il Rimino - Riministoria

Un Papini anti-dantesco del 1911
Pubblicato dal Centro «San Gregorio» di Morciano

Nel 1911 apparve con introduzione di Giovanni Papini un libro del tutto inutile («La leggenda di Dante») che utilmente il Centro di studi danteschi «San Gregorio in Conca» di Morciano ripropone ora presso l'editore riminese Raffaelli.

Per capire il nostro concetto, basta ripercorrere (anche a righe dispari) il testo di quel matto di Papini, un romantico ribelle travestito da futurista, filosofo e tant'altre cose in sintonia con i suoi burrascosi tempi.

Papini mirava a demitizzare il povero Dante, per dimostrare che anche i sommi poeti hanno «i tracolli della debolezza» (bella scoperta!), dimostrando così a sua volta che un critico il quale voglia far notare i difetti dei grandi, rivela il non lieve difetto di voler apparire lui stesso un genio eccelso, anzi «il» genio, quando ancora non lo è (e Papini lo sarà soltanto dopo la conversione).

Embé, è un po' poco demolire marinettianamente i monumenti senza poi essere in grado di offrirne dei nuovi con la propria opera. Ecco dunque il motivo per cui siamo di fronte ad un libro inutile: esso non aggiunge nulla alla comprensione della figura dell'Alighieri, ma si offre unicamente per pizzicargli il posteriore allo scopo di infastidirlo (a quale vantaggio di Papini, non si capisce: soltanto per apparire un «maledetto toscano»).

Ma utile è la riproposta dal momento che ci offre l'occasione di constatare che, ad un secolo di distanza, il lavoretto papiniano non regge più se non come curiosità erudita (tutto l'opposto di quanto l'autore si attendeva ritenendolo utile allo «studio degli umani costumi»).

Per comprendere lo stile del libro, citiamo i quattro versi latini che raccontano l'incontro di Dante con una «turpis puella» (mentre il traduttore in quest'edizione di Morciano, considera «turpis» lo stesso poeta).

Il poeta lusinga la brutta fanciulla sussurrandole: Nella nostra città una più bella non c'è. Altrettanto non può dirsi per te, gli risponde la ragazza. A cui Dante ribatte: A meno che tu non sia stata bugiarda come me. Si ribadisce nell'aneddoto una particolare intelligenza di Dante, contro le intenzioni denigratorie di Papini...

Perché la traduzione odierna trasferisca la bruttezza della donna al poeta, forse lo si capisce in quanto il testo a stampa del 1911 (qui in anastatica) reca un caso nominativo («Dantes»), anziché un più logico ablativo, «Turpis erat Dante conspecta ... puella»: da Dante era stata vista una brutta fanciulla, e non, come riportato a p. 137, «Dante, tutt'altro che bello, vista una ragazza...», dove si perde metà del verbo passivo [conspecta erat].

Se la ragazza non fosse stata alquanto brutta (al punto che lei ne fosse consapevole con certezza), non avrebbe senso l'arguzia dello sfottò («Nella nostra città una più bella non c'è»).

Pietro Corsi


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790/17/05/2003