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Galleria Arte e Pensieri
Via Ostilia 3/a - 00184 Roma
cell. 3396100856
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BRUNO ALLER


Opere e Ri/Tratti

Testi critici di

Claudia Terenzi

Stefano Gallo
E allora evochiamo questi nomi
cerchiamoli
dispersi in questi anni vigliacchi
cerchiamoli ci sono
questi nomi e la loro voce ci sia
almeno di conforto
ci sono
ci sono ci sono stati
non si può altro che attendere
la lunghissima onda che nel tempo riaprirà
a questi nostri compagni di strada

e allora Sartre Mallarmé Catullo Saffo Majakovskij
Brecht Apollinaire Campana Palazzeschi Villa
un grande corteo

un corteo perché non tutto
non tutto è uguale
ma tutto rimane dentro le cose dentro ognuno di noi
per sempre
per centimetro di coscienza
di passione che sia




Bruno Aller
dicembre 2007
Bruno Aller. La parola e l'immagine


Il rapporto con la poesia, con la parola scritta, ma soprattutto quello intenso con i poeti, risale quasi alle origini del lavoro di Bruno Aller. Prima come sentimento lirico, memoria, infittirsi di segni evocativi che riempiono l'intero spazio visivo {Miserabilia urbis) con una tensione drammatica e una materia che si distende in sottili frammenti; poi, ed è il lavoro di questi ultimi anni, la lettera, più che la parola, acquista campo, diviene architettura, sostiene il ritmo stesso dell'immagine, crea forme geometriche di tipo costruttivista.
Molte delie opere di questa mostra sono dedicate a poeti {Ri/Tratti, come li definisce Bruno), le lettere scandiscono lo spazio, ma sono al tempo stesso come velate dalla materia pittorica, sono strutturali, dinamiche, e l'intero campo visivo acquista una vibrazione, una suggestione, che va al di là della parola stessa. L'accostamento dei colori / spazio, sia nelle grandi che nelle medie dimensioni dei dipinti, sia nel rapporto cromatico più graduato sia in quello più squillante, provocano, in ogni caso, una forte tensione .
Il lavoro di Bruno, pur giuocato sulle lettere, non ha alcun rapporto con la poesia visiva, quella importante fase della ricerca artistica che, a partire dagli anni sessanta, coinvolgeva poeti e pittori in una continua relazione tra parola e immagine, creando messaggi complessi dove spesso confluivano diversi sistemi linguistici. Piuttosto il suo rapporto è con un certo uso dello spazio e delle strutture geometriche delle avanguardie storiche.
In effetti il suo lavoro, là dove compaiono le lettere più che la parola, ha un valore strettamente pittorico, di costruzione dell'immagine, attraverso campiture, stesure di colori, segni, organizzazione di uno spazio che non è mai neutro. Questo spazio organizzato, per la qualità delle materie, ha un certo margine di improvvisazione, nel senso di una sollecitazione visiva che via via scopre elementi non strettamente definiti o preordinati, rende possibile un lettura in profondità, che va anche al di là delle più evidenti stesure, non certo in senso metafisico, ma come metodo di lavoro che lascia ampio margine di libertà nel momento stesso in cui viene compiuto sulla tela.
Gran parte di questi Ri/Tratti, e comunque del lavoro degli ultimi anni, partono da un progetto preliminare, bozzetti a matita, in bianco e nero o con aggiunta di colori, che già presuppongono una organizzazione dello spazio una definizione dimensionale, dove le lettere sono distribuite a creare forme geometriche, ad assumere volumi o segni. Da questo primo progetto, già di per sé qualitativamente definito - più che semplici bozzetti - Bruno passa a lavorare sulla tela, preparata con una base compatta che gli permette le più svariate tecniche e materie ed anche piccoli frammenti incompiuti, proprio per dare quel senso di una geometria che nasce dalla libertà del segno pittorico.
colori acquistano profondità, spessore e luce, i tratti di grafite creano trame sottili e trasparenti: assistere al suo lavoro significa capire quanto l'astrazione, la non figurazione, significhi qualità, impegno, ricerca attraverso un insistente, molteplice uso di materie, di segni per raggiungere il valore desiderato e non sempre prevedibile. L'effetto finale è limpido, apparentemente naturale, ma sottintende un variatissimo impegno di materiali e di tecniche: olio, grafite, terre colorate, ossidi, pastelli, acrilici diluiti ecc.; strati compatti o velature per accentuare la luminosità, l'intensità di un colore, l'incisività del segno-lettera.
richiamo ai poeti, non è casuale, ma fa parte di una predisposizione culturale, di una vocazione insita nella formazione stessa di Bruno Aller. Il giuoco delle lettere, così architettonico, costruttivo, ci spinge ad una lettura complessa, affascinante, ad un risvegliarsi di memorie che trovano nella pittura una rispondenza ideale.

Claudia Terenzi
Bruno Aller


Nelle opere preparate per questa mostra, il lavoro di Bruno Aller giunge a un punto di concentrazione formale/ intellettuale e a un impegno - misurato sia su un numero significativo di soggetti sia su dimensioni anche grandi delle tele - tali da render chiaro a chi lo segue da anni che si è al momento della piena maturazione del suo percorso: lungo, serio, complesso, e anche non poco tormentato, come ogni ricerca creativa e poetica radicata nell'esistenza e nella storia del proprio tempo non può che essere.
Aller infatti, che è nato a Roma nel 1960, prendeva la strada nei secondi anni settanta dell'arte astratta, quando -soprattutto in Italia - per quei linguaggi la profonda corrente della pop, del concettuale, dell'arte povera e generalmente dell'arte d'azione e/o installazione aveva drasticamente ridotto l'interesse e perdi più si stava preparando l'onda, traversa, della transavanguardia, che avrebbe contribuito a sospingere fuori scena anche quei tentativi di ripresa della pittura in senso astratto che pure si facevano, sostenuti da alcuni critici, tra i quali Filiberto Menna (si pensi all'interessante rassegna retrospettiva Astratta, a cura di Giorgio Cortenova e Menna al Palazzo Forti di Verona nel 1988). Tentativi che si facevano con ancor maggiore dispiegamento teorico in Francia: ricordiamo il gruppo Support-Surface, la rivista «Peinture, cahiers théoriques», i testi di Marcelin Pleynet.
Aller invece si legava ad artisti dell'astrazione degli anni sessanta, come Nato Frasca e Pier Francesco Fumelli, riandando così alle radici del "superamento" dell'informale e si riappropriava del complesso delle esperienze dell'astrazione romana del dopoguerra frequentandone gli studi.
Del valore fondante di queste scelte, cioè della loro capacità di impiantare un orientamento culturale di fondo, ci parlano due aspetti caratterizzanti la sua attività.
Per primo voglio richiamare quello più "pratico": la creazione di una piccola galleria di tendenza, la Arte e Pensieri (insieme a Marisa Facchinetti e Aldo Bertolini). Essa rappresenta la volontà di ricucire il tessuto delle ricerche astratte che si sono andate svolgendo e si svolgono soprattutto a Roma. Con mezzi minimi si pone del tutto controcorrente, ribadendo giorno per giorno il valore della cultura vissuta, della conservazione di un ambiente comune di ricerca, di una "tradizione"insomma concreta. Per cui, frequentandola, accanto ai più giovani ci si imbatte in maestri importanti (e nelle loro opere), come Boille o Lorenzetti, Pace o Santoro, per dire solo i primi che mi vengono alla mente; ma anche nelle opere di chi non c'è più e viene riproposto perché sia tenuto presente, penso a Edgardo Mannucci, per esempio.
L'altro aspetto non può naturalmente che essere legato al linguaggio di Aller, al linguaggio che nel tempo ha sviluppato.
Se ritorniamo alla sua prima fase, al lungo periodo di formazione che attraversa gli anni ottanta, lo troviamo contemporaneamente intento a padroneggiare due poli della pittura: la composizione geometrica, cioè la costruttività spaziale, l'ordine solido del dipinto, da un lato; e il segno corsivo, assolutamente irregolare, dall'altro. Al fondo, gli si legge l'esigenza di usare l'arte come un apparato di trasmissione della vita, un sismografo dell'esistenza; ma è la pittura, la vecchia pittura ancora, che si vuole usare.
E dunque al corsivo occorrerebbe intrecciare la strutturalità
. Alla ricerca di questa dialettica necessaria Aller si dedica a lungo: a trovare il suo accordo. E nelle opere degli anni novanta, quando l'accordo appare, maturo, riconosciamo un segno grafico dinamico, che può sia essere fittissimo, tanto da generare il caos dell'intrico senza fine, sia motivo episodico, ma comunque imprescindibile, segno anche d'emozione; e questo segno è rapportato a piani geometrici taglienti e fermi, recuperati/rielaborati dal tesoro artistico del suprematismo russo.
E' un linguaggio fondato sul segno grafico, sulla sua forza e nettezza, nel quale l'autore ha avuto il coraggio di immettere una rivisitazione delle soluzioni più robuste in senso costruttivo degli sviluppi del cubismo; un'operazione rara. Voglio citare un passo del poeta e critico Mario Lunetta riguardo a questa che egli definisce «sintonia con la grande lezione suprematista». Scrive:«(.. .)che un artista dei nostri giorni nel pieno del suo potenziale creativo torni a fare i conti per via di giusta fermezza e di giusto talento con una delle chiavi del moderno meno consumato dalle mode, è davvero un segno di fiera consapevolezza, un'audace indicazione anti-estetizzante».
C'era dunque una volontà di filologia e di memoria nei primi orientamenti di Aller a Roma e quest'attitudine la vediamo riemergere ancora approfondita al momento della maturazione linguistica, che avviene di nuovo per capacità di recupero.
E, se guardiamo anche più lontano, a me pare che nei suoi quadri della seconda metà degli anni Novanta, in questi dipinti astratti ed essenziali, a volte più brutali, altre volte più raffinati, nei quali è sempre in gioco l'apertura e la chiusura di spazi, la corporeità dei piani e la passione che li percorre, due radici plastico-espressive si è giunti a toccare e a rimettere in funzione: i tagli che decostruiscono e tormentano le Demoiselles picassiane, l'energia dinamica delle linee e dei piani curvi del futurismo balliano tra il '13 e il '14.
In effetti, ciò che colpisce in questa produzione di Aller così debitrice negli anni novanta della cultura artistica del segno, con la quale si era riaperta la ricerca astratta nel dopoguerra (la forza del segno, il rapporto diretto dell'artista con esso, la sua intima costruttività ed espressione), è che a partire a essa egli sia andato a recuperarne le premesse originarie. Ed è proprio grazie all'autenticità e alla vitalità che hanno presieduto a questa operazione che ci si trova di fronte a un linguaggio in grado, cosa rara nell'arte di questi ultimi decenni, di essere forte e antico a un tempo lavorando sul vecchio tessuto della pittura.
A cavallo poi tra gli anni novanta e i primi del duemila riconosciamo l'aprirsi di una nuova fase della ricerca, ma si tratta di un'esperienza breve che sfocia rapidamente nel linguaggio delle opere che vediamo caratterizzare la sua produzione da alcuni anni: il linguaggio, possiamo dire, dei Ri/tratti. Tuttavia è un passaggio necessario, egli infatti si impegna ad andare oltre le compresse articolazioni di cui abbiamo parlato, per svolgerle in composizioni di maggiore ampiezza, che tradiscono l'esigenza di un respiro più profondo del quadro, di una strutturazione che nel suo complesso sia in grado di conseguire un certo equilibrio. Direi che Aller ha avvertito il bisogno, da buon artista della pittura, di far crescere il quadro, di dare sviluppo all'organismo del dipinto: un passaggio ancora di maturazione, comprensibile e necessario, ma a rischio di cadere in un' autoreferenzialità estetica che gli è esistenzialmente e culturalmente estranea.
Da questi nodi, per sciogliere questi nodi credo, si è formato il linguaggio dei Ri/tratti che oggi vediamo dispiegato in mostra. L'operazione che vi si svolge ha più livelli. Cominciamo da quello formale, che ne è la base.
La "composizione", di cui parlavo, si segmenta ora in scansioni serrate che reintroducono le tensioni costruttive, in precedenza un po' dilatate e smorzate , tuttavia con un'articolazione ampia e per così dire prolungata. Se nei secondi anni novanta ci si trovava di fronte a visualizzazioni di brevi movimenti drammatici, ora osserviamo una sequenza di eventi plastici, di pieni e di vuoti: è come un'articolazione vocale di suoni. La novità introdotta da Aller non la si coglie visivamente subito, ma quando sia avvertita richiama la curiosità e l'attenzione dell'osservatore. Egli ha inserito ben dentro il dipinto le lettere del nostro alfabeto occidentale: sono riconoscibili una ad una, ma anche non ben riconoscibili, in quanto costituiscono allo stesso tempo i piani, le linee, i colori della modulazione pittorica del quadro. Ecco dunque un quadro che è insieme testo, una sequenza di lettere; l'uno e l'altro intrecciati insieme, tanto che il dipinto è tale perché è l'articolazione di un testo e il testo è tale perché è un dipinto, è dipinto. Sappiamo bene che i primi a inscrivere lettere nel tessuto della pittura furono Braque e Picasso e che successivamente si sono ripetuti i casi di diffusione della scrittura sulla tela della pittura; pensiamo per esempio a Picabia, ad Hantai, a Gastone Novelli. Ma nei quadri di Aller il modo è diverso. Braque e Picasso usavano lettere di carattere tipografico, come quelle in generale adottate da Aller, ma esse costituivano un codice di comunicazione a lato di altri; non intervenivano insomma nei brani della modulazione pittorica. Negli altri artisti che ho menzionato, invece, la scrittura ha carattere corsivo e, pur con evidenti differenze di modi e di senso tra ciascuno, non ha mai, com' è comprensibile, la funzione di strutturare in piani rigorosi il dipinto, di evidenziarne la costruzione formale, ma al contrario di introdurre nel quadro l'atmosfera dell'esistenza informale, l'ingenuità e l'immediatezza estetiche della grafia casuale e spontanea.
Anche Aller, in verità, aveva sperimentato in questo senso la relazione tra la scrittura e la grafia artistica in un'opera di incisioni, Miserabilia Urbis, realizzata nel 1997 assieme a un testo del poeta Mario Bologna. Era il segno dinamico, emozionale, caotico di Aller che continuava il segno della scrittura o che lo sommergeva. Ma ora, invece, è l'architettonicità geometrica della lettera tipografica occidentale a costituire il nerbo formale della pittura. Con essa il dipinto assume la sua salda costruzione e anche le sue tensioni: gli scarti, i vuoti, i silenzi tra una lettera e l'altra , l'apertura di spazi o l'incisione di pieni.
Bisogna aggiungere, precisando quanto ho già detto, che intanto questa centralità strutturante della lettera non sottomette la pittura, in quanto viene dispiegata da Aller con gran ricorso alla molteplicità di effetti che un raffinato pittore può trarre da essa. Ed ecco che osserviamo come di continuo cambi sulla tela la fattura, generandosi in tal modo la risposta della tessitura pittorica alla presenza "formale"della lettera. La "composizione" ora appare condotta a un grado molto alto di qualificazione estetica, ma al contempo al suo interno si sviluppano intrecci e percorsi e la pittura funziona non solo come opera estetica, ma anche come strumento d'analisi, di indagine, di metafora: di pensiero.
E veniamo dunque al pensiero. A cosa mira infatti tutta questa operazione? Le lettere servono a comporre dei nomi e prevalentemente i nomi rappresentati da Aller sono quelli di personalità della cultura, personalità importanti del presente e del passato. I Ri/tratti provano cioè a realizzare un ritratto non fisionomico del personaggio, ma astratto e interiore. Guardiamo per esempio ai ri/tratti di Breton, di Apollinare, di Marinetti e ci renderemo conto di come effettivamente Aller riesca a formare il fantasma plastico di certe identità esistenziali e culturali.
Ma ciò che più interessa e anche, a mio parere, affascina è tanto la capacità di coesione di questa operazione del linguaggio, il suo raggiungere dunque lo scopo stringendo assieme i tanti e diversi segni raccolti, che la sua sconfitta: l'evidenza cioè di essi. A cominciare dai tratti convenzionali delle lettere, che vanno ricostruiti pezzo a pezzo e condotti all'unità della parola, sperimentando tutta la "costruzione" di cui la nostra esperienza ha bisogno per farsi e per riconoscersi. E continuando attraverso le convenzioni e le sapienze "costruite" per rappresentare pittoricamente, per fare funzionare il linguaggio della pittura. Di tutta questa macchina, di tutti questi strumenti necessari alla cultura, alla comunicazione dell'esperienza, alla maturazione umana della vita, i Ri/tratti di Aller sono un'esplicitazione.
L'astrazione spesso, soprattutto agli inizi del Novecento, ha avuto dei contenuti spiritualistici, ha aspirato all'assoluto. L'astrazione di Aller, all'opposto, io la definirei una bruciante dichiarazione di scetticismo sulla possibilità degli uomini di comunicare e costruire insieme. E non, è chiaro, per un freddo scetticismo. Tutto il suo percorso, portando alla costruzione del ri/tratto, è impegnato nel recupero di una tradizione e di una lingua che consentano il dialogo, che dei mille frammenti d'esperienza rimasti nel tempo siano in grado di richiamare per simboli una prossimità, una presenza cogente. Ma egli rappresenta anche, con alle spalle l'esperienza del suo tempo e della sua vita, con la difficoltà del suo itinerario nella situazione dell'arte contemporanea, la fragilità e la complessità della costruzione necessaria al dialogo, la sua precarietà.
Non so se Aller abbia fatto tesoro nell'invenzione di questo linguaggio - di questa sua poetica che è anche la sfida di una pratica del dialogo - del Fedro di Platone. Io vorrei richiamare qui qualche passo di quell'opera nella quale compare
la prima riflessione filosofica sulla scrittura. E' infatti interessante in questo nostro contesto che Platone rappresentando il ruolo e le possibilità della scrittura per l'umanità faccia dire a Socrate:«Perché vedi, o Fedro, la scrittura è in una strana condizione, simile veramente a quella della pittura. I prodotti cioè della pittura ci stanno davanti come se vivessero; ma se li interroghi, tengono un maestoso silenzio. Nello stesso modo si comportano le parole scritte: crederesti che potessero parlare quasi che avessero in mente qualcosa; ma se tu, volendo imparare, chiedi loro qualcosa di ciò che dicono esse ti manifestano una cosa sola e sempre la stessa. E una volta che sia messo in iscritto, ogni discorso arriva alle mani di tutti, tanto di chi l'intende tanto di chi non ci ha nulla a che fare; né sa a chi gli convenga parlare e a chi no. Prevaricato e offeso oltre ragione esso ha sempre bisogno che il padre gli venga in aiuto, perché esso da solo non può difendersi né aiutarsi».
Dunque testo scritto e testo visivo sono accomunati da una medesima incapacità di far fronte al fraintendimento, alla perdita della verità in loro racchiusa. Che uno scrittore della qualità di Platone sostenesse al fondo la fallacia della scrittura ci fa capire con viva immediatezza l'importanza della posta in gioco, come apparisse arduo appunto il compito della vera comunicazione, la costruzione di un'esperienza e conoscenza adeguata. L'alfabeto, fa dire Platone al re egiziano Thamus in risposta al dio Theuth che gli aveva rivelato tra le altre arti l'alfabeto «ingenererà oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno di esercitarsi la memoria perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla mente non più dall'interno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estraneixiò che tu hai trovato non è una ricetta per la memoria ma per richiamare alla mente. Né tu offri vera sapienza ai tuoi scolari, ma ne dai solo l'apparenza perché essi, grazie a te, potendo avere notizie di molte cose senza insegnamento, si crederanno dottissimi, mentre per la maggior parte non sapranno nulla; con loro sarà una sofferenza discorrere, imbottiti d'opinioni invece che sapienti».
Queste antiche parole, tuttavia "scritte" da Platone, nella loro radicalità e ambivalenza mi sembrano un orizzonte stimolante per avvertire il duplice movimento dell'operazione linguistica di Aller: il suo allo stesso tempo costruire e decostruire, ricucire i rapporti e svelare la trama complessa e avventurosa attraverso cui ci si riallaccia a qualcosa; e anche il riandare al fondo della pittura, il rielaborare la sua autonomia, ma il reinventarne l'attitudine al racconto; il cercare di riconquistare la rappresentazione del contenuto, ma il mostrarne l'incertezza, il tentativo. E' per tali tensioni e conflitti che i suoi quadri sono belli.

Stefano Gallo
Azione ancora negazione
Acrilici e smalti su tavola
cm 200x100, 1996/1997
Antroposegni
Olio su tela
cm 100x100, 1997
Vaso di Pandora
Olio su tela
cm 130x110, 1997
Segni dal buio 1 (per ornitologi)
Olio e bitume su tela
cm 100x100, 1997
Segni dal buio 2 (per ornitologi)
Olio e bitume su tela
cm 100x100, 1997
Danza sull'oltremare
Olio, acrilici e bitume su tela
cm 100x100, 1997
Miserabilia Urbis
Olio su tela
cm 130x110, 1996
Come cipresso velocissimo affilo e strazio il cielo
Olio su tela
cm 140x120, 1999
aller-9
aller-10
aller-11
aller-12
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aller-15
aller-16
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