Tre articoli apparsi su "il Ponte", Rimini, 2005
3. Un orologio turco per l'Europa
Rapporti con l'Oriente dal tempo di Sigismondo al 1700

"il Ponte", Rimini, 23.5.2005

Nella vicenda del 1461 ci sono altri aspetti molto interessanti da considerare per delineare alcuni tratti della Storia italiana in generale e non soltanto del secolo XV. Franco Gaeta (1978) esaminando la «leggenda» di Sigismondo, ha sostenuto che a formarla contribuirono pure i contatti con il Gran Turco. Tutto ciò restituisce oggi a Sigismondo stesso una fama allora oscurata dall’infamia. Ed attesta quanta differenza passi fra la Storia e la Politica. La prima cerca di raccontare i fatti. La seconda vuole affermare le proprie presunte verità.
Abbiamo già ricordato l’opinione di Giovanni Soranzo, secondo la quale «era insussistente» l’accusa gravissima rivolta a Sigismondo, d’aver invocato l’intervento militare di Maometto II. Gaeta riprende il discorso di Soranzo, avanzando un’ipotesi. Se Pio II tacque su quell’accusa, per Soranzo la spiegazione più logica era che il papa non ne aveva trovato le prove, e quindi non aveva «validi argomenti» per produrla in atti ufficiali. Nei quali, ci si permetta d’aggiungere, la Politica cerca di allontanare da sé il giudizio di parzialità per indossare i panni solenni del giudice che consegna alla Storia i protagonisti delle varie vicende. Si può concedere che una «colpa» in più non avrebbe recato gran danno a Sigismondo. Di fronte al tribunale della Storia, occorre tuttavia procedere con grande cautela. Quella stessa cautela che ispirò forse Pio II facendogli tacere il particolare dell’invito (presunto) a Maometto.
Gaeta contesta la posizione di Soranzo: le ragioni del silenzio del papa non sono «quelle di un rigoroso accertamento della verità, dato che ragioni di questo genere non sembra abbiano avuto gioco nella lotta politico-diplomatico-propagandista-militare antimalatestiana». Gaeta riassume il grande paradosso della vicenda di Sigismondo: Pio II poteva sparare le accuse contro di lui senza preoccuparsi che esse fossero fondate, anzi più erano gravi e più s’imponevano soprattutto perché provenivano dalla suprema autorità della Chiesa, sul cui operato nessuno avrebbe dovuto avanzare dubbi.
Gaeta ipotizza «ragioni d’altro ordine» per il silenzio sul fatto del 1461. Proprio fra l’ottobre ed il dicembre di quell’anno, «Pio II stava pensando anche lui ad un accordo col Turco e andava scrivendo la famosa lettera a Maometto II», alla quale abbiano già accennato, precisando che essa era intesa («ma forse solo apparentemente», come osserva Paolo Garbini) a convertire il sultano al Cristianesimo.
In quella lettera, aggiunge Gaeta, «erano contenute ben più gravi – anche se imaginifiche – proposte che quella di passare in Italia». Gaeta ricorda come ancora nel febbraio e nel marzo 1462 Pio II stesse lavorando a quella lettera a Maometto II: «Dunque una specie di remora psicologica, forse ha trattenuto Pio II dal formulare quest’ultima accusa contro il Malatesta e forse anche la volontà di non diffondere una voce di questo genere in imminenza dell’auspicata crociata».
Il discorso di Gaeta spiega come la figura di Sigismondo continui ad inquietare gli storici che se ne sentono attratti anche in virtù del fatto che la sua demonizzazione affascina e convince ad approfondire i temi a cui essa è legata. Sempre più, ogni volta che appare qualcosa su Sigismondo, ci si accorge che quella figura ebbe un rilievo non soltanto italiano anche sotto il profilo culturale per cui va sottolineato, come abbiamo già sostenuto, che il suo Tempio rispecchia veramente i temi dell’intero mondo mediterraneo.
In un recente volume di Ezio Raimondi («La metamorfosi della parola») è citato un pensiero di Henri Bergson, secondo il quale «è il futuro che ci permette di capire meglio il passato». Applicando questa massima filosofica alla vicenda malatestiana del 1461, si comprende facilmente come essa possa dimostrare la centralità del personaggio di Sigismondo nel quadro internazionale a metà del Quattrocento. Gli sviluppi successivi della Storia europea hanno rivelato come spesso (anzi molto spesso) il tempo sul quadrante della vita dei popoli del vecchio continente sia stato scandito dall’orologio turco, su cui gli altri Stati hanno dovuto regolare i propri calendari politici. Basti ad accennare a due eventi. Il 7 ottobre 1571 la «lega santa» con una flotta comandata da don Giovanni d’Austria sconfigge i turchi a Lepanto. Nel 1683 i turchi giungono sotto le mura di Vienna. La loro sconfitta il 12 settembre è celebrata in tutta l’Europa cristiana.
Tra queste due date si svolge un’intensa attività culturale che è stata studiata di recente da Andrea Battistini nel volume «Il Barocco. Cultura miti immagini». Smorzatasi l’euforia di Lepanto, «l’Europa, sentendosi di nuovo minacciata dal pericolo turco, lancia da più parti appelli alla fratellanza» (pp. 74-75). Il farmaco capace di «medicare i traumi che hanno diviso il mondo cristiano» è l’enciclopedismo. A Rimini un esponente di questo indirizzo enciclopedico seicentesco è il sacerdote Giuseppe Malatesta Garuffi, 1655-1727, che fu agguerrito difensore della grandezza di Sigismondo (vedi «il Ponte» 5.10.2003).
Ritorniamo in altra pagina su Garuffi, formatosi a Roma alla scuola gesuitica, in cui (secondo Battistini) l'enciclopedismo è un modo per raccordare Tomismo e nuova Scienza.
Battistini sottolinea che «siffatti disegni di sintesi del sapere non sono una prerogativa secentesca», avendone espressi già l’Umanesimo oltre alla cultura classica con Quintiliano. Leggendo queste affermazioni, non si può non ricordare il nostro Sigismondo ed il suo Tempio quale «summa» che, come già ci siamo espressi, racconta la continuità storica del mondo mediterraneo, e che è sintesi unificatrice rivolta a privilegiare l’accordo, l’identificazione, il riconoscimento di ciò che è comune.
A Bologna quando il 18 settembre 1683 giunge la notizia della liberazione di Vienna, il Legato fa distribuire abbondanti quantità di vino e di pane. Una cronaca registra «un rumore per la Città» che faceva pensare ad «una vera sollevazione». Dopo il solenne «Te Deum» celebrato in San Petronio, si festeggia per tutta la notte in piazza Maggiore, mentre i poeti danno sfogo alla loro ispirazione anche con poemetti in dialetto, come Lotto Lotti che dedica al conte Alessandro Sanvitali il poemetto giocoso «in lingua popolare» intitolato «Ch’ n’ hà cervel hapa gamb». Il 24 agosto 1684, durante la «festa della porchetta», il Senato fa rappresentare uno spettacolo sull’assedio di Vienna, tema che tornerà al teatro Malvezzi addirittura nel 1736 con un dramma replicato per tutto il periodo di carnevale.
A Rimini nel settembre 1683 gli atti pubblici non segnalano nulla circa gli echi dei fatti viennesi, stando a quanto scrive Carlo Tonini: «ci reca meraviglia, che tra i documenti da noi veduti non ne rimanga memoria e che il 1683 sia tra quegli anni, che meno di tutt’altri somministrano materia alla storia nostra». E dire che, aggiunge, la nostra riviera era stata «tanto minacciata» in passato dalle scorrerie dei turchi. Va precisato, per amor di verità, che non tutti gli atti dell’archivio comunale, tranne il registro del pubblico Consiglio (ora in Archivio di Stato) di cui parla Carlo Tonini, sono sopravvissuti sino a noi.
Nel 1684 come ingegnere alla spedizione militare della Lega santa nella guerra di Morea (Peloponneso), troviamo il futuro vescovo di Rimini, il bolognese Giovanni Antonio Davìa, poi presente all’assedio della fortezza di Santa Maura a Corfù, conclusasi con la capitolazione turca. Tornato in Italia, Davìa è mandato Internunzio a Bruxelles (1687). Nel 1690 è consacrato vescovo, e destinato alla nunziatura di Colonia, da dove è trasferito a quella di Polonia (1696). Il 18 marzo 1698 è nominato vescovo di Rimini. Due anni dopo, il 26 aprile 1700, è promosso alla prestigiosa nunziatura di Vienna, nei momenti difficili della guerra di successione spagnola (1702-1713). A Rimini si ritira il 25 maggio 1706.
All’insegna di politica e vita militare si svolge negli stessi anni l’esperienza di un altro «viaggiatore» bolognese Luigi Ferdinando Marsili che tra 1679 e 1680 va a Costantinopoli con l’ambasciatore della Serenissima Pietro Civran, ricavando dal viaggio il materiale per le «Osservazioni intorno al Bosforo tracio, overo Canale di Constantinopoli» che pubblica a Roma nel 1681 con dedica alla regina Cristina di Svezia. Si arruola l’anno dopo nell’esercito austriaco. Cade prigioniero, mentre i turchi sono sconfitti a Vienna. Liberato dietro pagamento d’un riscatto nella primavera del 1684, va militare in Ungheria, in Transilvania, in Ungheria, diventa colonnello, partecipa alle trattative con i turchi come osservatore non ufficiale (1691-1692). Lo sospendono dal comando del suo reggimento, in base ad accuse delle alte gerarchie. Presenzia i negoziati per la pace di Karlowitz del 1698 tra Austria, impero ottomano, Polonia e Venezia. Lo nominano «generale di battaglia».
Tra 1698 e 1701, Marsili lavora lungo la linea del Danubio per concordare con i rappresentanti turchi una linea di confine. Per il collega orientale divenuto ormai suo amico, Ibrahim Effendi, Marsili fa costruire uno speciale orologio a sveglia capace di scandire le fasi del Ramadan. Il progetto di Marsili è quello di avvicinare i due imperi lungo il Danubio. Il fiume avrebbe trasferito in Oriente le nuove tecnologie europee, e veicolato in Occidente le ricchezze ottomane. Marsili denuncia a Vienna il pericolo costituito dal monarca moscovita, pronto a lanciare i cosacchi contro l’Ungheria. E suggerisce di fomentare una guerra fra russi e polacchi onde distogliere l’attenzione dei primi verso il Mediterraneo ottomano. Per favorire i turchi, secondo il progetto di Marsili, gli Stati cristiani avrebbero dovuto lottare fra loro. Ma proprio il re di Polonia aveva salvato l’Occidente sotto le mura di Vienna, quando Marsili era prigioniero dei turchi. Ora gli fa più paura il regno ortodosso che la fede in Maometto.
Come ha osservato Fabio Martelli, da cui abbiamo ripreso queste notizie, il bolognese antepone la logica della Ragion di Stato ad un primato della Tolleranza. Marsili scrive le sue relazioni più scottanti al governo di Vienna nel tempo in cui il Nunzio apostolico nella capitale austriaca è Davìa. Nel 1714 Marsili fonda l’Istituto delle Scienze di Bologna ispirandosi ai modelli della londinese Royal Society (1662) e dell’Académie Royale des Sciences di Parigi (1666). All’Istituto Davìa nel 1725 dona vari strumenti scientifici tra cui un orologio. Diverso ovviamente da quello fatto costruire da Marsili per Ibrahim Effendi.
Antonio Montanari

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