il Rimino Sottovoce 2022



Rimini "moderna"/6
Uomini nuovi tra idee vecchie
"il Ponte", 13.11.2022, n. 40


Il presidente di Romagna Francesco Guicciardini scrive a Niccolò Machiavelli da Faenza il 7 agosto 1525: "Di nuovo non intendo niente che abbia nervo, e credo che ambuliamo tutti in tenebris, ma con le mani legate di dietro per non potere schifare [schivare] le percosse". Per Girolamo Savonarola invece le tenebre potevano rovesciarsi nel loro opposto attraverso la riscoperta di Cristo: "La fratellanza, la solidarietà, la redenzione presuppongono il suo sacrificio, che s'immette come un cuneo nelle maglie della storia e si propone come un ideale da abbracciare senza riserve".
Il 26 dicembre 1525 Guicciardini ancora a Machiavelli confessa che sulle cose pubbliche non sa che dire, "perché ho perduto la bussola". Poi aggiunge: "Conosceremo tutti meglio i mali della pace, quando sarà passata la opportunità del fare la guerra".
La bussola perduta è un'efficace immagine della crisi della coscienza italiana, combattuta tra le armi e gli affari, con in mezzo l'arbitro della Politica che non risolve i problemi se non con la violenza. Gli affari e le ricchezze che ne derivavano, scrive N. Bazzano (2014), sono minacciati da un'inflazione che caratterizza la vita economica. Peggiorano anche le condizioni dei contadini, come testimonia la rivolta di quelli tedeschi tra 1525 e 1526. Paura e disprezzo dei ceti superiori, spiega V. Beonio Brocchieri (1951), ricadono sui lavoratori della terra.
In Italia come nel resto d'Europa "i nobili, per diritto o consuetudine, hanno la possibilità di amministrare la giustizia civile o penale", scrive Bazzano. L'organizzazione dello Stato avviene attraverso corpi scelti di funzionari che rappresentano la nascente borghesia degli affari. Il denaro distingue il ricco dal povero già come un pregiudizio di nobiltà, scrive F. Braudel.
Il cronista ducentesco Salimbene da Parma aveva osservato che i nobili vivevano allora in campagna e nei loro possedimenti, mentre i borghesi erano nei borghi cittadini, dai quali derivava il loro titolo. I nobili invece erano detti "cives", cittadini, anche se stavano fuori della mura dei centri urbani. Emerge una ricca borghesia degli affari capace di inserirsi in profondità sia nel possesso fondiario sia nelle istituzioni del governo cittadino.
Sono "uomini nuovi" per usare la definizione classica che riguarda quanti come Catone e Cicerone, in Roma antica, erano giunti alle prime cariche della Repubblica senza alcuna raccomandazione da parte degli antenati. Contro la "gente nuova" venuta dal contado nella città di Firenze, si scaglia Dante (Inf., XVI, 73-74) accusandola di aver fatto soldi in fretta e di aver prodotto orgoglio e sfrenatezza. Bernardino Daniello da Lucca, un commentatore di Dante vissuto nel sec. XVI, spiega che la "gente nuova" è quella nuovamente venuta dal contado ad abitar in città. E che i guadagni "sùbiti" di cui parla Dante, sono quelli non leciti ed ingiusti, come ad esempio i frutti dell'usura.
Un "uomo nuovo" che fa una straordinaria carriera come studioso di Diritto partendo proprio da Rimini è Sebastiano Vanzi. Ne abbiamo già parlato nella precedente puntata.
Nato in una famiglia non nobile della periferia riminese, forse in un contesto di proprietari fondiari immigrati già da qualche generazione dalla Toscana, egli ben rappresenta la società del tempo. In Vittorio Spreti ("Enciclopedia Storico-Nobiliare Italiana", VI, 1932) si legge che la sua antica famiglia era originaria da Scorticata. Francesco, figlio di Gaspare, detto anche Avanzi, andò ad abitare nel 1505 a San Clemente, dove sposò Bernardina Bellino. "Morì nel 1544 lasciando vari figli, fra i quali Lodovico e Sebastiano. Quest'ultimo si diede alla carriera ecclesiastica che percorse brillantemente", divenendo vescovo di Orvieto.
Il filosofo olandese Ugo Grozio (1583-1645) in una lettera del 1631 inserisce citazioni tratte da scritti di due giuristi italiani, il bolognese Ippolito Marsili (1450-1529) e mons. Vanzi, autore di un trattato sulle nullità processuali, apparso in prima edizione a Lione nel 1552. Sino al 1625 il volume, che gli dà fama internazionale di giurisperito, è pubblicato 24 volte: oltre che a Lione (4), anche a Venezia (14), Colonia (5) e Spira (1). Appare poi a Colonia (5) fra 1655 e 1717. Lione fu "quasi una città italiana" dalla fine del Quattrocento sino agli inizi della guerra di religione (1562), osserva J. L. Fournel (1990).



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