ragioni diverse seguiranno tale
strada la Francia nel 1764 (pretesto la bancarotta
della loro compagnia commerciale in Martinica),
la Spagna, il Regno di Napoli e
il Ducato di Parma. La caduta del sistema
scolastico gesuita è un evento estremamente importante e pesante, che colpisce gli assetti
educativi della maggior parte dell’Europa,
ed impone la loro sostituzione nel
sistema didattico. Se ne avvantaggiano non impossibili
scuole laiche (l’insegnamento laico è possibile
solo “in privato”) ma altri
ordini religiosi dediti all’insegnamento
(come gli Oratoriali). Va precisato
però che in generale l’espulsione dei Gesuiti
pone seri problemi di riaggiustamento non tanto dei criteri didattici, ma
specialmente delle reti e delle strutture
educative in moltissime aree e
territori prima coperti dall’insegnamento
impartito nelle scuole gesuitiche.
Per delineare da subito l’ambito teorico nel quale si dispiega l’ateismo illuministico converrà cercare di individuare ed enucleare alcuni concetti-guida di carattere gnoseologico e ontologico che sono: A. il meccanicismo; B. il sensismo; C. il determinismo. A questi se ne aggiungono altri di carattere etico tra i quali sicuramente troviamo quello umanistico-solidaristico, quello messianico-rivoluzionario (solo in parte legato al primo) e quello utilitaristico-realistico. A quest’ultimo filone appartiene sicuramente il medico e pensatore inglese (ma di origine francese) Bernard de Mandeville, laureato in medicina a Leida nel 1691 e passato poi in Inghilterra. Mandeville (che però non è ateo ma semmai deista) pone in maniera dicotomica due modelli sociali alternativi: la piccola società rurale e la grande società metropolitana; la prima, armonica virtuosa e stabile, la seconda, caotica, dispersiva, dispendiosa e dinamica. L’errore che egli imputa a pensatori moralisti ed “armonicisti” come Shaftesbury, memore della lezione spregiudicata di Hobbes, è di non aver compreso l’inconciliabilità dei due modelli e di teorizzare una società morale ed armonica che è inconciliabile col progresso economico. L’opera nella quale Mandeville espone le sue tesi, pubblicata nel 1714, porta il titolo di La favola delle api, con un lungo sottotitolo: ovvero, vizi privati, pubblici benefici, con saggio sulla carità e le scuole di carità e un’indagine sulla natura della società. In effetti è proprio la favola-apologo sull’alveare ad introdurre la sua riflessione, che enuncia una metafora della società umana nel suo consistere, strutturarsi, mutare e decidere il proprio destino sulla base dei comportamenti collettivi.
Per rendere in sintesi il contenuto della favola vera e propria (che precede la parte saggistica), in versi (circa 350) e il cui titolo specifico è L’alveare scontento, ovvero i furfanti resi onesti, diremo che ci viene presentato un vasto alveare-stato di api che vivono in agi e lussi superflui; potente, rispettato e culla della scienza e dell’industria, è regolato da leggi costituzionali. I versi, suddivisi per sezioni argomentali contrassegnate da lettere, sono ripresi e commentati nel successivo Ricerca sull’origine della virtù morale, dove si spiegano i singoli passaggi bisognosi di esplicazione. Il benessere generale e il progresso dell’alveare sono il frutto di tanti piccoli abusi e trucchi “individuali” per emergere ed arricchirsi, per quanto lo stato sia fiorente. Rileva il Nostro: «Ogni parte era piena di vizio, ma il tutto era un paradiso.» e «anche il peggiore dell’intera moltitudine faceva qualcosa per il bene comune.» al punto che nell’insieme «come l’armonia nella musica, faceva accordare nel complesso le dissonanze» [10]
Ma il moralismo, sempre in agguato, indifferente al fatto che il lusso dia lavoro ai poveri, che la vanità aiuti la produzione industriale e che la volubilità renda fiorente il commercio, fa sì che ognuno si lagni dei vizi degli altri (senza curarsi dei propri). Il re, Giove, stufo delle lamentele decide allora di porvi fine ed agisce di conseguenza, sicché la situazione muta e «l’onestà riempie tutti i loro cuori» [11]: le api sono diventate virtuose. Il provocatorio discorso di Mandeville si articola in modo ingegnoso, ma ciò che colpisce è l’anticonvenzionalità, come nel passaggio in cui la virtù della donna onesta diventa alimentatrice della prostituzione: «Chi potrebbe immaginare che le donne virtuose, senza saperlo, promuovano e avvantaggino prostitute? Oppure (ciò che sembra un paradosso ancora più grande) che l’incontinenza aiuti a difendere la castità?» Infatti il giovane eccitato alla vista delle donne cercherà di soddisfare i propri impulsi con qualcuna di esse, ma se queste sono tutte oneste «rigide e inaccessibili» si vedrà costretto, fatalmente, a rivolgersi ad altre «più compiacenti» [12]. Mandeville esemplifica un genere di moralismo che assume diverse connotazioni nel Settecento e che troveremo anche in Diderot, sia pure in termini non assertivi ma problematici.
In filosofia il ritorno dell’atomismo coincide con i nuovi orizzonti della scienza.
Il
successo della nuova ricerca scientifica
basata sull’osservazione e sulla
sperimentazione, accompagnato dal parziale
accantonamento della disastrosa
metafisica di Cartesio apre la via ad un
ritorno dell’ontologia pluralistica
(sia pure “conciliata” col Cristianesimo
ad opera di Gassendi), all’ammissione dell’esistenza del vuoto,
e ad
una migliore elaborazione del concetto di
moto. In tal senso il cristianissimo
Newton contribuisce in maniera determinante a demetafisicizzare la scienza e a renderla relativamente
impermeabile alla religione. E tuttavia, ancora per buona parte del XVIII
secolo il cartesianesimo continua ad imperversare in Francia e a
frenare gli sviluppi di una gnoseologia corretta e non inquinata dalla
metafisica. Rileva Herbert Butterfield:
Generalmente in Inghilterra si sosteneva
Newton,
mentre i Francesi tendevano a rimanere attaccati
a Cartesio: ne derivò una
controversia che continuò per buona parte
del diciottesimo secolo. Sia Cartesio
che Newton furono geometri di prim’ordine;
ma la vittoria finale di Newton ha per noi
un particolare significato in quanto
rivendica il valore dell’alleanza della geometria
con il metodo sperimentale
contro l’elaborato sistema deduttivo di Cartesio.
I puri e relativamente vuoti
cieli newtoniani, alla fine, ebbero la meglio
sull’universo cartesiano zeppo di materia
e agitato da vortici, della cui esistenza le osservazioni scientifiche non avevano fornito
alcuna prova. [13]
Robert Lenoble
evidenzia la contrapposizione tra l’ottimismo
e il pessimismo nei pensatori del
Seicento che influenzano quelli del Settecento,
parlando di “conflitto
affettivo” tra differenze puramente metafisiche.
La contrapposizione tra i
metafisici ritarderà l’avvento degli sperimentatori,
quelli che più tardi
metteranno in atto le idee rivoluzionarie
di Bacone
in merito all’indispensabilità della sperimentazione
per qualsiasi progresso
della conoscenza , dando così un’accelerazione nuova
alla vera scienza. Egli rileva:
Un volta
di più queste differenze metafisiche celano
un conflitto affettivo. Cartesio,
come Pascal, resta nell’ambito della tradizione
platonica: il mondo per l’uomo è un’occasione
di pensare, esso non costituisce
il reale, il reale lo si ritroverà nel pensiero puro o
mediante esso. Per Hobbes, che attribuisce pieno
valore al «fenomeno», la mente viene assorbita dalla
conoscenza delle cose materiali le quali
in tal modo divengono, si può dire, l’unica
realtà. Non c’è più posto per il
pensiero puro: «La scienza è in funzione
della potenza. Ogni speculazione è
stata intrapresa in vista d’una qualche azione
od opera da realizzare» [De corpore, I, 6]. A questo punto, quella che basta al nostro
intento è un tipo di causalità
consistente nel mettere in rapporto due fenomeni,
anche se eterogenei, basta
che si condizionino e che ponendo l’uno producano
l’altro. Un nesso di
tal genere Cartesio lo dichiarava inintelligibile:
non arrivò a capire come
l’immagine retinica possa produrre «idea».
Di qui, una volta
convinto che tutto deve spiegarsi con una causa che
sia anche una
ragione, il ricorso a Dio. Questo medesimo
nesso costituirà per Hobbes il modello stesso della intelligibilità:
l’immagine retinica è seguitata dall’ «idea»;
; è così per che è così. La
«causa sconosciuta» per Cartesio è Dio, il
quale accorda pensiero ed estensione
mediante una ragione; per Hobbes questo medesimo
accordo viene considerato come un fatto. Indubbiamente
in questa controversia dell’«è così perché
Dio l’ha voluto» e dell’«è così
perché è così», si riassume sostanzialmente
tutto il dibattito tra
spiritualismo e materialismo. La
risposta è il risultato d’una riflessione sul pensiero
e quindi della metafisica. La scienza positiva, ormai
limitata al fenomeno, rifiuterà sempre più
di prendere posizione. [14]
La
scienza positiva, la scienza autentica, comincerà
soltanto nel Settecento a darsi delle regole
non-metafisiche ed a procedere
correttamente al fine di determinare il «funziona
così perché non può
funzionare altrimenti» in condizioni date
come quelle dell’universo esistente,
qui ed ora. E ciò perché solo questo “così” è costante,
ripetibile, confermabile ed esprimibile matematicamente
e discorsivamente. Il resto è sempre e solo
teologia più o meno camuffata.
11.3 Pensiero libertino
e “ateismo pratico”
Per entrare in argomento sentiamo che cosa
pensa del pensiero libertino un esperto come
Sergio Bertelli,
il quale afferma:
Seguire la storia del movimento libertino
è
seguire lo scorrere di un fiume carsico che,
sgorgando in superficie nell’età
di Pomponio Leto, di Pomponazzi, di Machiavelli, si inabissa nelle
profondità della terra al tempo della Riforma,
del Concilio di Trento, delle
guerre di religione, per riemergere alla
luce del sole con Spinoza
e Bayle, disperdendo poi le sue acque nel grande
fiume dell’Illuminismo. [15]
Molto bella e calzante
la metafora del fiume sotterraneo. In quanto a Spinoza, lo abbiamo visto in La filosofia e la teologia
filosofale, si tratta di un grande riformatore “sistemico”
della religione ebraico-cristiana. Bayle è un
acuto critico non già della religione bensì
del comportamento religioso
tradizionale, che è “da depurare” e non
da riformare, ma insieme egli sottopone ad
analisi e critica vari modelli
eterodossi e nello specifico di quello spinoziano. Va
quindi tenuto presente che in entrambi i
casi si tratta
di pensatori che operano in senso construens,
mentre molta parte della letteratura libertina
vuol essere destruens,
e per fare questo attinge ai due grandi citati
come ad altri in modo sempre
molto strumentale. Sia Spinoza e sia Bayle offrono peraltro ottima
“materia prima” utile ai libertini, i quali,
operano perlopiù in clandestinità
per salvare la pelle, avendo però “da nascosti”
anche la possibilità di dire
qualunque cosa e di lanciare qualunque ingiuria.
Ma a prevalere è tuttavia
l’ispirazione deista, sì che non si è lontani dal vero
nel ritenere che quasi tutta la letteratura
clandestina del ‘600 e ‘700 muova
una critica alla religione cristiana in
nome di quella ragione (e contro la rivelazione) che il deismo
britannico aveva assunto a criterio teologico
anti-tradizionale.
Il pensiero libertino nasce nel ‘500, copre tutto il ‘600 e rifluisce nel
‘700 perdendosi
in molti rivoli non tutti irreligiosi; ma
il termine “libertinismo”
(che fa spesso il paio con quello del tutto
improprio di “epicureo”) indica
spesso ciò che si può definire “ateismo pratico”.
Vale a dire
quell’atteggiamento comportamentale che,
senza attenersi ad alcun fondamento
teorico ateo, dichiara acriticamente che
Dio non esiste o pensa ed agisce come
se non esistesse. Un’ottima sintesi sul tema
dell’ateismo pratico ce la offre Georges Minois, nelle prime
quattro parti del suo ottimo Storia
dell’ateismo. Il saggio, pubblicato nel 1988, grazie
ad una copiosa ricerca
documentale, ne delinea un ampio e approfondito
scenario, per quanto limitato quasi alla
sola Francia, che è però il paese dove
il fenomeno culturale del libertinismo ha assunto
aspetti più rilevanti. Uno scenario che trova
il proprio fondamento
nell’atteggiamento dell’“incredulità”, che
possiede una propria fenomenologia
evolutiva sfociante in due posizioni distinte:
l’ateismo pratico, appunto, e quello teorico, ovvero filosofico. Come si sarà
compreso il
nostro lavoro concerne questo e non quello,
per cui il
lavoro di Minois, al quale rinviamo, è a nostro
avviso (col solo limite geografico accennato)
il miglior testo oggi disponibile
sulla storia dell’incredulità e sulla dialettica
intellettuale ed esistenziale
tra l’ateismo teorico e quello pratico. Minois, anzi,
fonda la propria ricerca su una sua originale
teoria in base alla quale
l’incredulità si sarebbe divaricata storicamente in
“razionale” ed “irrazionale”, e, filtrata
dalla “coscienza mitica”, sfociata in
sette “atteggiamenti” (Ateismo pratico, Esoterismo e
occultismo, Sette eterodosse e critiche,
Grandi religioni ortodosse e
dogmatiche, Deismo, Panteismo, Ateismo teorico).
In questo schema i due ateismi
costituiscono posizioni disgiunte dalle differenti
interazioni con gli altri
cinque atteggiamenti, tutti caratterizzati dal differente rapporto
razionalità/irrazionalità. A seconda del rapporto tra
i due si determina, quindi, non tanto la
religiosità o l’irreligiosità, quanto
la razionalità o l’irrazionalità [16]. Ne consegue uno schema interpretativo dove
l’ateismo pratico si pone come atteggiamento
fondamentalmente irrazionale e quello teorico, invece, razionale, ma Minois
ci precisa che ognuna delle posizioni delineate
non sono “impermeabili”,
poiché:
Nelle mentalità come
nell’esperienza dell’uomo i confini tra atteggiamenti
diversi sono sempre
sottili.
Tra l’ateismo teorico puro e il puro panteismo,
ad esempio, esistono
molte possibilità di fusione e di conciliazione,
molte zone ambigue e di
collegamento. E, analogamente, dov’è situato
precisamente il discrimine tra ateismo pratico ed esoterismo, tra deismo e panteismo? [17]
Siamo del tutto
d’accordo sul fatto che tra il deismo e il
panteismo il
confine sia indefinito, ma per nulla sull’accostamento
tra ateismo pratico ed esoterismo ed ancora meno sulla «possibilità di
fusione» tra l’ateismo teorico e il
panteismo che sono oppositivi e che è gravissimo
errore filosofico
l’accostarli.
L’ateismo pratico è “comportamentale” e quello teorico-filosofico “intellettuale”, ed essi
sono
contigui per quanto molto differenti; ma
nessun rapporto esiste tra essi e la
religiosità, di cui esoterismo e panteismo sono
espressioni diverse ma anche connesse. È
semmai l’atteggiamento antireligioso
che distingue il pratico dal teorico, poiché
il primo è spesso più intollerante
nei confronti del religione, e quindi più irrazionale
se è anche emotivo ed aggressivo. Il nostro
dissenso con Minois è motivato
anche da evidenze storiche inconfutabili,
poiché, per limitarci ai casi
considerati nel Capitolo VII, è chiaro che
sia Voltaire e sia Rousseau, che sono deisti-teisti con forti elementi panteistici,
si
caratterizzano per il loro determinato e
persino violento anti-ateismo che va
di pari passo (specialmente nel primo) con
l’anti-clericalismo. La nostra
impressione è che Minois resti intrappolato nella
rete dell’apologetica cristiana e specialmente
cattolica, che da sempre
considera strumentalmente atei i panteisti,
rimanendo così lontano da una
lettura storica corretta. In realtà ai due
poli della religiosità (e a pari
titolo) si collocano il Dio-Volontà monoteista
e il Dio-Necessità panteista,
né, da un punto di vista filosofico; la teologia
panteista è necessariamente
anti-monoteista. E ciò è ancora testimoniato
dall’evidenza storiografica relativamente a Spinoza, il
principe dei panteisti, che teorizza il Dio-Necessità
come reinterpretazione
del Dio-Volontà e per nulla come sua negazione.
[18].
Vediamo ora la ragione dell’accostamento
da
noi fatto tra libertinismo e ateismo pratico. Tra i
due avremmo potuto collocare il “comportamento
libertino” come ponte. Questo,
infatti, ha un rapporto possibile col primo
se vi fa riferimento, mentre ha
sempre un rapporto diretto col secondo, a
cui si sovrappone o col quale si identifica. In francese il termine libertinage
è distinto dal generico libertinisme, e
tuttavia a questo è più vicina l’espressione
libertinage
érudit, mentre quella di libertinage des moeurs è tradotto in italiano con l’unica parola
libertinaggio, che indica perlopiù i senso spregiativo
sregolatezza di
costumi od eccesso di libertà sessuale. Si
occupa del libertinage
sessuale Olivier Blanc nel saggio Parigi libertina al tempo di Luigi XVI,
affermando nella Conclusione:
Possiamo affermare che, passata l’ondata
rigoristica inaugurata, a partire da Versailles, dal
regno
di Luigi XVI, i costumi dei parigini
continuarono ad evolversi verso la tolleranza
e la permissività
fino al 1792. Lo spirito del tempo è libertino
[…] Nel decennio che vide
apparire Le relazioni pericolose [di Choderlos de Laclos ] si parlava
schiettamente delle cose d’amore, [19]
Sia l’ateismo pratico, sia il comportamento
libertino (ed ancor più il libertinaggio)
non implicano la negazione di Dio, e
ciò perché l’esistenza o la non-esistenza
di Dio non sono
poste né problematizzate. Spesso vi è invece
l’enunciazione (più o meno esplicitata) della
non-esistenza come assunzione aprioristica,
“in base alla quale” viene attuato
un certo comportamento. Questo, può estrinsecarsi in
un pensare e in un agire “come se” Dio non
esistesse, senza che venga
affrontato filosoficamente il problema per
giungere a una soluzione circa l’
“è” o il “non-è”. L’ateismo pratico, quindi, per un
verso si identifica con l’atteggiamento agnostico,
e
per una altro è ”scelta” o “scommessa” specularmene
opposta a quella di Pascal, che scommetteva sull’esistenza di Dio ammettendo
di
non poterla dimostrare. Ma relativamente ai clamorosi equivoci
in cui può cadere un sedicente ateo, citeremo
una nostra significativa
esperienza di qualche anno fa, allorché facemmo
timidamente notare ad un nostro
ottuso interlocutore che nel suo modo di
pensare non c’era assolutamente nulla
di ateo. La risposta stizzita fu: «Come
non sono ateo! Io odio i preti e per di più bestemmio
dalla mattina alla sera!».
Lasciamo ora l’ateismo pratico per entrare
nel merito del pensiero libertino, che come
abbiamo già rilevato nasce nel
Rinascimento. Lo faremo utilizzando ancora
come traccia il libro di Minois, a cui assoceremo più avanti altri testi
tra i quali
il saggio Theophrastus redivivus,
Erudizione e ateismo nel Seicento di Tullio Gregory,
pubblicato nel 1979. Gregory ha ben visto che il
pensiero libertino è eminentemente il frutto
erudito di una rilettura della
storia della religione cristiana posta in relazione al
paganesimo, il che ha come correlato e fondamento
indispensabile la “riscoperta
dell’antico”. Si tratta di un fenomeno culturale
che comincia già nel Tardo
Medioevo, ma che ha il suo climax in epoca rinascimentale, perché si
cominciano a riscoprire i testi classici
greci in lingua originale e li si ritraduce fedelmente. Se si pensa che dal IV secolo gli unici testi pagani non deliberatamente
distrutti per blasfemìa erano segretamente custoditi
nelle biblioteche monastiche ed a unica disposizione
dei monaci per riletture
strumentali a fini apologetici, si comprende
l’enorme importanza dell’andata in
circolazione di tali testi. Per quanto soltanto
in pochi casi essi andassero ad alimentare una cultura clandestina
anti-cristiana, col passare del tempo (e
soprattutto con l’avvento della
stampa), divengono di maggior dominio pubblico
ed oggetti di nuova ermeneutica.
Sono queste reinterpretazioni “laiche” dei classici,
specialmente di Epicuro e di
Lucrezio, coniugate con le opere di moralisti
del passato più recente come Montaigne e Charron, a fornire
gli elementi teorici e critici di una letteratura
clandestina confluente il
larga parte nel pensiero libertino.
Il termine “libertino”fa la sua comparsa
nel Quattrocento, riferito all’empio che
si ritiene “libero” dai vincoli della
fede; ma è Calvino, che scrivendo nel 1545
il battagliero Contre
la secte phantastique et furieuse del libertins qui se nommes spirituels [20],
lo fa entrare nel linguaggio corrente, sicché
Geoffroy
Vallée, mandato al rogo nel 1574 a Parigi,
è già considerato un “libertino” a
pieno titolo. Ma il riformatore ginevrino
ha anche constatato
che molto spesso i libertini si rifanno ad
Epicuro,
ed allora l’epicureismo diventa per lui la
vera “peste” dell’intelletto umano,
così come nell’ammissione del caso si perpetua il più grave insulto alla
Provvidenza. Quali “libertini” (in realtà solo degli
increduli) sono poi bollati in Francia Pierre Viret nel 1565, un certo Nancel
nel 1583 e Franςois de La Noue
nel 1587. L’interessante è che Viret si
dichiara anti-ateista e anti-deista, scrivendo
nella sua Instruction
chréstienne del 1563 che l’ateismo e il deismo
sono «due flagelli» dell’epoca [21].
Ma accade anche che i libertini stessi, considerando
l’acquiescenza fideistica ortodossa come una debolezza, in virtù della
loro scelta di svincolarsi da essa incominciano a
ridefinirsi “spiriti forti”. Tale definizione
coincide con l’inizio di
un’apologetica libertina che avrà fortuna
specialmente nel XVIII secolo,
tendente a vedere negli esprits forts un’aristocrazia del libero pensare. Nel
1629
l’abate Charles Cotin
afferma che tale auto-definizione trova
la propria ragione nel fatto che essi «dichiarano
di credere solo a quanto
possono vedere e toccare» [22] Materialisti allora, nonché
sensisti ed empiristi, sì che già nel terzo
quarto del XVI secolo i libertini,
considerati ora potenziali atei, stanno diventando
un problema sociale e
religioso. Essi vanno presi sul serio e affrontati
con decisione. Parte così
una feroce “caccia all’ateo”.
Poggio Bracciolini
(1380-1459) era stato uno dei pensatori a
porsi contro il cristianesimo
ortodosso, al punto da fargli attribuire
persino la stesura della
proto-versione del De tribus impostoribus. Nel XV secolo
un’Italia già in pieno Rinascimento è percorsa
da fermenti culturali giudicati
blasfemi, sì da farla ritenere oltr’Alpe piena di
covi di neo-paganesimo e di empietà. Gabriel
Naudé
nota tra l scandalizzato e il compiaciuto: «L’Italia
è
piena di libertini e di atei, di gente che non crede
più a nulla. Il numero di chi non crede più
nell’immortalità dell’anima è quasi infinito.» [23]
Giudizio sicuramente esagerato; ma nell’anno
della morte di Bracciolini
un certo Giovino di Solcia è
condannato perché colpevole di aver sostenuto
che: «Mosè,
Cristo e Maometto avevano governato il mondo a loro
capriccio.» [24] Pomponazzi nel Tractatus de immortalitate animae denuncia
l’impossibilità razionale di dimostrare l’immortalità
dell’anima e ciò in
difesa dell’autenticità di un pensiero aristotelico
che sarebbe già stato
tradito da San Tommaso d’Aquino. Sempre di Pomponazzi escono postume due opere importanti, il
De naturalium effectuum admirandorum causis seu de incantationibus nel
1556 e il De fato, de libero arbitrio et de praedestinatione nel 1567, nelle quali viene messo in discussione il concetto di libero arbitrio,
ritenuto incompatibile con quello di Provvidenza. In tale situazione pericolosa nel 1557 la
Santa Sede si vede costretta a istituire l’”indice” dei
libri proibiti, facendo obbligo tassativo
di consegna all’autorità di ogni
libro empio in circolazione o giacente nei
magazzini di librai e tipografi per
la sua pronta distruzione. Il comando è raccolto,
e persino nella laica
Repubblica di Venezia vi si ottempera subito
con la confisca e la distruzione
tra il 1562 e il 1569 di 1150 libri, a cui
seguono processi a 28 librai non
ottemperanti [25].
Alla poliziesca ”caccia all’ateo” si
associa una fiorente apologetica cristiana.
Nel 1582 Philippe Duplessis-Mornay aveva
pubblicato un libro che già dal titolo, Athéomachie
[26],
rivela il suo intento; in realtà egli confonde
l’ateismo con deismo panteismo e
libertinismo, cosa frequente all’epoca. L’anno prima, con il De la verité
de la religione chrestienne contre
les athées, épicuriens, païens, juifs, mahumedistes et autres infidèles
Duplessis-Mornay aveva già impostato la sua azione,
ma facendo distinzioni che l’anno dopo ne
l’Athéomachie
ritiene superflue sotto l’impellenza del
pericolo [27]. Nel 1593 appare il libro di Pierre Charron (1541-1603) Les Trois Verité, che è contro gli atei
e i deisti, ma dove si riconosce che per
essere veri atei ci vuole una certa
forza d’animo. Nel successivo De la Sagesse
egli afferma che la natura è maestra di onestà e di
saggezza, concludendo: «Chi agisce secondo
essa, agisce veramente secondo Dio.» [28]
Opinione bastante per far passare Charron
per un filo-libertino in una situazione confusa
che aveva già accomunato
nell’ambiguità e nel sospetto altri noti
personaggi come Rabelais,
Cardano, Dolet e Serveto;
gli ultimi due poi finiti sul rogo. Étienne Dolet,
un agnostico, a Parigi nel 1546 per aver
dubitato dell’immortalità dell’anima,
e Miguel Serveto, l’ingenuo
teologo riformatore, a Ginevra nel 1553, per le sue aperture
panteiste.
Ma è verso la metà del ‘500 che cominciano a fare la
loro comparsa vere e proprie opere anti-cristiane
come il Cymbalum
mundi ed il De tribus impostoribus,
che esamineremo più avanti. I Gesuiti sono
ovviamente in prima linea nella
caccia all’ateo, ma non meno nell’esaltazione
della fede attraverso una serie
copiosa di pubblicazioni distribuite sistematicamente
attraverso i numerosi
canali d’informazione di cui sono detentori.
Il pericolo non si ferma e Jean Bodin (1530-1603), dopo aver
scritto la Démonomanie des
sorciers in cui sostiene che il Diavolo impone
alla sua vittima «di rinunciare a Dio, alla
sua fede e alla sua religione» [29],
rivolge la sua attenzione ai libertini nella
République:
una «esecrabile setta di ateisti […] dal che consegue
un’infinità di omicidi, di parricidi e di
venefici.» [30]
E tuttavia, col più tardo Colloquium heptaplomeres, composto intorno al 1590, egli scrive
un’opera interlocutoria che i libertini stessi
apprezzano. In essa sette sapienti, tra i quali un
deista e un agnostico, discutono liberamente
di Gesù
Cristo e di altre verità di fede come la
Resurrezione, la Trinità e lo Spirito
Santo. Ma l’ondata empia incombe e Mersenne nel 1623 ne è ossessionato, sognando, come abbiamo già
visto, i
cinquantamila atei di Parigi. Cotin nota nel 1629:
«Non si parla ormai d’altro che di questi
libertini.» [31]
percependone la psicosi montante. Un certo Monsignor
Grillet, rileva inorridito:
A sangue freddo, con intenzione e per volontà
deliberata di apparire, senz’altro scopo,
nemici di Dio e di ogni
religione, si dichiarano pubblicamente empi
e perversi, e si gloriano del fatto
che si creda che Nostro Signore Gesù Cristo sia per
loro oggetto di odio,di scherno e di disprezzo.
[32]
Evidente atteggiamento
psicotico. Ma se si pensa che Grillet
fa riferimento alla corte e all’alta società,
è possibile che in quel mondo un
certo “ateismo pratico” e molto libertinage
conti qualche adepto e che sul piano teorico
vi siano tendenziali panteisti o
deisti. Nel 1630 il padre francescano Jean Boucher afferma:
Non vi capiterà di vedere al
giorno d’oggi un solo uomo raffinato che
non vi travolga ogni volta di
“Perché?”. Perché Dio ha imposto leggi al mondo? Perché la lussuria è proibita? Perché
Dio si è incarnato? […] Ecco gli spiriti colti del nostro
tempo, i quali pretendono che Dio dia loro
conto dei propri atti. Questi
libertini epicurei sono ormai sulle soglie
dell’ateismo. [33]
Porsi e porre domande
sulla fede è per ciò stesso essere « sulle soglie
dell’ateismo », ma il libertinismo
pare essere fenomeno d’élite e proprio per questo particolarmente
preoccupante. Un certo Derodon tenta una
classificazione degli empi in: atei “raffinati”
(i ragionatori), atei
“dissoluti” (i lussuriosi) e atei “ignoranti”
(i bestemmiatori). Il gesuita Caussin vede gli “empi dichiarati”, i “neutrali
irresoluti”
e i “crapuloni”. Charron invece li considera sotto il profilo motivazionale:
vi è il
presuntuoso, lo sfiduciato, il determinista,
il dissoluto [34]
Tutta quest’attenzione al libertinismo non sta a significare
che il fenomeno sia rilevante dal punto di
vista quantitativo, ma che il
“significato” del suo esistere è grave per
la fede. Un’ordinanza del 1636
prescrive maggior repressione; tra il 1600
e il 1650 nella sola Parigi vengono messe a morte per empietà almeno 40 persone.
Gli
scritti contro questo supposto ateismo montante
si moltiplicano e quando nel
1624 appare il libello libertino Antibigot ou les Quatrains
du déiste immediatamente Mersenne
si mette all’opera e scrive il monumentale
Impieté
des deistes, athées et libertins
du temps nel quale
riformula anche le prove dell’esistenza di
Dio. Appare però significativo
o che il maggior oggetto di condanna non
sia un fantasticato ateismo (che in
realtà non esiste) bensì la “reale” teologia
di Bruno, della quale viene
contestato il monismo spiritualista e il
concetto di Dio-Infinità-Immanenza
come inducenti all’ateismo. È il gesuita
Franςois
Garasse il grande esecratore
dei libertini, che nel 1623 licenzia una corposa opera
di mille pagine contro di essi, La Doctrine curieuse des beaux
esprits de ce temps,
proprio nei giorni in cui è condannato al
rogo il poeta Théophile
de Viau, accusato di essere l’autore di un irridente
Parnasse satyrique.
Garasse spiega la ragione del suo impegno contro
i
libertini: «Dovendo constatare che taluni ateisti, con
il pretesto di un’apparente raffinata cultura
combattono la religione come scherani
o luogotenenti di Satana, non ho potuto fare
a meno di schierarmi.». Ma poi
dichiara di essere in realtà “contro tutti
i non-cattolici”: «Con la parola libertino io non intendo riferirmi né agli
ugonotti, né agli atei, né agli eretici,
né tantomeno
ai politiques, ma ad un insieme di tutte queste
tendenze.» [35]
Secondo Garasse i
libertini sono una «maledetta confraternita delle
bottiglie » dediti alla crapula ad ogni vizio, «apprendisti atei» e derisori del sacro:
Io chiamo empi e ateisti
quanti sono dotati della malvagità più spiccata;
quelli che hanno l’impudenza
di pronunciare terribili bestemmie contro
Dio […] quelli che fanno di Parigi
una nuova Gomorra, quelli che danno alle stampe il Parnasse satyrique;
quelli che traggono tale sciagurato vantaggio
dal proprio modo snaturato di
vivere, che non oserebbero rifiutare neppure
una piccola parte, per paura di
svelare i propri vizi e far arrossire addirittura
la bianchezza della carta. [36]
Secondo il Nostro vi
sono vari gradi di empietà, ammettendo anche che i
libertini non sono tutti atei, e tuttavia
schiavi di presunzione e vizio:
[…] ma specificamente contro i libertini,
tanto
perché essi compongono la grande setta di quelli che
chiamo pretesi sapienti, quanto perché, non
essendo ancora del tutto atei,
potrebbe esservi qualche speranza di convertirli,
scopo che ho imposto alla mia
coscienza con sforzo, ma mi sarà grato se
potrò giovare loro. [37]
Il padre gesuita tenta
anche di definire in otto punti il pensiero
libertino: 1. La
presunzione di essere i soli sapienti; 2. Riconoscere Dio solo per
opportunità sociale; 3. Credere che la religione sia un
imbroglio per la plebe; 4. Il mondo è governato dal Caso; 5. La Bibbia
è
un bel libro, ma non si può costringere a
crederlo in ogni sua parte; 6.
L’unica divinità è la Natura; 7. Ammesso
Dio, non significa che esistano anche angeli e demoni; 8. Per vivere felici
non si debbono avere scrupoli; però si deve fingere per
non
scandalizzare gli animi semplici [38].
Ne emerge un quadro di sostanziale ambiguità
dell’atteggiano
libertino e che contraddice altre affermazioni
del nostro sì che ne vien fuori che i libertini sono o panteisti oppure
deisti,
poiché affermano:
Dio è la natura, essi dicono, e la natura è Dio […] Questo Dio naturale o questa natura
divinizzata ama tutto l’universo, secondo
quanto è detto anche nella Genesi […]
Questa natura, nostra guida benigna, ci ha
concepiti nient’altro che per farci
godere dei suoi tesori e dei frutti della
sua bontà. [39]
Nulla di ateo, quindi, in tale posizione, ma Garasse
è anche convinto che il naturalismo costituisca
la strada maestra all’ateismo.
Egli, da buon gesuita, è infatti contro la scienza, e
siccome nel Seicento incomincia a nascere
un genuino interesse per lo studio
della natura, esso, in quanto “scienza” e
non “teologia”, è estremamente pericoloso per la fede. Pare
dunque che il pio padre accomuni due sue esecrazioni:
quella per il libertinismo vizioso e quella per il
naturalismo scientifico.
Data un’esemplificazione delle posizioni
anti-libertine occupiamoci ora di ciò che passa per
pensiero libertino. Partiamo da Franςois de La Mothe Le Vayer (1588-1672), un
giurista che si è dedicato a studi pedagogici,
politici e morali, la cui
posizione è quella di uno scetticismo integrale
di tipo pirroniano.
Relativamente alla religione egli afferma:
Tutto ciò che apprendiamo
degli dèi e delle religioni non è altro che
quanto gli uomini più sagaci hanno
concepito di più ragionevole nei loro discorsi
in relazione alla vita morale,
economica e civile, col fine di spiegare
i fenomeni dei costumi, delle azioni e
dei pensieri dei poveri mortali, per dar
loro alcune regole di vita per quanto
possibile esenti da una completa assurdità.
[40]
Basta evitare « una
completa assurdità » e la credenza viene accettata,
condivisa, riconosciuta, e, soprattutto,
funziona bene. Un’interpretazione
politica, quindi, della nascita delle religioni
(posizione che vedremo essere
il nocciolo del Theophrastus redivivus) e perciò anche come opportunistico e
furbesco instrumentum regni. E poi una nota significativa:
Gli atei eludono nondimeno tutti questi
argomenti [teologici] di cui sostengono nessuno
sia
probante cosa per loro semplicissima alla
luce delle regole di una logica
rigorosa, sicché, riflettendo in piena libertà
su tale tema, ritengono che le
meraviglie della natura, le eclissi degli
astri, i sommovimenti della terra, lo
scoppio e i fulmini, e altri simili fenomeni,
abbiano introdotto nel nostro
animo l’originaria sensazione dell’esistenza
della divinità. [41]
È anche la tesi di
Vico (che però la riferisce solo al paganesimo)
ed è alla base dell’analisi
dell’etno-antropologo Raffaele Pettazzoni,
che nelle temibili “punizioni” meteoriche
vede la nascita della credenza nel
celeste Essere Supremo [42]. La Mothe Le Vayer è uomo colto, è
interessato al naturalismo e conosce la storia
della filosofia, ma soprattutto
è uno spirito libero e indipendente che pensa
con la sua testa. Contro la
persuasione che Dio abbia fatto il mondo per l’uomo,
obietta: «come forse i gatti sono persuasi
che Dio ha creato i topi per
ingrassarli.» [43] Alla
domanda che cosa ne pensi del pensiero di Aristotele
risponde sicuro: «Perché rinunciare al nostro
franco arbitrio e assoggettarsi
alla tirannia di chicchessia?» [44]
In questa breve risposta sta il meglio del
“libero pensare” in
risposta alle cogenze delle tradizionali auctoritates e dei tirannici dogmi della metafisica.
Gli fa eco Gabriel Naudé (1600-1653), il quale
ritiene che la cultura debba nascere dalla
riflessione individuale, per cui l’uomo colto deve fare in modo da « trarre
profitto
da tutto ciò che vuole » [45]
senza far riferimento a nessuno, e in tale
spirito di libertà interpretativa
tenta di delineare una biblioteca ideale
per gli uomini del suo tempo che
intendono pensare liberi da ogni pregiudizio.
Ma è ancora La Mothe a porsi il problema dell’immortalità dell’anima,
e
qui le auctoritates cristiane contano, per
quanto il Nostro, riconoscendo che essa “va
creduta per fede” rileva in riferimento all’autorità di San Paolo: «Ecco
i precetti
apostolici, i quali ci fanno vedere che la
nostra Religione non è fondata su
sillogismi né su principi filosofici; e dobbiamo
sottolineare
con buone ragioni che il Regno dei Cieli
è promesso ai poveri di spirito.» [46]
Atto di fede o asserzione carica di sottintesi?
In un dialogo nel De la Divinité La Mothe mette in
bocca ad Oronte:
Poiché se è vero che non vi è nulla di certo
e
che tutte le scienze sono vane e chimeriche,
ne conseguirà che la nostra Santa
Teologia, che è la scienza delle cose divine,
sarà fantastica e illusoria come
le altre; un’empietà da cui vi ritengo così lontano
che sono certo che voi possiate evitare ogni
dubbio. [47]
Ma
il suo interlocutore Orasius, poco convinto che la
teologia sia una scienza, ribatte:
I più santi dottori convengono in questo,
che
essa non è una vera scienza, poiché richiederebbe
principi chiari ed evidenti,
per noi comprensibili, mentre essa assume
quasi tutte le scienze dei misteri
della nostra fede, che è un vero dono di
Dio, e che sorpassa completamente la
portata dello spirito umano […] nella nostra
teologia noi consentiamo a tali princìpi divini per il solo comando della nostra
volontà,
che si rende obbediente a Dio, a cose che
ne vede e né comprende in ciò
consistendo il merito della fede cristiana.
[48]
Quasi apologetico il
trono, ma, ancora una volta, col sottinteso
che la fede cieca rende merito ma
mortifica la conoscenza. In ogni caso, prosegue
Orasius:
«è meglio essere superstizioso piuttosto
che empio o ateo. »,
per quanto: « Bacone dica che l’ateismo lasci
all’uomo l’uso dei sensi, la filosofia, la
pietà naturale, le leggi, la
reputazione e tutto ciò che è di guida alla
virtù; mentre la superstizione
distrugge tutto e si erige a tirannia assoluta
» [49]
Un colpo al cerchio e uno alla botte; un
dire e non dire per “far intendere a chi vuole intendere”. È questo l’unico modo possibile a metà del
Seicento di tentare una forma pubblica
di libero pensiero; il di più è possibile solo
nell’anonimato e nella clandestinità.
Savinien Cyrano di Bergerac (1619-1655) è
noto per essere il focoso innamorato dal
naso enorme immortalato da Edmond Rostand; in realtà fu un
letterato tanto fecondo quanto disordinato
che nella sua breve vita, ma
specialmente coi suoi iscritti, dà però modo di essere
visto come un libertino. I suoi lavori sono
numerosi e in qualche caso di buon
livello e La morte d’Agrippine è una tragedia che va in scena nel 1654
dove si allude a dèi creati dalla fantasia
dell’uomo, lasciando probabilmente
intendere, per estensione, che sia sempre
l’umano a creare il divino. Si
ascoltino due versi incriminati: «Questi
dèi che l’uomo ha fatto / e che non
hanno fatto per nulla l’uomo.» [50]
Era ateo? Probabilmente solo agnostico, il limite massimo
dell’irreligiosità dell’epoca. John Stevenson Spink, che ne ha
studiata a fondo l’opera si limita a dire: «Non c’è
traccia di sentimenti religiosi nella sua
opera; non sostituisce al
cristianesimo la religione della natura »
[51].
Quel che pare certo è che Cyrano non crede
nell’immortalità dell’anima, facendo dire
a un
personaggio de La morte di Agrippina:
Poiché si è vivi finché si
esiste, e si è morti quando non si è più
niente, perché sciupare miseramente il
lume avuto in sorte, che non si può rimpiangere,
quando si sia perduto? Potrò
essere infelice quando non sarò più? Un’ora
appena dopo la morte, l’anima nostra dissolta sarà quel che era un’ora prima di
vivere. [52]
Cyrano
pare qui un propugnatore di quel carpe diem che anche i libertini posteriori faranno
proprio e
che sarà alla base di molto libertinage del
XVIII secolo, poiché l’essenza del libertinaggio
sta proprio nel cogliere ogni
occasione di piacere che la vita possa offrire.
Un principio esistenziale
attribuito erroneamente attribuito a Epicuro (essendo semmai tipico dei Cirenaici)
e acuito dagli stessi libertini che si dichiarano
epicurei, avvalorando
ulteriormente la leggenda di un epicureismo
godereccio .
È in ogni caso la fisica cosmologica
atomistica, e non tale edonismo epicureistico,
a presentarsi come l’imputato principale
dell’irreligiosità e della
miscredenza, sicché l’ordine dei Gesuiti
la condanna duramente e ripetutamente
(nel 1641, nel 1643 e nel 1649). Ma un grande nemico
dell’atomismo è anche Ralph
Cudworth (1617-1688), un teologo di ispirazione
platonica di Cambridge, che della lotta al
materialismo fa la sua guerra
personale. Egli scrive un The True Intellectual System of the Universe
col fine precipuo di combattere sì l’atomismo ma di
lasciare la porta aperta a un auto-divenire della
natura attraverso la “plasticità” che il
Creatore le ha lasciato, una tesi che
porta dritto al vitalismo e che sarà seguita da Nehemia Grew (Cosmologia sacra,
1701) e da numerosi altri. Cudworth pone in 14 punti i possibili argomenti ateistici
e
li demolisce con cura. L’atomismo
epicureo è quindi il fantasma anti-provvidenzialistico
che inquieta i teologi di ogni indirizzo, e l’indeterminismo
cosmico di cui è teorizzatore al momento
fa assai più paura del determinismo democriteo, al quale famosi atei del XVIII secolo.
Ma
all’origine del libertinismo stanno comunque Epicuro e Lucrezio, le
cui opere possono ora diffondesi col sempre
minor costo della carta da stampa.
Secondo il già citato Spink il fatto che la maggior
parte dei Libertini assuma l’atomismo epicureo come
filosofia di riferimento dipende dal fatto che la
visione pluralistica ed indeterministica di esso
offriva maggiori spunti allo spirito libertario
e antiautoritario, prestandosi
quindi meglio ad una concezione ugualitaria,
plurale e più libera da
pregiudizi. Ma va anche notato che l’etica
edonistica epicurea si accorda col
diffuso desiderio di “vivere meglio” in ogni
senso, compreso quello di
migliorare la propria situazione economica
per accedere
a quelle opportunità e a quei conforts che nuova
tecnologia e le nuove manifatture incominciano
ad offrire a prezzi accessibili.
Importante rilevare (con Carlo Borghero) che l’epicureismo
non mette solo in discussione la morale cristiana,
ma «aveva fornito i
materiali per la costruzione di una morale
colta, capace di sostituire i
dettami faticosi della rigida morale eroica
di derivazione stoica con un più
tranquillo godimento della vita.» [53]
Nel 1646 il poeta Jean-François
Sarasin (1615-1654), un seguace di Gassendi che si firmava Saint-Evremond,
aveva scritto nel suo Discours de morale
sur Épicure che Epicuro
era stato: «Un filosofo assai saggio, il
quale, secondo i tempi e le occasioni,
prediligeva la voluttà in riposo o quella
in movimento.»
[54]
Un’interpretazione errata dell’epicureismo,
che associa il
piacere “statico” epicureo (come aponìa e atarassia)
con quello “dinamico” dei Cirenaici, propugnatori di
una tendenziale “ricerca del piacere” [55].
Interpretazione non nuova ma derivante dalla
“leggenda” della peccaminosità
epicurea messa in circolazione dai Padri
della Chiesa nei primi secoli del
Cristianesimo, che rimarrà viva nel Settecento e
oltre. Essa,peraltro faceva comodo sia agli estimatori
di Epicuro e sia i suoi detrattori: ai primi
giustificando quella ricerca del piacere
in ogni direzione e l’“ateismo
pratico” che ad essa si conforma, ai secondi
perché permette la stigmatizzazione della loro viziosità. In realtà Sarasin non è propugnatore di un edonismo spinto
e
incondizionato, ma piuttosto di una conciliazione
tra la ragionevole ricerca
del piacere in funzione della socialità e
della prodigalità a spese e danno
degli avari, quale risarcimento collettivo
per la loro abiezione anti-sociale
ed egoistica.
Se la letteratura clandestina ha in Epicuro uno dei suoi referenti ve
ne sono anche numerosi altri e lo vedremo
esaminandone qualche opera più da
vicino. Essa è infatti vasta e polimorfa né tutta
libertina in senso stretto; quasi mai atea.
Alcuni studiosi hanno esperito una
ricerca difficile e faticosa e tra questi
vogliamo citare Gianluca
Mori, che in un sito web universitario ha messo
a disposizione sin dal
1998 oltre venti di tali testi [56].
Le opere clandestine, per quanto spesso definite
“atee” dai teologi, lo ribadiamo, non lo sono quasi e nella Francia del XVIII
secolo prevale invece un ricco filone di
letteratura clandestina ispirata al
deismo britannico e allo spinozismo. Un gruppo di
nobili intellettuali come Charles de Saint-Evremond (1614-1703), Henry
de Boulanvillliers (1658-1697), Jean-Baptiste
d’Argens (1704-1771) e i fratelli Levesque
(Jean-Louis de Pully e Jean de Burigny), anche
perché protetti dalla loro condizione di aristocratici,
riescono a dar luogo, tra la fine del Seicento
e l’inizio del Settecento, ad
una corrente letteraria che costituirà una
delle basi importanti per gli
sviluppi dell’anticristianesimo.
Ci soffermeremo ora sulle due opere
libertine più note e citate: il Theophrastus
redivivus, libro ponderoso in latino, e un
piccolo libro in francese perlopiù noto come
Traité
des trois Imposteurs, ma che si presenta in più versioni e con
altri titoli. Il Theophrastus redivivus è probabilmente il più famoso testo della
letteratura libertina, risalente al 1659,
anche in virtù della sua notevole
mole (l’edizione critica a cura di Guido
Canziani e
Gianni Paganini conta circa mille pagine di testo).
L’opera è presente in alcune copie manoscritte,
la più nota e utilizzata delle
quali è quella scoperta dallo Spink
nella Bibliotèque Nationale
di Parigini nel 1937 (fonds latin 9324) Si tratta in
realtà di una sorta di Pozzo di San Patrizio
abbastanza composito da cui hanno
pescato nel Settecento molti anticlericali
e molti sedicenti atei che hanno
fatti propri i suoi equivoci contenuti. Esso
mette insieme citazioni dei più
noti pensatori antichi insieme con alcuni
cinquecenteschi (Machiavelli,
Pomponazzi, Campanella, Cardano, Bodin
e Vanini) per costruire un’opera che ne strumentalizza il pensiero in maniera arbitraria con fini
smaccatamente strumentali. Un lavoro sincretico che assembla posizioni e affermazioni differenti e le
incanala a
sostegno di sei tesi principali che trovano
sviluppo nei sei trattati più un
proemio che formano l’opera. Il primo (Qui est de diis)
tratta del concetto della divinità contestandone
la spiritualità, il secondo (Qui
est de mundo) afferma che il cosmo non ha potuto essere creato essendo eterno, il terzo (Qui est
de religione) vede la religione come una creazione politica
a fini di
potere, il quarto (Qui est de anima et de inferis) nega l’immortalità dell’anima e l’esistenza
dell’Inferno, il quinto (Qui est de contemnenda
morte) indica come restare indifferenti di fronte
alla morte, il sesto (Qui
est de vita secundum naturam)
espone la prospettiva naturalistica in cui
si colloca l’autore.
L’Anonimo del Theophrastus
è persona molto colta che mette in campo tutte le
sue conoscenze sul pensiero antico e recente
manipolandone i contenuti a
seconda di ciò che intende sostenere. La
tesi di fondo
di tutta l’opera è comunque che lo spirito
non esiste e che tutto è materia in
termini desunti probabilmente da Hobbes. Ma fin dal primo trattato sorgono seri dubbi
sulla
consistenza di tale posizione materialistica.
Anche una studiosa seria come Hélene Ostrowiecki [57]
nel suo Le jeu de l’athéisme
dans le
Theophrastus redivivus
la nega, dimostrando con un’analisi della
struttura dialogica dell’opera che
l’autore utilizza gli argomenti di un pensiero
cristiano rivoltato ma
attraverso modi di pensare che restano tipici
della teologia cristiana. Afferma
tra l’altro la Ostrowiecki: «[Il Theophrastus]
mette in scena l’ateismo contro la religione
ufficiale, ma un ateismo troppo
dipendente dal pensiero che rinnega per
essere preso sul serio » [58],
e ancora: «A modo proprio, insomma, il Theophrastus
testimonia al contempo l’impossibilità di
crede in Dio
e di non credervi, nell’intento di rappresentare
la miseria della condizione
umana.» [59] Si tratta quindi di null’altro che un
ennesimo tentativo di “rifondare” una religione
ritenuta insoddisfacente e da
riformare in senso naturalistico e panteistico.
La Ostrowiecki afferma l’opera pare essere, appunto: «
un
tentativo di rifondazione del credo religioso,
rifondazione che richiederebbe
come premessa il bando il bando delle credenze
esistenti.» [60]
Fatte queste prime considerazioni passiamo all’analisi che ne fa Tullio Gregory
nel suo Theophrastus redivivus.
Erudizione e ateismo del Seicento, che segue passo passo i sei trattati nel
loro sviluppo concettuale. Sin dall’inizio viene
posta l’opposizione tra ciò che è religione
e ciò che sarebbe filosofia, ma
l’autore non ha idee e conoscenze approssimative
ed assume in maniera
aprioristica che filosofi antichi come Platone
e Aristotele simulassero la
religiosità sotto l’incredulità. Ma egli
va oltre supponendo che quelli che
qualifica come “filosofi”, per il fatto stesso
di essere
tali, in quanto pensanti secondo “ragione”
e non secondo “credenza”, siano tout
court tutti materialisti e atei. La “ragione naturale”
che egli evoca, «
che dice sempre il vero», dipende dai sensi
e dall’esperienza diretta del mondo
[61]
ed in tale anche Platone, come principe dei
sapientes,
viene fatto diventare un pensatore ateo e materialista
il cui scopo primario sarebbe stato di «non
provocare l’ira del popolo e dei
governanti » memore del funesto destino
toccato al suo maestro “ateo” (sic!) Socrate
[62].
Da che cosa l’Anonimo trae tale conclusione?
Semplicemente dall’accusa di Meleto che «proverebbe»
l’ateismo di Socrate. Si
comprende bene come con tali premesse il
Nostro prosegua sulla sua strada ad libitum
dimostrando, a suo modo, l’ateismo di chiunque
sia non-cristiano o critico del
Cristianesimo. La stessa ”miticità” del discorso
platonico avrebbe avuto il solo scopo di
dissimulare il suo vero pensiero,
un’idea che egli riprende dal Pomponazzi. Ma mentre questi
riferisce la sua tesi “forma” del discorso
platonico, l’Anonimo del Theophrastus ne fa una questione di contenuto.
Questo modo di procedere scopertamente
aprioristico e acritico rende l’attacco alla religione
cristiana assai maldestro, al punto che il Cristianesimo ne trae
vantaggio anziché danno,anche perché all’anonimo
preme solo dimostrare che il
potere religioso è frutto primario di quello
politico, una tesi antropologicamente inconsistente. È la prassi politica che
secondo lui “crea” la religione come istrumentum
regni al fine di soggiogare le menti degli ignoranti
e controllarne la
volontà. In tale prospettiva del “tutto è
politica” vengono
tirate in ballo le opinioni utili, da Montaigne a Machiavelli, ed anche Platone avrebbe confezionato i
suoi
dialoghi per pilotare l’opinione pubblica
in una certa direzione. Ne deriva la
tesi di una sostanziale “duplicità” [63]
di tutti i pensatori che egli assume a”padri
nobili” e che cita a piene mani in
maniera molto libera. Anche la legge e la morale, derivazioni
dirette o correlati della religione, diventano mere
costruzioni
artificiali imposte o indotte a scopo di
controllo e dominio del suddito [64].
Ne consegue che il “filosofo”, a qualsiasi
epoca appartenga,
è sempre uno che ha dei «pensieri segreti
» che bisogna intuire; in effetti ciò
che l’Anonimo fa è manipolare o stravolgere
i contenuti dei testi originali in
contenuti “utili” in funzione della sua tesi
raccogliendo elementi testuali
spesso incoerenti ed assemblandoli strumentalmente
per giungere a
interpretazioni arbitrarie.
La più volte ribadita opposizione di credere
e di intelligere che
percorre l’opera è viziata dall’opposizione
strumentale di fede e ragione
quali atteggiamenti inconciliabili. Errore interpretativo
capitale di tutti gli pseudo-ateismi velleitari,
basati su una lettura superficiale e strumentale
che tende a creare una
dicotomia inesistente. La fede e la ragione (intesa come logica
deduttiva) possono benissimo coniugarsi,
così come un ateismo puramente emotivo
o ideologico può coniugarsi con l’irrazionalità.
Nei confronti della Lettera
ad Erodoto di Epicuro egli la interpreta in maniera opposta a
quanto fa Gassendi (che ne opera una “teologizzazione”)
ma non coglie né il senso ontologico né quello
etico dell’atomismo
epicureo, utilizzandolo solo a conferma della
tesi circa la possibilità
dell’ateismo ovunque ci sia materialismo.
Il Nostro ritiene anchei
che esistano popoli “naturalmente” atei (una vecchia
leggenda dell’anti-religione) e che l’idea
di Dio non solo è fuori della
realtà, ma determina un figmentum (un’immagine
creata ad arte) che assume i connotati di
una realtà misteriosa e inconoscibile fabbricata da chi vuole dominare per
ingannare gli ingenui e asservirli ai propri
voleri [65]. Malgrado la discreta
raffinatezza del procedere ragionatorio, basato su
buoni strumenti dialettici, ciò che emerge
sono perlopiù tesi un pò rozze, ma non mancano sprazzi interessanti.
Tra questi, a
latere del vedere la nascita delle religioni nel
culto degli astri, l’aver colto acutamente
che sono i fatti meteorici, quali
premi o punizioni divini, a far collocare
la divinità nel cielo, in quanto dal cielo dipende la ricchezza o la povertà
di
uomini dediti all’agricoltura e alla pastorizia
[66]. Secondo
l‘Anonimo è quindi la paura il solo movente
della religione, ed è
proprio di questa paura che hanno approfittato i
politici in tutte le culture per inventare
esistenze divine, istituire dottrine
e alimentare fedi.
Gli dèi istituiti dalle religioni sono
quindi “figli delle leggi” create sin dalle origine a
fini di dominio, sfruttando la paura degli
uomini di perdere i frutti del loro
lavoro o di vederli invece aumentare con
la benevolenza divina [67].
I legislatori sono pertanto i veri creatori
delle fedi, che una volta istituite
e inculcate nelle coscienze assumono il carattere
di un consuetudo
che si fissa [68]. In
altre parole, l’abitudine a credere finisce
per rendere reale e concreto ciò
che si crede, e questa è sicuramente un’altra
grande intuizione del nostro, che
si fa qui acuto indagatore della psiche umana.
Il magma di superstizioni e
miti, una volta creduti, si prestano poi
a perfezionamenti sino a poter
assumere persino raffinati concetti filosofici
a loro sostegno. Ci vuole
pertanto una rilettura della storia, nella
consapevolezza dello sfruttamento
delle fragilità della psiche umana, per poter
realizzare una correzione di rotta
nell’organizzazione sociale [69].
Il fatto che una credenza diffusa e quasi
unanime determini una
largo consensus gentium
non significa nulla poiché, sostiene il Nostro,
vi sono sempre stati dei
non-credenti che facendo buon uso della propria
ragione sono riusciti a
sottrarsi alle catene di esso [70].
Tesi del tutto condivisibile, ma non il corollario
secondo cui tutti i
“filosofi” apparterrebbero alla categoria dei
non-credenti.
Il Nostro intende negare la Provvidenza
come agente esterno ordinatore, poiché l’ordine la
natura ce l’ha “di suo” da sempre e quindi
senza bisogno che glielo si conferisca
[71].
Siamo qui ad un panteismo materialistico
che per un verso è vicino allo
stoicismo, ma per un altro se ne allontana cassando la
Provvidenza. La ratio della mente umana opera nella ratio cosmica
generale e questa è fonte di una scientia del
reale che come cognitio certa et evidens nega alla radice
ogni sedicente scientia de diis. Una posizione che parrebbe epicurea, ma
senza che
la fisica di Epicuro venga
tematizzata nel suo sostanziale indeterminismo [72].
Nel Tractatus secundum,
che ha per tema il cosmo, ci troviamo infatti di
fronte ad una ripresa della cosmologia del
Timeo
platonico in opposizione alla Genesi biblica (invece spesso conciliate
dagli apologeti platonici del primo Cristianesimo)
poiché «Moses
igitur deliravisse dicetur» [73]
e il suo delirio profetico si oppone alla
ragione platonica. L’Anonimo
passa poi ad una puntuale critica dell’antropocentrismo
mosaico, generatore delle tre grandi religioni
monoteiste, per confutarlo e
contestare il «preteso primato dell’uomo
sul creato». Si tratta sicuramente di una delle posizioni più
condivisibili assunte dal Nostro nei confronti
di quell’antropocentrismo
che pervade tutta la cultura occidentale
(e non solo religiosa). C’è poi la tematizzazione dei limiti umani come diversi ma non
inferiori a quelli degli altri animali [74],
con un’allusione a ciò che il Teofrasto “segreto” di
un testo perduto avrebbe potuto sostenere; lui, il più
grande naturalista del mondo antico.
Per l’autore del Theophrastus l’unica
tesi cosmologica razionale deve basarsi sull’eternità
del mondo, sull’esistenza
della sola materia come costituente e sulla
negazione di qualsiasi esistenza di
tipo spirituale o immateriale [75].
Un correlato importante è che, come parafrasa
Gregory:
«non è la religione che trae origine dall’esistenza
degli
dei ma, al contrario, gli dei traggono origine
dalla religione, cioè da quel
complesso di credenze e di atti cultuali
attraverso i quali si è venuta
costituendo la credenza negli dei » [76]
La religione è quindi una realtà umana legata
alla storia e trova in essa le
ragioni del suo esistere e del suo connotarsi
in artes
e leges del potere elaborate dai legislatores sacerdotali [77].
La costituzione della casta sacerdotale è
il momento della saldatura dei poteri
in quel blocco politico-teocratico tipico
degli stati cristiani, dove il re viene “consacrato” dal clero. La fenomenologia
religiosa ha
origini politiche “attive” e risvolti psichici
“passivi” sostanzialmente simili in tutte
le parti del pianeta e in tutti i
tempi, sicché solo la cassazione della credenza
nei miracoli e nelle profezie
quali elementi extra-naturali può costituire
il punto di partenza per una visione
del mondo naturalistica e materialistica. Solo su
tale base si può
eliminare la credenza nel miracoli e in qualunque
altro presunto prodigio contro-natura, poiché
vi è una sufficientia
[78]
della spiegazione naturalistica che è propria
di tutto ciò che concerne un
corretto sapere filosofico a-teologico.
Un correlato del superamento della cieca
credenza è il riconoscimento della libertà
di coscienza, e quindi del “libero
pensiero”, a cui si connette il principio
della tolleranza e il riconoscimento
di legittimità civile per ogni opinione religiosa
differente o non-religiosa [79]
Su questa base la religione può diventare
un vero strumento di promozione
civile e non di dominio sociale, in quanto conformata
su esigenze educative di convivenza civile
[80]
. Emerge qui ancora l’adesione a tesi di
quei moralisti (Montaigne,
Machiavelli, Charron, ecc.)
che riconoscono l’utilità di una religione purgata
dall’intolleranza, sì da funzionare (com’era
nel mondo romano) da “collante
civile” della comunità. Quindi, il Nostro,
che rivela qui come altrove un
atteggiamento agnostico piuttosto che ateo,
non intende affatto eliminare la religione
ma “piegarla” alle esigenze
del convivere umano facendone un’ ”opportunità”
sociale. Atteggiamento tipicamente aristocratico di
chi pensa
che il volgo “abbia bisogno della religione”
e che quindi bisogna
lasciargliela, ma nel contempo che essa debba
diventare ancilla
della razionalità e del buon uso della sua
influenza sulla psiche degli umili.
Una religione ad uso del vulgus
e gestita dai sapientes che sappia
stare “al suo posto” e non pretenda di ergersi
a potere [81].
L’ipotesi di una «repubblica di atei» è respinta decisamene dal Nostro, poiché
«ogni
organizzazione politica ha come suo fondamento
una mitologia religiosa » [82].
Siccome gli homines sapientes
sono pochi e gli homines vulgares una
moltitudine tale situazione è «caratteristica
essenziale ed ineliminabile »
dell’aggregazione sociale stessa [83].
Si vede bene l’abisso concettuale che separa,
come vedremo, un vero ateo come Jean Meslier dall’Anonimo del Theophrastus
redivivus, il quale non auspica una rivoluzione
sociale, ma semplicemente la ”messa in riga”
della religione. E ciò secondo un tipico conservatorismo aristocratico
anti-teologico che mal tollera il “potere-sulle-anime”
solo quando pretende di diventare anche “potere-sui-corpi”.
Solo una recta ratio che non si lasci condizionare da alcuna concessione all’instinctus ha diritto di condurre gli uomini e
rendere possibile il conseguimento della
felicità [84].
Fine irraggiungibile se prevale lo sconvolgimento
dell’« ordine naturale » con
la pretesa di instaurare l’«ordine divino
» [85]
Siamo al punto cruciale di tutta l’argomentazione
dell’autore del Theophrastus e nel contempo alla tangenza col
panteismo, poiché di questo vengono assunti l’eternità
del cosmo, la sua identificazione con la
ratio e il suo ordo-necessitas.
Passiamo ora ad
occuparci del Traité des
Trois Imposteurs del
1706. Dell’opera vi sono numerose versioni:
una nota anche come De Tribus Impostoribus (del
1709) che si vorrebbe riedizione di opera molto più
antica [86]
e che è nota in una prima versione francese
sotto il titolo di L’Esprit de
Spinosa del 1712 e in una seconda col titolo di
Traité
des trois Imposteurs risalente al 1716 [87].
Un cosiddetto “trattato bis” porta il titolo
di Le
Traités des Trois Imposteurs, un
“trattato ter” La vie & l’Esprit de M.B. de Spinosa (manoscritto del 1716, a stampa nel 1719),
ed un quarto Le Fameux Livres
des trois Imposteurs apparso nello stesso anno. Come si vede
è
nel 1716 che “esplode” l’interesse per “i
tre impostori”, che sono Mosè, Gesù Cristo e Maometto.
Esclusa una supposta proto-stesura medievale
dell’opera, essa avrebbe il
prototipo in un sconosciuto secentesco trattato in
latino andato perduto. Una recente scrupolosa
analisi storica è stata fatta da Franςoise Charles-Dubert in
un saggio dal titolo Les Traités des Trois
Imposteurs, dove vengono
ripercorse le sue complicate e alterne vicende.
Del Trattato dei tre
impostori, come titolo dominante, la Charles-Dubert
fornisce una compiuta tabulazione, dove vengono
evidenziate consonanze e dissonanze tra le
varie versioni e tra le diverse
comparse o edizioni [88].
Quale in generale il contenuto dell’opera
pur nella complessità delle
varianti? Ecco i temi
principali: Dio, la ragione, la religione,
l’anima e il Demonio.
Seguiremo la buona traduzione italiana del
Traités des Trois Imposteurs del 1716,
offertaci sul web da: http://www.alateus.it.
Il Capitolo Primo è introdotto dalla seguente
considerazione: «Non bisogna quindi stupirsi se il mondo è
pieno di opinioni
vane e ridicole; e non c’è nulla di meglio,
per sostenerle, che l’ignoranza.» Questa, dunque, la causa delle credenze religiose
in
Dio, nell’Anima e negli Spiriti. Anche qui,
come avevamo visto nel Theophrastus, è
l’”abitudine” alla fede che la rafforza e
la rende solida, ed «È troppo
importante, per questi impostori, che il
popolo resti ignorante » e si è così
costretti «a dissimulare la verità o a sacrificare
se stessi
alla rabbia dei falsi sapienti e delle anime
basse ed interessate». Anime basse che sono evidentemente i preti,
i quali perpetuano
l’impostura dei fondatori delle religioni. L’anonimo autore introduce
poi il concetto di «buon senso», che ritroveremo
più volte nell’opera quale
antidoto razionalistico all’impostura, e
non è improbabile che d’Holbach vi abbia fatto riferimento nel suo
famoso saggio Il
buon senso di cui tratteremo al Capitolo XVI. Relativamente
alle profezie, il Nostro rileva che il sognare
è cosa naturale,
fisiologica, e che pertanto è «sfacciato»
sostenere che Dio possa parlare
all’uomo per mezzo di esso, poiché significa
approfittare di una credulità
ottusa.
Chi, come Gesù
Cristo, ha approfittato della credulità degli
ingenui «non riuscì a sfuggire a
giusto castigo che meritava », L’impostura,
la malafede, diventano
per l’autore del Traités
des Trois Imposteurs una colpa gravissima
e degna della condanna capitale. Gesù, contrariamente
a Mosè e Maometto, è incorso nella giusta pena
perché
«non aveva un’armata al seguito», mentre
gli altri due grandi impostori l’hanno
fatta franca perché erano anche condottieri
di eserciti.
Il Secondo Capitolo ha per argomento «Le ragioni che hanno
indotto gli uomini ad immaginarsi un Essere
invisibile che si chiama
comunemente Dio». Vediamone per esteso il § 1:
Quelli che non
conoscono i princìpi della fisica
hanno una paura naturale che deriva loro
dall’inquietudine e dal dubbio di chi
sono, se esiste un Essere o una forza che
ha il potere di danneggiarli o di
favorirli. Da ciò la tendenza che essi hanno a pensare
a
delle cause invisibili, che non sono che
fantasmi della loro immaginazione e
che essi invocano nei periodi avversi e lodano
nei periodi di prosperità.
Ci troviamo di fronte
al consueto riferimento alla paura come movente
primo dell’ipostasi del divino
nei monoteismi. È in base ad essa che si passa ad
immaginare l’ira o la benevolenza di un entità
trascendente “non-visibile”,
sicché la punizione o la benevolenza di essa
diventano reali nella misura in
cui nella vita il negativo e il positivo
accadono realmente e si avvicendano. Ed allora quali fantasmi dell’immaginazione:
Essi, alla fine,
diventano degli Dei, e questa paura chimerica delle
potenze invisibili è la fonte delle religioni
che ciascuno definisce a suo
modo. Coloro a cui importava che il popolo
fosse represso e controllato con
simili fantasticherie, hanno coltivato questo
seme religioso, ne hanno fatto
una legge e infine hanno costretto il popolo,
con il terrore del futuro ad
obbedire ciecamente.
A prima vista pare di
trovarci di fronte alla stessa posizione
espressa nel Theophrastus,
in realtà vi è una differenze importante sotto il
profilo antropologico. Là la religione è
vista come inventata a priori
dai legislatores quale instrumentum regni,
instillando poi la paura nel credente. Qui
è l’uomo che constata
la propria fragilità, e avendo paura per
la propria vita e per i propri beni
immagina quel qualcuno e finisce per crederci.
È solo a questo punto, e quindi a
posteriori, che i politici utilizzano “opportunisticamente”
la credenza a
loro vantaggio.
Ed è proprio dall’aver creato con la
fantasia un Invisibile che si arrabbia o
è contento di noi, che premia e
punisce come fanno i sovrani, che nasce l’idea che
tale Invisibile sia “simile a noi”:
§ 2. Avendo quindi
scoperto la matrice degli dei, gli uomini hanno
creduto che fossero simili a loro e che facessero,
come gli stessi uomini,
qualsiasi cosa per conseguire determinati
scopi. Così essi credono,
unanimemente, che Dio non abbia fatto nulla
che non fosse per l’uomo e, reciprocamente,
che l’uomo è fatto solo per Dio.
Considerazione non
banale, poiché se l’uomo è fatto sì da Dio
ma anche «per Dio», ciò significa
che in qualche modo “Dio ha bisogno dell’uomo”
e tra l’uomo reale e il Dio
immaginario si crea un legame indissolubile.
Questo “assume” realtà in base
alla realtà di quello e l’uomo, che è reale
ma non può vivere senza immaginare
Dio, rende questo reale a se stesso nella
misura in cui gli “diventa”
necessario. La mente dell’uomo che ha fantasticato
l’esistenza di Dio ne fa un tutt’uno con la
propria esistenza non riuscendo più a farne
a meno.
L’antropomorfizzazione
della divinità ha anche un’altra diretta
conseguenza per gli uomini, quella di
considerarsi creature privilegiate, ed allora:
«essi hanno concluso
che tutto ciò che esiste in natura è stato
fatto per loro e quindi ne possono
godere e disporre ». L’arroganza umana sull’ambiente
e sugli altri esseri
viventi ha quest’origine teologica che radicalizza la
“disponibilità” del mondo a lasciarsi usare
dall’uomo senza limiti. Egli ha il
solo dovere di ubbidire alla legge di Dio,
ma non di rispettare “altro” non
citato espressamente dalla Sua legge: da
ciò la convinzione che l’unico essere
vivente la cui vita sia “sacra” è l’homo sapiens. Ma siccome l’uomo vive
per dei fini anche Dio opera con dei fini essi
caratterizzano la credenza nel divino, mentre
la natura “è” e “ci fa’essere”
senza fine alcuno. Così l’Anonimo del Traité
pone la natura come l’entità reale di riferimento
da contrapporre all’entità
fantasticata di Dio: « Non c’è bisogno di lunghi discorsi per
dimostrare che la natura non si propone alcun
fine e che tutte le cause finali non sono che invenzioni umane ». Nota il
Nostro che se una pietra si stacca da un
edificio a causa del vento e ammazza
una persona i credenti si affanneranno a
domandarsi perché l’uomo sia passato
di lì a quell’ora e che cosa può aver fatto
per ricevere la pietra in testa: «Essi
vi porranno così un’infinità di domande bizzarre
per risalire, di causa in
causa, a farvi ammettere che solo la volontà
di Dio, che è i
rifugio degli ignoranti, è la causa prima della
caduta di quella pietra.»
L’anonimo autore del Traités
des Trois Imposteurs, che al § 6 pareva
tendere all’indeterminismo
si ravvede presto al § IX sentenziando: «Per
tappare la bocca a quelli che
chiedono perché Dio non abbia creato tutti
gli uomini buoni e felici è sufficiente dire che tutto è, necessariamente,
ciò che è,
in quanto nella natura non c’è niente di
imperfetto, perché tutto deriva dalla necessarietà delle cose stesse.» Uno spinozista
dunque? Sì, ma….:
§ 10. Se si domanda
che cos’è Dio, io rispondo che questa parola ci
rappresenta l’Essere Universale dal quale,
per parlare come San Paolo, noi
riceviamo la vita, il moto e l’essere. Questa
definizione non ha nulla che sia indegno di Dio, perché se tutto è in Dio,
tutto proviene
necessariamente dalla sua essenza e bisogna,
assolutamente, che egli sia della
stessa natura di ciò che contiene, poiché
è incomprensibile che degli esseri
totalmente materiali siano mantenuti e contenuti
in un essere che materiale non
è.
Perfettamente spinozista nel « tutto è in Dio »
ma non nella concezione degli uomini come
esseri «totalmente materiali », il
che farebbe di nuovo pensare alla teologia
stoica. Ma il Nostro sa anche bene che
cosa pensasse il “cristiano materialista” Tertulliano:
«uno degli uomini più saggi che i cristiani
abbiano avuto, ha dichiarato,
contro Apelle, che ciò che non è corpo non è nulla,
e, contro Praxeas, che ogni sostanza è corpo.» Ma decisamente deista è quest’altra affermazione del §
XI: «Gli
ebrei e i cristiani amano di più consultare
questo testo indecifrabile [la
Bibbia] piuttosto che ascoltare la legge
naturale che Dio, vale a dire la
Natura (in quanto essa è il principio di tutte le
cose) ha scritto nel cuore degli uomini.»
Espressione, quella dello « scritto
nel cuore degli uomini », tipicamente cristiana,
sì da far pensar a un cristiano che scrive contro il Cristianesimo
per
superarlo in senso panteistico.
Nel Capitolo III l’attenzione si rivolge
ai
ministri della religione,
dei quali si dice al § 5: «Gli onori e i grandi redditi che sono
stati attribuiti al sacerdozio, o ai ministri
degli
dei, hanno lusingato l’ambizione e
l’avarizia di questi uomini astuti che hanno
saputo approfittare della
stupidità delle loro genti ». E veniamo ora agli
“impostori” con alcuni cenni sintetici. Di
Mosè (§
10): «Per quanto furbo, avrebbe avuto qualche
difficoltà a
farsi obbedire, se non avesse avuto la forza. La furberia senza le armi
difficilmente riesce ». E ancora: «È stato con
precauzioni di tal genere [di accortezza politica], e
minacciando sempre della collera divina i
suoi critici, che egli regnò come un
despota assoluto.» In quanto a Gesù
(dal §12 al 21) il Nostro analizza più punti
dei Vangeli rilevando le
sottigliezze delle sue risposte e l’abilità
argomentale, aggiungendo: «Gesù Cristo, più abile dei profeti mosaici, per
screditare
in anticipo quelli che si sarebbero levati
contro di lui, predisse che un tale
profeta [l’Anticristo] sarebbe stato un grande nemico
di Dio, il favorito dei demoni, la somma
di tutti i vizi e la desolazione del
mondo.» Ciò che sorprende è che al § 17 il
Nostro afferma che alcuni luoghi
della Bibbia sono rielaborazioni di miti
della Grecia
classica e al § 18 che Gesù avrebbe tratto da Platone
«le più belle massime». In quanto a Maometto (§ 22 e
23) se ne mettono in rilievo l’ignoranza
e l’indecisione, ma nel contempo la
fortuna. Nel Capitolo V è affrontato il tema
dell’anima e qui l’Anonimo conclude con evidente riferimento alla Disquisitio
metaphysica di Gassendi: «Quando [Cartesio] ci
dice che l’anima è una sostanza che pensa,
non ci dice nulla di nuovo. Ognuno
ne conviene, ma la difficoltà sta nel determinare
che cosa sia
questa sostanza che pensa, e ciò egli non
fa più degli altri.»
Intorno al 1710 nasce
un’altra opera clandestina voluminosa, nota
con due titoli: uno più raro (Difficoltà
sulla religione, proposte al padre Malebranche) e
uno più frequente: Il militare filosofo. È con questo titolo che
una versione molto rimaneggiata vede la luce
nel 1768 a cura di Jaques-André Naigeon (1738-1810) [89].
In esso viene posto un netto discrimine
tra la religione “naturale” e quelle “fittizie”,
identificate con le cosiddette
“rivelate”. Le prime tre parti dell’opera
sono dedicate ad un esame critico del
contenuto di queste, mentre l’ultima espone
una teologia alternativa basata
“sui lumi” e di indirizzo deistico.
Atteggiamento simile è quello contenuto ne Il cielo
aperto a tutti gli uomini (attribuito al canonico Pierre
Cùppé), che sviluppa un’apologia della tolleranza
religiosa insieme a una critica alla dottrina
giansenista della Grazia. In esso Gesù Cristo viene
rappresentato come un simbolico Nuovo Adamo allusivo di una
rigenerazione morale del genere umano. Prima
del 1730 Jean
Levesque de Burigny aveva
elaborato un Esame critico degli apologeti della religione
cristiana,
ricco di citazioni testuali e riferimenti
dottrinali, ponendo seriamente in
dubbio l’attendibilità delle sacre Scritture
e delle loro interpretazioni. Un modello letterario che sarà seguito da
una serie di saggi con
titoli del tipo: Esame della religione, Analisi del Cristianesimo,
Esame critico del Nuovo Testamento, Dubbi sulla fede [90],
che saranno per decenni un’intollerabile
spina nel fianco dei teologi cristiani.
Un ultimo cenno lo riserviamo all’Examen de la religion,
un testo di ispirazione deista che appare una prima
volta intorno al 1745 e una seconda nel 1761.
Vediamone qualche passo: «Le
prove della religione debbono essere chiare, dato che
possediamo una ragione la quale, derivando
da Dio non può essere cattiva.» [91] Si tratta di un’affermazione di puro buon
senso, e che tuttavia i difensori della rivelazione
hanno sempre respinto, in
nome di una fede che pretende la credenza
e non la comprensione. L’anonimo
precisa:
Noi disponiamo soltanto di due vie per conoscere
la volontà divina: la ragione e la rivelazione.
Ma perché mai la ragione è
presente più o meno in tutti gli uomini,
mentre ve ne sono tanti che ignorano la rivelazione, e così pochi che ne siano stati testimoni?
Ciò avviene perché effettivamente c’è una
ragione, mentre non c’è mai stata
una rivelazione. [92]
Affermazione che
equivale ad una pesante accusa di impostura e di falso
sulla base di un ragionamento logico indefettibile
nei seguenti passaggi: 1.
Dio ci ha dato la ragione; 2. ce l’ha data per usarla;
3. ogni uomo usa la ragione; 4. solo
qualcuno crede nella rivelazione; 5. essa, in quanto
non-universale, e contraria alla ragione,
è falsa. Una religione “vera” non può
appoggiarsi sul falso e le religioni monoteiste
che si basano sulla Bibbia lo
fanno, poiché: «Le cose sciocche e ridicole
di cui è
piena la Scrittura mostrano chiaramente che
essa è opera degli uomini.» [93]
Aggiunge il Nostro almeno due elementi dirimenti per
un concetto post-cristiano di Dio:
1°. Dio è infinitamente al disopra
dell’immaginazione degli uomini, i quali
sono sue creature. È quindi assurdo
affermare che Dio ricompensa gli uomini in
cielo per far risplendere la propria
bontà e che li punisce nell’inferno per far
risplendere la propria giustizia […]
2°. È questo essere supremo e infinito che
chiamiamo Dio. Egli ci ha dato come guida
la ragione, che si ritrova in tutti
gli uomini; finché la seguiremo senza prevenzione,
non potremo mai sbagliare.
La provvidenza divina non può aver agito
in altra maniera […] [94]
11.4 Il materialismo teologico di John Toland
Toland è sicuramente uno dei più interessanti pensatori
dell’inizio del XVIII secolo e la sua originalità
consiste
nell’aver operato una personalissima sintesi
di elementi della filosofia
antica, delle metafisiche del ‘600, del
razionalismo lockiano e delle tendenze vitalistiche contemporanee. Il lui ritroviamo
il panta rei di Eraclito, i semi
di Anassagora e il logos di Zenone di Cizio relativamente all’antichità; la pseudo-fisica
del cosmo pieno di Cartesio, la necessità e l’uno-tutto di
Spinoza, la gnoseologia di Locke
e il metodo critico di Bayle, il vitalismo
di scienziati come William Coward (un allievo di Francis Glisson [95]) e Nicholas Hartsoeker (noto preformista “animalculista” [96]). In ogni caso, ciò che emerge chiaramente,
e
nel momento in cui il newtonismo si va affermando, è
la sua negazione dell’esistenza del vuoto
ed insieme della teoria atomica. Su
questa via egli elabora una sorta di cartesianesimo
riformato e radicalizzato dove Dio (la res cogitans “suprema”), rimane come agente “esterno”
all’universo”, ma la res cogitans “umana” viene riassorbita nella totalità “dinamica ed
autocreativa” della materia. Se la teologia cartesiana
aveva dualizzato l’essere in pensiero
movente-attivo ed estensione ferma-inerte, per
Toland questa diventa “automovente” (quindi “in evoluzione“ rispetto alla
Creazione).
John Toland nasce nell’Irlanda
del Nord nel 1670 in una famiglia modesta,
studia a Redcastel
ed è probabilmente qui che il suo vero nome
di battesimo (il gaelico Sean Owen) viene
anglicizzato. Già a sedici anni abbandona
il cattolicesimo per il
protestantesimo e nel 1688 all’università
di Glasgow si mette in vista per la sua vis anti-papista. Passato a Edimburgo si
laurea Magister Artium
nel 1690. Acquista fama di libero pensatore
e insieme a scritti minori prepara
il Christianity not
mysterious che ha
due edizioni nel solo 1996, una prima anonima
e una seconda a suo nome
suscitando reazioni furibonde e la condanna.
Lasciata l’Irlanda inizia a
difendersi con An Apology
for Mr. Toland e poi con A defense of Mr. Toland, ma nel contempo confermando il suo ruolo
di
spregiudicato e ribelle freethinker anti-sistema.
Legandosi al partito Whig in opposizione a quello Tory assume sempre più rilevanti atteggiamenti
politici e pubblica il giornale Anglia
libera in favore della successione
dei protestanti Hannover al trono d’Inghilterra.
In veste di politico attivo
entra in contatto con la corte di Berlino
dove incontra la benevolenza di Sofia
Carlotta di Prussia (la Serena dedicataria delle Lettere). Nel 1698
acquista ad un’asta i Dialoghi Italiani di Giordano Bruno; ne rimane
profondamente colpito e incomincia pensare
a una
propria teologia panteista. Le Lettere a Serena vedono la luce nel 1704
e il suo atteggiamento antinewtoniano (specialmente
nella V) determina la replica filo-newtoniana di
Samuel Clarke. Con il Socinianism
truly Stated,
pubblicato nel 1705, egli conia l’aggettivo
“panteista” per definire il proprio
atteggiamento teologico. Nel biennio 1708-1709
compie viaggi a Vienna e a
Praga, in Germania e Olanda. Qui, ad Amsterdam,
scopre quel Vangelo di
Barnaba che gli ispira la composizione del corposo
Nazarenus.
Quest’opera è pubblicata nel 1718 e due anni
dopo appaiono il Tetradymus e il Pantheisticon,
l’opera più notevole della maturità. Abbandonato
da amici e
protettori e ridotto in miseria dal fallimento della Compagnia
dei Mari
del Sud, in cui Toland aveva investito i suoi
risparmi, muore a Londra nel marzo 1722.
Partendo
dalla gnoseologia di Locke e dal suo adombrato “socinianesimo” Toland lo porta alle estreme conseguenze anti-trinitarie,
sì che il
vescovo di Worcester, Stillingfleet (Vindication of the Trinity,
1696), potrà colpire Locke attraverso Toland, associandoli come miscredenti e deisti.
L’estremismo del Nostro, la sua mancanza
di tatto e la sua vis
polemica lo pongono presto nella posizione difficile
di indesiderato-emarginato, e dopo la condanna del Christianity not mysterious Molyneux scrive a Locke l’11
settembre 1697:
T [oland] è stato infine
cacciato dal nostro regno; il povero gentiluomo,
con la sua condotta
imprudente, ha sollevato un’indignazione
così universale, che
era persino pericoloso per chiunque esser stato visto in conversazione
con lui. Sicché tutti coloro che hanno tatto e
reputazione hanno rifiutato di vederlo, fino
al punto che, mancandogli il
pranzo (mi è stato detto) nessuno voleva
ammetterlo alla propria tavola. Il
poco danaro che aveva portato con sé in questo paese
era terminato […] e infine, a conclusione
delle sue avversità, il parlamento ha
colpito il suo libro, condannandolo al rogo
per mano del boia, e ordinando che
l’autore sia preso in custodia dal bargello
e processato dal tribunale. Dopo di
che è fuggito da questo regno, e nessuno
sa dove si sia
diretto. [97]
La testimonianza di Molyneux
evidenzia la posizione di vagabondo in cui
il Nostro viene a trovarsi sin dalle
prime battute della sua carriera intellettuale
e la sua assimilazione alla deietta categoria dei pericolosi freethinkers.
In realtà Toland, così com’era stato Spinoza, è soltanto un teologo che intende riformare
la
fede in senso razionalistico, spogliandola
di ogni
elemento di superstizione.
Toland approda a Berlino e incontra Leibniz
nell’ottobre del 1701, lasciandogli la negativa
impressione di un uomo poco
accorto, troppo libero nel linguaggio, troppo
grossolano e ingenuo nel suo
comportamento a corte. Scrive a Burnet il 27 febbraio 1702: «Egli ha molto spirito,
né
manca di erudizione, ma i suoi sentimenti vanno troppo
lontano […] Si ha l’impressione che sia stato
inviato qui da qualcuno
interessato a capire come si governa qui.
Non so se farà una relazione pubblica
del suo viaggio, come ha detto di voler fare,
ma dovrà farlo con molta
circospezione […] Molte persone hanno invitato
l’Elettrice a guardarsi dal
signor Toland […].» [98]
Forse tra le «molte persone » vi era lo stesso
Leibniz
che trovava disdicevole l’interesse e la
confidenza che la principessa
accordava al malaccorto straniero. I due
uomini hanno comunque
l’occasione di confrontarsi epistolarmente su
questioni gnoseologiche ed ontologiche, con
un Leibniz
che manifesta il suo dissenso e obbietta
a Toland:
«Le leggi della forza dipendono da certe
ragioni meravigliose della metafisica
o dalle nozioni intelligibili, senza che
le possano spiegare le sole ragioni
materiali o quelle della matematica, o quelle
appartenenti alla giurisdizione
dell’immaginazione.» [99]
Questi ribatte: «È grazie al corpo e alle
cose corporee che l’anima è ciò che
è, che pensa ciò che pensa e che fa ciò che
fa.» [100] Due
posizioni inconciliabili, almeno su questo
punto, che faranno scrivere a Leibniz con una certa sufficienza: «Gli dissi, tra
l’altro,
che vi sono altre nozioni del moto, ma lui evitò
rientrare nel discorso, evidentemente perché
non è sufficientemente al corrente
di tali dottrine. […] Ciò mi fa pensare che
quasi si disinteressi della verità
e che voglia soltanto distinguersi alla ricerca
della novità e della
singolarità.» [101] Una
conclusione malevola che spiega l’interruzione
del rapporto.
Inquadrato
il personaggio vediamo qualcosa dell’opera con cui
hanno inizio i suoi guai e la sua avventura
intellettuale: Il Cristianesimo
senza misteri. Già alla sua prima apparizione il contenuto
del libro appare
inaccettabile e nel 1796 l’opera è condannata
dal Grand
Jury del Middlesex come blasfema. L’anno dopo una
commissione della Chiesa Anglicana Irlandese
manda il libro al rogo e decreta
per l’autore il processo per eresia. Allora
Toland
lascia precipitosamente l’Irlanda senza un
soldo (non ci metterà più piede) e
si rifugia a Londra, dove però le autorità
ecclesiastiche lo attendono al varco
e solo grazie a contrasti tra le due Houses
of Convocation riesce ad evitare condanne. In una
situazione finanziaria disastrosa egli riesce
intanto a portare a termine La
vita di Milton e ad acquisire notorietà come vittima dell’intolleranza
religiosa e rappresentante del libero pensiero.
Veniamo al testo, dove nella Prefazione
si afferma polemicamente:
E tale è la deplorevole la condizione della
nostra
epoca, che un uomo non osa esprimere in modo
esplicito e diretto il suo
pensiero sulle cose divine, per quanto vero
e utile possa essere, se è appena
differente da quanto accettato da un partito,
o stabilito dalla legge; ma è
costretto o a mantenere un perpetuo silenzio,
o a proporre le sue opinioni al
mondo in forma di paradossi, sotto un nome
falso o inventato. [102]
Ed è in nome della razionalità che Toland
propone la sua visione della fede: « Spero
di mostrare che l’uso della ragione
in campo religioso non è così pericoloso
come viene di solito rappresentato» [103], poiché «Essendo infatti stato educato fin dalla culla nella più
grossolana
superstizione e idolatria, Dio si è compiaciuto
di fare della mia ragione, e di
coloro che facevano uso della propria, i
felici strumenti della mia
conversione.» [104]
Fin da
queste prime frasi si coglie l’intento del
riformatore di dar battaglia contro
il convenzionalismo e la tradizione dottrinaria
in nome della libertà di
pensiero e dell’uso della ragione, ma poco
più avanti l’attacco contro la
didattica religiosa si fa diretto, poiché
i «falsi e inadeguati» principi che
dominano il campo religioso «non hanno alcun
significato o sono stati inventati
da talune persone autorevoli per rendere
oscure le cose semplici, e non di rado
per coprire la propria ignoranza.» [105] È
difficile immaginare che alcuni tronfi prelati
della curia irlandese potessero rimanere attaccati alla loro sedia senza
un
sobbalzo di indignazione. Inoltre, il Nostro,
per quanto uomo colto, è convinto
che l’intellettualismo sia nocivo per una
corretta interpretazione degli
scritti sacri, aggiungendo poco dopo: «Nessuno
può dedurre da questo compito
del clero che il popolo debba accettare implicitamente
le sue decisioni arbitrarie, non più di quanto
io debba rinunciare alla mia
ragione […] E perché il volgo non dovrebbe
allo stesso modo essere giudice del
vero significato delle cose, sebbene non
comprenda nessuna delle lingue dalle
quali sono tradotte per il suo uso? […] I
poveri, che non sono considerati
capaci di comprendere i sistemi filosofici,
capirono presto la differenza fra
gli insegnamenti semplici e convincenti di
Cristo e le declamazioni complicate
e inefficaci degli Scribi.» [106]
Toland vuole delineare un quadro
gnoseologico di riferimento (e tributario
di Locke)
che riforma i concetto di ragione, divenuto equivoco e ambiguo per la
sua identificazione con l’anima in generale.
Essa è una facoltà “attiva” dell’anima
che si identifica col buonsenso e non va confusa
con
una funzione “passiva” dell’anima stessa
consistente nel collezionare
sensazioni e tradurle in idee semplici [107]. In
un chiaro richiamo a Locke (Saggio
sull’intelligenza, II, cap.I, 1-8) , è il “confronto” tra tali idee, l’accordo
o il
disaccordo, ovvero il lavorìo successivo della mente
che riflette, a produrre esiti razionali,
ed allora:
Questo metodo di conoscenza è chiamato propriamente
ragione o dimostrazione, e può essere definito
la facoltà dell’anima che scopre
la certezza di qualsiasi punto dubbio o oscuro,
paragonandolo con qualcosa che sia conosciuto
con evidenza. [108]
La ragione non è sempre necessaria per avere
evidenze,
ma solo l’accordo con essa le conferma: «Così, sebbene
l’evidenza immediata escluda la ragione,
tuttavia ogni dimostrazione diventa
alla fine immediatamente evidente.» [109]
L’anima passiva è quella che immagazzina
informazioni e i mezzi
d’informazione sono «i modi in cui
qualsiasi cosa giunge semplicemente alla
nostra conoscenza, senza
necessariamente imporre il nostro assenso.» Essi si
costituiscono o come esperienza o come autorità. Questa può essere umana o divina, nel primo caso si
manifesta come certezza morale, nel secondo come manifestazione
della verità da parte della verità stessa. Gli strumenti della conoscenza
sono pertanto quattro: l’esperienza dei sensi, l’esperienza mentale,
la rivelazione umana e quella divina. [110]
Non
seguiremo nel dettaglio Toland nelle ulteriori precisazioni circa la persuasione e l’evidenza
(Capitolo IV) per arrivare alla Sezione II
dell’opera, che già nel titolo Le
dottrine del Vangelo non sono contrarie alla
ragione ci introduce al tema
principale. Fin dalle prime battute si manifesta
il Toland
anti-papista e anti-trinitario, in merito
alle «favole ridicole della Chiesa di
Roma», con un richiamo alle posizioni
ariane e sociniane [111]. Un analisi “riformata” di alcuni brani dell’Antico
e Nuovo
Testamento (e in particolare delle Lettere paoline)
lo porta a un prima conclusione:
Il risultato ovvio di quanto è stato
detto è che credere nel carattere divino
della Scrittura, o nel significato di
qualsiasi suo brano, senza prove razionali
e una coerenza evidente, costituisce
una forma di credulità deprecabile e un’opinione
temeraria, di solito fondata
su una natura ignorante e ostinata, ma più
generalmente sostenuta con la
prospettiva di un vantaggio. [112]
Non solo ignoranza, dunque,
ma anche mala fede! Nel Primo Capitolo della Sezione III si
entra nel merito dei miracoli. Toland sostiene
i miracoli per una fede cristiana ragionata
non sono affatto misteriosi, ma che
è a causa delle contaminazioni da parte delle
misteriosofie
pagane se il Cristianesimo si è corrotto
in tal senso. Perora anche la causa di
una “utilità” conoscitiva pragmatica, che
si autolimita
per evitare frutti immaginativi distorti
nel tentativo di interpretare
l’ignoto, sicché:
Dal momento che percepisco con facilità gli
effetti positivi o negativi della pioggia sulla terra, che
vantaggio
avrei a conoscerne il modo di produzione
nelle nuvole? Dopo tutto
non potrei far piovere a mio piacere, né
impedire alla pioggia di cadere in
qualsiasi momento. [113]
Atteggiamento ovviamente antiscientifico
ed
empiristico, ma dove tale rinuncia alla scienza
della natura sembra un prezzo
che Toland è disposto a pagare per avvalorare la sua
tesi contro le indebite fantasie interpretative
dei testi sacri.
Toland segue ancora Locke nel
distinguere tra l’essenza nominale e quella reale delle cose,
essendo la prima quella alla quale perlopiù
noi ci riferiamo nel riconoscere e
nominare le qualità osservabili. L’essenza reale, al contrario, è di
rado conoscibile, ma ciò non ci autorizza
a farne un mistero [114].
Analogamente, quindi, ci dobbiamo accontentare
di conoscere Dio attraverso i
suoi attributi, senza necessariamente usare
la parola mistero per ciò
che non ci è accessibile. Ed
allora:
Penso di poter ormai concludere
legittimamente che niente è un mistero perché
non ne conosciamo l’essenza, dal
momento che essa non risulta conoscibile
in se stessa, né è mai oggetto del
nostro pensiero: tanto che da questo punto
di vista lo stesso Ente divino non
può essere considerato misterioso con maggior
fondamento delle sue più infime
creature. E non mi preoccupo molto che tali
essenze sfuggano alla mia conoscenza,
perché mi mantengo fermo nella convinzione
che ciò che l’infinita bontà non si
è compiaciuta di rivelarci, o siamo i grado di
scoprirlo da soli, o non abbiamo alcun bisogno
di comprenderlo. [115]
Pare qui di poter scorgere un implicito criterio
utilitaristico su base naturale; se qualcosa
è per noi conoscibile è perché può
esserci utile, se è invece inconoscibile è fuori del
nostro orizzonte e non ci può interessare.
Ma vi è anche un’aggiunta a questa
frase nella seconda edizione del libro dove
Toland si
preoccupa di rilevare che è comunque illegittimo
dimostrare l’esistenza di misteri religiosi
«sulla base dei pretesi misteri
della natura », dando così l’impressione
di credere nella possibilità umana di
conoscere la natura in ogni suo aspetto.
Nel Terzo
Capitolo Toland passa a cercare sostegni alla sua
tesi dell’illegittimità di evocare miracoli
della
fede, che rinviene sia in Clemente Alessandrino,
sia in Tertulliano e sia in
Origene, sostenendo che anche negli altri
Padri dei primi tre secoli del Cristianesimo
l’atteggiamento è simile [116]. In quanto a San Paolo (Capitolo IV) pensa che anche
l’Apostolo delle Genti in qualche modo la
pensasse come lui, ma ciò che gli
interessa ribadire è che la ragione è utile
alla fede e che i veri miracoli non
la contraddicono mai [117],
concludendo:
Così ho cercato di dimostrare agli altri
ciò di cui
sono pienamente convinto, cioè che non esiste alcun
mistero nel cristianesimo, la religione più
perfetta; e che di conseguenza
nulla di contraddittorio o inconcepibile,
per quanto trasformato in articolo di
fede, può essere contenuto nel Vangelo, se
esso è realmente la parola di Dio. [118]
Si noti il « se esso è realmente la parola
di Dio »,
che sottintende il sospetto di manipolazioni
e falsificazioni del testo sacro.
Delle Lettere
a Serena, pubblicate nel 1702, sono dedicate a Sofia
Carlotta di Prussia le prime tre (meno importanti dal punto
di vista
teorico) mentre la IV e la V (circa la confutazione di
Spinoza e l’esposizione del “panteismo” tolandiano) si rivolgono a un “gentiluomo d’Olanda”
e la VI
a un “gentiluomo a Londra”. Nella
Prefazione (ma si tenga conto che il dedicatario
è una donna) vi è
un’interessante apologia del sesso femminile:
Quante volte sono stato costretto a descrivervi
quali
mostri rozzi, ignoranti e incolti, siano
generalmente le persone del nostro
sesso che non sono educate e raffinate dall’educazione
e dalla cultura; e come le mogli e le figlie
di tali contadini abbiano di
solito maggior spirito e ingegno, un grado
più elevato di educazione e di
sagacia! Se l’esclusione delle donne dalla
cultura derivi da un’abitudine
inveterata o dall’intenzione degli uomini
non intendo indagarlo: ma se a una donna, una volta nella vita, capita
di rivolgere la
curiosità ai libri e per questo diviene noiosa,
affettata o ridicola (cosa che
accade in un caso su mille), quanto chiasso
facciamo a questo proposito, come
siamo pronti ad attribuirlo alla sua inclinazione
naturale e quali trionfi
decretiamo alla superiorità della nostra
intelligenza? [119]
La perorazione pare sincera, sì da giustificare
la
simpatia di Sofia Carlotta per il turbolento
Toland
(e la malcelata invidia di Leibniz), ma mostra anche
una sensibilità notevole per un problema
sociale onnipresente e ubiquitario.
La I
Lettera ha per titolo L’origine e la forza dei
pregiudizi e in essa è sviluppata la tesi che, sin
dall’infanzia, il modo
di impartire le prime conoscenze si caratterizza
per la sua astrazione dalla
realtà e per il privilegiamento del fantastico,
mentre in seguito le convenzioni sociali
e le mode favoriscono l’instaurarsi
del pregiudizio. Alla negatività di tale
formazione intellettuale
contribuiscono «i nostri timori e la nostra
vanità, l’ignoranza del passato,
l’incertezza del presente e l’ansiosa curiosità
del futuro; la precipitazione
nel giudizio, la sconsideratezza nel dare
l’assenso e la mancanza della
necessità imparziale nell’esame.» [120]
L’inevitabile conclusione è che «i nostri
pregiudizi ci dominano» e che
attraverso una catena di inganni, della quale siamo
perlopiù inconsapevoli, ci troviamo spesso
ingabbiati nel «contagio» della
moltitudine. Solo la persona «libera dai
pregiudizi », per
quanto paia svantaggiata sul piano della socialità in quanto talvolta
emarginata, «trova nel corretto uso della
propria intelligenza una sicura
difesa contro tutti questi vani sogni e terribili
fantasmi » generati dai
pregiudizi e «non si lascia trasportare come
una bestia dall’autorità o
dall’istinto, ma stabilisce da solo le norme
del suo comportamento di uomo
libero e ragionevole.» [121]
L’argomento
della II Lettera è la Storia dell’immortalità dell’anima presso
i
pagani e si configura come un riconoscimento al
mondo pagano di aver avuto
chiara cognizione dell’anima e della sua
provenienza divina, sicché: «furono i
primi pagani a sostenere in particolare l’immortalità
dell’anima con tutto ciò che ne deriva », che «gli Ebrei erano i
più
ignoranti tra tutti i popoli orientali »
e che lo stesso Mosè
era di formazione culturale egiziana [122]. Toland vede negli Egizi i padri della cultura con
i Greci da
essa dipendenti, ma soprattutto sviluppa una
tesi di
storia comparata delle religioni dove si
coglie l’uniformità del sentire il
divino, per dimostrare che molte pretese
priorità temporali della fede ebraico-cristiana relative ai più importanti concetti
religiosi sono ingiustificate. Ma si mette in rilievo
anche il fatto che non furono pochi a negare
l’immortalità dell’anima sulle
orme di Epicuro. Tra essi Seneca, che aveva fatto declamare al coro delle
Troadi (Atto II): «Nulla vi è dopo la morte, e
in sé
la morte è nulla, solo l’ultima meta di una
corsa veloce. […] » [123], e poi Virgilio, Orazio, Giovenale, Cornelio
Severo e Plinio
il Vecchio, che aveva scritto (Storia naturale, VII): «In verità, questa illusoria credulità distrugge l’utilità della
morte,
che è il bene principale della natura, e
raddoppia le sofferenze di un morente,
se lo assale la preoccupazione relativa al
suo stato futuro.» [124]
La III
Lettera concerne L’origine dell’idolatria e le cause del paganesimo
e tornano in campo gli Egiziani come primi
inventori della magia e
dell’astrologia, secondo Toland due elementi
principali del paganesimo. Severo con i Greci
e i loro dèi viziosi («Agli
Ateniesi toccò la benedizione di due belle
divinità: l’Ingiuria e l’Insolenza.» [125] e non meno con i Romani, che quali divinità
«avevano la
Speranza e la Paura, il Pallore e il Tremito.»
[126] La
lettera opera una ricognizione storica sui
vari aspetti del paganesimo, ma
anche sui personaggi che ne hanno messo in evidenza i
difetti, tra i quali spicca il Cicerone del
De divinatione
e del De natura deorum quale encomiabile
demolitore degli aspetti più deteriori del
paganesimo. Il pensare «che siano
stati idolatri tutti coloro che vissero quando
dominava il paganesimo è l’errore più grossolano
che si possa commettere.» [127] e per di più:
Possiamo osservare che quasi ogni aspetto
di quelle
religioni superstiziose e idolatre è stato
resuscitato in forme simili o ancora
più grossolane per opera di molti Cristiani
nella parte occidentale dell’Europa
e di tutte le sètte orientali. [128]
Considerazione pesante aggravata da quella
che conclude:
Ma se qualcuno dovesse chiedersi come gli
uomini abbiano potuto lasciare la strada facile
e diretta
della ragione per perdersi in tali labirinti
inestricabili, basterà che
consideri come in tante nazioni importanti
il chiaro insegnamento di Gesù Cristo abbia potuto degenerare nelle dottrine
più
assurde, in un gergo incomprensibile, in
pratiche ridicole e misteri
inesplicabili; e come quasi in ogni angolo
del mondo la religione e la verità abbiano
potuto trasformarsi in superstizione e potere
sacerdotale. In breve,
l’argomento di questa lunga lettera è racchiuso
elegantemente nei quattro versi
seguenti, che sono sulla bocca di tutti:
La religione naturale era all’inizio semplice e piana, / le favole la resero
misteriosa, le offerte una fonte di guadagno;
/ col tempo furono istituiti
sacrifici e esibizioni, / i preti banchettavano
e il popolo stava a guardare. [129]
Si noti l’associazione della superstizione
(e più in
generale della degenerazione della fede)
col potere sacerdotale. I quattro
versi (che hanno tutta l’aria di essere suoi)
riassumono sinteticamente ciò che il Nostro
va sostenendo da tempo..
Passiamo ora
alla IV Lettera, quella che pone le premesse
dell’argomento cosmologico che è sviluppato
nel allunga Lettera V. Ciò
che sorprende è il fatto che in entrambe, ma
specificamente nella IV, si assuma il panenteismo
di Spinoza come riferimento negativo, sì che il
sottotitolo recita: dove si dimostra che il sistema di Spinoza
è privo di qualsiasi fondamento. Enunciazione così severa da risultare sospetta, tanto più che, fatta salva la
differenza
che l’olandese è panpsichista e l’irlandese
materialista, tutto sommato i principi di
fondo dei due sistemi coincidono. Ma vi è probabilmente anche un problema nominalistico,
poiché, siccome Toland si definisce “panteista”, come
almeno dal 1680 era già stato definito Spinoza e
prima di lui Bruno, viene da pensare che
demolendo il sistema spinoziano Toland intenda porre
le premesse per acquisire la titolarità unica
dell’aggettivo sottraendola
all’ormai famoso olandese. Fin dalla terza
pagina lo scrivente ribadisce e rincara il titolo nel dire al destinatario
“gentiluomo olandese” di essere «convinto
che l’intero sistema di Spinoza non è solo falso, ma anche precario e privo
di ogni
sorta di fondamento.» [130] Ma si stia attenti al periodo che la segue
di poco:
5. Ammettendo pure che egli sia stato il
più onesto
degli uomini, suppongo che non lo riterrete
esente da molte debolezze umane
alle quali sono soggetti anche i migliori:
e io sono incline a sospettare che
la sua principale debolezza fosse una, di
avere dei discepoli e un nuovo
sistema di filosofia che si fregiasse del
suo nome, dato l’esempio recente e
invitante dato dalla buona fortuna del suo
maestro Cartesio. [131]
Le considerazioni che ne emergono
sono almeno tre. La prima: l’encomio come
«il più onesto degli uomini » non
solo contrasta con la successiva affermazione
circa la sua «smodata passione di
diventare il capo di una setta », ma soprattutto
non rende ragione del fatto
che la rivendicazione di libertà interpretativa
delle sacre Scritture
rivendicata da Toland è esattamente la stessa
rivendicata da Spinoza oltre trent’anni
prima. Entrambi poi sono i fautori di un progetto
teologico “revisionista” che si presenta
come la cassazione della superstizione
e delle derive irrazionalistiche della fede
ebraico-cristiana.
La seconda: relativamente al “sospetto” che egli cala
sull’olandese è invece evidente essere proprio
lui, col suo attivismo politico,
a perseguire l’obbiettivo che attribuisce
a Spinoza,
tanto più che questi con la sua vita ritirata
non aveva fatto nulla per
conseguirlo. La terza: affermare che Spinoza potesse aver fatto riferimento a Cartesio è insostenibile,
poiché egli ha affossato ogni dualismo ontologico
per instaurare un monismo
assoluto. Nasce allora il legittimo sospetto
che Spinoza
costituisse per Toland un
precedente così importante che, ai fini di
non passare per il “nano sulle
spalle del gigante”, abbia deciso di seppellirlo
sotto un assai poco probabile
disprezzo.
Arriviamo al
punto centrale dell’“inconsistenza” spinoziana che Toland pone nel fatto che l’olandese non definisce
alcuna
causa di movimento nella materia, né precisa
in virtù di che cosa i corpi siano ora in stato di moto e ora in stato di quiete
(Etica,
Parte II) pur affermando che la differenza
dei corpi dipende dall’un stato e
dall’altro. Ora, se Spinoza trascura tale aspetto è
perché lo ritiene irrilevante, poiché i singoli
corpi sono solo gli aspetti effimeri
di un Uno-Tutto in cui scompaiono come entità prive
non solo di sostanza ma addirittura di realtà.
Infatti, l’unica cosa “che
esiste” è l’Uno-Tutto, e le pluralità che
si offrono alla nostra percezione sono pure apparenze. D’altra parte, come
avevamo
già rilevato in La filosofia e la teologia filosofale, Spinoza è
l’inventore in ambito occidentale di un panenteismo (Hegel lo chiamerà “panteismo acosmistico”)
teorizzato già da millenni in ambito indiano.
La materia, per l’olandese, non
esiste i quanto tale: essa, oltre che divina, è “in
Dio”, che è pensiero puro; quiete o moto
per il Dio spinoziano
sono privi di senso ed in tale orizzonte
ontologico il movimento, fattore
puramente materiale dell’estensione
(ed intrinseco ad essa), è privo di alcun
significato. Se ne rende conto Toland? Fa finta di non rendersene conto? Tutto
tende a far
pensare a una tesi pretestuosa e che il suo fine sia
quello di oscurare il suo modello di riferimento
per prenderne il posto,
capovolgendone la premessa ontologica (da
spiritualista a materialista) e
ripristinando un” Motore-Logos” esterno alla
materia in senso aristotelico.
Per Toland l’impianto spinoziano è
debole e incoerente, affermando: « la sua
filosofia non è costruita su
fondamenti certi o probabili, ma su ipotesi
gratuite.»
[132] Il
che è sicuramente vero; ma quando mai una
metafisica non si fonda su ipotesi
gratuite? L’asserzione tolandiana è meramente
tautologica. Egli, volendo porre l’essenzialità del moto
come
strutturalmente inerente alla materia va
però contro la metafisica, per la
quale vi è sempre una sostanza
(gabellata anche per essenza) che è
reale, accompagnata da accidenti-attributi
apparenti-inconsistenti
che si offrono alla percezione. Per la filosofia sono
invece proprio questi a costituire la sola realtà, l’essenza del reale, e la presunta
sostanza essere una pura invenzione logico-dialettica.
Toland
aggiunge:
Io sostengo dunque che il
moto è essenziale alla materia, cioè è altrettanto
inseparabile dalla sua natura di quanto siano
l’impenetrabilità e
l’estensione, che dovrebbe costituire
una parte della sua definizione […] Nego
che la materia sia o sia mai stata una
massa morta e inattiva in assoluto riposo,
un’entità passiva e pesante. [133]
L’espressione « Nego che la materia sia o
sia mai
stata » è problematica. Che cosa può significare quel « mai
»? Che la materia è eterna? Che
non è stata creata da Dio? Che Dio (se esiste)
non c’entra con essa? Pare di trovarci di fronte a
una tesi atomistica. Ma non è così e subito dopo si
precisa:
Spero di dimostrare che questa sola nozione
spiega la
persistenza della medesima quantità di moto
nell’universo: essa soltanto spiega
l’inesistenza e l’impossibilità del vuoto,
permette di dare una definizione
appropriata della materia, risolve tutte
le difficoltà relative
alla forza motrice e tutti gli altri problemi
che abbiamo ricordato
prima. [134]
Siamo tornati a Cartesio! Per Toland
il cosmo è un “tutto pieno” di materia e
la res
cogitans suprema è il Dio-Ordinatore-Motore
esterno ad essa. Ma, “cartesianamente”,
ne è anche creatore? Parrebbe di no, perché Toland aggiunge:
Quindi coloro che ritengono la materia creata
possono
concepire altrettanto bene che Dio l’abbia dotata di
azione come di estensione, mentre coloro
che la ritengono eterna possono
considerarla altrettanto bene eternamente
attiva quanto eternamente divisibile:
non possono spiegare mai qualsiasi cambiamento
in natura senza ammettere
questo, come ho provato in precedenza contro
Spinoza.
Il mio solo compito è dimostrare che la materia
è necessariamente attiva oltre
che estesa, e quindi spiegare quanto mi è
possibile delle sue affezioni: ma non
intromettermi nelle dispute che altri potrebbero
sollevare sulla sua origine o
durata. [135]
Non si prende quindi posizione né sull’origine
né
sull’eternità della materia, cioè sul fatto che abbia
la propria causa in Dio o sia invece causa
sui. Una domanda però emerge inevitabile: come
si può credere in Dio e nel
contempo non considerarlo come causa
prima della materia?
Vediamo se
la Lettera V ci può aiutare a
dirimere la questione. La materia è per Toland
“necessariamente” attiva, e la necessità
è presupposta sia da Cartesio che da Spinoza e assai
prima da Democrito (ma non da Leucippo,
Epicuro e Lucrezio). Toland
non ha le idee chiare sull’atomismo antico? È probabile. Ma
seguiamolo ancora:
Cercherò di avvalorare questa definizione
[della
necessità del movimento] mediante le ragioni
che addurrò per dimostrare che
tutta la materia nella natura, ogni sua parte
e particella, è sempre stata in
movimento, e non può mai essere in una condizione
diversa; che le particelle poste al centro
delle rocce più solide e massicce,
nel cuore di sbarre di ferro e lingotti d’oro,
sono in costante attività al
pari di quelle del fuoco, dell’aria o dell’acqua,
sia pure non secondo le
stesse determinazioni né gli stessi gradi,
così come le particelle di questi
ultimi elementi confrontate tra loro. Tale
azione è infatti
ugualmente naturale e interna ad esse come
a tutte le altre specie di materia
nell’universo, per quanto i loro movimenti
specifici siano tanto vari e
differenti, a causa dei loro diversi modi
di influenzarsi a vicenda. [136]
Abbiamo qui una prima enunciazione sufficientemente
esauriente della cosmologia tolandiana su cui
conviene soffermarci. In primo luogo notiamo
un significativo
« è sempre stata in movimento » che conferma
quanto precedentemente rilevato,
ovvero che parrebbe esclusa ogni Creazione;
essendo essa “da sempre” Dio non
l’ha creata. A questo stadio dell’esposizione
si direbbe però che l’universo
materiale e Dio debbano essere considerati
coeterni,
e che Dio “potrebbe” esserne il suo ordinatore.
Un secondo elemento da rilevare è che in
movimento non è la materia come
“tutto”, bensì dinamiche sono le particelle che la
compongono, ovvero i suoi elementi primi.
Il che farebbe
pensare di nuovo ad una concezione atomistica,
che però abbiamo dovuto
escludere per la negazione del vuoto. Ma,
come vedremo, è invece ai semi
anassagorei che Toland
pensa: sono infatti considerazioni qualitative e non
quantitative quelle che fanno parlare di
“elementi”. Il Nostro pare aver fatto
riferimento al Circulus Pisanus
di Claudio Berigardo, docente a Padova dal 1640, che aveva passato in rassegna in cui erano esaminati i vari
modelli di atomismo includendovi quello anassimandreo dei semi. Notiamo ancora che ogni tipo
di materia possiede propri «movimenti specifici»
e che la varietà dei moti
dipende da un”interazione” dinamica tra essi (il che
suona però tautologico).
Viene successivamente precisato che il movimento e l’estensione
sono coessenziali ed inseparabili in ogni parte di
materia, poiché è il primo che determina
le qualità “secondarie” sensibili della materia (figura, colore,
durezza, ecc.). Di più:
Tutti questi aspetti dipendono
infatti dal movimento, così come le forme di tutti
gli esseri corporei,
la loro generazione, successione e corruzione
mediante le innumerevoli
commistioni, trasposizioni e altre combinazioni
delle loro parti, che sono
tutte effetti naturali e indiscutibili del
movimento: o piuttosto sono il movimento
stesso sotto questi vari nomi e determinazioni.
[137]
Non solo il moto determina le varie forme
del divenire
ma le “parti elementari” stesse sono suoi
“effetti” o “specie”. Ci troviamo
perciò di fronte ad una concezione “pandinamica”
dell’essere che a dispetto del suo carattere
“qualitativo” prelude in maniera
profetica allo spinning delle
particelle elementari quale “movimento intrinseco”. Toland
ha però anche l’accortezza di precisare che
tutto ciò riguarda solo gli «esseri
corporei» lasciando plausibile l’esistenza
di “esseri incorporei” (e ovviamente
di Dio). Per quanto la dýnamis crei l’essere
dell’universo materiale, l’esistenza dell”immateriale”
(dello spirito) non risulta negata nel materialismo tolandiano, che si limita a “separare” ontologicamente
la materia dallo spirito in un dualismo non
molto dissimile da quello
cartesiano.
Il movimento
è anche la causa della divisibilità, e questa
diventa «prova innegabile del
fatto che essa [la materia] non può essere
concepita senza il moto, dal momento
che è il moto che la diversifica e la divide.» [138] Ma successivamente si affronta il concetto di sostanza
sferrando un duro colpo alla metafisica aristotelica
e alle sue propaggini
scolastiche e secentesche:
Come potete concepire che la
materia sia una sostanza se non è dotata
di attività? Come può essere il
soggetto di accidenti, secondo la definizione
corrente, dal momento che gli accidenti non
sono altro che varie
determinazioni dell’attività della materia,
differenziate in base alle loro
differenti situazioni relative ai nostri
sensi, ma in realtà non distinte dalla
nostra immaginazione, o dalla cosa stessa
in cui si ritiene che esistano? [139]
E il Nostro passa poi ad un significativo
realismo anti-metafisico affermando che l’universale è concepibile solo
nella misura in cui c’è un particolare che ne legittima l’enunciazione.
Infatti: « La rotondità non è differente
dal corpo rotondo (il che vale per
tutte le figure), perché tale rotondità non
è il nome di una cosa reale, ma
soltanto un termine per esprimere la particolare
modalità
di un certo corpo.» [140] L’universale
diventa quindi solo una modalità d’essere,
cioè un attributo, del singolo corpo materiale;
si realizzerebbe allora un
capovolgimento concettuale di uno dei principi
fondanti della metafisica, che
concepisce invece la sostanza nell’universalità
e l’accidente nella
particolarità. Purtroppo che, come vedremo, il particolare
perde a sua volta realtà in una supposta
unità-totalità panteistica che Toland si appresta a teorizzare con forza.
Posta la
negazione del vuoto come passaggio obbligato
alla tesi dell’Uno-Tutto
panteistico l’accorpamento di estensione e movimento
come co-inerenti lo rende anche teoricamente
superfluo:
L’opinione del vuoto è una delle innumerevoli
conseguenze erronee della definizione di materia
basata sulla sola estensione, della tesi
della sua naturale inattività e
dell’idea della sua divisione in parti reali,
reciprocamente indipendenti sotto
ogni aspetto. [141]
In realtà, non si vede neppure bene “contro
chi” potrebbe essere giustificatamente
mossa l’obiezione, se non conto una generica
teologia metafisica. Non contro
gli atomisti (i primi e maggiori sostenitori del
vuoto), che ritenevano il movimento “proprio”
degli atomi; ma neppure contro
Newton, che ammette il vuoto come il medium in cui il moto (e non
l’estensione) della materia si fa possibile.
Ma
siccome per Toland la materia è, cartesianamente,
un “tutto-pieno”, si comprende subito dopo come tale
posizione sia solo un corollario del sistema
panteistico che egli intende
proporre, il quale non può che negare ogni
realtà a “parti” della materia:
Si può dimostrare che quelle che noi chiamiamo
parti
della materia sono soltanto i diversi modi
di concepire le sue affezioni, le
distinzioni delle sue modificazioni. Tali
parti sono perciò solo immaginarie o
relative, ma non reali e divise in senso
assoluto. L’acqua come tale può essere
generata, divisa e corrotta, aumentata e
diminuita, ma non quando è considerata
come materia. [142]
Egli pare non rendersi conto che dopo aver
tentato di
affossare il panteismo spinoziano utilizzando un mero
cavillo (come quello della mancata tematizzazione del
movimento ne riprende pari pari un suo elemento
fondante, quello di “modificazione”, per
qualificare ciò che noi percepiamo
come “parte”. Non è quindi il modello strutturale
dello spinozismo
a mutare, ma la sua “sostanza”, che da “estensione-pensiero”
diventa
“movimento-materia”. Rimane però anche l’altra
differenza importante in base
alla quale per Spinoza Dio “è” il cosmo, mentre per Toland Dio “sta fuori” del cosmo. Ci si deve quindi
domandare come egli possa pretendere la definizione di
panteismo per il suo sistema, dal momento che, in
realtà, stando Dio
fuori del cosmo, si ricade in una mera variante
del dualismo cartesiano. E tuttavia il Nostro aggiunge ancora, “spinozianamente”:
7. In questa occasione, per
evitare ogni ambiguità, è opportuno informarvi
che per corpi io intendo certe
modificazioni della materia concepite dalla
mente come altrettanti sistemi
limitati o quantità particolari astratte
col pensiero, ma non effettivamente
separate dall’estensione dell’universo. [143]
Passiamo ora
a considerare l’atteggiamento del Nostro
nei confronti della matematica e della
geometria; in realtà il tentativo di contestare
un’interpretazione “troppo
matematica” del newtonismo. Il tema viene dapprima preso alla larga: « Così si è sostenuta
l’esistenza reale di linee, superfici e punti
matematici, e ne sono state
dedotte molte conseguenze assai infelici
[…] Così la parola “infinito” resta estremamente
confusa […] », ma poi si arriva all’affondo
contro il tempo e lo spazio
assoluti:
Della medesima natura sono il tempo infinito,
il
pensiero umano infinito, le linee asintotiche
e molte altre progressioni senza
limiti […] Ma nessun termine è stato così male
impiegato e h dato occasione a tante discussioni
come lo spazio, che è soltanto
una nozione astratta, come vedremo in seguito,
o la relazione che un oggetto ha
con altri enti posti a una certa distanza
[…] [144]
Ma Toland finisce poi per
andare persino oltre il Cartesio dei Principia philosophiae
(II, 14 e 16) con la sua negazione dello
spazio: «Da parte mia, non posso
credere in uno spazio assoluto distinto dalla
materia, come suo luogo, non più
di quanto possa credere che esiste un tempo assoluto,
differente dalle cose di cui si considera
la durata.» [145]
Egli insiste nel proporre un’interpretazione
meno matematica delle asserzioni
di Newton aggiungendo: « E tuttavia si ritiene
che il signor Newton non solo
sia convinto di tali asserzioni, ma li ponga
entrambi sullo stesso piano.».
Cita poi per esteso un noto passo di Newton
che recita: «Il tempo e lo spazio sono per così dire i luoghi di se stessi […]
» e afferma:
Sono convinto che queste parole siano suscettibili
di
un’interpretazione favorevole al mio parere:
ma preferisco citarle nel senso in
cui sono comunemente intese, a parte il fatto
che il suo libro, come ho detto
prima, non ne risente in nessun caso. [146]
Il Nostro sa benissimo che il senso « in
cui sono
comunemente intese » è quello di Newton stesso,
ma non se la sente di smentire colui che si sta affermando come “padre delle moderna
fisica”.
Va però
precisato che non solo Toland è indifferente a
Newton, ma sta decisamente dalla parte di Cartesio nel
concepire un universo tutto “pieno”. Ma egli
neppure crede all’attrazione
gravitazionale, sì da scrivere relativamente al
concetto di “peso”: « Infatti lo stesso corpo
diventa pesante o leggero in
momenti diversi, a seconda della sua posizione
rispetto agli altri corpi, e si
sa benissimo che molti oggetti a volte non
si trovano in uno stato di
leggerezza o pesantezza.» [147] Con
ciò egli intende anche colpire l’idea empedoclea dei
quattro elementi «che si dispongono ordinatamente
secondo i loro gradi di
gravità o leggerezza » che ammetterebbe l’esistenza
di un caos originario dove
sarebbe il peso a mettere ordine, poiché:
«ciò non potrebbe accadere neppure a
quelle condizioni senza l’intervento di un
Architetto onnipotente » [148] In
realtà qui Toland è coerente col suo assunto di una
materia che dall’eternità possiede il proprio
ordine dinamico e ciò che intende
colpire è l’ipotesi di un ordine conferito
da un agente esterno alla materia.
Ma questo significa negare l’intervento di
Dio sul cosmo anche solo come
ordinatore e quindi approdare ad un materialismo
che ammette sì Dio, ma (come
faceva Epicuro con gli dèi
pagani) viene reso estraneo al mondo.
La visione pandinamica tolandiana
trova efficace espressione nel passo seguente,
di sapore quasi lucreziano e abbastanza poco panteistico nell’individuazione
degli “elementi” dinamici:
La terra, l’acqua, l’aria e il fuoco non
sono soltanto
strettamente mescolati e uniti, ma si trasformano
a vicenda in una perpetua
rivoluzione: la terra diviene acqua, l’acqua
aria, l’aria etere e viceversa, in
mescolanza senza fine e senza numero. Gli
animali che distruggiamo servono a
mantenerci in vita, finché noi stessi non
siamo distrutti per conservare altre
cose e diventare erba, piante, acqua o aria
o qualche altra cosa che serve a
produrre altri animali, e a fare di questi
ultimi altri animali o altri uomini.
Questi si trasformano ancora in pietra o
legno, metalli o minerali o ancora
animali, o divengono parti di tutte queste
e di molte altre cose, mentre gli
animali e i vegetali si consumano e si divorano
l’un l’altro ogni giorno: tanto
è vero che ogni cosa vive della distruzione
di un altra.
[149]
Al di là della bellezza anche letteraria di questo passo,
ciò che
più colpisce è non solo la più totale assenza
del divino in questa
fenomenologia della materia, ma anche la
mancanza del minimo accenno all’anima
umana. E non solo quale testimone dell’esistenza
del divino
stesso nell’uomo ma neppure come fattore
differenziale rispetto agli altri
animali e addirittura alle materie morte. Ne emerge
un panorama che da materialistico (e solo
teoricamente dualistico) si configura
ora anche come profondamente ateistico. Il
prosieguo
del passo ce ne offre conferma:
Tutte le parti dell’universo sono immerse
in questo
processo costante di distruzione e produzione,
produzione e distruzione; ai
grandi sistemi si attribuiscono movimenti
incessanti così come alle particelle
più piccole, mentre i globi centrali dei
vortici ruotano attorno al proprio asse e ogni particella del vortice gravita verso
il centro. I nostri corpi, per quanto possiamo
illuderci, non differiscono per
nulla da quelli delle altre creature […]
senza restare oggi gli stessi rispetto
a ieri né mantenersi gli stessi domani, vivendo
in un
flusso perpetuo come un fiume e destinati
a diventare parti di mille altre cose
nello stesso tempo, in seguito alla totale
dissoluzione del nostro sistema dopo
la morte. Le nostre spoglie si mescolano
in parte con la polvere e l’acqua
della terra, in parte evaporano e si diffondono
nell’aria, volano in tanti
luoghi differenti, si mescolano e s’incorporano
con innumerevoli cose. [150]
Nell’inciso « per quanto possiamo illuderci
», anche
se riferito i corpi, si intende colpire a fondo
l’illusione di quella differenza ontologica
che caratterizza ogni sentimento
religioso e la nostra morte non dà luogo
a un “volare” dell’anima al cielo ma
ad un “volatilizzare” del nostro essere nella
sua globalità in mille luoghi e
cose senza il più piccolo cenno a un “qualcosa
di noi” che non segua tale
destino. Ci troviamo qui nel punto più profondo
non solo del materialismo di Toland ma anche di un suo quasi inevitabile ateismo,
per
quanto mai dichiarato.
Ma la V Lettera ci riserva ancora altre sorprese dove
si dice «Ma dovete sempre distinguere fra
l’energia interna, l’autocinesi o azione essenziale di tutta la materia
[…] e il
moto locale » Qui l’autocinesi della materia viene espressa anche come energia interna, concetto
che va oltre il mero aspetto dinamico per
diventare decisamente ontico e
configurare, per la prima volta in maniera
chiara, il nesso esistente tra
l’essere massa e contemporaneamente energia
della materia stessa. Ma il pandinamismo porta anche Toland a porre in modo netto la “relatività” del
moto,
laddove afferma:
Dal momento dunque che la quiete è
solo una certa determinazione del moto dei corpi,
un fenomeno reale di
azione e resistenza tra movimenti eguali,
è chiaro che non esiste una forma di
inattività assoluta nei corpi, ma solo una
quiete relativa rispetto ad altri
corpi che mutano sensibilmente di luogo.
[…] Ogni movimento è al tempo stesso
passivo rispetto al corpo che ha fornito
l’ultima determinazione, e attivo in rapporto al corpo che determina successivamente.
[151]
Un tipo di movimento sarebbe anche la gravità
e Toland nega che esista una proporzionalità diretta
tra il
peso e la quantità di materia, sicché egli
si dichiara convinto che non vi sia
più peso (e quindi materia) «in un piede
cubo di piombo che in un piede cubo di
sughero » [152] e che le differenze
gravitazionali derivino «in parte dalle pressioni
esterne, in parte dalle
strutture o modificazioni interne che conferiscono
alla materia le varie forme
che ne costituiscono le specie.» [153]
Comincia qui a venire adombrata quella tesi anassagorea che sarà specificata in seguito, cioè che
tutti
i tipi di materia esistenti sono differenti
“specie” di essa, e che alla loro
base stanno elementi primi qualitativamente
differenti. Tesi “qualitativa” che viene ribadita subito dopo:
Esse [le varie forme di materia] si distinguono
in
virtù della loro gravità così come delle
figure, dei colori, dei sapori, degli
odori e di ogni altra affezione che nasce dalla loro
particolare disposizione, dall’azione degli
altri corpi o dai nostri sensi e
dall’immaginazione. [154]
Siamo qui al punto in cui il peso potrebbe
essere una
“sensazione” umana di tipo sensorio o addirittura
“immaginativa”, a
testimonianza del fatto che il Nostro paga
lo scotto di una speculazione
totalmente astraente dall’esperienza scientifica. Nei
confronti di essa egli mostra infatti totale
indifferenza, sì da fargli affermare che
uno stesso oggetto avrebbe diverso
peso a seconda di «luoghi o situazioni »
in cui si venga a trovare,
fantasticando poi di «variazioni nel ritardo
o nell’accelerazione della loro
discesa a varie distanze dal centro.» Negata
la validità della fisica
sperimentale Toland ribadisce:
« Secondo me dunque la gravità non implica
il vuoto, come vi ho detto prima nel
paragrafo 14, ed è solo uno dei molti modi
dell’attività, comunque avvenga tale
determinazione, il che non staremo ora ad
esaminare.» [155]
Chiaramente egli glissa per indifferenza
e ignoranza sulla “determinazione
sperimentale” del peso, cosi come dice «sorvolerò
sull’attrazione dei pianeti
», ribadendo invece che le reciproche influenze tra
Sole, Luna e pianeti dipendono «dalle loro
grandezze, figure, distanze e
posizioni.» [156]
Prestando
poca attenzione alle osservazioni e alle
sperimentazioni dei fisici e non
avendo compreso il senso fisico del vuoto il Nostro deve rifugiarsi in
ipotesi generiche, che per quanto relativamente
corrette lo portano anche ad
errori marchiani come il pensare che le “figure”
possano determinare i fenomeni
fisici non meno delle grandezze. Nota giustamente
Chiara Giuntini:
«Sul rapporto gravità-vuoto Toland assume qui una
posizione decisamente antinewtoniana,
schierandosi implicitamente con Bruno, Hobbes e Descartes, anche se nel § 27 giudicherà inappropriati
i
criteri della critica cartesiana alla nozione
di vuoto, basata sulla sua
presunta inconcepibilità.» ciò che emerge chiaramente
è che Toland è in netto “ritardo” rispetto alle
conoscenze del suo tempo e che per quanto
possegga originalità ed intuito non
riesca a metterli a frutto per ignoranza
scientifica, sicché la sua posizione
anti-metafisica finisce per ricadere nelle
stesse assunzioni dogmatiche dei
metafisici cui finisce, suo malgrado, per
fare riferimento.
Se le mutazioni in natura (per quanto inessenziali
dal punto
di vista panteistico) sono “movimento”, è
esso che, come causa unica, organizza
i corpi che esse determinano, sostiene Toland, e
molti antichi filosofi che non l’hanno compreso
sono stati indotti ad
immaginare una materia “animata”. Errore
in cui sono
caduti partendo dall’assunto errato di una
materia inerte e inattiva che
avrebbe avuto bisogno di qualcosa di incorporeo,
uno spirito o un’anima, per
produrre vita. Egli invece, molto materialisticamente,
ribadisce che è ancora l’intrinseco moto della materia
a creare la vita. Da ciò una critica agli Stoici, che
immaginavano un’”anima del mondo”, ai Platonici,
che credevano in un’”anima
universale spirituale”, a Stratone di Lampsaco
(insieme con gli ilozoisti moderni) che vedeva le
particelle di materia dotate di vita. Eraclito e Spinoza
sono criticati per le loro “aggiunte” di
cause intelligenti per motivare ciò
che è perfettamente spiegabile con la dinamica
intrinseca della materia [157]. In
quest’assemblaggio cronologicamente disordinato
di errori
del passato Toland porta poi il discorso sulla
dialettica religiosa del tempo (citando il
platonico Cudworth,
Giansenisti e Calvinisti) e sulle diverse
posizioni ontologiche per giungere ad
un’inaspettata capriola teologica:
Ma tutte queste ipotesi sono altrettanti
espedienti
per spiegare il moto effettivo della materia
inattiva e per evitare di portare
Dio sulla scena ad ogni momento e di vederlo
al lavoro in ogni occasione, anzi
in ogni forma di attività senza distinzione, per una
necessità assoluta e inevitabile. [158]
Una definitiva conversione a
uno spinozismo sempre negato? Si direbbe di sì, nella
misura in cui la “necessità assoluta” è il
cardine di tutto il sistema di Spinoza. E tuttavia poco oltre egli
torna sull’erronea posizione dell’olandese
(ma con quanta convinzione?) nel
sostenere che egli, non meno di Stoici, spiritualisti
e «filosofi plastici » (i
neoplatonici alla Cudworth), sarebbe una sorta di ilozoista. Relativamente a Newton
e al suo spazio assoluto egli torna a sostenerne
l’inconsistenza, in quanto la
sua nozione sarebbe stata derivata dal fatto
che esso «viene considerato
separatamente dal movimento, come il movimento
rispetto alla materia » [159].
Giunge poi ad un’accusa nei confronti di
quelli che chiama «i difensori dello
spazio», cioè dell’”estensione assoluta”, affermando:
Molti di loro non hanno addirittura esitato
a farla
passare [l’estensione] per lo stesso ente
supremo, o almeno per una concezione
inadeguata della divinità, come si può vedere
nell’ingegnoso libro del signor Raphson [160] sullo spazio reale, che ho tenuto presente
nei due paragrafi precedenti. [161]
Diventato paladino della religione Toland
ora mette in evidenza la blasfemia derivante dalla
scissione estensione/movimento e dall’assunzione
degli elementi della fisica newtoniana in indebite estensioni metafisiche. In maniera
abbastanza capziosa il Nostro sostiene poi
che questo «zelo sconsiderato» di alcuni seguaci di Newton nell’interpretazione
della sua
fisica «li ha condotti alla nozione di un
puro nulla, oppure hanno fatto della
natura dell’universo il solo Dio, sebbene
siano altrettanto poco disposti ad
accettare tale conclusione.» [162]
Il successivo richiamo a Locke del § 27 e
alla sua implicita ammissione del vuoto (Saggio sull’intelligenza, II,
XIII, 21) mostra quanto Toland lo tenga in
considerazione. Nello stesso tempo gli offre l’occasione
di rilevare:
Ma gli concedo che con questi esempi intendo
perfettamente il significato di coloro che sostengono
l’esistenza di uno spazio vuoto, tesi che
era assurdo negare da parte dei
Cartesiani, così com’era imperdonabile discutere
su una cosa della quale
professavano di non avere idea. [163]
Da posizioni di partenza, che abbiamo
visto connotarsi indubitabilmente come “cartesiane”,
il Nostro qui fa un’altra
capriola, trasferendosi per un momento, complice
Locke,
dalla parte di quelli che, in qualche maniera,
il vuoto lo ritengono possibile,
accusando nel contempo i cartesiani di averlo
negato per leggerezza. Ma,
tornando poi su una posizione dubitativa,
ribadisce
che Cartesio col suo concetto di “materia
indefinita” alludeva in realtà
all’infinità di essa, e che ciò lo ha condotto
a equivocare sulla dinamica
della materia e sulla sua divisibilità [164]. Un prendere quindi le distanze dal cartesianesimo, che in questo scorcio terminale della V
Lettera a Serena gli fa invece ribadire la sua
stima per la gnoseologica lockiana, affermando:
«nonostante il mio dissenso da Locke riguardo allo
spazio, io considero il Saggio sull’intelligenza umana il libro più
utile che esista in qualunque lingua per
raggiungere una conoscenza
universale.» [165]
Nell’avviarsi alla conclusione di quest’importante
Lettera di
carattere ontologico il Nostro pare tentare
persino un avvicinamento a Newton
nel dichiarare, relativamente ad alcune sue
considerazioni “possibiliste” sul
moto e sulle forze , che:
Quali possano essere quelle
particolari forze e figure, con le loro misure
e gradazioni, nessuno al mondo è
tanto capace di scoprirle e ridurle a un
sistema comprensibile come questo
eccellentissimo autore. Ma per quanto riguarda
la forza motrice di tutta la
materia, mi lusingo di aver dato con questa lettera un
qualche contributo in tale senso. [166]
Asserzione di encomiabile
modestia che poi, attribuendo al suo interlocutore
(il “nobile amico”
gentiluomo di Londra) un’interpretazione
ateistica delle sue posizioni, gli
permette di ribadire la sua ortodossia teologica
ed anti-atea (ma quanto
sincera?) nel dire:
30. Così credo di aver dato una risposta
specifica a
ciascuna delle vostre domande, tranne la
vostra ultima obiezione, che (se
esistessero gradi di verità e falsità) è
più debole di tutte le altre, per cui «avendo ammesso l’attività della materia
non sembra
esservi bisogno di un’intelligenza che la
dirige». Questa, lasciatemelo dire, è
l’espressione più assurda e sconsiderata
[…] Inoltre, se Dio era in grado di
creare questa materia attiva oltre che estesa,
se poteva attribuirle l’una proprietà al pari dell’altra e se non
si può addurre
alcuna ragione per cui non dovesse fornirla
della prima come della seconda:
forse non vi è ugualmente bisogno che diriga
qualche volta, o piuttosto sempre,
i suoi movimenti? [167]
Con queste parole siamo tornati per un verso
nell’alveo
di Cartesio (per quanto riguarda la Creazione),
e per un altro in quello di
Newton (relativamente all’intervento divino nella
meccanica del cosmo). In entrambi i casi
Toland evita la calata su di sé dell’accusa di ateismo,
che rivolge
invece al suo finto interlocutore al quale
rimprovera di mostrare troppa
propensione a pensare, con gli atomisti,
che le combinazioni casuali degli
atomi abbiano potuto creare un cosmo ordinato
e mantenerlo tale. Ed egli
aggiunge: «così com’è impossibile immaginare
che combinando insieme le lettere
di uno stampatore un milione di volte esse
si pongano in una posizione tale da
produrre l’Eneide di Virgilio o l’Iliade di Omero,
o qualsiasi altro libro al mondo.» [168] Argomento classico dei teologi di tutti i
tempi contro la casualità
cosmogonica, che non tiene alcun conto né della processualità della materia ed ancor meno dei tempi cosmici.
Avviandosi alla conclusione precisa ancora:
« E quanto all’infinità della
materia, essa esclude soltanto ciò che tutti
gli uomini buoni e ragionevoli debbono escludere, un Dio esteso e corporeo, ma
non un puro
spirito o un essere immateriale.» [169]
Quest’ultima
lettera, fondamentale per comprendere il
modello teorico di Toland
è quella in cui si concentrano molte delle
contraddizioni interne del sistema tolandiano, con uno stare in equilibrio sul filo del
rasoio
dell’ateismo senza mai cadervi. L’andamento
è sì altalenante ma la conclusione
è poi di carattere sostanzialmente “restaurativo” per
non corree troppi rischi. Malgrado ciò Toland
passerà ancora dei guai, non riuscendo mai
ad integrarsi in alcun establishment
intellettuale e rimanendo sempre un emarginato
rispetto alle correnti
filosofiche più accreditate. Ma prima di
passare a quella curiosa opera che è il Pantheisticon,
pubblicato nel 1720 (due anni prima della
morte), ci corre ancora l’obbligo di
un cenno al Nazarenus,
un’opera importante ma che esula dal nostro
tema. Si tratta di un lavoro storiografico-filologico di notevole impegno, che mostra
un’indubbia capacità critica nell’analizzare
testi antichi e condurre
confronti, con la quale si affronta uno dei
temi più scottanti della
storiografia cristiana, quello relativo alle comunità
costituitesi subito dopo la morte di Gesù e dei
contrasti tra una corrente interpretativa
“ebrea” della sua predicazione, che
vede tra i suoi leaders apostoli come Giacomo
Maggiore e Barnaba, ed una corrente “latina”
che a per protagonista e capo
indiscusso Paolo di Tarso.
Com’è noto sarà la dottrina paolina a
prevalere e porsi come ortodossa, assumendo
come “autentici” i tre Vangeli
Sinottici (probabili manipolazioni “paoline” di
precedenti testi) e tutti gli altri fatti
passare per apocrifi [170].
Tra questi vi è il Vangelo degli Ebrei (il
proto-Vangelo di Matteo
“non-manipolato”?), una cui versione ”mussulmana”
(anzi turca), scoperta da Toland stesso ad Amsterdam nel 1709, è l’oggetto
principale
del lavoro Un vangelo che egli attribuisce
a Barnaba e ritiene sostanzialmente
identificabile con il Vangelo dei Maomettani
che tratta, come quello “degli
Ebrei”, il punto di vista storico secondo
la comunità nazorea.
I Nazorei o Ebioniti
(chiamati impropriamente Nazareni) hanno
costituito per lungo tempo una spina
nel fianco per la corrente paolina, anche perché
Paolo veniva considerato da essi null’altro che un impostore.
Egli, infatti, senza aver mai conosciuto
Gesù,
millantava di fornire la versione autentica
della sua predicazione in virtù dei
suoi rapporti diretti con lui attraverso
i sogni. Queste prime comunità
cristiane, che facevano riferimento perlopiù
all’apostolo Giacomo Maggiore,
accusavano Paolo di Tarso di agire falsamente
in nome di
Gesù e di essersi inventato un Gesù
“ideologico” lontano da quello “storico”
[171].
Questo il quadro in cui si colloca lo studio
tolandiano,
il cui obbiettivo principale è di individuare un
nucleo “comune” a Ebraismo, Cristianesimo
e Islamismo, occultato nei primi
secoli dell’èra volgare da interventi manipolativi
e dai numerosi concilî che
hanno selezionato fonti ad hoc per
costituire, dal 324 in poi, un corpo dottrinario
coerente con le linee prevalse
e approvate da Costantino.
Secondo Toland gli Ebioniti sono i “veri”
eredi della predicazione di Gesù e «per un certo
tempo i soli cristiani.» [172] e sin da queste prime battute la posizione
tolandiana si presenta come eversiva rispetto alle
posizioni ufficiali. La parte centrale del
lavoro è imperniata sulla
dimostrazione della sostanziale coincidenza
dei contenuti del Vangelo di
Barnaba e quello dei Maomettani, ma la tesi
è che il testo di riferimento per
la vera dottrina cristiana è il Vangelo degli
Ebrei (Nazorei-Ebioniti-Nazareni)
in quanto conciliabile con le tre fedi abramitiche in uno spirito di tolleranza e di comprensione
reciproche. Ed
il Nostro svolge i suoi argomenti in maniera
diplomatica, senza mai mettere in
discussione l’autorità di San Paolo né quella
dei Padri. Chiudiamo con la
citazione di un significativo passo del Capitolo XIX,
dove si afferma contro i detrattori:
Non ritengo che sia un piccolo servigio reso
alla vera
religione porre nella luce più chiara obiezioni
di
questa natura […] Sono ben lontano
dall’ignorare che i preti e teologi da strapazzo
di tutte le confessioni (che
si distinguono facilmente rispetto ai veri
pastori), invece di darsi da fare
per dare soddisfazione in simili casi a se
stessi e agli altri, sono abituati a
inveire e ad alzare un gran clamore contro
coloro che lo fanno, [presentandoli]
come eretici dichiarati o atei mascherati
[…] Quei saccenti ipocriti in verità
cercano di solito di coprire la loro malizia
con l’ostentazione di zelo; ma la
causa vera della loro agitazione è l’ignoranza
che non vorrebbero rivelare o la
pigrizia che non vorrebbero fosse disturbata,
insieme ai vantaggi legati alla
loro professione. [173]
Ci occupiamo
adesso del Pantheisticon,
l’ultima fatica di Toland, apparsa nel 1720; opera
assai singolare per la struttura e lo stile
letterario e divenuta
oggetto di studi specifici anche in Italia [174].
Essa si offre come il progetto per la fondazione
di una Società Socratica (o
dei Sodali); una specie di confraternita
gnostica che ha per fine il
conseguimento della verità e della bontà
in un clima di sincera amicizia e
serenità. Una certa dose di
ironia fa dell’opera un trattato in qualche
punto semi-serio, ma
offre anche l’occasione a Toland di definire meglio
il modello ontologico esposto nella V Lettera a Serena. Il modello letterario è la panphlettistica secentesca e in particolare quella di Jonathan Swift. Il titolo recita: PANTHEISTICON, ossia formulario per la
celebrazione di una società socratica diviso
in tre parti, che contengono: I.
Le usanze e i principi dei Panteisti, ossia
dei sodali. II. Le concezioni della
divinità e le dottrine filosofiche.
III. La dottrina della libertà e la legge infallibile
e inviolabile. Segue l’indicazione del contenuto della
Premessa (Discorso
sulle comunità antiche e moderne di dotti
e sull’eternità e infinità
dell’Universo) e dell’Appendice (Breve dissertazione sulla necessità di
adottare la duplice filosofia dei Panteisti
e sull’idea di uomo
perfetto e coltissimo).
Sin dall’inizio della Prefazione viene precisato che la società panteistica trova
il proprio
fondamento pratico nella convivialità greca antica e
che essa si esprime come « sodalizio di dotti
» che coltiva la sapienza in «
banchetti tra amici ». Progetto che pare
ricordare più il Giardino di Epicuro che una Scuola di
Socrate (sappiamo che Toland ha poca simpatia per Epicuro) ma che fa riferimento ai Conviviali di
Plutarco per quanto riguarda «le regole del
bere e quelle della
discussione.» [175]
Dopo una sommaria introduzione Toland precisa che «Anche ai nostri tempi» alcuni si sono resi conto
«come a
tavola si discuta liberamente e in modo più
interessante su qualsiasi
argomento» e da ciò l’idea di costituire
una « società socratica » fatta di:
persone
molto vicine alla filosofia, che non accettano
alcuna autorità intellettuale,
non sono trascinati dall’educazione e dall’abitudine,
non sono vincolai dalla
religione e dalle leggi del loro paese, ma
discutono con la massima serenità su
qualsiasi argomento, tanto sacre (come si
suol dire)
quanto profano, usando un’estrema libertà
di valutazione senza pregiudizi di
sorta. Vengono di solito chiamati “Panteisti”
a causa della loro concezione di
Dio e dell’universo, radicalmente opposta
a quella degli Epicurei, dei sostenitori
del caos e di fabbricanti di sogni. I panteisti infatti
non ammettono una confusioni primigenia,
né la fortuna né il caso per spiegare
l’origine del mondo, ma concordano con l’opinione
di Lino, antichissimo e
santissimo profeta della scienza più occulta,
sulla causa e sull’ordine delle cose, affermando
che «tutte le cose derivano
dal Tutto e il Tutto deriva da tutte le cose.»
[176]
La linea teorica è
chiara e si colloca nell’ambito dei classici
panteismi, ma, come vedremo il
modello di riferimento pare essere con buona approssimazione
quello di Giordano Bruno. Come per Bruno,
infatti, l’infinità è una
caratteristica basilare del cosmo tolandiano. Quel
che si precisa rispetto alla Lettera V è
che qui esso è definito «immobile nella sua
totalità, poiché al di fuori di
esso non esiste alcun luogo né spazio, ma
mobile nelle sue parti […]
incorruttibile e necessario in ogni senso.»
[177] Vi è un riferimento alle differenziazioni
bruniane parti/tutto [178]
ed è da subito posto il più rigido determinismo.
Esso è eterno e «dotato di un
sommo grado di intelligenza […] e le parti che lo
compongono sono sempre in moto.» [179]
Ed ecco la tematizzazione
del pandinamismo:
IV. Da tale movimento
e dall’intelligenza (che è la forza e l’armonia
del Tutto infinito) nascono le
innumerevoli specie delle cose […] tutto
è governato secondo una razionalità
assoluta e un ordine perfettissimo […] Dunque la
forza e l’energia del Tutto, che crea e governa
tutte le cose e tende sempre al
fine migliore, è Dio, che se si vuole si
può chiamare “mente” e “anima del
mondo”. [180]
Risulta
qui l’abbandono di ogni elemento materialistico
precedentemente espresso e
l’adesione integrale al panmentalismo bruniano (ma non meno spinoziano)
per quanto la sottolineatura della «razionalità
assoluta» ci riporti piuttosto
agli Stoici e a Spinoza. Né
manca un riferimento a Plotino e al suo concetto emanatistico nella successiva frase: «Dio è la causa
eterna
di un mondo eterno, e tutte le cose son emanate senza
mediazione da Dio fin dall’eternità.» [181],
e poi ad uno dei padri della dottrina cristiana:
«Ma soprattutto Girolamo ha usato una formula
davvero felice,
dicendo che “Dio dall’esterno e dall’interno
è infuso e circonfuso al mondo “,
chiudendo con: «È questo il modo di esprimersi
degli antichi e soprattutto dei
Pitagorici » [182]
Il quadro “mistico” di riferimento pare
ormai completato, ma poi Toland introduce quegli
«elementi semplicissimi e indivisibili in
atto, infiniti per specie e per
numero » che farebbero pensare agli atomi,
ma che in realtà sono i semi
“qualitativi” anassagorei (omeomerìe).
Infatti, ad evitare ogni equivoco, si precisa
subito dopo che la divisione dei
corpi «nei propri elementi avviene senza
che esista alcun vuoto.» [183]
Ripresa forse da Anassagora l’assunzione dell’etere
come medium cosmico igneo, ma si comprende meglio il
riferimento a
Bruno: «Il fuoco etereo che circonda tutte
le cose, e perciò è supremo; che
penetra ogni cosa, e perciò è interno; che
ha una somiglianza soltanto
analogica e imperfetta col fuoco di uso domestico; l’etere,
dico, compie nel modo appropriato tutte le
operazioni della percezione,
dell’immaginazione, della memoria, dell’estensione
e riduzione delle idee » [184]
Ma si scopre presto il riferimento anche
all’Ippocrate
del De Diaeta (A, X, 3): « Solo tale fuoco, più mobile del pensiero
stesso e più sottile di qualsiasi altra materia
può percorrere con un moto tanto rapido le corde tese e i filamenti dei nervi […] » [185]
Ma è anche il « soffio divino » in Orazio
e la «forza infuocata » di Virgilio.
Questi richiami al classicismo pagano ci
rendono chiaro il fatto che al di là delle dichiarazioni di fede cristiana egli continua
a far riferimento a uno spirito religioso
più generale, tendente teologicamente
ad ”includere” e non a “escludere”, come
il Cristianesimo dell’epoca perlopiù
faceva. E non manca anche il ricordo del De morbo
sacro dello stesso Ippocrate, che Toland, secondo una tradizione minoritaria, attribuisce
invece a Democrito.
Nel capitolo VII Toland
è esposto il lato più specificamente anassagoreo del
sistema, definendo gli elementi primi dell’essere:
Da questi primi
corpuscoli, o principi più semplici (i
quattro elementi comunemente ammessi no nono infatti
né semplici né sufficiente) traggono origine
i semi composti di tutte le cose,
abbozzati dall’eternità […] il seme dell’albero
non è soltanto un albero in
potenza, come supponeva Aristotele, ma un
vero albero, nel quale sono contenute
tutte le parti integranti dell’albero;
anche se sono tanto piccole da non poter
essere accessibili ai sensi
senza i microscopi, e neppure allora con
sicurezza, tranne che in pochissimi
casi. [186]
È notevole il fatto
che Toland, assai poco attento alla sperimentazione
scientifica, accenni qui al microscopio come
strumento in grado di accedere al seme. Proseguiamo:
Ma
a tale albero in miniatura mancano soltanto
una distinzione più completa delle
parti e la grandezza, che esso acquista gradualmente
per aggiunta di corpi
semplici, distinti per specie; e queste sono
le parti costitutive necessarie al
nutrimento e all’accrescimento di quel corpo
composto. […] Lo stesso vale per
le altre specie dell’universo […] [187]
Si ricorderà che
questo concetto era già stato espresso e che gli
esseri viventi erano stati associati ai metalli
e ai minerali. Il concetto viene qui ribadito con l’unica aggiunta di un
«in forma
differente »
Se
infatti neppure le piante fruttificano nello stesso
modo, perché
meravigliarsi se le cose che crescono sotto
terra hanno in sorte un diverso
sistema di vita? Chiunque abbia osservato
in qualche luogo la produzione di innumerevoli pietruzze degne di nota per
la varietà delle
loro forme, non avrà motivo di credere che
fossero meno dotate di vita rispetto
ai denti e alle ossa degli animali. Come
ogni terreno non produce ogni cosa,
così non tutte le pietre, e neppure tutte
le piante, nascono in qualsiasi
luogo, poiché non si trova dappertutto il
nutrimento adatto per ciascuna. [188]
Vale la pena
soffermarsi perché rivela la complessità
del background culturale tolandiano, costituito da una commistione di credenze
pagane, di velleitarie illusioni alchemiche
e di elementi
della ricerca mineralogica e biologica dell’epoca.
E
nello specifico il seme dell’albero come “albero in miniatura”
riecheggia in pieno le posizioni del partito
dei biologi preformisti.
Quest’elemento fisico-biologico
si accompagna ad asserzioni teologiche: «Non
vi è nulla sulla Terra, per dirla in breve, che non sia organico; e non si dà per alcun corpo una
generazione equivoca, ossia senza il proprio
seme. Perciò non senza motivo va
attribuito alla Terra il titolo di Madre
Panspermia,
della quale il Sole Panmestor è lo sposo che non
invecchia mai.» [189]
Ad essa si accompagnano asserzioni di carattere
massonico: «IX. I Panteisti aderiscono all’astronomia
pitagorica, o piuttosto
egiziana e, per parlare come i moderni, copernicana;
pongono il Sole il centro
e i pianeti che gli ruotano intorno, tra
i quali la nostra Terra non è la più
piccola né l’ultima.» [190] Abbiamo già rilevato come Toland
riservi molta attenzione agli antichi Egizi,
e siccome la simbologia egizia è
alla base di quella massonica più di uno
studioso si è chiesto se egli fosse
massone e Margaret C.Jacob
ha concluso per il sì [191].
Ma nessuna evidenza esiste in proposito e si può
ritenere che egli partecipasse di un clima
esoterico molto vivo in una massoneria
che stava trovando consensi e adesioni. Il
Capitolo XVI fa però pensare a
qualcosa più di coincidenze laddove il Nostro
scrive:
Per tornare finalmente
sulla Terra: poiché la filosofia secondo
i Panteisti, come secondo i più saggi
degli antichi, si divide in esterna, o popolare
e corrotta, e interna, ovvero
pura e autentica, fra di loro non sorge alcun
conflitto se qualcuno dei sodali professa
un’eresia ispirata alla tradizione
(purché non sia completamente falsa) o una
dottrina universalmente accettata.
Non discutono mai delle sciocchezze delle
scuole, ritenendo che nelle questioni
indifferenti non vi sia massima più
prudente del vecchio detto «occorre parlare
come il volgo e pensare come
i filosofi.» [192]
Questa tolleranza
accompagnata ad indifferenza appartiene a un orizzonte
“aperto” che agli inizi la Massoneria ha
puntualmente onorato, salvo venirne
meno in seguito. Ma qui emerge anche, tipico
dell’epoca, il malcelato disprezzo per le
“scuole” universitarie, luoghi
deputati a propinare una cultura ormai sclerotizzata.
Conclusa la parte teorica Toland sviluppa quella dei rituali, che evocano
quelle
della liturgia cristiana nei meccanismi dell’”invocazione
e risposta”, su cui
non ci soffermiamo. Vediamo invece la Breve dissertazione che chiude
l’opera, dove i Panteisti sono definiti «adepti
e sacerdoti della natura […]
come un tempo i Druidi, eminenti per le loro qualità
intellettuali.» [193] Ne segue un quasi ironico: «Chi mai potrebbe
essere più sapiente e migliore? […] Qui non
si tratta affatto, data la sede
inopportuna, dei santissimi detti del Messia,
che vanno sempre professati senza
aggiunte fraudolente e interpretazioni perverse
[…] Infine, per quanto riguarda
i dogmi più sacri, per esempio quelli relativi alla
natura di Dio e dell’anima, li contemplerà
in silenzio e vi mediterà secondo la
loro importanza.» [194].
La separazione tra il serio e il faceto è qui ribadita
e ciò che sembra un gioco semi-serio si avvia
alla conclusione con la domanda:
Ma forse qualcuno,
curioso più che saggio e riflessivo, chiederà
se esista realmente una società
di questo genere; se davvero vi si reciti
il formulario che abbiamo citato, o
se piuttosto, così come sono stati immaginati
modelli di sovrani e Stati
perfetti, così tutte quelle notiziole relative ai Panteisti
siano state inventate per fornire l’immagine
di una società ricca di allegria e
di erudizione? Può darsi […] [195]
E dopo una citazione dal De
Arte Poetica di Orazio (« […] Custodisca ciò che gli
è stato
affidato; invochi gli Dèi, e preghi / che
la fortuna si accosti ai miseri e
abbandoni i superbi.» la chiusa:
Se nella poesia o
nella pittura qualcuno si dipinge un’amante
perfetta, dotata di
ogni bellezza e grazia, anche se non ne ha
davvero una simile, non sarà
per questo da ritenere inesperto d’amore
o spregiatore della bellezza. Ma, per dirla in poche parole, vi sono senza
dubbio in
alcuni luoghi non pochi Panteisti: i quali,
al pari di altri, hanno riunioni e
società private, nelle quali tengono conviti
e inoltre discutono di filosofia,
che è il tipo più piacevole di condimento.
Ma qualora mi si
chieda se fra loro sia sempre e dovunque
recitata questa formula, o qualche sua
parte, lascio in sospeso la questione. Tu però fanne
buon uso, chiunque tu sia: e mi auguro che
ti faccia del bene. [196]
Dunque un sorta di sogno?
[1] V.Ferrone e D.Roche, Postfazione a L’Illuminismo, Dizionario storico, cit., p.523.
[2] D.Diderot, Opere filosofiche, a cura di P.Rossi, Milano, Feltrinelli 1963, p.16.
[3] Si
veda: C.Tamagnone, La filosofia e la teologia
filosofale, Firenze, Clinamen 2007, 143-147.
[4] Si veda: C.Tamagnone, Ateismo filosofico nel mondo antico, cit. pp.12-13.
[5] D.Mornet,
op.cit.,
p.40.
[6] E.Cassirer, La filosofia dell’Illuminismo, Firenze, La Nuova Italia 1974, pp.22-23.
[7] Ivi, pp.23-24.
[8] Ivi, pp.30-31.
[9] P.Chaunu, La civiltà dell’Europa dei lumi, Bologna, il Mulino 1987, p.249.
[10] B.de Mandeville, La favola delle api, Roma, Laterza 1987, p.13
[11] Ivi, p.15.
[12] Ivi, p.62.
[13] H.Butterfield, cit, pp.185-186.
[14] R.Lenoble, Le origini del pensiero scientifico moderno, in: AaVv, Storia della scienza, tomo I, cit, pp.407-408
[15] AaVv, Il libertinismo in Europa, Presentazione, Milano-Napoli, Ricciardi 1980, p.3.
[16] G.Minois, Storia dell’ateismo, Roma, Editori Riuniti 2000, pp.20-29.
[17] Ivi, p30.
[18] C.Tamagnone, La filosofia e la teologia filosofale, Firenze, Clinamen 2007, 148-153.
[19] O.Blanc, Parigi libertina al tempo di Luigi XVI; Roma, Salerno Editrice 2003, p.325.
[20] G.Minois, Storia dell’ateismo, cit, p.123.
[21] Ivi, p.138.
[22] Ibidem.
[23] G.Spini, Ricerca dei libertini, Firenze, La Nuova Italia 1983, p.7.
[24] G.Minois, Storia dell’ateismo, cit,, p.94.
[25] Ivi, p.148.
[26] Ivi, p.156.
[27] Ivi, pp.156-157.
[28] A.Tenenti, Credenze, ideologie, libertinismi, Bologna, Il Mulino 1978, p.279.
[29] G.Minois, Storia dell’ateismo, cit,, p.127.
[30] Ivi, p.186.
[31] Ibidem
[32] Ibidem.
[33] Ivi, p.191.
[34] Ibidem.
[35] Ivi, p.195.
[36] Ivi, p.196.
[37] Ivi, p.196-197.
[38] Ivi, p.197.
[39] Ibidem.
[40] Ivi, p.212.
[41] Ibidem.
[42] C.Tamagnone, Ateismo filosofico nel mondo antico, cit., pp.69-72.
[43] T.Gregory, Etica e religione nella critica libertina, Napoli, Guida 1986, p.56..
[44] D.Bosco, Metamorfosi del “libertinage”, Milano, Vita e Pensiero, p.128.
[45] Ivi, p.129.
[46] Ivi, pp. 160-161.
[47] Ivi,p.163.
[48] Ivi, pp.163-164.
[49] Ivi, pp.164-165.
[50] Ivi, p.194.
[51] J.S.Spink, Il libero pensiero in Francia da Gassendi a Voltaire, Firenze, Vallecchi 1974, p.72.
[52] G.Minois, Storia dell’ateismo, cit, p.228.
[53] C.Borghero, L’egoismo e il
benessere, in: Storia della filosofia, cit.,
vol. III, Roma-Bari,
Laterza 1996, p.187.
[54] Cfr. Saint-Evremond, Sur la morale d’Épicure, in: A.Adam, Les libertins au XVIIe
siècle, Paris 1964, pp.229-235.
[55] Sull’argomento si veda: C.Tamagnone, Ateismo filosofico nel mondo antico, Firenze, Clinamen 2005, §§ 5.1 e 5.2.
[57] H. Ostrowiecki,
Le jeu de l’athéisme dans le Theophrastus redivivus, in: Revue philosophique de la France et
de
l’étranger, Presse Universitaire de France,
n°121, 2/1996.
[58] G.Minois, Storia dell’ateismo, cit, p.255.
[59] Ivi, pp.255-256.
[60] Ivi, p.255
[61] T.Gregory, Theophrastus
redivivus. Erudizione e ateismo del Seicento,
Napoli, Morano 1979, p.19.
[62] Ivi, p.23.
[63] Ivi, p.29.
[64] Ivi, p.31.
[65] Ivi, p.39
[66] Ivi, p.44.
[67] Ivi, p.45.
[68] Ivi, pp.49-52.
[69] Ivi, p.53.
[70] Ivi, p.56.
[71] Ivi, pp.59-64.
[72] Ivi, p.69.
[73] Ivi, p.81.
[74] Ivi, p.83.
[75] Ivi, p.87.
[76] Ivi, p.89.
[77] Ivi, p.91.
[78] Ivi, p.132.
[79] Ivi, pp.180-181.
[80] Ivi, pp.184-185.
[81] Ivi, pp.185-186.
[82] Ivi, p.187.
[83] Ibidem.
[84] Ivi, p.188.
[85] Ivi, p.190.
[86] Un originario (e quasi mitico) De Tribus impostoribus, risalente al XIII secolo, è stato attribuito a Pier delle Vigne e a Federico II, ma senza alcun fondamento.
[87] Secondo Margaret C.Jacob (L’Illuminismo radicale, cit., p.175) quest’opera sarebbe stata stampata all’Aia nel 1719 e nata nell’ambito della società dei Cavalieri del Giubilo, legata alla Massoneria. La Jacob ha individuato gli autori in Charles Levier e Rousset de Missy, due protestanti francesi fuorusciti cogliendo una continuità tra essi e Toland e la parziale derivazione del Sistema della natura di d’Holbach dalle Lettere a Serena dell’irlandese (Ivi, p.327).
[88] F.Charles-Dubert, Les
Traités des trois imposteurs aux XVIIe et
XVIIIe siècles, in: Aa Vv., Filosofia e religione
nella letteratura clandestina, a cura di G.Canziani,
Milano, FrancoAngeli 1994, pp.291-336.
[89] Si
tratta di un personaggio importante, amico
di Diderot e d’Holbach.
Ateo di ispirazione holbachiana
è tra i più attivi rappresentanti del radicalismo
anticlericale. Con estrema
coerenza osteggia l’istituzione del culto
dell’Essere Supremo voluto da
Robespierre. Scrive tre voci dell’Encyclopédie, un Recueil
philosophique ou Mélange de
pièces sur la religion et la morale (1770), un’Histoire
de la philosophie ancienne et moderne (1791) e le Mémoires sur la vie et les oevres
de Diderot, apparse postume nel 1821.
[90] C.Giuntini, Il deismo, in:, Storia della filosofia, a cura di P.Rossi e C.A.Viano, vol.IV, Roma-Bari, Laterza 1996, p.107.
[91] Gli illuministi francesi, a cura di P.Rossi, Torino, Loescher 1987, p.46.
[92] Ivi, p.49.
[93] Ivi, p.50.
[94] Ivi, pp.54-55.
[95] Francis Glisson (1597-1677) fu un anatomista di tendenza naturalista e seguace di Bacone che individuò per primo il carattere energetico della materia in generale. Nello specifico, come medico, studiò il rachitismo e la struttura e il funzionamento del fegato. Studiò l’irritabilità delle fibre muscolari e distinse acutamente la percezione dalla sensazione.
[96] Niklaas Hartsoeker (1656-1725) sviluppa una concezione atomistica qualitativa, dove gli atomi hanno forme differenti (sferici quelli del mercurio, prismatici quelli del ferro, ecc.). Mette anche in dubbio l’esistenza del vuoto sostituendovi l’etere, sostanza fluida incorporea che pervade lo spazio; bandito ogni materialismo sostiene che la struttura atomistica dell’universo è frutto della Creazione. Hartsoeker (che segue Leeuvenhoek nel concepire l’animalculismo preformista) sostiene anche una sorta di “panspermia” del tipo già proposto da Claudio Berigardo, per quanto questi pensasse ad atomi-semi fisici e Hartsoeker a bio-semi.
[97] P.Rossi, L’universo-macchina, Bari, Laterza 1969, p.210..
[98] Ivi, p.217 n.
[99] Ivi, pp.218-219.
[100] Ivi, p.220.
[101] Ivi, p.221.
[102] J.Toland, Pantheisticon, in: Opere, a cura di C.Giuntini, Torino, UTET 2002, p.95.
[103] Ivi, p.96.
[104] Ivi, p.97.
[105] Ivi, p.98.
[106] Ivi, pp.100-101
[107] Ivi, pp.108-109.
[108] Ivi, p.111.
[109] Ibidem.
[110] Ivi, pp.112-113.
[111] Ivi, pp.117-119.
[112] Ivi, pp.122-123.
[113] Ivi, p.143,
[114] Ivi, p.145.
[115] Ivi, p.147.
[116] Ivi, pp.161-162.
[117] Ivi, pp.174-175.
[118] Ivi, p.186.
[119] J.Toland, Lettere a Serena, in: Opere, cit, pp.194-195.
[120] Ivi, p.217.
[121] Ivi, p.218.
[122] Ivi, p.235.
[123] Ivi, pp.244-245.
[124] Ivi, p.246.
[125] Ivi, p.260.
[126]
Ibidem.
[127]
Ivi, p.273.
[128] Ivi, p.278.
[129] Ivi, p.279.
[130] Ivi, p.282.
[131] Ibidem.
[132] Ivi, p.291.
[133] Ivi, p.294.
[134] Ibidem.
[135] Ivi, p.295.
[136] Ivi, p.299.
[137] Ivi, pp.299-300.
[138] Ivi, p.300.
[139]
Ibidem.
[140]
Ibidem.
[141]
Ivi, p.302.
[142]
Ibidem.
[143]
Ibidem.
[144]
Ivi, pp.305-306.
[145] Ivi, p.306.
[146] Ivi, p.307.
[147]
Ibidem.
[148]
Ivi, p.308.
[149] Ivi, p.309.
[150] Ivi, pp.309-310.
[151] Ivi, pp.314-315.
[152] Ivi, p.318.
[153]
Ibidem.
[154] Ibidem.
[155]
Ivi, p.219.
[156]
Ibidem.
[157]
Ivi, p.320.
[158] Ivi, p.321.
[159] Ivi, p.324.
[160] Joseph Raphson nel De spatio reali seu ente infinito conamen matematico-metaphisicum (1697) aveva individuato nello spazio assoluto il luogo privilegiato dell’attività divina.
[161] J.Toland, Lettere a Serena, in: Opere, cit, p.324.
[162] Ivi, p.325.
[163] Ivi, p.326.
[164] Ivi, p.328.
[165] Ibidem.
[166] Ivi, p.332.
[167] Ivi, p.333.
[168] Ibidem.
[169] Ibidem.
[170] Per avere un’idea di che cosa siano i vangeli apocrifi (letteralmente = nascosti) si tenga presente che contro i 4 considerati autentici (3 Sinottici + Giovanni) gli apocrifi sono ben 47. Si aggiunga poi che sono anche considerati apocrifi 30 Atti alternativi a quelli riconosciuti, 12 Epistole, 10 Apocalissi e una ventina di altri scritti di vario genere.
[171] Sull’argomento si veda l’interessante saggio di L.Zen, L’invenzione del Cristianesimo, Firenze, Clinamen 2003.
[172] J.Toland, Nazareno, in: Opere, cit, p.415.
[173] Ivi, pp.497-498.
[174] Tra gli altri l’edizione critica (con testo originale latino a fronte) a cura di O.Nicastro e M.Iofrida (Pisa, ETS 1996).
[175] J.Toland, Pantheisticon, in: Opere, cit.,p.580.
[176] Ivi, p.581
[177] Ivi, pp.581-582.
[178] Si veda: C.Tamagnone, La filosofia e la teologia filosofale, Firenze, Clinamen 2007, pp.140-143.
[179] Pantheisticon, p.582
[180] Ibidem.
[181] Ivi, p.583.
[182] Ibidem.
[183] Ivi, pp.383-384.
[184] Ivi, p.385.
[185]
Ibidem.
[186]
Ivi, p.587.
[187] ivi, pp.587-588.
[188] Ivi, p.589.
[189] Ivi, p.590.
[190] Ibidem.
[191] M.C.Jacob, L’Illuminismo radicale, pp.263-327.
[192] Ivi, p.601.
[193] Ivi, p.619.
[194] ivi, p.624.
[195] Ivi, p.624.
[196] Ivi, p.625.